➨ AzioneAtzeni – Discanto Ottavo: Andrea Gobetti

  Ma chi me l’ha fatto fare? Non sono nato montanaro. Anzi. Fino a oggi i monti li ho visti soltanto sulle carte geografiche, macchie di marrone in tonalità digradanti. Pure astrazioni. Sono creatura di palude, avvezza all’acqua piatta, ai giunchi profumati di marcio, agli stretti sentieri fangosi dove larvare in silenzio per ore seminudo al sole diventando nero come inchiostro e sperando nell’apparizione vespertina del blu smalto delle penne di un pollo sultano a passeggio. dal racconto ‘Arrampicatori di pianura’, di Sergio Atzeni, in Gli anni della grande peste  

L’arrampicatore delle paludi.

di Andrea Gobetti

Conoscevo anch’io quella ragazza, esemplare rarissimo di scalatrice, capace di far arrampicare anche un pinguino, pur di raggiungerla. Lei arrampicava all’inglese, ovvero sapeva usare le dita e le mani come oggetti da incastro tra le fessure che la roccia propone, sapeva allontanarsi alta oltre le protezioni, dal rischio ricavava abilità e non paura. Avevo scalato con lei “a comando alternato”: un tiro di corda a testa su per una lunga parete rocciosa, alternandoci ogni 40 metri nel ruolo di prode condottiero e di fedele secondo. Avventura magnifica anche se ora è passata di moda. Lui non aveva mai visto, né supposto riti di tal genere, non gli era mai passato per l’anticamera del cervello che ci fosse un senso ad aggrapparsi a sterili mucchi di pietre, a dimenarsi tra tagli rocciosi e spigoli vertiginosi, araldi di superbia e di sventura che incombono sul destino di chi non ha saputo ignorarli. Lui era un figlio delle paludi, d’acqua stagnante tra il dolce e il salato gremita di vita nascosta, dove tutto sta attento a non mettersi in mostra. Dal suo punto di vista, bianche, rosse, nere o vermiculate che fossero le rocce esposte a verticale nudità non servivano a niente, né a dar da mangiare agli uomini e neppure a fomentare la rivoluzione. Veniva dall’Arburese, l’arrampicatore delle pianure, regione di miniere, con pozzi e gallerie dove uomini si rovinano la salute fin da ragazzi, dove son di casa rischi di cui il padrone manco si vergogna e sono l’incubo di tutti gli altri. Ma le miniere raccolgono gli uomini e dal lavoro era nata la forza di ribellarsi, di lottare insieme per un destino migliore, non era la Sardegna dei “pocos, locos y malunidos” sudditi di cui si burlava un tempo il governatore spagnolo, era l’anima sarda che pretendeva la riscossa. Il mio amico Maurizio, barbiere in quel d’Oliena, all’ombra del Supramonte, mi canzonava spesso perché chiamavo Sardi anche quelli della capitale: “Quello non è Sardo! – sbuffava – È di Cagliari”. Con Sassari la musica non cambiava, così un giorno, curioso quanto un antropologo, gli chiesi di quelli del Sulcis, dell’Iglesiente e dintorni. Maurizio non scosse la testa, ma l’ondeggiò pensoso. “Sono Sardi. Magari non la pensano come noi, ma sono Sardi.” Lui era arrivato in città non annunciato, che a Torino vuol dire di nascosto ed è il modo migliore per difendersene, perché quando ha fame la mia città è sofisticata, vuol la carne dei suoi figli migliori o anche quella di chi non ha partorito, ma è di particolare pregio. Le cervella, le ama nel fritto misto, non le sopporta se pensano. Annusava con diffidenza gli amici di lei, forse ne temeva l’oltraggio. Noi torinesi, oltre che parlare un pessimo italiano siamo sempre di quella razza che ha tagliato i boschi della Sardegna e ha dato a Pietro Micca micce troppo corte per poter salvare la sua pelle oltre che la nostra città. Lui era un tipo agile e compatto, l’occhio gli brillava come a chi ama ridere spesso, la voce era diretta, non guastata dall’abitudine a dire cazzate. Cominciammo a scambiare tentativi di occhiate complici e monosillabi di circostanza finché lei, con quella voce capace appunto di convincere un pinguino a scalare una montagna, ci esortò a proferire parole e magari organizzarle in frasi. “In fondo fate tutte due lo stesso mestiere.” Concluse. “Il barbone?”, mi scappò di ridere. Rise anche lui e ci siam dati la mano. “In effetti l’ho trovato alla stazione”, giubila lei, felice Nel giro di un paio di cene scoprimmo d’andar d’accordo su alcune cose: il francese ci entrava dall’orecchie e ci usciva dal naso molto meglio dell’inglese, l’andar fuggiaschi ci dava più soddisfazioni che il turisticheggiare indarno. Entrambi gustavamo il piacere di lasciarsi alle spalle una città e tutte le storie là capitate; era un sollievo, una gioia, sparire. In quanto speleologo tale delizia mi era nota, ero felice di venir inghiottito frequentemente dalle viscere della terra, di allontanarmi dai suoi ritmi di superficie in una notte senza fine. A causa di questa passione, semi adolescente m’ero innamorato della Sardegna, avventura di solida tradizione tra gli esploratori delle caverne, considerato che le grotte sarde sono fra le più belle e gradevoli al mondo. Generalmente ci si imbarcava dal continente stipati su un paio di macchine sul far del Natale e si scompariva in codule e nurras tra i supramonti e le coste del nuorese sino all’Epifania. Le grotte erano fantastiche e i personaggi che le circondavano non da meno, fossero pastori, artigiani, studiosi. I Sardi, come pochissimi altri popoli al mondo, non hanno paura delle grotte, non ci tengono recluso dentro il diavolo col forcone: fa loro simpatia che qualcuno le voglia conoscere. Così lo accompagnano, lo sfidano a non rompersi le corna, lo aiutano, lo ubriacano. Quando si prendono assieme dei rischi, va da sé che succede lo stesso con le sbronze. Era una scuola di sincerità quella che m’era stata aperta. Conobbi addirittura le astuzie con cui tenere a bada i piemontesi. “Il bandito Corbeddu aveva uno strumento a corda che, strofinato con l’archetto, emetteva un suono tanto stridulo da fare imbizzarrire i cavalli dei carabinieri, che cadevano e si spaccavano l’osso del collo sulle pietre.” “Bene – ridevo io – come si fa?” “Aió! Ci vuole un budello speciale, il più robusto del mondo.” “E qual è? Quale budello di mitologico animale si presta alla filarmonica del Lanaittu?” “Stomaco di cane, morto di fame.” Che lui fosse Sardo non c’era da chiedere. Parlargli della Sardegna? Errore fatale. Noia scontata, come parlare di spiritualità a un cherubino, per dirla con Rilke, ma neanche a star zitto facevo un gran figura, sembrava d’aver paura di mescolare il mio alfabeto con il suo, quando invece avevo la voglia e l’interesse a far tutto il contrario. Mi sembra di ricordare che esordimmo parlando male di Fofi, uno dei più intelligenti e quotati critici letterari del nostro paese che aveva trattato male un libro suo e non aveva cagato i miei manco di striscio. Rotto il ghiaccio mi misi ad ascoltare le sue storie, le mie le sapevo già. C’era del Nord nel suo recente girovagare, città fredde, equilibri instabili su strade bagnate, talvolta gelate, c’era la capacità d’attirare l’affetto delle donne, la strategia dei far mille mestieri fottendosene che avrebbero portato a mille miserie; era rapido, leggero, non si dava peso e questo è molto utile a un uomo che fugge. Stavolta però aveva trovato un muro, una parete di roccia davanti a sé. Al tempo, cavar sangue dalle rape era il mio mestiere, dovevo mettere insieme ogni mese di giugno un annuario dedicato ai pensieri, le fantasie, le storie del popolo degli arrampicatori, compagine già di grande e gloriosa tradizione che si era appena incastrata sulla secca della competizione sportiva. Il giornale si chiamava Roc, faceva rima con tòc e con balòc, lo editava la Rivista della Montagna. Lei mi aiutava parecchio, scriveva e traduceva, arguta nell’analogia quanto limpida nell’espressione. M’aiutava con altri amici a scegliere luoghi, autori e personaggi un anno dopo l’altro. Si ragionava di sviluppare l’intelligenza motoria, quella che vien castigata sui banchi di scuola, mentre i convertiti allo sport si lasciavano abbagliare da un inutile travestito in gara sperando nei premi appesi in punta all’albero della cuccagna. Abbiamo perso su tutta la linea. Immaginatevi che negli anni Settanta si arrampicava per vivere liberi e oggigiorno il premio per i migliori è poter entrare in Finanza o Polizia. Ma in quegli anni iniziali di malaugurata svolta, con la partita ancora aperta, uno scrittore come lui non si poteva lasciar scappare anche se non aveva mai visto un chiodo da roccia, né tastato un granitico appiglio. Proprio per quello, anzi, era prezioso. Lui non fuggì, con molto coraggio seguì l’esperto passo della sua compagna, e scrisse ‘Arrampicatori di Pianura’, un capolavoro, un codice della sopravvivenza umana. Nacque un eroe contemporaneo in mezzo a cavalieri medioevali, avevamo trovato uno che sapeva le vere parole per ammansire la montagna invece di farla diventare furibonda. Un esempio da seguire. Quando poi finì nel mare la presi malissimo per lei, per lui, per tutti noi, suppongo. Dopo qualche tempo passai con lei a dare un’ultima visita alla sua stanza di Torino. Ritrovai, ormai vuoto, il suo scaffale bello, ricco di libri sulla Sardegna, scritti da Sardi e non c’era più neanche il mucchio accatastato sotto il letto di libri sulla Sardegna scritti da non Sardi. Restavano tre birre nel frigorifero, Sans Souci Icebeer, ne bevemmo una a testa all’anima sua, la terza la portai via. Quella triste sera parlavo di lui col mio amico Franco Cuccu, professione idraulico, e negli intermezzi eroe di quelle domeniche o altre giornate in cui qualcuno rimane bloccato in una grotta, in una tana o sotto le macerie d’una casa crollata e non ci sono più santi. Anche Cuccu viene da un paese di minatori, arriva con la dinamite e lo stemma del Soccorso Alpino e Speleologico: fa saltare quel che deve e salva anche chi più non lo spera. “L’ho visto una volta – disse il mio amico – ma non ci siamo mai conosciuti. Lui era di Arbus e io di Gonnos; abbiamo un modo diverso di fare la pasta con la salsiccia”. Soppesa in cuor suo il differente, una questione più di tempistica nella padella che di ingredienti. “Devi sapere che tra i nostri paesi un giorno hanno fatto una strada diretta con un ponte che solo pochissimi attraversavano. Gli altri preferivano passare da Guspini, anche se la strada era più lunga”.    

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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