Diario di un luddista senza complessi #1 (La libido.)
di Andrea Inglese
Vorrei precisare. Ci sono i transumanisti, gli accelerazionisti, i lettori di Baricco e di Paolo Giordano: c’è posto per tutti sul pianeta terra, non per necessità di ragione, ma per brutalità di fatto. Ebbene ci sono anch’io, anzi la tribù di cui faccio parte: i luddisti senza complessi. Ogni tanto ne incontro qualcuno o sopratutto qualcuna. Le donne sono più numerose di gran lunga. Maschi luddisti cercasi disperatamente. Io dico non solo che le tecnologie non sono neutrali e che portano in sé un’ideologia implicita, ma dico anche (Apriti cielo! Santissimo Marx!) che le tecnologie non hanno carattere di necessità, e che quindi il loro dispiegamento nelle nostre vite non è una fatalità irrimediabile, ma soltanto una debolezza del nostro spirito, una pochezza della nostra politica. Ma dopo aver formulato due grandi bestemmioni, due affermazioni che non rientrano nell’ordine dei pensieri pensabili da una mente sana, vorrei scendere su di un terreno più spicciolo, e immediato. Chat-GPT non sollecita in me nessuna libidine. Né il suo uso concreto, né la sua evocazione circonfusa di aloni scintillanti e misteriosi, mi procurano eccitazioni inguinali e tantomeno mentali. Zero festa, zero stelline, zero iridescenze, zero inturgidimenti. In primo luogo non uso, se non raramente, Chat-GPT, e per nessun compito “ordinario”. Consideriamo le due circostanze in cui l’ho usato ultimamente. La prima, per tradurre un articolo, da me scritto, dall’italiano al francese, che ho poi rivisto frase per frase. Un ottimo risultato, ma un’operazione complessivamente “rottura di palle”. (Così è in genere dell’autotradursi, per mia esperienza). E la seconda, per scrivere in interazione con lui (con esso!) un racconto. Non entro nei dettagli, ma anche in questo caso l’operazione è stata soddisfacente. Ma non posso immaginarmi di rivolgermi a Chat-GPT per fare qualcosa che facevo quotidianamente prima. Scrivere una lettera di lavoro, una lezione per i miei studenti, una ricetta di cucina. Fare degli acquisti. Organizzarmi un viaggio. E non so cos’altro. Non so veramente cos’altro potrei farmi fare da Chat-GPT per essere più felice di quanto sia adesso. Non so per altro se sono tanto felice. Ma sono certo che l’uso di Chat-GPT non mi renderebbe più felice. Non solo. Ma per via del mio luddismo senza complessi, ho scoperto anche in me un lato brutto e tenebroso: non sono affatto tollerante. Non sopporto che gli altri usino Chat-GPT. Non riesco a farmi andare giù l’eccitazione mentale o inguinale che provano nell’evocarlo, nel farlo funzionate, nell’usarlo. Quindi anche se io sono felice, per quel tanto che posso (non è tantissimo, soprattutto da qualche anno a questa parte) senza usare Chat-GPT, l’eccitazione e l’uso altrui di Chat-GPT, accompagnato di urletti e gorgoglii di soddisfazione, mi toglie un po’ della mia già precaria felicità. Non è questione di gusti, così come non è questione di come lo si usi (bene o male, da pirla o da genio). Chi lo usa con lo scodinzolamento annesso è colpevole, è responsabile, aggiunge il suo piccolo mattoncino alla muraglia della falsa necessità, della falsa ineluttabilità.
“Ma vecchio boomer!” sento gridare da uno che ovviamente è su-per-giù mio coetaneo (chi altri ha la parola boomer sulle labbra ogni due secondi se non un quaranta-cinquantenne?). Voglio correggerlo un po’ pedantemente: nelle definizioni correnti un “baby boomer” è qualcuno nato tra il 1946 e il 1964, ossia durante il balzo demografico del dopoguerra. Quindi non mi riguarda, non ne faccio parte. Ma forse “boomer” semplicemente è un modo degli over 40 per darsi a turno del “conservatore”. Ci sarebbe, in particolar modo, un conservatorismo “tecnologico”. Non è il mio caso, comunque. Lo ripeto: luddista senza complessi. Io penso che le nuove manifestazioni dell’intelligenza artificiale acquisiscano ancora più fulgore dall’imbesuimento concomitante dell’utilizzatore umano. Non c’è nessuna gara da temere tra l’intelligenza macchinica e quella organica dell’essere umano. La battaglia è già persa in partenza, perché c’è un’intelligenza artificiale che affronta, semmai, uno scoppio di idiozia umana. E quindi il gioco è fatto. Dai recessi abissali della coglionaggine quanto sembra impareggiabile anche una tiepida intelligenza?
Torniamo alla libido. In fondo è tutta una questione di libido. Ho sentito alla radio nazionale francese un conduttore molto entusiasta, per un progetto di ricerca basato sull’intelligenza artificiale che ci permetterà finalmente di “dialogare” con i nostri animali domestici. E qui si è lanciato in una oscura spiegazione per dire che, ad un certo punto, grazie a un dispositivo dell’IA, potremmo tradurre quello che il nostro gatto dice quando ad esempio miagola. Fermiamoci un momento. Vi rendete conto che abbruttiti che siamo? Noi che ci teniamo in casa un gatto? Anzi tutta l’umanità che si è tenuta in casa gatti e cani e criceti per secoli, senza capire un tubo di che cosa volessero e sentissero questi compagni di vita? È davvero un miracolo, certamente uno dei più grandissimi miracoli, il fatto che nonostante questa fitta tenebra tra l’uomo e il suo animale domestico, nonostante questa totale incomprensione, che finalmente solo l’IA potrà dissolvere, noi si continui a vivere ogni giorno con i nostri animali, riuscendo anche a nutrirli, curarli, portarli in giro, giocare con loro. Chissà come tutto questo è stato possibile senza il traduttore? Finalmente il mio gatto, Ulisse, di cui ciò che più ammiro e mi affascina è il suo mutismo, la sua ritrosia a prender la parola, a raccontarmi banalità, magari aneddoti sull’intelligenza artificiale, ebbene questo essere enigmatico e bello verrà ridotto allo stato di un qualsiasi parlante: “Ehi! Capo! Come stiamo a crocchette?” Che bello! Tanti miliardi investiti per ritrovarsi in una sorta di cartone animato Disney, dove il gatto parla finalmente come me, si fa capire come un qualsiasi essere umano nell’era dello sviluppo incontrollato dell’idiozia naturale!
Ps
Che cosa mi procura quell’eccitazione mentale che altri provano alla sola evocazione del termine “intelligenza artificiale”? Bè, faccio due esempi recenti. Quando leggo questi due versi in una poesia di Philip Larkin:
Next year we shall be living in a country
That brought its soldiers home for lack of money
L’anno prossimo vivremo in un paese
che ha riportato a casa i suoi soldati per mancanza di soldi.
E mi dico: che bello, che strano, che perfido descrivere così “la pace”. E poi mi dico: ma quand’è che Israele finirà i soldi? O gli USA finiranno i soldi? O la Russia finirà i soldi?
Oppure, altra fonte di eccitazione, questa frase di Carla Lonzi: “Il pensiero maschile ha ratificato il meccanismo che fa apparire necessari la guerra, il condottiero, l’eroismo, la sfida tra le generazioni”. Magari potremmo aggiungere: e l’energia nucleare, e l’intelligenza artificiale. Tutta roba necessaria. Lo dicono maschi molto intelligenti e molto sicuri di sé.

Sconfort zone….
Parole d’oro e ti dirò di più: solo il luddista può capire che gli aggiornamenti, i necessari aggiornamenti, lo scarico dell’app, ma di quella nuova, perché la vecchia dell’anno scorso è ormai obsoleta, l’ultima comoda tecnologia sono una forma di libertà vigilata (con obbligo di firma, naturalmente)
Ovviamente non sono d’accordo, per diversi motivi. Il primo è la reductio a chatgpt. La tecnologia, anche quella informatica, è ben oltre chatgpt che è un piccolo rutto in una notte estiva: rutto importante, divinatorio, ma rutto resta, specie se parliamo del solo chatgpt. Le macchine generatrci linguistiche, di immagio, video e suoni sono di fatto un nuovo strumento creativo, pensare che siano qualcosa di folkloristico è un abbaglio. La seconda cosa è il pensare che qualcuno pensi che la tecnologia sia neutra. Direi tutti gli utilizzatori consapevoli sanno che la tecnologia è politica e sociale prima di tutto il resto (rimando al bello Scritture Digitali di Laghi, recentemente uscito). La terza cosa è l’idea che si possa scegliere di non essere tecnologici, scrivendolo in un blog online. Che piaccia o meno siamo nel mezzo di ua rivoluzione digitale che ha alterato il nostro modo di pensare, di produrre, di promuovere e di vivere la nsotra cittadinanza. Si può, ed è pensiero critico vivaddio, essere scettici verso questo o quel cambiamento funzionale ma questo non modifica il cambiamento strutturale in cui siamo, che è prima di ogni altra cosa tecnologico. Il luddismo mi infastidice, non solo perché a me la tecnologia affascina, questi sono fatti miei, ma perché la parte politica ed economica di cui si parlava sopra, va dominata, non rigettata, altrimenti altri lo faranno per noi. Servono programmatori umanisti, hacker, matematici illuminato non zoccoli. In ultimo, a margine, penso che l’IA soprattutto farà capire a molti il fascino di quello che non è IA. Il piacere di fare cose sporche, irragionevoli e non probabilistiche. Ma questo non è luddismo. Scritto e non riletto
Grazie Fabrizio di essere intervenuto. Intanto ricordo a te e ad altri lettori che su questo tema sono intervenuto più volte, mettendo a fuoco aspetti diversi e ho anche accolto interventi di altri autori. Di seguito i link. In un caso, la discussione proprio con te è stata utile e arricchente. (Mi riferisco alla discussione sotto “Umanisti del nuovo secolo e sottomissione tecnologica”.
https://www.nazioneindiana.com/2021/11/03/umanisti-del-nuovo-secolo-e-sottomissione-tecnologica/
https://www.nazioneindiana.com/2023/09/18/citazioni-sulla-natura-instabile-dellinformazione-darnton-cristianini-vonnegut/
https://www.nazioneindiana.com/2023/12/21/quello-che-lintelligenza-aliena-non-puo-fare-per-noi/
https://www.nazioneindiana.com/2025/05/01/che-comodita/
https://www.nazioneindiana.com/2025/06/05/empiricidio-e-accessibilita-idiomatica-note-sullirruzione-dellintelligenza-artificiale-nellecosistema-della-conoscenza/
Scusa Fabrizio, rispondo suddividendo in brani il tuo primo commento, e replicando a ognuno di essi:
“Ovviamente non sono d’accordo, per diversi motivi. Il primo è la reductio a chatgpt. La tecnologia, anche quella informatica, è ben oltre chatgpt che è un piccolo rutto in una notte estiva: rutto importante, divinatorio, ma rutto resta, specie se parliamo del solo chatgpt. Le macchine generatrci linguistiche, di immagio, video e suoni sono di fatto un nuovo strumento creativo, pensare che siano qualcosa di folkloristico è un abbaglio.”
Chat-GPT è qui preso come sineddoche o epitome dell’intelligenza artificiale. E io penso che considerare innanzitutto le “macchine generatrici linguistiche” sotto il profilo della “nuova creatività” sia folkloristico. Questo è il vero abbaglio. I numeri sono impressionanti: si parla di un passaggio da 100 milioni di utilizzatori nel 24 a piu’ di 700 milioni nel 25. Cito da un articolo sull’argomento: “Ma è soprattutto l’evoluzione degli utilizzi che colpisce: il 30% dell’utilizzo da parte dei consumatori è legato al lavoro, mentre il 73% degli scambi riguarda ormai la vita personale, contro un perfetto equilibrio tra lavoro e tempo libero registrato un anno prima. Le richieste più frequenti riguardano la “guida pratica” (consigli, aiuto nei compiti, allenamento sportivo), seguite dall’aiuto nella scrittura e dalla ricerca di informazioni, un utilizzo che sta sostituendo sempre più Google.” (ChatGPT: deux études révèlent l’usage mondial des chatbots IA | Bilan) Che cosa significa questo per il sistema scolastico e universitario democratico, già estremamente indebolito dalla mancanza di finanziamenti, dalla crescita delle tasse scolastiche, del numero chiuso di posti, dalla concorrenza dell’offerta privata? Non lo sappiamo ancora. Ma questo è solo un parte della faccenda. Quali competenze rischierà di distruggere questo dispositivo ora che entra senza ostacoli nel sistema educativo mondiale?
“La seconda cosa è il pensare che qualcuno pensi che la tecnologia sia neutra. Direi tutti gli utilizzatori consapevoli sanno che la tecnologia è politica e sociale prima di tutto il resto (rimando al bello Scritture Digitali di Laghi, recentemente uscito).”
Bene un punto su cui siamo d’accordo. E che conclusioni ne tiri? Kate Ceawford in “The Atlas of IA” ne tira conclusioni allarmanti, anche solo sul piano ecologico. La Zuboff tre anni prima (2019) sulla questione politica è altrettanto drastica. Sulla cultura del digitale e le sue promesse di emancipazione, da noi Carlo Formenti aveva scritto “Utopie Letali” nel 2013, ecc. ecc. Quindi gli utilizzatori, tanto più se sono consapevoli, dovrebbero essere in piazza o sulle barricate. Ma non mi sembra tanto il caso, per ora.
“La terza cosa è l’idea che si possa scegliere di non essere tecnologici, scrivendolo in un blog online. Che piaccia o meno siamo nel mezzo di una rivoluzione digitale che ha alterato il nostro modo di pensare, di produrre, di promuovere e di vivere la nostra cittadinanza. Si può, ed è pensiero critico vivaddio, essere scettici verso questo o quel cambiamento funzionale ma questo non modifica il cambiamento strutturale in cui siamo, che è prima di ogni altra cosa tecnologico.”
Da nessuna parte ho scritto che scelgo di non essere tecnologico. Invece ripeto che una società democratica dovrebbe poter scegliere quale tecnologia sostenere, quale limitare, quale non sviluppare. Cosi è stato in parte con l’energia atomica. Con un ritardo di circa venticinque anni, la popolazione di non specialisti si è mobilitata per dire la sua sull’utilizzo dell’energia atomica e in Italia lo sappiamo bene, perché c’è stato un referendum a proposito. ChatGPT, ad esempio, ha appena tre anni. Sono ancora troppo pochi, prima che sia possibile una qualche forma di contestazione di massa. Io, faccio parte, di quelli che buttano il seme. Questo è il senso del mio luddismo.
E vengo ora al punto per me fondamentale. “Essere scettici verso questo o quel cambiamento funzionale, ma questo non modifica il cambiamento strutturale in cui siamo, che è prima di ogni cosa tecnologico.”
Ecco, per me, scusami Fabrizio, un pezzo di dogma, o di diniego, o di tabù culturale. 1) se c’è un “cambiamento strutturale”, chi lo guida, e in che direzione va? 2) dici che è “prima di ogni cosa tecnologico”, ma non si era detto che nello stesso tempo è ideologico, politico? E se cosi è, perché noi non dovremmo avere su di esso maggiore presa? Luglio scorso – è notizia di “Le Monde Diplomatique” – Palantir Technologies, azienda privata, ha firmato un supercontratto da dieci miliardi di dollari con il Pentagono, aggiudicandosi la gestione di funzioni cruciali dell’esercito statunitense. Questa azienda statunitense è stata fondata da Peter Thiel, uno dei techno-oligarchi che oggi sostengono Trump. Thiel è stato il principale sponsor del conferimento della nomination repubblicana per la vice presidenza a JD Vance. Si potrebbe continuare, per tracciare connesioni tra giganti della tech, perdita di sovranità degli stati, e crescita dell’ideologia neofascista in occidente. E stiamo qui a parlare degli usi creativi di Chat-GPT?
Quando ci decidiamo a mettere tutto sul piatto della bilancia?
“Il luddismo mi infastidice, non solo perché a me la tecnologia affascina, questi sono fatti miei, ma perché la parte politica ed economica di cui si parlava sopra, va dominata, non rigettata, altrimenti altri lo faranno per noi. Servono programmatori umanisti, hacker, matematici illuminato non zoccoli. In ultimo, a margine, penso che l’IA soprattutto farà capire a molti il fascino di quello che non è IA. Il piacere di fare cose sporche, irragionevoli e non probabilistiche. Ma questo non è luddismo. Scritto e non riletto.”
Ecco anche qui siamo ben distanti. Mi sembra di essere ancora negli anni Ottanta-Novanta. E’ come se dicessi: ci servono degli esperti in gamba, anticonformisti. No, non bastano. Anche perché di esperti ce n’è un pacco. Hacker compresi: che lavorano per vari governi o stati antidemocratici, per esempio. Quello che manca sono le voci e le decisioni e le riflessioni dei non esperti, e che pero’ si beccano gli effetti delle nuove tecnologie. Ci mancano movimenti di massa come quello contro il nucleare.
Intervengo perché il tema mi interessa molto e perché Fabrizio ha citato il mio libro, uscito di recente per Meltemi. Sono questioni complesse e articolate, cercherò quindi di aggiungere qualche spunto di riflessione che viene dal mio lavoro di ricerca.
È vero che siamo nel mezzo di una trasformazione radicale del nostro vivere e che questa trasformazione è causata dall’avanzare e dal diffondersi del digitale. La retorica dell’inevitabilità di questo progresso, però, gioca solo a favore delle pochissime aziende che lo producono, la cui posizione di oligopolio – favorita dal sostanziale abbandono di leggi anti-trust negli Stati Uniti e dalla quantità di risorse economiche, prima ancora che ambientali e umane, che sono necessarie per poter entrare come attore in questo campo – spinge a credere a un determinismo tecnologico che ci dice che le cose non potrebbero stare che così. Questi dispositivi sono inoltre accolti, nella maggior parte dei casi, non solo seguendo questo principio di inevitabilità, ma anche con un timore reverenziale che li vede come una forma di “magia” inspiegabile (gli smartphone sono le scatole nere per eccellenza: dobbiamo usarli per come ci dicono di usarli e non possiamo guardare dietro lo schermo, accedere al loro funzionamento e modificarlo).
Dai primi anni 2000 in avanti, le grandi aziende del settore tech ci hanno “preso” con la novità, la facilità d’uso, la gratuità, poi ci hanno chiuso in gabbie da cui non sappiamo più come uscire. Il Luddismo, storicamente (lo racconta molto bene Brian Merchant in “Sangue nelle macchine”), non è l’odio per le macchine e la tecnologia ma la ribellione contro quelle tecnologie che aumentano lo sfruttamento dell’essere umano, svalorizzano le capacità individuali e collettive e peggiorano le condizioni di vita. Molte tecnologie digitali attuali (in testa la cosiddetta “IA”) stanno facendo proprio questo, almeno in parte, perché il loro impatto non è mai monolitico e unidirezionale, ovviamente, ma viene almeno in parte rinegoziato dall’uso quotidiano delle persone (con tutti il limiti posti dalle “affordances” delle macchine).
Come se ne esce? Come ci si difende? La prima cosa da fare davanti a ogni nuova tecnologia dovrebbe essere disattivare gli automatismi che ci spingono all’uso immediato e porsi alcune domande, cercando poi le risposte: cosa si sta automatizzando e perché? A che bisogno risponde? Il suo funzionamento è chiaro, trasparente, spiegabile? A chi giova e chi danneggia?
Altro elemento: scegliere con cura quali servizi/dispositivi usare. Nessuno ci obbliga ad avere un profilo Instagram o Facebook, né a ricorrere a ChatGPT per svolgere uno o più compiti (senza contare che il modelli linguistici e di immagini sviluppati da queste grandi aziende sono basati sul più grande furto di conoscenza e creatività della storia umana). Usare modelli aperti o, almeno, creati per compiti specifici (ChatGPT e i suoi simili vengono “venduti” come macchine in grado di fare tutto, il che non solo è falso ma è anche mal pensato all’origine), disertare i social media commerciali a favore di quelli decentralizzati, gestiti dalle comunità che li animano (come il fediverso). Come scrive Fabrizio alla fine della prefazione al mio libro, dobbiamo uscire dall’ottica di essere consumatori e adottare quell’attitudine hacker che permette di usare la tecnologia in modo critico (il che include, ovviamente, la scelta di non usare dispositivi e servizi). Ma serve un’alfabetizzazione di massa al digitale che sia critica e “empowering” per le persone, unita a un’azione legislativa che tuteli le persone e dia linee guida chiare per lo sviluppo tecnologico (l’UE in questo senso qualcosa sta facendo, anche se non è ancora sufficiente) in modo che le tecnologie rispondano ai bisogni delle persone e non a quelli delle aziende e dei loro investitori (e in questo senso, la corsa all’IA è insensata, dato che non sono in grado di trovare nemmeno un modello economico per tenerla in piedi: stanno continuando a bruciare centinaia di miliardi, con buona pace di un pianeta che sta già bruciando davvero per il riscaldamento climatico).
Caro Roberto Laghi, ti ringrazio per questo tuo intervento chiaro e articolato, che funge da prezioso complemento al mio intervento piuttosto pamphlettistico. E che condivido in ogni suo punto. Ringrazio di nuovo Fabrizio, perché è sempre intéressato al dialogo e alla comunanza dei saperti.
Qualche anno fa avevo partecipato a un incontro dove si parlava delle nascenti IA, presenti diversi accademici e il garante della privacy che, poche settimane prima, aveva cercato di limitare lo sviluppo indiscriminato dello strumento attraverso una serie di norme che molti avevano trovato piuttosto improbabili nella loro applicazione. Io più banalmente raccontavo le prime esperienze didattiche dall’IA all’interno della scuola.
Alcune cose che mi hanno impressionato e che penso siano interessanti per il discorso di Andrea sono due. La prima era la “fame” dei ricercatori accademici. Uno dei discorsi che girava – sto semplificando ma non troppo – era che il garante non doveva limitare la libertà di ricerca in campo tecnologico altrimenti altri soggetti, magari legati a quel mondo capitalistico di cui parla anche Roberto, avrebbero dominato il mezzo a scapito del mondo della ricerca e dell’istruzione.
Questo risponde anche alla seconda critica di Andrea, ovvero che credere a un movimento hacker parallelo sia una velleità intellettuale perché gli hacker sono già nel libro paga delle grandi aziende della tecnologia digitale. Quello che ho percepito parlando un po’ con i ricercatori è che per prime le accademie stavano cercando di impossessarsi di addestramenti di IA e di potenza di calcolo per continuare la ricerca fuori dalle multinazionali e in maniera autonoma. L’esatto contrario.
Che l’IA diventi uno strumento che uccide la didattica e che impigrisce il mondo scolastico è discutibile. Non dico che non ci sia il rischio, ma penso piuttosto che la scuola ancora non abbia preso le misure con l’IA. Se – molti dicono – l’IA può fare i compiti dei ragazzi, anche i compiti più creativi, significa che i compiti che diamo ai ragazzi non sono adeguati. Se un software probabilistico può essere creativo quanto i nostri ragazzi significa che il nsotro compito era meno intelligente di quanto pensavamo. Sono solo parzialmente d’accordo. Aggiungo io: può anche essere che l’IA ci permetta di alzare l’asticella della creatività richiesta ai ragazzi.
Perché non siamo sulle barricate? Beh, perché sarebbe quello velleitario. Stiamo discutendo di queste cose con un computer, collegato a un provider nazionale e usando gli stessi cavi subacquei su cui scorrono i prompt di chatgpt, per finire su un server che chissà dove è e gestito da quale azienda, su cui girano tecnologie digitali, digitali, digitali. Siamo nel mezzo di una rivoluzione digitale e non ci siamo perché poche aziende transnazionali fanno belle reclame. Ci siamo perché queste cose sono in grado di cambiare la nostra vita e – in molti casi – la cambiano in meglio.
Non me ne vogliano i movimenti luddisti come i movimenti Lamp che fanno a pazzi gli iPad davanti agli Apple center, ma il digitale ha reso le persone meno sole. Lo ripeto: il digitale ha reso le persone meno sole. Ha permesso a piccoli gruppi, fragili e deboli, di entrare in comunità con persone che avevano il loro stesso modo di pensare (buono o cattivo che fosse). Ha permesso di fare nascere dal basso informazione, protesta o di contestare e ridicolizzare quella che arriva dall’altro. Il digitale ha permesso di fare rete come non mai prima. Di uscire dalla provincia e di uscire dalla parte più oscura e retriva della tradizione.
Non vedi le barricate perché questa cosa funziona. Ci inganna, ci promette una felicità che non arriva, ci rende alienati e isterici, sfrutta le nostre debolezze e gioca sull’ignoranza dello sciame: è vero, ma funziona, e la parte che funziona lo fa in maniera da cambiare la nostra vita, le possibilità di pensare che abbiamo. Modifica la nostra percezione del tempo.
In realtà poi, come citavo prima, la gente scende in piazza, sfonda gli iPad, bandisce i cellulari e la rete, cerca di staccare la spina. In realtà le barricate ci sono eccome. Ma non è lì, secondo me, la parte interessante dell’oppozione alle grandi multinazionali della tecnologia. Le barricate reali le fai ridando al digitale la sua indipendenza. Mastodon, i coderdojo, i movimenti open source sono tutte barricate, ma sono intimamente digitali. Perché contestare il digitale staccando la spina non è una contestazione, è incapacità di restare nel mondo reale. Perché il mondo digitale è reale.
Tu mi dici che però non sei contro la tecnologia, ma sei luddista tecnologico su aspetti specifici della tecnologia, alcune cose no, altre vanno bene. Chi decide cosa del mondo tecnologico va fatto e cosa va invece fermato? Anche questo aspetto è discutibile: molti utilizzatori della IA, specie quella legata alla creazione video e grafica, trovano l’IA uno strumento di democratizzazione creativa perché permette a chiunque abbia una propria visione estetica di produrre artefatti digitali utilizzabili nei propri lavori. Nel mio ultimo videogame un settanta per cento delle immagini sono state create con l’intelligenza artificiale. Se non avessi potuto fare altrimenti, difficilmente quel videogioco avrebbe visto la luce, perché non avrei avuto le risorse per pagare un disegnatore per fare le immagini che mi servivano.
Non dico che abbracci quell’idea, penso che il problema dell’addestramento sia un problema reale, ma nello stesso tempo penso che non si possano liquidare le realizzazioni dell’IA come un derivato passivo o acreativo. Usare l’IA e avere in uscita risultati utilizzabili, richiede delle competenze. Chi decide allora cosa è tossico? Personalmente, per dire, trovo che l’idea del “device personale”, che anche lo stato ormai dà scontata con l’utilizzo di strumenti come lo Spid, sia potenzialemente più tossica dell’IA.
Mi fermo.
(chiedo perdono per i refusi, ma ho scritto furiosamente in un momento che non esisteva, appunto, il digitale)
Fabrizio, approfitto dei vari temi che tocchi per risponderti. Ma lo faccio più per chiarire dei punti, che per pensare di persuaderti. Penso che, pur guardando lo stesso oggetto, lo posizioniamo su fondi e pesaggi diversi. Io trovo spesso “reali” e “fondati” i tuoi paesaggi, ma per me sono troppo ristretti. Lasciano fuori troppa roba, quasi tutto quello che m’interessa.
Io faccio una distinzione importante tra ricerche sull’IA realizzate in ambito universitario, e uso di Chat-GPT nel sistema dell’educazione primaria e secondaria. Nessun problema sul primo punto, che condivido con te, molti problemi sul secondo punto. Ovviamente, e meno male, non sono certo solo io a pormelo, ma avrei da scrivere sul modo in cui in una scuole post-diploma d’architettura e design, come quella in cui insegno, è “favorita” l’integrazione di Chat-Gpt nell’insegnamento. Nessuna discussione con gli insegnanti, nessuna riflessione di gruppo sulle questioni pedagogiche, al buon volere dei singoli prof di illustrare un metodo d’applicazione, il tutto a partire da una decisione della direzione. Ancora una volta, il punto principale non è neppure se Chat-Gpt sia nocivo o meno all’insegnamento, il punto è che non è previsto un vero dibattito, non è prevista una valutazione collettiva, in cui entrino soggetti diversi: insegnanti, ma anche psicologi, ma anche genitori, ma anche allievi, ecc.
Fabrizio scrivi: “Siamo nel mezzo di una rivoluzione digitale e non ci siamo perché poche aziende transnazionali fanno belle reclame. Ci siamo perché queste cose sono in grado di cambiare la nostra vita e – in molti casi – la cambiano in meglio.” Sono un po’ stupito di come tu riproponga l’argomento che ti ho contestato, e che per me è cruciale. “Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione digitale”. Ripeto: voluta da chi? Su questo punto mi sento del tutto in sintonia con quanto scrive Roberto Laghi, che ti ringrazio di avermi fatto conoscere. Una rivoluzione ha un soggetto, o comunque diversi soggetti. Tu dici che le poche monopolistiche aziende statunitensi non sono i veri motori del cambiamento, ma siamo noi tutti, perché grazie al digitale la nostra vita migliora. A me sembra una semplificazione spaventosa, e per altro io non credo che la mia vita sia per forza “cambiata in meglio” grazie al digitale. Anche perché, ti confesserò che, indipendentemente dalla mia felicità personale, non apprezzo molto come viviamo, l’organizzazione della nostra società, la direzione che ha preso, ecc. Sulle questioni cruciali che m’interessano non so se il digitale di per sé ha cambiato in meglio o peggio. Spesso penso in peggio. Ma non sempre.
“Il digitale ha reso le persone meno sole”… Non so come controbattere a un’affermazione del genere. Abbiamo degli studi in proposito? E’ una conclusione generale basata su un’esperienza personale? Su questo ho cominciato a raccogliere documentazione, ma per me è impossibile porre le cose in questi termini. Non è il digitale che avrà allentato o meno i legami sociali, è il modo in cui la società è organizzata, e il modo in cui si serve del digitale, ad aver creato più o meno solitudine. “Ha permesso a piccoli gruppi, fragili e deboli, di entrare in comunità con persone che avevano il loro stesso modo di pensare (buono o cattivo che fosse)”. E’ esattamente quello che ho sperimentato durante i miei sedici e diciassette anni, grazie al movimento punk (per fare un esempio personale). E non c’era internet. Ci si scriveva, ci si incontrava, ci si telefonava. Come grosso modo nel corso di tutto il novecento.
“Le barricate reali le fai ridando al digitale la sua indipendenza. Mastodon, i coderdojo, i movimenti open source sono tutte barricate, ma sono intimamente digitali. Perché contestare il digitale staccando la spina non è una contestazione, è incapacità di restare nel mondo reale. Perché il mondo digitale è reale. »
Sono d’accordo sulle barricate di cui tu parli, ma non basta. Non citi mai la dimensione più politica della faccenda, anche se istituzionale. Nessuna parola sul Digital Services Act, che propone una delle forme di regolazione dell’universo digitale per ora tra le più avanzate. Ebbene questo regolamentazione è stata costruita attraverso un processo complesso, che ha anche implicato una consultazione pubblica. Se vedi chi ha partecipato a questa consultazione, ti rendi conto che non ci sono solo gli “esperti di informatica”. Ovviamente. Stiamo parlando di un processo di consultazione di tipo democratico, non di una perizia tecnica.
“Chi decide cosa del mondo tecnologico va fatto e cosa va invece fermato? “ Tu poni questa domanda, come a dire: chi si arroga il diritto di…? Ti ho già risposto: il pubblico attraverso forme di consultazioni, dibattito, manifestazioni, e alla fine anche legislazioni. E comunque ti assicuro che c’è gente DEL MESTIERE che si batte persino per imporre una moratoria sugli esperimenti e lo sviluppo dell’IA nella sua versione Chat-GPT. Tutta gente plurititolata in materia e che non parla di “staccare la spina”, come ripeti, caricaturando purtroppo tutto il mio ragionamento. Eccoli: sono scienziati e imprenditori: Pause Giant AI Experiments: An Open Letter – Future of Life Institute.
Infine, nulla toglie al fatto che, individualmente, tu o varie altre persone troviate un tornaconto nell’uso di Chat-GPT o applicazioni simili, ma ripetere lo stesso argomento di “democratizzazione” della creatività già ampiamente svolto negli anni Ottanta e Novanta, a fronte di una società occidentale minacciata piuttosto da neofascismo, mi sembra un po’ ristretto come sguardo. Quella promessa di democratizzazione degli anni Ottanta e Novanta è stata un po’ smentita dalle politiche sul lavoro, da varie ondate repressive, ecc. ecc.
Aggiungo solo due cose, Fabrizio, per non rischiare di essere unilaterale nelle mie risposte. Al di là dei dissaccordi di principio, io sono sicuro che tu fai parte di quelli che contribuiscono all’alfabetizzazione digitale in modo positivo, come io non potrei fare che in modo molto limitato. Secondo punto: il mio luddismo (nel senso esplicitato da Laghi) convive certo con una forma di contraddizione, come ogni anticapitalismo. Ma aggiungo anche che, come già nell’ambito della precedente discussione che avemmp, fai bene a ricordare anche a noi che esistono comunque alternative “digitali” alle piattaforme “dominanti”. E su questo fronte io stesso sono poco ricettivo, per semplice questione di abitudini, abiti acquisiti.