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Europa, ti vedo

Di Francesca Matteoni

 

Dalla Limentra

Vedo da un sasso Europa
che si sfilaccia,
vacca sfinita, nuvola, traccia
sospinta oltre il suo senso di terra.
Suburra che spurga dai confini –

erano popoli altri, destini
erano lingue, culture, animali, erano
ombrose radure, rivi di storie –

le potevamo ascoltare
nei sogni lenti dei viaggiatori, nel fiotto
sgorgante dei mari che migrano
s’insabbiano, poi migrano ancora
sui dorsi sconvolti delle balene
o di quel bestiame più strano di non morti
di zaini sfibrati di deserti
tutti accalcati e senza vele,
smangiati dal sale nei porti.

Stridono senza respiro le tue molte occasioni –
capitali, compromessi, massacri coloniali di espansioni.
Scrosti dal sonno il muschio
e dalle case gli interni, li sventri –

biblioteche, cortili, scuole, ospedali
un suolo sfregiato d’arsenali.
E rogge, bacini, fiumana di pianto o vasche
per acqua piovana che scende
di polvere che esplode la polvere
la distende.

Il tuo latte bovino una reliquia nella bocca
mai nata di un bambino, una sbarra infilzata nel cranio
di un canarino, una farina di sterco
di figlia carbonizzata nell’accampamento.

Esportano ancora col rogo il dio
del tuo sacramento, chiamando terrore
il lamento di chi si divincola al giogo.

Eri un rito di unione interspecie, di isole, olivi
pace e scogli di sole per i naviganti –
commercio di spezie e alfabeti.
Ora muggisci ai bivi delle tue leggi eleganti
snoccioli gli appellativi dei cieli
che sgravano armi, volti le teste
in cortese dissidio
quando sversi pietà come un genocidio.

Una promessa di libri, cammino, mezzo
secolo della mia vita o della tua stessa, Europa
cumulonembo a occidente, ti vedo
su questa crepa
di torrente
su questo luogo d’acqua e alta valle
fessura non coltivata, accompagnata a morire
dai tuoi soliti legislatori, che spregiano ma stingono
nei ritornati fiori (erbe palustri fra i piedi
faggete, castagni, abetaie e perfino
la cascia selvaggia) –

nei boschi impoveriti di frutti e lamponi
perché vengono meno gli umani coi loro nervi di piante
i loro organi di cave montane, di resti
d’ossame e cinghiali, di ramaglia che si accatasta
al fuoco invernale e la nebbia
sfiata il suo tempo, sovrasta.

Una poiana passando ti schianta
sul biacco verdastro, schivo, tralcio
vivo che scatta, si interra nel buio
prima che il legno apra l’occhio della civetta.
Cadi e traspari in un pegno sui corpi ambrati
in questo giorno di tutte le estati, in questo vincolo
di sangue che l’onda non lava, non scava
a nuova esistenza, non ricresce
ti lascia sbranare nella tua convinzione.

Scivolo dentro un paese di cui ignori
il nome. A notte la nuvola è pozza poi vena –
sgoccia non vista la sua cantilena alle genti.
Beve con tutti i suoi denti una faina –
ignora il memoriale delle menzogne, le prospettive
carogne, l’illusione di intero continentale.
Pura e indisposta a salire a le stelle
si sazia, infoltisce la coda, ricorda
la preda in un fremito
sotto la pelle. Si sciacqua. Si sperde.

 

18 -20 agosto 2025, Fabbriche di Treppio, Limentra – Pistoia

 

 

Note

La poesia si ispira al mito greco secondo il quale Zeus prese la forma di toro per rapire la principessa fenicia Europa e condurla sull’isola di Creta. Buona parte della Fenicia corrispondeva all’attuale Libano e ai territori palestinesi. Nella poesia è Europa a essere vista come una nuvola che ha forma di mucca, di madre bovina.

I tuoi soliti legislatori… il riferimento è al recente Piano Nazionale per le Zone Interne approvato dal governo Meloni, dove si legge: “Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza, ma devono essere accompagnate in un percorso sincronizzato di declino e invecchiamento”.

Pura e indisposta a salire a le stelle è una rielaborazione in chiave “fainesca” del verso di chiusura del Purgatorio, dove Dante scrive: Puro e disposto a salire a le stelle.

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