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Pietro Polverini, La nostra villeggiatura celeste

È appena uscito, a cura di Francesco Ottonello, La nostra villeggiatura celeste. Dieci anni di poesia di Pietro Polverini (2012–2021), per Interlinea, nella collana LyraGiovani diretta da Franco Buffoni. Domani pomeriggio ci ritroveremo, con il curatore, Simone Ruggieri, Edoardo Manuel Salvioni, Virgilio Gobbi Garbuglia, e molti altri amici e amiche di Pietro, alla libreria Catap di Macerata. Lì nel 2022 avevo presentato il suo primo libro, Indice sommario di sbiadimento, insieme a un altro comune amico, Emanuele Franceschetti. Straziante e bellissimo è sempre ricordare Pietro Polverini, la sua intensità, l’intelligenza curiosa, l’ironia sottile ma pure piena di riguardo, la grazia e la misura elegante di Pietro, e la sua poesia, che era tutto questo e molto altro. Qui di seguito un saggio breve di Salvioni, e alcuni testi dal nuovo libro. (rm)

Itinerari intorno a un documento fedele

di Edoardo Manuel Salvioni

Poesia è la Ragione di un inventario privato finita nel fango dell’ultima alluvione
Remo Pagnanelli

Abbaio, folate, bora, tifoni, bufera, burrasca, nubifragi, valanghe.
Cinta muraria, assedio, cruna, gora, fondaco, fossa, tana.
Parole, fenomeni di cielo e terra, spazi, luoghi spesso ricorrenti, per evidenza di ritorno, tenuti stretti nei fogli di queste poesie rinvenute di cui tra noi si tenta qui di dire qualcosa.
La nostra villeggiatura celeste. Un libro che raduna un decennio di prove ed esiti. Le locuzioni della villeggiatura celeste: uno stillicidio di lettere, parole osservanti, che cadono in ripetuto atto a martellare le tempie e il fiato.

Chiedo alla terra un sacrificio
ultimo per ordine e natura,
abbia solo abbaio di sangue
vestigio globulare di noi
che sapientemente veniamo
meno alla nostra storia.
Cedi un sonno che sia perfetto
per misura e astrazione,
lì passa in rassegna
in una tintura di sogno
quanti volti scucisti
per poi riportare guerra
in altro bianco stame.

(Polverini 2025, 21)

Rimarcare la presenza nel lasciarsi indietro, che separa tutto intorno, che aduna lettori prossimi e ignoti, che scoprono nella stessa misura, parimenti, un giacimento imprevisto.
Come trovarsi in cammino nei sentieri di una consueta passeggiata, e rinvenire un ponte mangiato dai rampicanti, di cui si ricorda l’intero e non il dirupo possibile. Un sempre possibile infrangersi subitaneo, che ora ci sta di fronte, o come il lento sgorgare di un fiume sotterraneo tra le fenditure della roccia, che procede e si accumula in un angolo cavo.
In questo libro fratello al suo esordio, Indice sommario di sbiadimento (peQuod 2022) come sua emanazione, immagini di tenue annebbiamento, in composta enumerazione delle meccaniche sottili del dileguare, con ironia e sottile souplesse, contemplano le speculari immagini di edificazione, di adunanza, di inarrestabile comunanza. Un lascito che diventa spossessare e riappropriarsi tutto in un sol gesto, in manciate di versi.
Immagini di presagio, intuizioni sull’orlo di una paradossale, tutta istintiva e lucidissima predizione di quanto sarebbe successo? Forse sarebbe meglio dire, coscienza arcaica e sempre frontale del proprio riavvolgimento dove ogni tempo è un solo tempo.
Pietro che contempla il corpo, il corporale amore, l’anima sua o quella consistenza fisiologico nebulare che assomma il sentire… come per paradossale par condicio, inversione prospettica, allo stesso tempo altre anime, sguardi, stelle, congiunture del cielo sorridono dei corpi, del suo corpo, di dettagli fisici precisi, col gusto suo proprio, di tenera pedanteria, del tecnicismo ottico, chimico ed anatomico, nell’istante stesso in cui vengono evocate.

Una sensazione alla lettura dei suoi testi: scrutare come le passate generazioni nascondevano epistolari occultati nella clausura di cassetti e bauli. Le storie interdette che sono le storie veramente proprie, amori orfani, amori illegittimi, talvolta memorie secretive che una epistola di un casuale occhio indiscreto ri-eventifica.
Gli appunti che osservano il mondo e il mondo che disappunta gli scritti, ogni nota e foglio, volatili.
L’edificio incerto della vita o della storia che si sgretola, sbianca, strama, e invoca la libertà del venir meno e del non poter altro dire.
Desiderio come forma di oblivione e oblivione come luogo del desiderio.
Finalmente accogliente, senza remore.

Gli emblemi della separazione sono disseminati in tutti gli angoli delle pagine, emblemi dell’Esodo, della missione, del vestigio globulare, altro nome per dire amare, come una propria araldica rivendicata con orgoglio garbato. L’attesa paziente, l’osservanza, il separarsi dal mondo che è rincasamento. Nessun trovare casa in nessuno stile, codice, maestro, che pur qui echeggia, adorna le sezioni, offre indizi. Ma non esiste indizio maggiore, altro migliore indizio del divenire se stessi: memoria in suono deposta, retroattivamente futuribile.
Il segreto dei raccoglitori che qui ricompongono la genealogia del libro, l’indizio di un faldone, di files germinati in modifiche e modifiche, nel costante ridestare e modellare, rilevano ma non spiegano la mappa per il tesoro, per capire il punto dove qualcosa si nasconde, ma piuttosto addensano ancora con maggiore pervicacia la storia di cose naturalmente insondabili, le soglie che prendono corpo tra i versi.
La fortunosa evidenza dei limiti, la porta guardiana verso l’interno di quel qualcuno a noi caro, che forse nemmeno conosciamo e conosceremo mai sufficientemente.

Diranno gli scettici ridenti, tanto scettici quanto sanno essere tirannici col pensiero altrui, corporativi in vestigia inquisitoria su quanto residualmente resta del mistero, i sentenziosi sempre pronti, gli snocciolatori di segreti in mezzo agli ingenui – ovviamente a loro sentire inferiori, in quanto genuflessi per loro presunta ipotesi a parole come sacro, mito, rito… Posso immaginare i risolini pur nel serissimo monito del loro ghigno. Penso Pietro si sarebbe estremamente divertito a rinvenire le ragioni del sacro talvolta più razionalistiche – Remo Pagnanelli parlava non a caso di “altra ragione” del sacro – del fideismo della ragione bulimica, del suo non ammettersi patogena quando diviene anemica, quando diventa con arroganza una ancella della sua stessa miseria. Immagino i volti di tanti cinici, che abitano le aule che Pietro frequentava quasi ammonire: “Quanto la fate semplice, amici del qui assente, invero presentissimo, voi, la vostra sempre facile algebra del mistico, come era che diceva quel tale? Quel Wittgenstein… che pone nei limiti di linguaggio un valore di indicibile che non dimostra semplicemente il suo contrario, ovvero che non di tutto si possa dire e dunque si debba tacere. Si tratta piuttosto come una x, una incognita indeterminabile, che per sua stessa natura veridice le parole stesse mostrando la stessa proposizione in quanto tale. Il mistico, questa cosa illogica che però parrebbe veridire quanto di più logico sta nelle viscere del linguaggio, nidificante in essa.
Ognuno, d’altronde, si sceglie la propria politica di silenzio e le proprie mistiche commozioni. Ognuno elegge il proprio statuto di indicibile, di interdizione e così facendo scartate, scarterete preci come si scuoiano castagne”.

Noi crani senza mistica
carne mosta senza fede.
Eppure noi abbiamo corso
verso mille roveti,
bracconi di chissà quali spiriti.
Ci diremo col tempo
d’essere schiavi.
Tu servo di carità,
io cameriere da nulla.

(Polverini 2025, 166)

Oh, quanti adolescenti tardivi circondano il campo delle parole, piccoli Torquemada per le nuove polizie della morale di tropi ed enunciati! Dove credono micidiale il pensiero più ovvio, mentre non esiste cosa al mondo più letale di una radicale innocenza, a loro completamente e per sempre preclusa.
Vorrei udire Pietro riderne con qualche nota acuta, nell’ovunque in cui si trova. Era consuetudine una certa ironica acredine epigrammatica, ancora e per sempre, e riderci ancora adesso a crepapelle.
Dissacrare tutto, specie i velleitari nel pensiero, per difendere solo quanto è sacralmente caro col silenzio, dissacrare in primis se stessi. A riprova, dello schiocchezzaio umano che viene sparigliato da altre altezze che piombano con umorismo perentorio, un pensiero decisivo di Remo Pagnanelli dovrebbe per anni a venire sventare ogni pretesa di seriosa presunzione di possesso umana: “l’ironia divina è insuperabile”.

Un sepolcro può godere del vuoto,
un assioma, un lume per ogni ragione:
rannicchiato rientra nella pietra
chi si stanca della propria pelle o
ritiene che dal gelo degli occhi
non nasca un segreto di luce.

(Polverini 2025, 28)

La parola definitiva dei versi è la morsa sonora che spoglia ogni superfluo, il verso come calco ritmico del linguaggio solamente necessario, suo limite come massimo suo possibile. Orla tutto il restante a cadere nel e dal silenzio, non si spiega se con monito frontale, manifesto: il ritmo nel senso.
Un libro è allora dunque una strettoia che fa secernere solo quanto distilla, o si forma come nembo atmosferico a condensa. Verso di fiato, umore, liquame salivale e globulo linfatico, inchiostratura.

La serietà di Pietro risiedeva nella sapienza gestatoria, come nell’imprevisto che ora ce li consegna come definitivi già nati. E dunque hanno trovato il loro tempo, qui, in questo, per una incidentale necessità. Si sono spezzati dal loro letto per ricongiungersi, come voce e come richiamo.
Da qui il continuo inarrestabile che esiste nella poesia, un linguaggio che ha ed è il peculiare rapporto tra chiuso ed aperto, tra fatto ed evento, tra prefigurazione ed azione.

La fede stenta a coprirmi le gambe:
altrimenti il lenzuolo prosegue il suo
corso fino la fredda punta dei piedi.
È luglio e nessun francobollo di pelle
è protetto da una tunica di grazia,
si slega ogni cammino futuro
sul solco del sonno che cade:
rimane il marchio della salvezza
stampato con l’acqua del battesimo.
Intanto il volto è trasmutato in una
nube bianca che non può dirsi anima.

(Polverini 2025, 50)

Chi ha udito per quanto qui sorge, venga trafitto dallo spillo-alfabeto nel proprio timpano. Chi non ha che sordità torni pure alla consueta ginnastica delle parole, a messaggi e veti, palleggiando tra crediti di qualche professore spacciato per maestranza spirituale.
Tra questi sciocchi ritualisti senza carne, tra venditori kitsch del sacro specie nella parola dei nostri scrittori contemporanei, Pietro come il più straniato degli stranieri – lui che non era meno armato nella veste dei concetti – si mimetizzava, sorrideva, dissentiva garbato, non si distaccava: irato a volte, a volte divertito, a volte rivolto altrove, dove nessuno sa e sta, dove non vi è luogo per nessuno: il volto è nube, come il cammino è un calco cavo.

Poi si tornerà a mietere la magra
stella del cielo e gli scomparsi
dai bianchi crani saranno traccia
senza velo, nella nudità di orma
stampata sul calco fresco di neve.
Rinvenire su un campo disadorno
o sugli aculei d’una rete metallica
la losanga del sorriso che ad altri
destinasti.

(Polverini 2025, 32)

Verso la voce nel fondo, come un esiliato che trova la propria voce fuori di confine. Stava al commercio del mondo come ognuno, ma la sua voce pareva richiamarlo fuori, per spogliarlo di ogni dove, di ogni provenienza, di ogni fatto, di ogni notazione possibile di diario o di ogni azione testimoniabile.

Chi si congeda lo fa senza bisbiglio
marino, con le ciglia chiuse sul litorale.
Di là dalle storie di sventate infestazioni
ricordi cesellati sul muro degli estinti,
è sceso il taglio col fiotto di lamiera
che recide ciò che per sbaglio o vizio
è restato in vita senza che essa sia
questa preghiera spoglia di mondo.

(Polverini 2025, 27)

Lo scendere, il recidersi dentro la parola, Pietro rimessosi all’insondabile, a quanto in quanto non sondato ci tramuta, semplice consegnato al di fuori, frontale fortezza di suono.
Una parola-valico, una parola che finalmente erige la barriera, stravolta dal suo stesso testimoniarsi.

Non solo documento fedele della storia di una persona, di Pietro nella fattispecie in questa circostanza, ma la storia fedele delle parole che murano il passaggio definitivo e non permettono altro se non come un camminare sulle proprie ginocchia, intorno ad una casa familiare ed irriconoscibile allo stesso tempo. Barriera fedele sul mondo. Pietro che è nome solido, fermo, lapidario, incavato, imperioso. Pietro e l’indifesa dolcezza delle sue frasi.

Il vacante-vagolante verso che condensando rafferma. Che sia spiazzamento? I testimoni sono i raccolti nella valanga o i murati nella sua parola? Forse il lettore dovrebbe essere il primo degli spazzati e l’ultimo dei murati. Dei sopravvissuti raccolti a chiamata a rimestare lo spaesamento di chi ancora non si capacita, dunque quanto qui detto è la semplice ammissione di un paradosso… nulla più.
Osservando le impalcature della sua voce, cercare di immaginare qualche trama romanzesca, specie se condita di qualche risata fissa nella sua tonalità delicata, o lasciare intatti tutti i suoi enigmi, i nomi da pennino, il vento leggero di questi granuli addensati, i miraggi ridenti di un amico, la sua vacanza perpetua. Sperando un giorno di dire una battuta irriverente o entusiasmarsi di nuovo col cielo di Patrizia Cavalli. Per tornare a Pietro, grati di questo viatico di parole.

1934

La federa dei padroni era lisa
il destino del sonno appuntito
nel filo di luce che sale.
Dissi la sera prima una preghiera:
notti di febbraio mietono covoni
di neve nelle dorsali del valico.
Il diesis nello spartito delle folate
ha portato globuli e cesoie di gelo.
La casa travolta, la suola sulla
bica di un formicaio in vita.
Le narici sono il viadotto per
la neve sulla bocca, sulle orbite
i granuli addensati erano il mio
indice sommario di sbiadimento.

(Polverini 2025, 30)

Poi venti anni dopo ci son tornato
stavolta canizie, calvizie, meriti
come “lavoratore indomito” o
“venne meno all’affetto dei cari”
qualcuno requiescat in pacem
i più fortunati stanno così in lato
da non poter frugugliare sulle loro
icone postreme, sulla tessitura
numerica che inchioda al sasso
bianco un sibilo di creatura
increata nello spazio
della tana.

(Polverini 2025, 33)

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Pietro Polverini (1992-2023), poeta e critico letterario, ha vissuto a Macerata dove ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia con una tesi dal titolo Un’estetica dattilografica. Appunti su Amelia Rosselli. Al momento della sua scomparsa stava completando un secondo percorso di studi in filologia moderna. Redattore di «MediumPoesia», la sua attività critica si è rivolta alla letteratura italiana moderna e contemporanea (tra gli altri: Rebora, Tondelli, Anedda, Valduga, Cavalli). È stato incluso nell’antologia Lo spazio e l’onda. Una teoria di giovani poeti marchigiani (Seri, 2021) e nel 2022 ha pubblicato il suo libro d’esordio, Indice sommario di sbiadimento (peQuod).

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