Ricordi (in italiano) di Stéphane Bouquet #1
di Andrea Inglese
Stéphane Bouquet, poeta francese, è morto alla fine di agosto. Aveva 57 anni e come ogni persona morta troppo presto, ingiustamente e irragionevolmente presto, lascia chi lo ama, chi gli è amico, chi l’ha conosciuto e stimato, sopraffatto da un profondo senso d’incredulità. Per quanto riguarda gli artisti, aggiungiamo noi stessi ingiustizia a ingiustizia: ci sembra ancora più crudele sottrarre alla vita qualcuno che vi era legato da una perenne e intensa necessità di creazione. Questo era il caso di Stéphane Bouquet: qualcuno che senza nessuna eccentricità esibita, era capace di attrarre ogni particola della sua esperienza del mondo, per farne qualcosa d’altro: un cristallo di parole, una serie di gesti, uno svolgimento libero di pensieri.
Ho conosciuto Stéphane Bouquet nel 2008 o 2009. I miei ricordi sono sempre lacunosi e i miei archivi fotografici o d’altro genere molto confusi. Ma eravamo invitati a un seminario di traduzione collettiva in Slovenia, con altri poeti e poetesse di varia origine (Slovenia, Stati Uniti, Serbia, Finlandia, ecc.). Ho scoperto in quell’occasione il Bouquet poeta e anche traduttore. Come traduttore, Bouquet è noto soprattutto per le sue traduzioni dall’inglese, di autori statunitensi come Peter Gizzi. Ma io ho avuto la fortuna di conoscere anche il traduttore dall’italiano (traduttore perché lettore di autori italiani, Pasolini e Penna in modo particolare). Bouquet è noto anche per essere stato ballerino, attore, sceneggiatore e critico cinematografico, drammaturgo. Bouquet è stato tante cose, ma per me essenzialmente un poeta ammirevole, con un talento sicuro e fuori dal comune, e un generoso traduttore. Nel corso della nostra amicizia l’interesse per il lavoro poetico prendeva spesso la forma di progetti di traduzione reciproca. Negli anni, ho avuto modo di confrontarmi con diversi testi di Stéphane. Il primo che presento è un testo saggistico, di un saggismo pochissimo accademico, ma estremamente colto e brillante. In un post successivo, presenterò soprattutto materiale poetici da me tradotti. Come ho detto, però, si trattava di un dialogo, ossia di letture-traduzioni incrociate. E, tra le altre cose, ho avuto la fortuna di avere un mio libro tradotto in francese da lui: Lettres à la Réinsertion Culturelle du Chômeur uscito nel 2013 per l’editore NOUS.
Vorrei dedicare questi scorci in italiano della poesia di Stéphane ad Alessio, suo sposo.
[La foto di S. B. è stata scattata da me in Slovenia 15 o 16 anni fa.]
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Popolo, paraculo, poesia.[1]
Di Stéphane Bouquet
Traduzione di Andrea Inglese
In Who is me, sottotitolato in forma di risposta immediata: Poeta delle ceneri = sono un poeta delle ceneri, Pier Paolo Pasolini spiega come è diventato marxista: tutto comincia con lui, ancora giovane poeta, seduto in riva agli stagni, sole e foschia latina, canneti, mentre i figli dei contadini – hanno la sua età o sono appena più giovani – si bagnano innocentemente. Nudi, suppongo. E poi mettono un fazzoletto rosso al collo e marciano fino in città, e il poeta delle ceneri li accompagna: è accaduto, tutta la coscienza politica lo ha investito, ci sono degli umiliati, marcia con loro, è marxista.
È poco probabile che Curzio Malaparte avesse di mira Pasolini quando scrisse i capitoli 4 & 5 de La pelle. Nel 1949, Pasolini ancora non aveva pubblicato molto. Ma erano persone come lui a costituirne il bersaglio polemico: persone come lui che seguivano il ridere di ragazzi e lo trasformavano in politica. Malaparte, con il gusto apocalittico che lo caratterizza, descrive in modo brillante questa scena: siamo nel 1943, gli Alleati sono appena sbarcati in Sicilia, decine e decine d’invertiti attraversano, nel freddo e nel pericolo, le linee tedesche, camminano nella neve profonda e sotto gli obici – per raggiungere la freschezza, l’odore di cucciolo dell’esercito americano.
Bloccati per mesi nel sud d’Italia, approfittano della miseria, scopano con i poveri, diventano comunisti. Non è certamente la verità fattuale, ma à una sorta di verità teorica. Se ciò non è accaduto, è comunque il sogno degli invertiti. Sul nesso preciso tra comunismo e omosessualità, la posizione di Malaparte è abbastanza instabile nel corso di questi due capitoli. A volte, suppone che il comunismo sia una semplice maschera: “chiamano comunismo il loro marxismo omosessuale”. Certo, non gli fa piacere. Malaparte teme che un “Piano Quinquennale dell’Omosessualità” stia operando per scalzare le basi liberali dell’Europa. Ma altrove si rivela molto più intuitivo: percepisce che l’inversione sessuale potrebbe essere “un’iniziazione indispensabile alle idee comuniste” oppure chiede al giovane e (ci garantisce) magnificente principe convertito a Marx con il quale conversa, “Lei crede che divenire pederasta è un modo come un altro di diventare comunista?” Malaparte intuisce che l’erotico e il politico sono spazi comunicanti, e che non ci sia una decisione politica che non sia anche una decisione erotica – e all’opposto. Malaparte non ci crede – come quando si dice, sbalorditi dall’enormità della cosa, non ci credo –, non ci vuole credere, trova che non sia serio e basta, ma ha colto qualcosa di potente: un legame strano tra l’omosessualità e l’interesse per il popolo. Un legame che chiama sofferenza, salvo che non sono sicuro che la parola sofferenza sia la più appropriata.
Nella sua Ode a Walt Whitman, scritta nel 1929-30, rimasta inedita durante la sua vita, Lorca sembra inizialmente venire in soccorso di Malaparte. Immagina un gruppo di finocchi (maricas) mentre picchiano un uomo che è l’incarnazione per eccellenza della virilità, qualcosa come l’esercito del cotone pulito americano, per cui: movenze gattesche, ondulazioni, miagolii, raggiri, tremiti: gran spettacolo nevrastenico delle checche. La stessa generale effeminatezza che si trova nella Pelle. Ci si vergogna un po’ di osservarle mentre si contorcono sul marciapiede. Eppure tutto si complica, quando ci si rende conto che il principio virile dell’Ode, quello su cui si avventano i maricas, si chiama Walt Whitman, che è un altro nome dell’essere frocio. Ho letto almeno 56 volte la poesia di Lorca e non sono sicuro di averla capita. Secondo la mia attuale ipotesi, Whitman incarna questa omosessualità che si situa, cito, “tra le montagne di carbone, i manifesti pubblicitari e le ferrovie.” In poche parole, con gli operai in una città dove chi non lavora si vede garantito la cassa da morto. A questi operai, Whitman-secondo-Lorca offre il potere trasformativo, metamorfico, della poesia: e diventa fiume e diventa argilla e neve e gazzella. Si muta in paesaggio grandioso per accoglierli. È la Promessa – che Lorca chiama “il regno della spiga” dove, immagino, ogni fame cessa di esistere. Grazie alla poesia, in quel paradiso della poesia è ovunque pieno di ogni cosa: miele & latte, miracoli & abbondanza. Ma nulla è semplice, perché proprio questi operai – ci avverte Lorca all’inizio della poesia – non sembrano davvero correre dietro a questo tipo di scenario: “nessuno voleva essere il fiume” e “nessuno amava le grandi foglie” e “nessuno la lingua azzurra della spiaggia.” Cosicché ci si trova, alla fine della poesia, di fronte a un triangolo inconciliabile e tragico: i maricas che sono l’omosessualità come desiderio morboso e sconvolto; Whitman che è l’omosessualità come poesia, molto più nobile della precedente perché non si contenta d’infilarsi, appena può, tra “le gambe dei camionisti”, ma cambia letteralmente il mondo; e infine gli operai che in ogni caso se ne fregano. La situazione non ha via d’uscita. “Duerme, no queda nada / Dormi, non resta nulla” è l’ultimo consiglio di Lorca a Whitman. L’ipotesi di un’alleanza puramente poetica con gli operai è vana.
Siamo ancora nel 1929-30. In una lettera che invia da La Avana – la sua famiglia possedeva una casa di vacanza su una piccola isola vicino a Cuba – Hart Crane è di una franchezza disarmante. Traduco: “Forse tu hai fatto esperienza del fascino singolare di una lunga conversazione con delle señoritas con solamente dodici parole in comune per riuscire a capirvi. Alludo a A…, giovane marinaio cubano… che ho incontrato una sera presso l’Alhambra, nel Giardino centrale. Immacolato, ardente e delicatamente riservato – ho imparato molto sull’amore, cose che non sapevo esistessero. Che relazioni delicate possono fiorire tra gli umili! Su questo è difficile esagerare”. Bisognerebbe, immagino, andare a La Avana per comprendere il vento dolce che prende corpo, anche, in queste frasi. Bisognerebbe frequentare questo giardino che ancora deve esistere come prima, con forse lo stesso identico marinaio. Crane fu tutta la sua breve vita troppo apolitico e la sua poesia troppo enfatica, ampollosa, lambiccata – mi dispiace dirlo così – perché la constatazione innocente di questa lettera trovi una reale eco nelle sue poesie, salvo una sola volta e poi basta. La poesia s’intitola Episode of Hands, e poiché credo che non sia mai stato tradotta, eccola:
Episodio delle mani
L’interesse inatteso lo fece arrossire.
All’improvviso parve dimenticare il dolore, –
acconsentì, – e tese
un dito tra gli altri.
Il taglio sanguinava e una freccia di sole
scintillava e spariva tra le ruote,
cadeva luminosa, calda, dentro la ferita.
E mentre le dita del figlio del padrone della fabbrica
Che conosceva una presa per i libri e per il tennis
E un’altra per l’acciaio e il cuoio
Mentre le sue dita secche, ossute, avvolgevano la garza
Intorno al letto spesso della ferita
Le sue proprie mani gli sembrarono
Delle ali di farfalla
Guizzanti nella luce sui campi d’estate.
I calli e le croste – numerosi nella mano
ampia e profonda posata nella sua – sembravano belli,
erano come le tracce di un gioco di pony selvaggi, –
ciuffi di verde nuovo che rompono una zolla dura.
E i frastuoni della fabbrica e i pensieri della fabbrica
Furono allontanati da lui grazie a questa mano più grande
Più calma posata nella sua e illuminata dal sole
E quando il nodo della fasciatura fu stretto
I due uomini si sorrisero con lo sguardo.[2]
Hart Crane era figlio di un proprietario di fabbrica. Questa è forse una poesia autobiografica, ma ciò non ha importanza. Vi si percepisce la medesima potenza di metamorfosi già all’opera in Lorca. Poiché il figlio del padrone si prende cura dell’operaio, la fabbrica si annulla ed emergono i segni della natura: pony, farfalle, ciuffi d’erba. Come spesso nella poesia lirica, la natura è felicità e libertà selvagge, le farfalle svolazzano di più, i pony saltellano di più, sono essenzialmente e necessariamente belli. Quindi questa sollecitudine dell’uno per l’altro, del padrone a venire per l’operaio che gli è venuto, apre il campo delle metamorfosi. In questo, nulla è cambiato da Ovidio: la poesia produce miracoli. Metamorfosi e metafora sono, certamente, la stessa cosa in due strati differenti della realtà: è la potenza della liberazione dell’amore, del desiderio, del nome che si vuole e che è un gesto d’unione, di comunismo se vogliamo, nel momento in cui il comunismo diventa l’evidenza stessa del nostro essere assieme, assieme nel linguaggio (metafora) e nel mondo (metamorfosi). Nella poesia di Crane, la metamorfosi è evidentemente sessuale, altrimenti perché la ferita sarebbe trattata, metaforicamente, come un letto spesso, profondo? E quindi la via d’uscita è carnale. Si curano o si carezzano. In ogni caso, è la stessa cosa: la parola italiana carezza e la parola inglese care (curare, preoccuparsi) nascono dal medesimo bisogno avido. Do you care for peanuts? Chiedono gli steward sugli aerei. Sì, certo. Ma in questa storia di mani la cosa più interessante da constatare è una sorta di confusione estrema dei pronomi personali: a forza d’indecisioni e d’imprecisioni volontarie, non si è mai completamente sicuri di sapere a quale “lui” questo o quello accade: i pony, le farfalle, l’esplosione dell’erba. Come se fosse una poesia di amore grammaticale. Lui (l’operaio) e lui (il padrone) sono in fondo ormai identici: hanno lo stesso pronome. Non c’è che un solo soggetto privo di differenza. Per via dell’indeterminazione grammaticale, l’immediata fraternità delle persone.
Luis Cernuda ricorre al medesimo stratagemma di livellamento sintattico. Siamo ancora nel 1930. In Spagna, i ribelli si organizzano per far cadere la Monarchia e instaurare la Repubblica. Cernuda si sente abbastanza investito dalla febbre generale, abbastanza desideroso di rivoluzione totale per osare di colpo scrivere Los Placeres prohibidos, osare dettagliare i piaceri (che gli sono) vietati. Scrive, drogato dalla speranza politica, dall’energia rivoluzionaria, e allora ricorre, almeno un poco, alla grammatica repubblicana. Cerca delle espressioni della nuova fratellanza. No decia palabras è il titolo di una delle poesie della raccolta, che vuol dire indifferentemente: non avevo parole / non c’erano parole. La poesia seguente: estaba tendido / ero disteso /era disteso. Ecc. Cernuda utilizza in abbondanza questa confusione comoda in spagnolo. All’imperfetto, la prima e la terza persona singolare sono identiche. Esperaba solo / aspettava da solo / aspettavo da solo. Di colpo, è una dichiarazione d’uguaglianza: iguales, iguales, iguales ripete tre volte in io lui non abbiamo più parole. E cosa rimane a un poeta senza parole? La risposta di Cernuda: lo stesso gioco, semplicemente, delle ombre fragili nella vecchia edera – lo stesso sollievo d’erba, di radure, di merli, di gabbiani, di fiori, presso cui viene a distendersi non altri che l’io-lui. La natura isolata e se possibile non imperfetta dove – con l’operaio ugualmente senza parole, ugualmente calpestato – baciarsi non è un problema.
La poesia L’Orecchiabile (un titolo italiano e la sua tribù di traduzioni francesi possibili: Le Facile à retenir, Le Mémorisable, L’air qui demeure dans l’oreille, Le Chantonnant, Persistance du chantonnement, ecc.) Pasolini, intorno al 1970, oppone in essa due ritmi poetici : da un lato, il “veloce e saltellante” che è il ritmo della borghesia, il ritmo della spesa veloce, noncurante, leggera, senza importanza, come il denaro jazz, di cui resterà sempre abbastanza e, dall’altro lato, il tempo della “melodia” fatta di cose assolutamente semplici, assolutamente a portata di tutti e naturali e gratuite: “Piova e vento, qualche fior bianco”, quindi ancora la natura come soluzione e che, ovviamente, è il solo bene poetico del popolo. Le melodie le cantano i popoli, le cantano da qualche parte, nelle stradine di Roma. Bè, forse: semplicità del mormorio naturale su delle labbra graffiate. Ma ancora più importante è l’impatto di questi due ritmi di classe sul cazzo dei poeti: il rapido e saltellante umilia il cazzo; la melodia, invece, è il luogo dove il cazzo “faceva morire di malinconia”. Di certo, la formulazione è un po’ misteriosa: chi è, di preciso, che muore? Chi ha il potere di uccidere il cazzo melodioso? E forse si tratta soltanto di leggere: io, per causa sua – lui e il suo viso e il suo canticchiare mentre lavora tranquillamente, teneramente, ma con le sue mani sporche d’olio per motori o di cera per le scarpe, e non potrei mai abitare le stesse sillabe del suo canto e venir pronunciato dallo stesso cruccio della sua voce, da cui una malinconia terrificante, suicidale, che mi provoca il cazzo desideroso, il mio. La poesia termina con questa frase ripetuta tre volte: il corpo è col popolo. Pasolini, con i suoi ritmi di classe, aggiunge un passo ulteriore all’intuizione di Malaparte: ogni decisione letteraria è, essa stessa, una decisione politica, e quindi transitivamente, una decisione erotica.
Costantino Cavafis, anche lui malinconico inveterato, amava utilizzare delle antiche parole ereditate dall’epoca ellenistica o dal greco bizantino, ma temeva che più nessuno, salvo lui, le comprendesse. Allora andava sulle banchine del porto d’Alessandria, dicono, e chiedeva agli scaricatori greci, greco-egiziani, se le capivano. E se i giovani sudati – la canicola, il peso delle casse, il vento insufficiente, gli ordini impietosi dei caposquadra: più veloce – la capivano, la parola era convalidata, poteva conservare il suo rango nella poesia. Immagino Cavafis che annota i sì e i no, e immagino lo sguardo esitante, le sopracciglia disegnate dei portuali che pensano: ancora questo pazzo! È una leggenda fondata? Non lo so. Cavafis non era comunista, e non lo sarebbe stato per tutto l’oro del mondo. Ma aveva bisogno dell’accordo del popolo e di commerciare con lui. Chiedere a dei volti grondanti di sudore di contrassegnare le sue parole era una soluzione, ma Cavafis non è idiota, di certo non era quella la soluzione migliore. Da borghese convinto, Cavafis trova che la migliore forma di commercio sia la prostituzione: non ha torto. All’opposto dell’idealista Lorca, che dice nella sua Ode di bere “con disgusto l’acqua della prostituzione”, Cavafis non ha mai un giudizio fuori posto sulla prostituzione. Egli sa molto bene che, in un angolo d’ombra della banchina, un tallero o due saranno più efficaci della più limata poesia – anche se con parole che puoi capire – per raggiungere la delicatezza della tue mani.
Christopher Isherwood sarebbe probabilmente d’accordo. A Berlino, all’inizio degli anni Trenta, andava a letto soprattutto con poveri che erano legione: prostitute occasionali, spazzini, il proletariato in stracci di allora – vedi l’autobiografia. Dice che si sentiva più a suo agio perché non andava a letto con qualcuno della sua stessa classe, del suo stesso paese, della sua stessa coscienza o morale. Grazie ai poveri si allontanava da se stesso e soprattutto dagli altri se stessi in lui, si liberava da tutti i giudizio e, per esempio, della voce tribunalesca di sua madre. In contropartita, con i soldi che dava loro, Christopher offriva ai suoi amanti indigenti un po’ più di agiatezza: dei giorni di carne, delle camice senza buchi e forse persino calde. Era un commercio, come dev’esserlo ogni buon commercio, a doppio senso come. Al frivolo egoista Isherwood questo bastava. Auden, che era innamorato e geloso di Christopher – e ciò lo giustifica ampiamente – lo criticò per la sua scarsa inclinazione ad offrire agli amanti qualcosa di diverso dal denaro: mettiamo un’educazione, una coscienza, una voce e, persino meglio, un altro mondo. Nel 1936, in Spain, Auden fornisce il suo personale credo. È vero che negherà questa poesia più tardi, ma poco importa, perché ciò è dovuto ad altre ragioni: di colpo Auden diventa baciapile. Spain è divisa in tre tempi secondo un messianismo amoroso del futuro: “Ieri, l’installazione delle dinamo e delle turbine / La costruzione delle ferrovie nei deserti coloniali”, ieri, quindi, l’edificazione del capitalismo. Oggi, la lotta dei poveri che rivendicano e reclamano: “…O, mostraci / Storia, l’operatore / L’organizzatore…” E Domani! Domani, l’organizzatore sarà presente, il poeta. “Domani, la riscoperta dell’amore romantico,” e questa strofa:
Domani per i giovani poeti che esplodono come bombe,
Le passeggiate al lago, le settimane di comunione perfetta;
Domani, le gare in bicicletta
Attraverso i sobborghi nelle sere estive. Ma oggi la lotta.[3]
È di Lorca o Crane o Pasolini o Cernuda, il sogno del poeta quale operatore del cambiamento, il poeta che si fa bomba positiva all’opposto di quelle devastatrici che piovono allora sulla Spagna. Pasolini anche, ad esempio, sognava di produrre bombe. Alla fine di una poesia tarda, dove si presenta come qualcuno in cerca d’impiego, lui, PPP, il poeta ormai senza vocazione ma ancora interamente dedito alla vita, si propone di produrre delle poesie su ordinazione, ossia, dice lui: “ordigni”, “anche esplosivi”. In queste bombe poetico-positive, che trasformeranno & faranno belle le cose, faranno saltare lo stesso paesaggio agreste, utopico, arcadico, lo stesso locus amoenus, di qualsiasi sogno elementare: laghi, nuotate, mani intrecciate, periferie che sono regno esclusivo degli operai, gridi d’uccelli, l’estrema dolcezza dell’erba, la tua sporcizia superiore questa sera, l’affanno in cima alle colline dopo gare virili in bicicletta, un grido come “ho vinto”, qualsiasi terreno di calcio, un grido come “coraggio, siamo quasi arrivati”, un abbellimento del reale provocato dall’ipotesi amorosa, una comunione consacrata alle nostre bocche.
(Certamente vi è una preistoria di questo sogno agreste. Mentre Karl Marx lavora per terminare Il Capitale, verso il 1870 Arthur Rimbaud ha le sue illuminazioni. Non credo che scriva una sola volta la parola comunismo, ma pronuncia così tante volte la parola speranza – la parola amore. Ma consacra righe su righe alla Democrazia e all’Unitevi. Tra le forme di questo amore ritroviamo il volto rivoluzionario della fraternità – “cuore mio, è certo, sono fratelli” è uno slogan di riconoscimento pieno di sollievo – e si ritrova anche la costante preoccupazione d’inventare un buon paesaggio per i lavoratori, un paesaggio di calore appropriato e di luce amichevole. Bonne pensée du matin (Buon pensiero del mattino), ad esempio, è un’aurora di schiuma e di mare costruita per loro, con spiagge previste per i loro corpi molto tempo prima delle vacanza pagate. Da un lato, dunque, loro che sono nell’“immenso cantiere” – loro: questi “Operai affascinanti”: O maiuscola e bellezza delle loro braccia in camicia –; dall’altro, il poeta che invia loro il suo pensiero buono, che augura loro l’indispensabile “acquavite”: lo scenario è simultaneamente di mare e di alcol, l’orizzonte insaziabile, il carburante della vita vivente. Ma il poeta, direttamente, non porta loro nulla, li guarda da lontano, li invidia e li desidera da lontano, e chiede a Venere di distribuire loro la bevanda magica. Vai Venere, vai ad incontrarli: abbandona i tuoi tradizionali “pastori” e preferisci per una volta gli operai. Egli delega il proprio potere a qualcuno più intrepido ed efficace. Così, mentre Marx esplora ancora l’equazione DMD’, il poeta s’ingrazia gli operai (almeno lo desidera) attraverso la promessa dell’amore e di una trasformazione paradisiaca del paesaggio. “In attesa del bagno in mare, a mezzogiorno”: così l’ultimo verso, così la molto banale promessa di rivoluzione felice a venire: Così fu anche la promessa di Lorca. Così è il sole rinfrescato sui nostri corpi accaldati.
La mano amica che Rimbaud tende e cerca dappertutto, quella che Hart Crane cura dolcemente, sotto i raggi intimi del sole, nella corte rumorosa della fabbrica, appare spesso nelle poesie di Walt Whitman: è vagante, la lascia vagare apposta, bisogna prenderla, raccoglierla, tenerla con sé, contro di sé. Sono io, dice lei, diventiamo nostra, diventiamo noi. Nella sezione 6 di A Song of Occupations, stavo per scrivere nel salmo 6, dove il poeta evangelico loda i mestieri del mondo, le occupazioni, dice: “i gusti popolari e i mestieri hanno la precedenza nelle poesie o ovunque”. Un o inclusivo: nelle poesie in particolare, e ovunque in generale. Nella gerarchia del mondo, ci sono prima di tutto i mestieri delle persone e la poesia non può (non può e non vuole) non esserne testimone. E, alla fine del medesimo salmo, ecco il suo programma politico-religioso: ho l’intenzione di tendere loro la mano. Walt Whitman indubbiamente appartiene a questa preistoria che cerca di fare dell’invenzione del desiderio per gli operai, dell’amore per la loro barba nascente, della mano nella mano che abbiamo con loro, un operatore di eguaglianza nella poesia e nella società.)
Dunque: bisogna lavorare a trasformare linguisticamente il mondo di coloro che si desiderano o pagarsi delle puttane, e modificare economicamente delle vite, le loro vite, anche se marginalmente: pare che sia una questione centrale della poesia. Forse la sola questione davvero poetica. Jack Spicer, molto spesso, tenta di risolvere la questione ponendo un’uguaglianza, un’identità. Ama chiamare “puttane” le sue poesie. L’attività linguistica per Spicer potrebbe essere anche un’attività monetaria. In una lettera postuma a Lorca, a Lorca defunto intendo dire, a Lorca che non è più che un vento d’acacia in bocca, Spicer suggerisce che le cose nella poesia – le cose liriche della poesia, i gabbiani, il vigore dell’oceano, il pesce – non sono in definitiva che degli oggetti di scambio, “moneta piuttosto che oggetti”. Da scambiare con: sorrisi, rumori di conversazione, gambe intrecciate nei bar notturni di North Beach, San Fracisco, là dove lui vive. Nell’economia di Spicer, le poesie sono quindi una moneta di scambio: producono soldi o conversazione. Spicer animava dei concorsi di poesia orale nei bar dove passava le serate e tutti – tutti coloro venivano chiamati con il pronome “il” – potevano venire e inventare live. A cosa serviva questo? A portare clienti e a reinventare una città. In Un manuale di poesia dice che il suo obiettivo è di creare una città, o piuttosto una città-stato, qualcosa di più di una semplice città, una città organizzata politicamente, con le nostre conversazioni, e che è dovere della poesia di raccoglierle queste conversazioni. Spicer certamente aveva letto Marx come è provato dai suoi Tre saggi marxisti, tre saggi di qualche verso. Nel primo, intitolato “Omosessualità e marxismo”, Spicer arriva alla conclusione seguente: “Se noi lasciamo fiorire il nostro amore in un’autentica rivoluzione, noi rimarremo sepolti dall’offerta di letti.” Offer for beds: c’è un’offerta e una domanda – la domanda è la poesia: i poeti sono quelli che reclamano, che ti & vi reclamano con grande strepito, la poesia è solamente e interamente domanda. L’offerta verrà dalla rivoluzione.
Si trova sull’altra costa degli Stati Uniti. Si chiama Frank O’Hara ed è il contemporaneo quasi perfetto di Spicer, gli stessi paraggi di nascita e morte. Nel suo manifesto Personism – che è il solo a firmare – ma uno=tutti – ricorda per prima cosa un punto di definizione essenziale: lo scopo di qualunque poesia è di scopare. Cosa che conferma subito Spicer, sull’altra costa, nella temperatura costante di San Francisco, mormorando alla musa maliziosa della poesia: “Parla finché vuoi, mio cuore, ma dopo filiamo a letto.” Lo ripetono infatti tutti i poeti, e già Ovidio non faceva che ripeterlo, perché si tratta di una verità di fondo, o perché è il punto di partenza di qualsiasi poesia. Poi O’Hara tratta degli identificatori formali del personismo, di come si scrive in stile personista e di come si diventa membri del movimento, e spiega: “Per quel che riguarda la taglia e altre questioni tecniche, è sufficiente il senso comune: se si comprano dei pantaloni, si vuole che siano abbastanza aderenti perché tutti abbiano voglia di venire a letto con noi.” È chiaro: comune e tutti quanti e andare a letto: la poesia tende al dono di sé, del proprio corpo, a tutti gli altri. È prostituzione in un’accezione ampia del termine. La poesia ha per vocazione di essere tra due persone, piuttosto che tra due pagine. È una prostituzione. Che differenza, allora, con Spicer? “Del tutto modestamente, confesso che ciò potrebbe essere la fine della letteratura così come la conosciamo.” E altrove, in una delle sue Odi: “l’unica verità è faccia a faccia, la poesia le cui parole diventano la tua bocca.” Frank O’Hara è senza dubbio più incline a rinunciare alla poesia che il suo contemporaneo Spicer. Va fino all’idea estrema che una poesia si realizza in un “ah sei tu!”, qualsiasi tu ovviamente, tonnellate di tu. Il personismo si realizza quando non c’è più bisogno di scrivere. È accaduto, si è finiti a letto assieme. Il mondo è davvero cambiato.
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[1] peuple pédé poème è il titolo originale del saggio incluso in La cité de paroles, éditions Corti, 2018. La versione italiana, più corta di quella in volume, è apparsa per la prima volta in “Nuovi argomenti”, nel dicembre del 2014. E poi in versione completa in “L’Ulisse”, numero 22 – Ottobre 2019: Lirica & Società / Poesia & Politica.
[2] Hart Crane, Episode of Hands: The unexpected interest made him flush./Suddenly he seemed to forget the pain,-/ Consented,-and held out/One finger from the others.//The gash was bleeding, and a shaft of sun/That glittered in and out among the wheels,/Fell lightly, warmly, down into the wound.//And as the fingers of the factory owner’s son,/That knew a grip for books and tennis/As well as one for iron and leather,-/As his taut, spare fingers wound the gauze/Around the thick bed of the wound,/His own hands seemed to him/Like wings of butterflies/Flickering in the sunlight over summer fields.//The knots and notches,- many in the wide/Deep hand that lay in his,-seemed beautiful./They were like the marks of wild ponies’ play,-/Bunches of new green breaking a hard turf. //And factory sounds and factory thoughts/Were banished from him by that larger, quieter hand/That lay in his with the sun upon it/And as the bandage knot was tightened/The two men smiled into each other’s eyes. Traduzione italiana mia [Nota del traduttore].
[3] Wystan Hugh Auden, Spain: (…)//To-morrow for the young the poets exploding like bombs,/The walks by the lake, the weeks of perfect communion;/To-morrow the bicycle races/Through the suburbs on summer evenings. But to-day the struggle.// Traduzione mia. (Nota del traduttore)
