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La stabilità del caos

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di Giacomo Verri

(Un estratto dal nuovo romanzo di Giacomo Verri)

Due alunne di Arturo hanno cercato il loro palpito di notorietà. “Che c’è?” chiede Àlice. “Una cosa. Me l’hanno data a scuola. Ambra e Barbara, dai, quelle che si fanno interrogare lo stesso giorno, sempre insieme”. “E allora?”. “Dicono che hanno fatto un video, lo devo vedere assolutamente. Volevano lo esaminassi con loro, alla fine delle lezioni, ma io…”. “Cosa ne pensi?”.

Il nuovo numero del Semicerchio dedicato a “Poesia del lavoro”

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semicerchio

È da poco disponibile l’ultima, doppia uscita della rivista di poesia comparata Semicerchio, dedicata al tema “Poesia del lavoro”.

La sezione della testata riservata all’Italia, curata da Fabio Zinelli, include un’antologia di 29 poeti chiamati a mandare un loro testo sull’argomento.

L’indice e la prefazione del numero sono leggibili a questo link.

Per chi fosse interessato, una prossima presentazione della monografia – con interventi critici di Niccolò Scaffai, Andrea Sirotti, Fabio Zinelli e Paolo Zublena, e letture poetiche di Franco Buffoni, Giancarlo Majorino, Edoardo Zuccato e Alessandro Broggi – si terrà a Milano giovedì 17 aprile alle ore 18.0o presso la Libreria Popolare di via Tadino 18.

 

Da “Una lunghissima rincorsa”

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Una lunghissima rincorsa - Cover 1   di Jacopo Ramonda
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L’APPARTAMENTO (cut-up n. 155)
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Quando ne notava una la estirpava, ma di solito si riformava rapidamente, in un altro punto dell’appartamento. Una lotta impari. Ricrescevano come erbacce. Erano ragnatele sottili e perfette, costruite ad alta quota, agli angoli del soffitto. Vibravano per correnti d’aria quasi impercettibili. Come reti, trattenevano la polvere e alcuni dei pensieri sospinti dal calore verso gli strati più alti e rarefatti dell’atmosfera interna alla casa. Da terra erano visibili soltanto in particolari condizioni di luce, quindi piuttosto difficili da individuare durante le pulizie. Talvolta, prima di rimuoverle, Nina ne ammirava la perfezione. Per ragioni imperscrutabili, le sembravano opere incompiute: l’ossatura trasparente di un progetto più ambizioso.

L’arrivo dell’Uomo

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di Marisa Fasanella

(Le prime pagine di Nina, il romanzo di Marisa Fasanella pubblicato da Editori Internazionali Riuniti, 2014)

nina

L’Uomo arrivò alla città dei due fiumi con la cremagliera delle diciassette e quaranta. I barellieri, quando scese dal treno, si portavano via i restituiti dal fronte sulle lettighe, tra i batticuori patriottici dei soldati, una folla oceanica, e il grido solitario di qualche anarchico irriducibile. Camminava indietro rispetto agli altri e nessuno avrebbe scommesso un pidocchio sui suoi gradi. Indossava una camicia pulita, un cappello di paglia, e aveva l’aria di un viaggiatore qualsiasi. Il suo passo zoppo, in contrasto con la fermezza dello sguardo, finiva col diventare un dettaglio di poco conto. Era più alto della media e sembrava possedere nelle braccia la forza che gli mancava nelle gambe. Attraversò la stazione e seguì i barellieri all’istituto chirurgico, dove era stata allestita una sala operatoria per i feriti più urgenti. Quando si presentò al distretto e dichiarò di essere l’ufficiale medico che aspettavano, il Superiore della compagnia lo guardò serio come un morto e concluse che aveva poco del soldato. Gli assegnò un letto in una camerata grande come una piazza e un cesso in comune, in uno dei convitti requisiti e trasformati in alloggi per un migliaio di soldati afflitti dalla blenorragia dalla diarrea e dalle cimici che per motivi di disciplina e di strategie militari, ignote alle truppe, stazionavano nella città.

Si portava dietro una valigia con la biancheria e due vestiti, pesante e leggero, il baule dove erano custoditi i libri, le lettere di sua madre e i ritratti di famiglia, un sacchetto di cuoio con la sabbia del deserto e delle vecchie pianelle di almeno tre numeri più piccole.

Il Superiore lo ragguagliò sui comportamenti che un ufficiale era tenuto a osservare, soprattutto in tempi di guerra e in una città che si era mostrata sin da subito ostile. “Un buon soldato gira armato, indossa l’uniforme e si presenta al comandante del distretto” gli disse. “Non si lasci abbindolare dalla folla che ha visto alla stazione, ci caccerebbero via a pedate, se potessero”.

L’Uomo gli rispose che amputare arti e sbrogliare viscere mal si adattavano alla costipazione di una divisa e in quanto ai rivoltosi, se avessero deciso di tendergli un’imboscata, di sicuro non li avrebbe fermati una giubba con le stelle appuntate sul bavero. Si sarebbe cercato un alloggio e avrebbe denunciato le miserevoli condizioni di vita dei soldati: in quell’ambiente ce n’era abbastanza per un’epidemia di colera, con tutti quei germi che galleggiavano nei cessi, i pidocchi e le divise lerce.

Il Superiore, quand’era fresco di studi, aveva partorito egli stesso un seme di rivolta, e sapeva come domarlo. “Accetterà come tutti gli altri quello che non potrà cambiare” gli disse, e lo lasciò al suo periplo.

L’Uomo si affacciò alla balaustra del balcone e lo seguì con lo sguardo nella piazza, dove si scaricavano discese e gradinate come lavine e le donne richiamavano dalla strada i figli svogliati e magri come chiodi e le porte delle botteghe si richiudevano sulla mercanzia. Gli mancò il letto della sposa bambina, morta il giorno dopo le nozze per il morso di una scarpa che le piagò il calcagno e nessuno curò a causa dei ricevimenti che prima della cerimonia nuziale erano andati avanti per giorni fino all’alba.

Gli venne in mente la biblioteca di suo padre e le cosce umide delle serve che lo avevano liberato dal piacere solitario. Un esercito disfatto invase l’edificio come uno sciame d’api e si riversò nelle camere in silenzio sui materassi fradici di sudori raffermi senza spogliarsi.

La caffetteria alle spalle della chiesa madre serviva ancora un goccio di rosolio e un caffè allungato agli ultimi clienti della notte: redattori e copisti che aspettavano la pagina del giornale ancora in stampa e commentavano le notizie. L’Uomo ordinò una tazza di acqua bollente dove sciolse una punta di tè, poi accese un mezzo sigaro e ascoltò i loro discorsi. Discutevano della necessità di chiudere le porte ai mendicanti, venivano dai paesi vicini e si azzuffavano agli angoli delle strade invocando il domicilio di soccorso.

Il proprietario del caffè si avvicinò al suo tavolo per dirgli che non avrebbe servito altro e l’Uomo gli chiese dove poter trovare un alloggio. “Ne ho necessità” aggiunse.

“E tu a me lo vieni a chiedere? Dopo che le autorità si sono accollate il peso di alloggiarvi persino nelle scuole e pure nei convitti, e gli studenti non trovano ricetto e finiscono nei ricoveri delle puttane pronte a sverginarli per pochi spiccioli”.

“Sono un medico” affermò.

“Ma pure un soldato”.

[…]

Aveva scelto quel mestiere per obbligo verso il barone suo padre, militare di carriera prima di lui e dopo suo nonno, e lo aveva umanizzato con gli studi di medicina. Leggeva Marx con la complicità di sua madre, suonava Strauss e amava la poesia. Unico figlio maschio, nato dopo cinque femmine, era cresciuto tra le sottane delle donne, ma aveva anche camminato scalzo e si era sporcato di fango con i figli dei coloni, conosceva i sudori acidi della terra rivoltata di fresco, le braccia nerborute doloranti per il peso delle vanghe che scavavano buche profonde come pignatte. Il barone suo padre, quando era tornato a riprendersi la proprietà e si era messo a complottare con i braccianti riformisti, lo aveva esiliato in un convitto riservato ai figli dei militari, dove forgiavano i futuri allievi delle accademie, e l’obbedienza alle regole era diventata il suo rosario quotidiano, una violenza che era riuscito ad arginare con i libri e la scrittura. Leggeva alla luce di mozziconi di candele e scriveva lunghe lettere alla madre. Il suo futuro era stato già deciso, e il giorno che era tornato a chiedere il permesso di studiare medicina, il barone aveva ceduto solo dopo la promessa di dismettere gli abiti civili e di non avanzare pretese sul patrimonio di famiglia.

La moglie bambina l’aveva conosciuta durante una delle sue brevi visite alla famiglia, era la figlia del guardacaccia e abitava in uno degli alloggi della servitù. D’estate quelle casette diventa vano un forno e le donne cercavano sollievo dalla calura nei corsi d’acqua annegandoci con tutte le sottane. Durante l’inverno sbattevano i denti anche col fuoco acceso. L’Uomo l’aveva vista la prima volta curva sotto un fascio di legni secchi, un metro e una noce di ossa e pelle bianca ammantata di capelli corvini, e aveva deciso di sollevarla da quei pesi.

L’annuncio del suo matrimonio aveva colpito il barone come una frustata, sradicò l’albero più bello del giardino, una magnolia di duecento anni che aveva abdicato alla vecchiaia e partoriva ancora fiori candidi e profumati, e al suo posto piantò sette cactus. Gli disse che non gli sarebbe bastato il gineceo di un sultano per sollevare dalla povertà le donne bambine che si prostituivano ai lati delle strade, o che morivano di stenti nei sobborghi della città: “Lì c’era la vera miseria, non qui, dove il medico viene a visitarle e hanno pane a sufficienza”.

Il matrimonio fu celebrato nella cappella della residenza, ma il barone non si presentò. C’erano circa duecento invitati tra nobili e meno nobili, e una folla di poveri che si accalcò già dalle prime ore del mattino sul piazzale antistante il palazzo per godersi la rappresentazione di una favola destinata all’eternità. La moglie bambina durò un solo giorno. I suoi piedi si erano dilatati nelle pianelle che le costruiva il padre con cuoio riciclato e senza nervature. Quando glieli chiusero nelle scarpe di pelle nuova di capretto non riusciva a muoverli e camminava sulle punte, provvisoria come una foglia secca. Il calcagno si coprì di pustole purulente e provò un dolore più forte della povertà, ma non trovò il coraggio di lamentarsi e la sepsi se la portò via prima dell’alba. C’erano già i fiori bianchi del matrimonio e i confetti che le serve avevano raccolto dai gradoni della chiesa, e l’accompagnarono al camposanto ancora vergine.

La seppellirono nella tomba di famiglia, e il titolo di nobildonna consolò il guardacaccia, che ritornò a mangiare zuppa di cicoria annegata di lacrime, a cacciare lepri e fagiani per il padrone e a sorvegliare i limiti della proprietà altrui. Il barone, per ingraziarsi i coloni, dispose che le venissero resi gli onori riservati alle persone di famiglia, listò a nero il portone e ordinò al prete le messe perpetue per salvarle l’anima, ma il corteo funebre si disperse come un nugolo di vespe quando apparve dietro il feretro.

Da “Sibber”

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Cover.Sibber.per.11.04.14.wn di Walter Nardon

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            Questa non è una storia come tutte le altre. Non lo è perché io mi butto via ogni giorno e la storia l’ho cominciata proprio adesso. Quindi, almeno questo lo posso assicurare. Mi butto via in modo sistematico, un po’ alla volta. Apro il giornale, guardo le immagini, i titoli, il taglio della pagina, l’insieme come un’unica immagine. Mi alzo, mi muovo per la stanza: passo molte ore alla finestra. E andrei avanti sempre così, se fossi coerente, se solo ogni tanto non mi facessi prendere la mano dallo studio, che è rimasto la mia ultima risorsa.

Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin

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sibilla

di Nicola Fanizza

Il libro di Federico La Sala – Della Terra, il brillante colore, Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni nuove scritture, Milano 2013 – si configura come un viaggio nei sotterranei della cultura occidentale. Il protagonista del viaggio è il classico flâneur, che ha la straordinaria capacità di cogliere nell’opacità delle immagini del passato la luce che rende visibile le «perle» e i «coralli»: ossia tutto ciò che, sottraendosi al morso del tempo, è destinato all’eternità!

Nella prima parte del suo lavoro, La Sala adopera una sorta di «scandaglio archeologico» per ricostruire la preistoria del presente: ossia la genealogia dei concetti che strutturano tutt’oggi il nostro modo di pensare e di stare nel mondo. Si tratta di una ricostruzione che, pur comportando il rifiuto sistematico della ricerca, non rinuncia tuttavia alla contestualizzazione dei saperi in gioco. L’origine dei modelli del pensiero, infatti, non viene individuata tanto nella tradizionale storia della filosofia, quanto nella storia delle istituzioni totali: ovvero nella dimensione del Sacro, che con i miti e le pratiche rituali permette – ieri come oggi – la comunicazione fra gli individui e dà un senso alla nostra stessa vita.

Il «luogo d’inizio» è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine, a Contursi Terme. Qui nel 1989 – in seguito ai lavori di restauro approntati dopo il terremoto del 1980 –, è stato scoperto un poema pittorico di un ignoto carmelitano degli inizi del XVII secolo. La pittura è espressione dell’immaginario rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana – Prisca Theologia – in sequenza col Cristianesimo. Il poema pittorico di Contursi descrive il viaggio iniziatico di un pellegrino che, accompagnato da dodici Sibille e dodici Profeti, giunge alla presenza di Maria madre del Cristo. Le Sibille di Contursi vantano parentele illustri: sono presenti nella cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel tempio Malatestiano di Rimini e, infine, nella Cappella Sistina di Michelangelo.

Il rapporto di filiazione fra la teologia cristiana e quella pagana – la tesi che la storia del Cristianesimo cominciava prima di Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane – non fu instillato nel movimento umanistico sulla scorta di un semplice fraintendimento: ossia la pubblicazione da parte di Gemisto Pletone degli Oracoli caldaici – risalenti al II secolo dopo Cristo – come scritti precristiani. L’Umanesimo più che recuperare il Mondo Classico nei fatti valorizza la cultura della Tarda Antichità. Non vengono recuperati Platone o Aristotele, ma Plotino, gli Oracoli caldaici, gli Scritti ermetici e gli Scritti degli antichi Teosofi che risalgono per l’appunto al II secolo. La stessa cosa si può dire del movimento nazional socialista. Georges Dumezil ha dimostrato che i nazisti pensavano di ridare vita alle divinità degli antichi Germani mentre di fatto riciclavano materiali mitici risalenti all’età medievale. Tuttavia ciò che ci fa decidere rispetto a un movimento non è tanto il recupero più o meno selettivo di un passato mitizzato – ogni movimento rielabora il materiale mitico della tradizione (il mito è nella sua essenza un portatore di senso nei confronti del presente e, insieme, del passato!) –. Ciò che ci fa decidere sono i nuovi contenuti, ovvero la rivendicazione o negazione di forme di sociabilità più giuste e più libere, di nuove pratiche di liberazione e di nuovi percorsi di conoscenza. Su questo piano, a più di cinquecento anni di distanza, va riconosciuto il valore profetico della cultura del Rinascimento: è un’onda lunga che mantiene intatta la sua pregnanza di significato e il suo vigore!

E’ da questo ultimo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico di La Sala, che scorge una evidente analogia fra il ruolo svolto dalle Sibille nelle pratiche cultuali della religione pagana e la funzione che le «figlie del Sole» svolgono nel poema di Parmenide. Anche qui il viaggio-rivelazione del prescelto è tracciato dalle dee-fanciulle, sono le donne a consentire il transito nei riti di passaggio.

La funzione della donna come viatico del transito nei riti di passaggio pervade l’intero immaginario ellenico. Qui erano presenti due diverse rappresentazioni della vita. Il fantasma della zōé indicava la vita che non contemplava la morte: ossia la vita come specie, la vita infinta, priva di determinazioni, senza accidenti. Viceversa il fantasma della bios indicava la vita che contempla la morte: ovvero la vita che ha un inizio e una fine, la vita determinata con i suoi accidenti. Ebbene nella religione dionisiaca la zōé la vita indistruttibile! assume la forma maschile, la genesi delle anime assume, invece, quella femminile. Dioniso e Arianna stanno a indicare – dice Carl Kerenyi –, rispettivamente, l’eterno insorgere e trascorrere della zōé nella nascita e nei diversi stadi della vita. Il ruolo di Arianna non venne, tuttavia, compreso da Nietzsche, il quale negli ultimi anni della sua vita si chiedeva in modo ossessivo: «Chi è Arianna?».

Sta di fatto che il venire alla luce del «soggetto» nel mondo ellenico – un soggetto che si costituisce attraverso il discorso profetico, del saggio, del tecnico e del parresiates – si configura come un’emergenza che riguarda solo gli uomini e giammai le donne. Di fatto la Pizia nell’antica Grecia e le Sibille nel mondo latino sono solo il ventriloquo – un corpo senz’anima! – di cui si servono le diverse divinità per veicolare le loro oscure profezie!

Viceversa nell’immaginario rinascimentale le Sibille assumono, sulla base della rivendicazione dell’uguaglianza fra l’uomo e la donna, l’inedito profilo di avanguardie femminili. Di fatto, nelle immagini cultuali che costellano le chiese rinascimentali, le donne vengono rappresentate per la prima volta come soggette sovrane – le donne rappresentate da Michelangelo sono, per la prima volta, pensose! –, poiché svolgono, allo stesso modo dei Profeti, una funzione messianica. La cifra del Rinascimento, pertanto, va individuata proprio nella parola che sta a evocare, per l’appunto, la Rinascenza del soggetto!

Nonostante la spinta propulsiva della cultura rinascimentale, nei secoli successivi la donna non è tuttavia riuscita a farsi riconoscere come soggetto autonomo della comunicazione, come soggetto che dice il vero.

La storia di questo disconoscimento è costellata dalle tante sofferenze che le donne hanno subito nel corso dei secoli e dalle tante lacrime amare che tutt’oggi versano. Una sofferenza che suscita nell’animo nobile un sentimento di pietà che va comunque custodito attraverso i secoli. Non è inutile qui ricordare: la filosofa e scienziata Ipazia – la prima martire del libero pensiero! –, che nel 415, in Egitto, fu trucidata dagli fondamentalisti cristiani per aver rivendicato il diritto di costituirsi come soggetto che dice il vero; la persecuzione delle Streghe, che ebbe luogo non nel Medioevo ma in Età Moderna e, fra i giudici che le condannavano, Jean Bodin, l’«Aristotele del Rinascimento!»; le disposizioni del regime fascista che vietavano alle donne l’insegnamento della filosofia nelle nostre scuole; e, infine, la negazione dei diritti civili e, insieme, politici delle donne nei Paesi islamici. D’altra parte, va rilevato che fino alla Grande guerra le donne avevano il diritto di voto soltanto in quattro Paesi – Nuova Zelanda, Norvegia, Australia e Finlandia –; in Italia l’hanno ottenuto nel 1946 e in Svizzera solo nel 1974.

Nella seconda parte del suo lavoro, La Sala ritiene che sia auspicabile mettersi alle spalle le forme di sociabilità edipiche che fino ad ora hanno precluso alla maggior parte degli individui – non solo alle donne! – l’accesso alla sovranità: ossia il diritto di costituirsi come soggetti autonomi, il diritto di prendere la parola. Sostiene, inoltre, che le dinamiche relazionali che inibiscono l’autonomia delle donne – dinamiche che signoreggiano tutt’oggi nell’immaginario del modo occidentale – sono riconducibili da una parte all’alleanza tra la madre e il figlio – il mito di Edipo! – che ritroviamo nel mondo ellenico; e, dall’altra, all’alleanza fra il padre e il figlio – Il Vecchio Testamento! – che ritroviamo, invece, nel mondo ebraico.

La liberazione  è possibile – dice La Sala – solo se usciamo dall’orizzonte teorico che la tradizione dei nostri padri ci ha trasmesso. Le forme della narrazione, della politica, della retorica, della dialettica, insieme all’esiziale corredo di scissioni (anima e corpo, la ragione e i sensi, ecc.) – tutte invenzioni del genio Mediterraneo – sono state adoperate per troppo tempo e, sempre più, appaiono logore. D’altra parte, i miti e i riti del mondo ellenico, ormai, sono diventati letteratura, ossia oggetto di semplice godimento estetico – non sono portatori di senso! – e, a volte, autentici detriti!

Rousseau, Kant, Feuerbach, Marx e Nietzsche – ciascuno per suo conto e con diverse modalità di pensiero – hanno rivendicato l’esigenza di mediare fra le diverse scissioni. Ciò nondimeno non sono riusciti a produrre un paradigma radicalmente nuovo, poiché hanno continuato a pensare con le categorie del mondo ellenico.

Da qui l’esigenza di pervenire a nuova Rivoluzione copernicana, che è possibile solo attraverso una nuova percezione dello spazio. In questo senso La Sala ci invita ad uscire dalla Terra per collocarci alla giusta distanza. La spazializzazione del soggetto con la sua giusta dose di trascendenza ci permetterà finalmente di vedere la Terra con il suo brillante colore come la Nostra Terra. Nondimeno La Sala è altresì consapevole che un nuovo ordine simbolico del mondo è possibile solo attraverso lo sviluppo dello spazio sociale.

Nell’attesa che ci sia una ripresa dell’effervescenza sociale e, insieme, una rifioritura dei movimenti di liberazione, il flâneur può cogliere già da ora in alcune forme di sociabilità disseminate sull’esergo del sistema la luce di una nuova bellezza, lo splendore che emerge dalle pratiche sociali in cui tutti gli individui signoreggiano come soggetti autonomi della comunicazione

Arco rovescio

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Venerdì 11 aprile 2014, ore 21.00

Libreria Popolare
via Tadino 18, Milano

 Presentazione di:

Arco rovescio
di Giulio Marzaioli

arco rovescio 

Benway Series 5

(Tielleci, 2014)

Interventi di:
Paolo Giovannetti
Antonio Loreto
Paolo Zublena

Coordina:
Alessandro Broggi

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da http://puntocritico.eu/?p=6173

Possiamo guardare questo testo partendo da qualsiasi pagina. Il tempo di lettura è il suo residuo materiale.
B. Antomarini

Si tratta dell’installazione di uno spazio concettuale il cui perimetro deve essere continuamente ricostituito a partire da una serie di indizi.
T. Iaria

 –

‘Arco rovescio’ si può leggere, forse, quale tentativo di infrazione di un tabù.
M. Manganelli

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Benway Series

web site benwayseries.wordpress.com
info benwayseries@gmail.com
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Ich bin ein Berlinguer – vɛltr.onˌʃaʊ.ʊŋ

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alinari6 Nota sul film “Quando c’era Berlinguer” di W Veltroni

di Francesco Forlani

Two, three, four, eins, zwei, drei
Es is nichts dabei
Wenn ich euch erzaehle die Geschichte

Due, tre, quattro, uno, due, tre.
Non succede niente se ti racconto la storia,
niente di particolare.

Der Kommissar – Falco

Venerdì 4 aprile sono andato al cinema, al Massimo di Torino, per vedere l’opera che W Veltroni ha dedicato alla figura di Berlinguer nel trentennale della sua scomparsa.

Mi aspettavo e in un certo qual senso speravo di vedere i compagni. Non gli intellettuali, del resto presenti simbolicamente al banchetto che era fuori, per la raccolta firme l’altra Europa con Tsipras, il partito dei pochi eletti, ma i compagni operai che mi è già capitato di incontrare in occasioni simili e che, come ogni volta che vedo La Cosa , mi emozionano; mi commuove, la cosa, perché all’astrattezza dell’ideologia della giustizia sociale, del per cosa lottare, si manifesta in modo tangibile quel per chi.
Di compagni ce n’erano pochi, spettatori tanti, però, e quando nel dibattito finale, in presenza del regista, alcuni di loro hanno preso la parola, sembrava di essere a una seduta di comunisti anonimi. “Quando c’era Berlinguer” si traduce quasi immediatamente in “quando c’erano i comunisti” che nemmeno troppo velatamente si declina in un “Quando eravamo comunisti” e mai, nemmeno in una citazione di sfuggita, negata, subliminale, in perché.
Il successo del film di W Veltroni non è inspiegabile e non meraviglia nemmeno più di tanto che a scatenare un certo entusiasmo sia il nulla.Il Radical Kitsch amministra con mani esperte di pusher la dose minima di memoria storica permettendo all’oblio, al grande Oblio di fare passi da gigante nel General Intellect ormai degradato a caporale e di disertare ogni tipo di conflitto che rischi di non mettere d’accordo tutti.

Prima di capire meglio, però, che cosa accade con questo tipo di narrazione in linea con il nuovo Istituto Luce della Repubblica di Salòt di cui abbiamo raccontato qui e , vi propongo un piccolo test rivolto a quanti lo abbiano già visto il film di W Veltroni. Cherchez l’erreur.

Qui la puntata de “la Storia siamo noi” dedicata a Berlinguer
https://www.youtube.com/watch?v=t1gpHcQYQX8
e qui il trailer, per dare un’idea a quanti non lo abbiano ancora visto, del docufilm di W Veltroni.

A parte le interviste in apertura ai giovani ignari di Berlinguer, veloci, contemporanee, girate infatti dai ragazzi di una scuola di cinematografìa, il footage , ovvero recupero e rimontaggio di filmati precedenti, seppure asservito ad una forma di racconto diaristico e personale, sembra ottenere come risultato finale, ma nemmeno fino in fondo, quanto Léger asseriva in questi casi : « [E]mployer des chutes de film quelconque — sans choisir — au hasard.» Caso anagramma di cosa; ma cosa succede quando abbandonata la memoria W Veltroni imbraccia la camera? Il vuoto.
Non solo nella fase di montaggio quando si massacrano con didascalici e fastidiosi ronzii di sottofondo episodi che nella versione integrale, reperibili in rete, basterebbero a dare un senso a tutto, su tutti l’ultimo comizio di Berlinguer, ma anche in quella di creazione, di ripresa, quando come spiegherà il regista alla fine del film, non c’è anima viva nei luoghi chiave della vita del leader comunista; e la scena filmata dall’alto e dal basso, della piazza vuota con degli A3 svolazzanti sull’erba a centinaia delle prime pagine dell’Unità è da brividi.(da grande freddo)
Cut-up, fotocopie, remake fonici, esattamente quanto accade nel rapporto tra l’opera d’arte, la vita di Berlinguer oserei dire, e il kitsch, la visione del regista. In questo senso, come annunciato dal titolo parlerei di vɛltr.onˌʃaʊ.ʊŋ ovvero Weltanschauung veltroniana. E lo farei con chi più di chiunque altro aveva raccolto nel linguaggio cinematografico la grande lezione dadaista: Guy Debord.
« Le spectacle ne peut être compris comme l’abus d’un monde de la vision, le produit des techniques de diffusion massive des images. Il est bien plutôt une Weltanschauung devenue effective, matériellement traduite. C’est une vision du monde qui s’est objectivée.»
«Lo spettacolo non può essere interpretato come abuso del mondo visione, prodotto delle tecniche di diffusione di massa delle immagini: è piuttosto una Weltanshauung divenuta effettiva, tradotta materialmente: una visione del mondo oggettivata ».
Ecco allora i tentativi maldestri di W Veltroni di addomesticare l’immagine e i testimoni a una sorta di propaganda Pop and Corn, in cui ex brigatisti e cantanti di successo ci regalano testimonianze memorabili della cosa, ancora lei, spacciandola come storia. Una storia, quella del PCI secondo W Veltroni che non ci rivela come e perché l’Italia sia il solo paese europeo ad avere avuto il più grande partito comunista in un tempo e nessun partito socialista immediatamente dopo, sul modello degli altri paesi. Una storia, quella degli anni settanta, secondo W Veltroni, che elimina, scarta, rimuove tutto quanto succedeva oltre il brigatismo, il compromesso storico, Diccì, Piccì, e che coinvolgeva migliaia di giovani a cui le maglie dell’ideologia, molto prima della caduta del Muro di Berlino, andavano strette. Sergio Atzeni, una delle voci più autentiche di quella generazione la riassumeva, infatti, così:
« Radio Sirena Libera Informazione, riunione plenaria del lunedì mattina, si progetta la settimana, Ruggero si difende dall’accusa di mandare troppa musica e poca informazione nel pomeriggio del sabato, «lo sai che gliene frega a quelli che il sabato pomeriggio si sdraiano in veranda con l’anguria, il ghiaccio, la birra e l’amica di sentire il deputato tale intervistato per mezzora e dice trenta volte che ha ragione Berlinguer? Vabbene. Ha ragione Berlinguer. Basta un minuto e mezzo per le precauzioni d’uso. Vuoi mettere con la musica afrocubana?»
Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio
Allora W Veltroni o Viva Berlinguer? Viva Berlinguer, direi, a questo punto. Ma non applauditemi come quando si applaude il pilota all’atterraggio.

video arte #29 – nicolas provost

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nicolas provost

Nicolas Provost, Illumination (estratto), 2014.

Nicolas Provost, Tokyo Giants (estratto), 2012.

Nicolas Provost, Stardust (estratto), 2010.

Nicolas Provost, Plot Point (estratto), 2007.

Nicolas Provost, Gravity (estratto), 2007.

Nicolas Provost, Induction, 2006.

Via dalla pazza morte

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di Mario Sammarone

Gilles Dostaler, Bernard Maris
Capitalismo e pulsione di morte
ed. La Lepre, 2010

capitalismoNon tutti gli dei antichi sono stati rimossi dal mondo degli uomini. Segretamente, alcuni di loro operano ancora presso di noi e congiurano con le loro arti oscure, reggendo le sorti dell’odierna esistenza. La loro arma inattesa le strutture psicologiche dell’impulso di vita (Eros) e di morte (Thanatos), che sorprendentemente si trovano alla base della forma economica oggi dominante, il capitalismo.

Appello per la liberazione dei corpi e del dissenso politico

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( Pubblico e con ciò personalmente aderisco a questo appello apparso su http://quaderni.sanprecario.info/2014/04/appello-per-la-liberazione-dei-corpi-e-del-dissenso-politico/, g.m.)

 

 

Proponiamo all’attenzione di tutte/i questo appello firmato da alcuni intellettuali e attivisti europei e non solo per denunciare il clima di crescente intimidazione e repressione presente in Italia e in Europa.

Clamoroso è il caso della lotta in Val di Susa, dove attualmente quattro giovani sono sottoposti a un regime carcerario di isolamento, accusati di “terrorismo”, e 54 persone si trovano sotto processo per aver manifestato, in forme diverse, il loro dissenso contro il proseguo dei lavori per l’Alta Velocità a cui da venti anni si oppongono le comunità della zona. Non basta: altri episodi diffusi di repressione del dissenso e del diritto a manifestare ci allarmano grandemente.

Promotori di tale iniziativa sono gli iscritti alla lista Effimera, variegata realtà di ricerca e di pensiero internazionale, nata dopo l’esperienza di UniNomade 2.0. Chiediamo a tutti coloro che hanno a cuore la libertà di espressione e di critica di appoggiare questa presa di parola che ha lo scopo di ribadire il diritto all’autodeterminazione dei corpi e dei territori al di fuori delle imposizioni e delle logiche del capitalismo finanziario contemporaneo.

Per firmare: appello.contro.repressione@gmail.com

 

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Foucault, in una lezione tenuta nel 1978 al Collège de France, scrive che oggi l’arte del governare “ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza”. Se questo è il piano dentro il quale ci muoviamo, oggi stiamo assistendo ad un salto di qualità dei dispositivi di sicurezza. Osserviamo una complessiva e sottile involuzione autoritaria della società italiana ed europea, dove il conflitto viene patologizzato e interiorizzato e vige la repressione di ogni politica affermativa e di ogni pratica di autonoma gestione di corpi, relazioni, territori. In particolare, ci allarma e ci preoccupa il clima di controllo di un neocapitalismo particolarmente violento nei confronti degli attivisti del movimento No Tav in Val di Susa. Quattro giovani, Claudio, Chiara, Mattia e Niccolò, sono da dicembre in carcere accusati di terrorismo. Altri 54 attivisti No Tav sono sotto processo per i fatti relativi alle manifestazioni del 27/6 e del 3/7/2011, attualmente in corso presso la IV Sezione del Tribunale di Torino, in condizioni in cui, come denunciato pubblicamente dagli avvocati della difesa, si consta “l’oggettiva impossibilità di garantire, nelle attuali condizioni, un sereno e concreto esercizio del diritto di difesa”.

Anche in altre città italiane (Bologna, Milano, Padova, Roma, Treviso, Napoli) negli ultimi mesi sono state emesse ordinanze di “divieto di dimora”, “arresti domiciliari”, “obblighi di firma” destinati a coloro che, più di altri, hanno manifestato dissenso politico.

Noi vediamo nell’esplicarsi di tali durezze fuori misura, il volto di un potere che ha cambiato natura: lontano e dittatoriale, repressivo e dunque “esterno” rispetto alle culture, ai corpi, ai volti, ma contemporaneamente vicino e “intimo”, capace di effettuare un’integrale cattura dell’anima, reclamando di volerla orientare attraverso dispositivi ambientali ed economici che favoriscono l’adesione alla “norma” oppure, viceversa, pronto a espellere, imprigionare, scartare qualsiasi elemento che alla “norma” non voglia adeguarsi.

Un’intera valle e tutta la sua popolazione da quasi venti anni resistono al destino stabilito dalle logiche dello sfruttamento intensivo neoliberista, sordo a ogni desiderio, insensibile ai bisogni della vita e al rispetto dell’ambiente, interessato solo alla razionalizzazione capitalistica dell’esistenza, al calcolo di investimenti in grandi opere inutili ed irragionevoli che debbono essere il più possibile soltanto una fonte di denaro. Di fronte alla fermezza con cui la decisione unilaterale sulla sorte della Val di Susa viene da decenni presentata come una funzione che sottomette tutti i comportamenti agli interessi economici, le comunità hanno messo in gioco i propri corpi, diventando un modello di testarda resistenza alle ragioni del capitalismo-finanziario per il Paese nella sua interezza e anche oltre i confini nazionali. Siamo in presenza di regole oscene che autorizzano a imprigionare quattro ragazzi poiché “l’azione terroristica è idonea ad arrecare danno d’immagine all’Italia” e, aspetto particolarmente significativo, siamo di fronte alla pubblica rivendicazione del lato indecente di questa repressione, con la complicità dei principali media e di buona parte del milieu intellettuale italiano (con poche, ma significative, eccezioni).

Per queste ragioni noi firmando chiediamo l’immediata liberazione degli attivisti imprigionati dietro accuse strumentali e gigantesche. Pensiamo che la moltitudine che si solleva in Val di Susa trasgredisca solo la logica imperante del “capitale umano”. Questi giovani mettono in gioco le proprie vite, rifiutando l’idea della libertà come libera accettazione di una scelta obbligata; hanno sottratto la propria libertà al calcolo, per affidarla alla manifestazione di un’idea.

Non c’è politica che non cominci da lampi come questi, vogliamo ricordarlo. Essi sono i lampi dell’intelligenza e del coraggio imprendibile dell’umanità, gli unici capaci di far tremare la presunta solidità del biopotere contemporaneo. Noi dunque pensiamo che l’avvenire della politica stia nella fedeltà a questi lampi cui chiunque può partecipare, purché sia disposto a mettere davvero in gioco se stesso.

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Prime firme in ordine alfabetico:

Giorgio Agamben, Piergiovanni Alleva, Adalgiso Amendola, Emiliana Armano, Thomas Atzert, Chiara Bassetti, Franco Berardi Bifo, Manuela Bojadžijev, Sergio Bologna, Giorgio Bonazzi, Emanuele Braga, Ulrich Brand, George Caffentzis, Vincenzo Carbone, Federico Chicchi, Salvatore Cominu, ricercatore, Italia, Manuela Costa, Carlo Cuccomarino, Anna Curcio, Mariarosa Dalla Costa, Pierre Dardot, Simona de Simoni, Filippo Lucchese, Valerio Evangelisti, Ubaldo Fadini, Roberto Faure, Silvia Federici, Lorenzo Feltrin, Andrea Fumagalli, Pierangelo Galmozzi, Davide Gallo Lassere, Maurizio Gibertini, Mario Gamba,Antonio Gennari, Giovanni Giovannelli, Avery Gordon, Spartaco Greppi, Giorgio Griziotti, Carlo Guglielmi, Michael Hardt, Sabine Hess, Srecko Horvat, Ursula Huws, , Christian Laval, Maurizio Lazzarato, Emanuele Leonardi, Les Levidow, Peter Linebaugh, Dario Lovaglio, Geert Lovink, Stefano Lucarelli, Benjamin Manski, Christian Marazzi, Nicolas Martino, Sandro Mezzadra, Francesco Miele, Cristina Morini, Gianfranco Morosato, Annalisa Murgia, Timothy S. Murphy, Brett Neilson, Antonio Negri, Pierluigi Panici, Leo Panitch, Matteo Pasquinelli, Giuliana Peyronel, Marco Philopat, Anne Querrien, Gerard Raunig, Judith Revel, Paola Rivetti, Adrià Rodriguez, Gigi Roggero, Rosario M. Romeo, Ned Rossiter, Andrew Ross, Cecilia Rubiolo, Francesco Salvini, Raffaele Sciortino, Marco Scotini, Guy Standing, Paul Stubbs, Tiziana Terranova, Lucia Tozzi, Carlo Vercellone, Tiziana Villani, Giovanna Zapperi, Paolo Vernaglione, Soenke Zehle,

 

Overbooking: Luca Rastello

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Un libro a lettere chiare

Nota sul romanzo I buoni di Luca Rastello

di

Francesco Forlani

Dalla casa editrice milanese fondata nel 2007 e con un catalogo all’insegna della sua vocazione, saggistica e  d’inchiesta, la nuova collana di narrativa,  Narrazioni, ha fatto in questi giorni il suo debutto nel nostro panorama letterario. È  da poco approdato in libreria Il primo titolo di Chiarelettere, I Buoni di Luca Rastello cui seguiranno altri due titoli: La figlia del Papa di Dario Fo e Il Direttore di Luigi Bisignani. L’eccellente prova narrativa di Luca Rastello rischia di passare tuttavia in secondo piano rispetto alla polemica che in questi giorni è scoppiata coinvolgendo diverse testate e autorevoli firme, per lo più di opinionisti e personaggi del mondo politico e sociale. Tranne rari casi, su tutti quello di Goffredo Fofi, non si sono lette critiche squisitamente letterarie; si è trattato il testo piuttosto come pretesto per difendere, d’ufficio per lo più, personaggi e associazioni riconoscibili nel romanzo e protagonisti di tutte quelle contraddizioni presenti nel mondo delle associazioni e di volontariato impegnate in cause umanitarie e principalmente intorno al tema della legalità. E questo sarebbe davvero il torto maggiore che si possa fare a uno dei migliori libri di narrativa scritti in questi anni.

“I buoni” raccontano una vicenda che si sviluppa attraverso tre parti, L’uomo dal paradiso, la Scuola di impietà e L’uomo dall’inferno, tre tempi differenti a cavallo del passaggio di secolo e soprattutto della frontiera tra oriente e occidente, con paragrafi veloci e prime righe in maiuscoletto a scandire il passo. La prima è stilisticamente efficace nel descrivere l’Underworld dei ragazzi di strada rumeni costretti a vivere e a drogarsi con colla di vernice nelle fognature di Bucarest, nelle vicinanze della celebre Gare du Nord; ragazzi ostinati a vivere nonostante la violenza che subiscono e da cui è possibile difendersi solo affiliandosi a bande dai codici stabiliti e ferrei come quelle di piccoli eserciti in guerra: la regola di Adrian è lavarsi.

La protagonista, insieme ai due giovani italiani Andrea e Mauro che la trarranno in salvo portandola in Italia è Aza. L’abbiamo incontrata in apertura del libro attraverso la bella illustrazione di Arianna Vairo in una doppia pagina che ha per titolo proscenio. Scapigliata, smunta, fiera ricorda  davvero quelle piccole facce d’angelo che furono catapultate nelle televisioni di mezzo mondo occidentale dopo la caduta di Ceaușescu nel 1989. Nell’immagine è seduta su un tombino aperto e sembra sapere che la rinascita avverrà di lì a poco. Nella seconda parte, in una città del nord, l’incontro con il capo carismatico della comunità avviene con uno dei passaggi più belli. Alla proposta di Don Silvano di lavorare con loro: “Lei continua a inghiottire, morde all’ingiù le lacrime che salgono alla gola, la vita che le sta facendo un’offerta”. Sembra di rivivere con lei lo stato di grazia del protagonista dickensiano di America, quella stessa meraviglia che Kafka gli fa provare davanti al Gran Teatro di Oklahoma.

E  davvero sembra poco, tutto molto piccolo, fragile come il cartongesso che separa le stanze degli uni dagli altri, quanto con l’energia del migliore Bianciardi, e un’abilità nei dialoghi, Luca Rastello descrive in una fenomenologia della banalità del bene che è senza sconti; questo accade non perché vi siano coinvolti gli uni o piuttosto gli altri; in una comunità a occidente che un liberalismo selvaggio ha ridotto a società a responsabilità limitata, perfino il titolo di ultimo deve essere in qualche modo pagato. Dalla seconda parte in poi infatti e nella terza in modo incisivo  si sente  pagina dopo pagina, evento dopo evento, una mutazione di prospettiva che sarà proprio Aza a offrire al lettore, come certi poeti dell’Est che nella semplicità di un verso, di un’immagine riescono a dire di noi stessi più di quanto le nostre stesse parole non sappiano più dire.

Del controcanto che anima le pagine dei buoni, dunque, solo figure autentiche, contraddittorie, al di là di ogni morale preconfezionata potevano diventarne gli interpreti; l’autore le chiama Personae, e sono descritte nelle sezioni che anticipano ognuna delle tre parti; dramatis personae le maschere del dramma, tolte le quali non vi rimane più nulla.

 

 

 

I fatti di Roland Barthes (seconda parte)

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« Structure du fait divers », Roland Barthes, in Essais critiques (1964)

qui la versione originale e qui la prima parte

In Italia questo testo è già stato tradotto e pubblicato in una versione differente.

“Struttura del fatto di cronaca”

di Roland Barthes

traduzione di Francesco Forlani

Carenza o deviazione della causa, bisogna aggiungere a questi disturbi privilegiati quelle che potremmo chiamare sorprese del numero (o più in senso lato, della quantità). Di nuovo qui, per lo più, si ritrova quella causalità insoddisfatta che è per il fatto di cronaca uno spettacolo sbalorditivo. Un treno deraglia in Alaska: un cervo aveva bloccato lo scambio dei binari. Un Inglese si arruola nella Legione Straniera: non voleva trascorrere il Natale con sua suocera. Una studentessa americana costretta ad abbandonare gli studi: il giro-petto (104 cm) scatena il putiferio. Tutti questi esempi illustrano la regola: piccole cause grandi effetti. Ma il fatto di cronaca non vede affatto in queste sproporzioni un invito a filosofare sulla vanità delle cose o la vigliaccheria degli uomini; non dice come Valéry: quante persone muoiono in un incidente, per non aver voluto portarsi dietro l’ombrello; anzi dice, e in una maniera tutto sommato più intellettualistica: la relazione causale è cosa strana; il piccolo volume di una causa non smorza affatto l’ampiezza del suo effetto; il poco equivale al molto; e in conseguenza, una tale causalità alquanto squilibrata, può essere ovunque: non è costituita da una forza quantitativamente accumulata, quanto piuttosto da un’energia in movimento, attiva a dosi molto basse.

Vanno inclusi in tali circuiti di derisione tutti gli eventi importanti asserviti a un oggetto prosaico, umile, familiare: gangster messo in fuga da attizzatoio, assassino identificato da un semplice fermaglio da ciclista, anziano strangolato dal filo del suo apparecchio acustico. Questa figura è ben nota al romanzo poliziesco, molto affezionato per natura a quello che potremmo chiamare il miracolo dell’indizio: è l’indizio più discreto a risolvere infine il mistero. Due temi ideologici sono qui interessati: da un lato, l’infinito potere dei segni, la sensazione panica che i segni siano ovunque, tutto possa essere segno; e dall’altro, la responsabilità di oggetti attivi in definitiva quanto gli esseri umani: vi è una falsa innocenza dell’oggetto; l’oggetto si nasconde dietro la sua inerzia di cosa, ma in realtà è per meglio trasmettere una forza causale,  di cui non sappiamo se provenga da esso stesso o d’altrove.

Tutti questi paradossi della causalità hanno un doppio significato; da un lato l’idea di causalità ne esce rinforzata, poiché si è constatato che la causa è ovunque: in questo, il fatto di cronaca  ci dice che l’uomo è sempre collegato a qualcos’altro, che la natura è piena di echi, relazioni e movimenti; ma d’altra parte, questa stessa causalità è costantemente minata da forze che gli sfuggono; disturbata senza però scomparire, rimane in qualche modo sospesa tra il razionale e l’ignoto, offerta a uno stupore fondamentale; distante dal suo effetto (ed è questo, in tanto che fatto di cronaca, l’essenza stessa del suo essere degno di nota), la causa appare inevitabilmente intrisa di uno strano potere: il caso; come fatto di cronaca, ogni causalità è sospettata di fatalità.

Ci troviamo qui di fronte al secondo tipo di relazione che può articolare la struttura del fatto di cronaca: il rapporto di coincidenza. È innanzitutto la ripetizione di un evento, non importa quanto anodino esso sia, che lo designa con l’annotazione di coincidenza: una gioielliera mimo è stata rapinata tre volte; un’albergatrice vince alla lotteria a ogni colpo, ecc. Perché?

La ripetizione porta sempre, in effetti, a immaginare una causa ignota, tanto è vero che nella coscienza popolare, l’aleatorio è sempre distributivo, mai ripetitivo: il caso è presunto variare gli eventi; se li ripete, è perché vuole manifestare qualcosa attraverso di loro: ripetere, è manifestare, tale credenza è all’origine di tutte le antiche arti divinatorie; oggi, naturalmente, la ripetizione non richiama apertamente a un’interpretazione soprannaturale; tuttavia, perfino degradata al rango di “curiosità”, non è possibile che la ripetizione sia notata  senza avere l’idea che detenga un certo significato, per quanto questo significato rimanga sospeso: il “curioso” non può essere una nozione “opaca” e per così dire innocente (tranne che per una coscienza assurda, il che non è il caso per la coscienza popolare): istituzionalizza inevitabilmente un’ interrogazione.

Altro rapporto di coincidenza: quella che avvicina due termini (due contenuti) qualitativamente distanti: una donna mette in fuga quattro gangster, scomparsa di un giudice a Pigalle, dei pescatori islandesi pescano una mucca, ecc.; c’è un tipo di distanza logica tra la debolezza della donna e il numero di gangster, la magistratura e Pigalle, la pesca e la mucca, e il fatto di cronaca si mette d’un colpo a eliminare questa distanza. In termini di logica, si potrebbe dire che ogni termine che appartiene in linea di principio a un percorso autonomo di significazione, il rapporto di coincidenza ha per funzione paradossale quella di fondere due percorsi diversi in un unico percorso, come se bruscamente la magistratura e la “pigallità” si ritrovassero nello stesso campo. faits_divers_1

E siccome la distanza originale dei percorsi è spontaneamente sentita come un rapporto di fastidio, ci si avvicina qui a una figura retorica fondamentale nel discorso della nostra civiltà: l’antitesi . La coincidenza è in effetti ancora più drammatica quando stravolge certe situazioni stereotipate: a Little Rok, il capo della polizia uccide sua moglie. Ladri sorpresi e spaventati da un altro ladro. Ladri scagliano un cane poliziotto contro il guardiano notturno, ecc. Il rapporto diventa qui vettorializzato, pregno d’intelligenza: non soltanto vi è un assassino, ma per di più l’assassino è il capo della Polizia: la causalità viene stravolta in virtù di un disegno esattamente simmetrico. Questo movimento era ben noto alla tragedia classica, dove aveva anche un nome: era il colmo:

ho dunque traversato tanti mari, tante nazioni,

venni da cosí lontano a macchinargli la morte,

Dice Oreste parlando di Ermione.

Innumerevoli gli esempi disseminati ovunque: proprio quando lei lo loda per le sue gentilezze Agamennone condanna la figlia; proprio quando Aman si sente all’apice degli onori sarà rovinato; proprio quando vende la villetta in cambio di un vitalizio la settantenne sarà strangolata; proprio la cassaforte di una fabbrica di fiamme ossidriche i ladri avevano cominciato a scassinare; proprio a una seduta di conciliazione il marito uccideva la moglie: l’elenco dei colmi è interminabile.

Che cosa significa questa predilezione? Il colmo è l’espressione d’una situazione di sfortuna. Tuttavia, allo stesso modo con cui la ripetizione limita in qualche maniera la natura anarchica – o innocente – dell’aleatorio, così la fortuna e la sfortuna non sono neutre fatalità, inevitabilmente chiamano un qualche significato – e allorché una fatalità significa, non è più una fatalità; il colmo ha proprio la funzione di operare una conversione della fatalità in segno, poiché l’esattezza di uno stravolgimento non può essere pensata al di fuori di una intelligenza che la compie; miticamente, la Natura (la Vita) non è una forza esatta; dovunque si manifesti una simmetria (e il colmo è la figura stessa della simmetria), c’è per forza voluta una mano per guidarla: c’è confusione mitica di disegno e progetto.

Così, ogni volta che appare da solo, senza imbarazzarsi dei valori patetici tenuti generalmente al ruolo archetipico dei personaggi, il rapporto di coincidenza comporta una certa idea di destino. Ogni coincidenza è un segno insieme indecifrabile e intelligente: è in effetti attraverso un tipo di transfert, il cui interesse è fin troppo evidente, che gli uomini accusano il Destino di essere cieco: il Destino è invece malizioso, costruisce dei segni, e sono gli uomini che sono ciechi, incapaci di decifrarli. Che dei rapinatori scassinino la cassaforte di una fabbrica di fiamme ossidriche, questa annotazione non potrà appartenere in ultima analisi che alla categoria dei segni, perché il significato (se non il suo contenuto, almeno la sua idea)affiora inevitabilmente dalla congiunzione dei due opposti: antitesi o paradosso, ogni contrarierà appartiene a un mondo volutamente costruito: un dio gironzola dietro al fatto di cronaca.

Questa fatalità intelligente – eppure inintellegibile – anima soltanto il rapporto di coincidenza? Affatto. Abbiamo visto che la causalità esplicita del fatto di cronaca era in definitiva una causalità truccata, almeno sospetta, dubbia, ridicola, perché in qualche maniera l’effetto non soddisferà la causa; si potrebbe dire che la causalità delle notizie è incessantemente sottoposta alla tentazione della coincidenza, e che viceversa, la coincidenza vi è incessantemente affascinata dall’ordine di causalità. La causalità aleatoria, ordinata coincidenza, è all’incrocio di questi due movimenti che si costituisce il fatto di cronaca: entrambi finiscono in effetti per ricoprire una zona ambigua dove l’evento è pienamente vissuto come un segno il cui contenuto è tuttavia incerto.

 Siamo qui, se si vuole, non in un mondo del senso, ma in un mondo della significazione (Intendo per senso il contenuto (il significato) d’un sistema significante, e per significazione il processo sistematico che unisce un senso e una forma, un significante e significato).; questo statuto è probabilmente quello della letteratura, ordine formale in cui il significato è al contempo posto e insoddisfatto: ed  è vero che il fatto di cronaca è letteratura, sebbene questa letteratura sia considerata cattiva letteratura. Si tratta qui dunque, probabilmente, di un fenomeno generale che va ben oltre la categoria del fatto di cronaca.

Eppure nel fatto di cronaca, la dialettica di senso e significazione ha una funzione storica molto più chiara che in letteratura, perché il fatto di cronaca è un’arte di massa: il suo ruolo verosimilmente è quello di preservare in seno alla società contemporanea l’ambiguità del razionale e dell’irrazionale, dell’intellegibile e dell’insondabile; e questa ambiguità è storicamente necessaria nella misura in cui i segni siano all’uomo ancora necessari (il che lo rassicura), ma dove è anche necessario che tali segni siano di contenuto incerto (il che lo deresponsabilizza): egli può appoggiarsi attraverso il fatto di cronaca a una certa cultura, poiché ogni schema di un sistema di significazione è schema di una cultura vuota; ma allo stesso tempo, può soddisfare in extremis questa cultura di natura, visto che il senso che dà alla concomitanza dei fatti sfugge all’artificio culturale restando muto.

Astronomi di costellazioni linguistiche- Gherardo Bortolotti

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“Astronomi di costellazioni linguistiche”: serie di incontri con scrittori sperimentali che proseguono da anni una ricerca sulla lingua e sulle forme letterarie. Dialogando con loro, che leggeranno brani editi o inediti, indagheremo il come e il perché delle scelte adottate, in molti casi tese a evadere dai limiti di convenzioni sentite come assurde, restrittive o molto povere rispetto alle potenzialità del linguaggio e del narrare.

Quarto appuntamento: 6 aprile, H. 18.00, con Gherardo Bortolotti, scrittore.

“Quando arrivarono gli alieni, ci trovarono privi di un progetto, pronti ad accedere ad un ulteriore salto di coscienza, verso lo stadio più avanzato della nostra ignavia. Mentre le rivolte attraversavano l’Europa, uscivamo in massa il sabato sera. Il nostro abbigliamento era ciò che restava di un’epoca più grande, in quieta sintonia con l’arredamento dei locali, con i sottintesi commerciali di chi ci rivolgeva la parola.”

Gherardo Bortolotti (Brescia 1972) è autore di poesie, prose e traduzioni. Nel 2009 ha pubblicato un romanzo molto particolare composto da frammenti: “Tecniche di basso livello” (Lavieri, Caserta). Ha partecipato ad antologie di prosa (“Prosa in prosa”, Le Lettere, Firenze 2009) e di poesia (“Poeti degli Anni Zero”, Ponte Sisto, Roma 2010). Nel 2013 è uscita la sua raccolta poetica “Senza paragone” (Transeuropa, Massa). Con Michele Zaffarano cura la collana Chapbooks per Arcipelago Edizioni, che pubblica letteratura sperimentale dalla Francia, dall’Italia e dagli USA. È stato tra i fondatori e curatori del blog di traduzioni e letteratura sperimentale GAMMM (http://gammm.org) e redattore del blog letterario Nazione Indiana (https://www.nazioneindiana.com).

 

Dell’antidoto o del kalashnikov mentale

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don giovanni losey  di Andrea Inglese

 

Quando verrà il tipo a dirmelo in radio e in televisione, dopo averlo scritto in rete e sui giornali, quando verrà lui, insieme a tutti gli altri, a dirmi:

“Il mondo è complesso, c’è la globalizzazione, alcuni problemi climatici non li possiamo ignorare, inoltre c’è un sacco di gente nel mondo che vive ancora scalza e senza mettersi dei deodoranti, quindi a questo punto, viste le non poche difficoltà cui noi dobbiamo far fronte, qui in Occidente, chiariamo una cosa: chi parla di uguaglianza è un semplice invidioso; chi spreca tempo a fare cose che non si possono vendere alla massa non è solo un perdente, ma un vero malato.

Una storia violenta

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di Antonio Soler

(Si terrà a Perugia dal 4 al 6 aprile 2014 la prima edizione di Encuentro. Festa delle letterature in lingua spagnola, una manifestazione dedicata alle letterature di lingua spagnola in Italia, promossa dal Circolo dei Lettori di Perugia e dal Comune di Perugia, con l’Associazione Banana Republic, in collaborazione con Regione Umbria e con il patrocinio dell’Università degli Studi di Perugia e dell’Università per Stranieri di Perugia. Encuentro ospiterà autori rappresentativi della letteratura ispano-americana – Luis Sépulveda, Daniel Mordzinski, Paco Ignacio Taibo II, Leonardo Padura Fuentes, Bruno Arpaia, Santiago Gamboa e ancora Fernando Iwasaki, Marcos Giralt Torrente, Guadalupe Nettel, Antonio Soler, autore dello stralcio che segue – tradotto in italiano e nella versione originale – tratto da Una historia violenta, romanzo del 2013 inedito in Italia).

Soler
Io vigilavo. Mi piaceva vigilare.

Sapere da dove veniva la gente. Le ore. I rumori che si portavano dietro. Le loro voci. Come si comportavano quando pensavano che nessuno li osservasse. Vigilavo per strada e vigilavo in casa. Vigilando, stando attento, mi si ripulivano i pensieri. Il cielo azzurro mi entrava in testa e scacciava tutte le ombre. Le trame delle mie idee luccicavano come tubi di nichel. Come quando a scuola la professoressa mi metteva davanti quella lista di numeri e io dovevo sommarli. Li assemblavo, ci facevo delle catene. Sapevo cosa significavano. Vigilavo.

Mio padre diceva di avere un amico poliziotto. Un uomo triste, dalla pelle giallastra. E anche molle, e anche con le unghie troppo lunghe. Come le zampe dei polli. Portava una giacca adatta a un uomo grosso, ma lui era magro e piuttosto piccolo. Io pensavo che si trattasse di un poliziotto finto. E pensavo che i veri poliziotti un giorno si sarebbero portati via mio padre e quel suo amico. Per la questione dei sacchi, per le parole che sentivo. E si sarebbero portati via anche quell’altro amico che mia madre lasciava sempre aspettare sulla porta e che a volte appariva all’angolo della strada in sella a una moto grande e rumorosa sulla quale non c’era bisogno di vigilare perché essa stessa si annunciava da molto tempo prima di sbucare. Aveva un giacchetto di cuoio e quando parlava con mio padre rideva sempre fragorosamente.

Mio padre non aveva amici che lavoravano in ufficio né amici che portavano la cravatta o che dicevano troppo spesso buongiorno. Alzavano le sopracciglia, strizzavano l’occhio, muovevano la bocca e ridevano a voce alta. Ecco quello che facevano. Pareva il loro vero lavoro.

Anziché amici mio padre sembrava avere dei complici.

Io giocavo con gli indiani e i cowboy. Li sotterravo nei vasi dei fiori, fingevo che sparassero e morissero tra i gerani, ma in realtà stavo vigilando.

Il mio indiano con la mano sulla fronte, quello che guardava l’orizzonte, non moriva mai. Non cadeva mai tra i grumi di terra né precipitava dal bordo di un vaso. Io e lui stavamo attenti a ciò che accadeva intorno a noi, a quello che dicevano mia madre e la madre di Mauri, ai movimenti di mia sorella e dei suoi amici, alla strana gente che si affacciava all’imbocco della strada e capendo di essersi persa tornava indietro.

Mi sarebbe piaciuto seguire quelle persone, sapere chi erano e dove volevano andare.

Io vigilavo e fingevo di essere buono. Sempre. Adesso penso che fingere fosse un modo di vigilare.

Persino quando dormivo fingevo di essere buono. Sapevo qual era la postura in cui mia madre riconosceva la bontà.

Sapevo che la mattina seguente l’avrebbe raccontato alla madre di Mauri e la madre di Mauri a un’altra madre. Quella era la mia salvezza. Vigilare e fingere.

Io non nascondevo i miei nervi, nascondevo semplicemente la mia cattiveria.

In principio, nei primi mesi o nelle prime settimane che passai con la signorina Elvira a scuola, seduto al primo banco a guardare le sue ginocchia larghe, pensai che lei sapesse che io fingevo tutto il tempo. Come se tenesse la radiografia del mio cervello in uno di quei cassetti in cui riponeva le gomme, le matite nuove, i quaderni che tagliava minuziosamente in due con delle forbici enormi, sibilanti, proprio nel mezzo, per venderli. Per venderli a noi, i bambini che scrivevano su quei mezzi quaderni.

A me piacevano le metà superiori, quelle che avevano i margini larghi, bianchi, nella parte di sopra, un piccolo cielo bianco che fluttuava sulle righe.

La signorina Elvira tagliava quaderni e io pensavo che tagliasse in due anche la mia testa, e sapesse cosa c’era dentro. Pensai che lei stesse vigilando su di me. Ma poi seppi che stava vigilando solo sui miei occhi, per il tempo che rimanevano fissi sulla vastità marmorea – potente e pallida – delle sue ginocchia o sulle righe del mezzo quaderno che mi aveva venduto quella settimana.

Stava attenta anche ai miei vestiti, ai maglioni che mi faceva mia madre, alla qualità della lana. Solo questo.

In queste faccende mio padre non si intrometteva nemmeno. A volte mi chiedevo se mio padre sarebbe stato capace di riconoscermi in mezzo a un nugolo di bambini. All’uscita di scuola, per esempio. Se avrebbe saputo distinguere a prima vista, con precisione, come fanno i padri, suo figlio, tra tutti quei bambini in movimento.

Mai, proprio mai, non una sola volta e per nessuno motivo, mio padre ha messo piede nella mia scuola, nella scuola della signorina Elvira. Non ha mai saputo che esisteva una signorina Elvira, un edificio con quella facciata verde e un cortile pieno di voci nel quale correvano disperati duecento o forse trecento bambini durante la mezz’ora di ricreazione.

Mio padre non sapeva niente. Guidava il camion e basta, per strada o forse solo fino al porto, e lì rubava dei sacchi o li comprava a un prezzo più basso di quello che avevano, e poi li portava da un’altra parte, in un posto per me tanto remoto quanto la mia scuola poteva esserlo per lui.

Mio padre se ne andava in giro e ogni tanto si fermava a raccogliere quei ramoscelli con cui mi stava costruendo il forte, la casetta dentro alla polveriera – ancora senza tetto -, le palizzate che non finivano mai, la presunta casa del capitano del forte, sul cui suolo, tuttavia, dormiva il mio indiano, con la sua lancia in una mano e l’altra mano sulla fronte.

Rametti, delle specie di matite rugose e senza mina che mio padre tirava fuori dalla tasca del giacchetto e lanciava malamente in un grande barattolo di Cola-Cao che teneva in lavanderia. Rami di alberi strani, rossicci, scuri.

“Queste sono le dita degli alberi”, mi disse un giorno mio padre mentre io vigilavo da lontano su come trafficava con quei bastoncini.

Forse lo disse per spaventarmi, per farmi credere che lui era capace di andare in giro a tagliare dita, o forse lo fece solo perché gli venne in mente lì per lì e per quello si rattristò e lasciò lì i ramoscelli, svogliatamente, come se stesse davvero abbandonando le dita di qualcuno. Di un amico che era morto, per esempio.

Nel barattolo, oltre ai rami, c’erano le corde, gli spaghi, il piccolo girabacchino che adoperavano anche per aprire le bottiglie, un po’ di fil di ferro e qualche chiodo. Il materiale e gli attrezzi che mio padre usava per costruire il mio forte.

Nessuno avrebbe mai potuto immaginare don Guillermo alle prese con un barattolo come quello e ancor meno mentre entrava nella lavanderia di casa sua in cerca di un girabacchino ogni volta che volesse stappare una bottiglia. No. Nemmeno il padre di Mauri aveva un barattolo simile, acciaccato e macchiato di ossido, messo da parte.

Niente di tutto ciò.

Mio padre aveva quel barattolo. Io un forte ancora a metà. Io avevo un padre che aveva un barattolo come quello.

Quello poteva essere l’indicatore della mia esistenza, il punto che più tardi avrei incontrato in certe mappe di città: “Voi siete qui”.

Mauri aveva un meccano di metallo con una moltitudine di pezzi verdi e rossi, con bulloni di tutte le dimensioni, perfettamente nichelati, talmente ben nichelati che secondo lui erano d’argento. E poi tronchesi e un cacciavite in miniatura. Tutto conservato in una solida cassa di legno, scolorita ma con compartimenti per ogni genere di pezzo.

Ernestito, oltre ai suoi racconti e alla sua collezione di macchinine, aveva il suo castello di plastica, con una torre merlata dalla quale gli arcieri potevano scoccare comodamente le loro frecce. Un castello assemblato con delle costruzioni che sulla superficie esterna delle mura riproducevano le pietre e anche la muffa delle antiche fortezze, e che era circondato da un fosso d’acqua, dipinto di un azzurro uguale a quello del cielo in quei giorni. Aveva indiani, soldati con mitragliette e balestrieri colorati. Tartari con sciabole ricurve, gladiatori. Il mio indiano era verde. Tutto verde, verde la carne e verdi i pantaloni, le piume, la lancia, tutto di un colore verde velenoso.

Ernestito, e anche Mauri, usavano la colla Imedia per incollare le figurine. I loro album di animali sprigionavano da lontano una specie di odore metallico, da profumeria.

Il mio album frusciava. Frusciava come se le fiere, i leoni, la iena e persino gli stambecchi delle figurine ruggissero quando qualcuno gli si avvicinava.

Io attaccavo le figurine con un impasto di farina e acqua che mia madre mi fabbricava in un portauovo, un impasto che io, sconfortato, strusciavo sopra i riquadri dell’album con uno spazzolino da denti e che inevitabilmente produceva dei grumi, bolle di diverso spessore sotto le immagini, deformandole.

Il mio giaguaro, proprio il giaguaro, sembrava come sfigurato per il dislivello che quell’impasto aveva formato sotto la sua mandibola.

Era un album accidentato e frusciante. Il rumore delle pagine, sfogliandole, era uguale a quello che fa una vecchia porta o una persiana rotta. Il mio album aveva le pagine ondulate. Sarebbe stato meglio non avere niente. Non importava quante figurine avessi né quante pagine fossi riuscito a completare. Quando Mauri o Ernestito entravano a casa mia io lo nascondevo sotto il letto.

Le cose stavano così.

Don Guillermo Galiana sapeva di colonia, e mio padre sapeva di strada e di altri uomini. Di uomini che parlavano a voce alta e ridevano a voce ancora più alta. Sapeva di tabacco, di fumo, di posti con poca luce, di covo di Ali Babà.

Forse per questo mi conveniva vigilare. Stare attento a ciò che accadeva fuori da me.

Anche se alla fine non contò, né quanto tempo né con quanta attenzione vigilassi. Un bel giorno, Ernestito si sarebbe avvicinato discretamente alle mie spalle e avrebbe provato sulla mia nuca la durezza della grafite. Di quella pietra nera e brillante che lui, o forse sua zia Tusa, chiamò carbone.
(Traduzione dallo spagnolo di Giovanni Dozzini).

***

Yo vigilaba. Me gustaba vigilar.

Saber por dónde venía la gente. Las horas. Los ruidos que traían. Sus voces. Cómo se comportaban cuando pensaban que nadie los observaba. Vigilaba en la calle y vigilaba dentro de mi casa.

Se me limpiaban los pensamientos vigilando, estando atento. El cielo azul entraba en mi cabeza y se llevaba todas las sombras. Los entramados de mis ideas quedaban como relucientes tubos de níquel. Igual que cuando en el colegio la profesora me ponía delante aquella lista de números y yo debía sumarlos. Los engarzaba, hacía cadenas con ellos. Sabía lo que significaban. Vigilaba.

Mi padre decía que tenía un amigo policía. Un hombre triste y con color amarillento. Hervido también, y también con las uñas demasiado largas. Como las patas de los pollos. Su chaqueta era de un hombre grande, pero él era flaco y más bien pequeño. Yo pensaba que se trataba de un policía falso. Y pensaba que los verdaderos policías un día se iban a llevar a mi padre y a aquel amigo suyo. Por el asunto de los sacos, por palabras que oía. Y también se iban a llevar a aquel otro amigo que mi madre siempre dejaba esperando en la puerta de la calle y que a veces aparecía por la esquina subido en una moto grande y ruidosa a la que no hacía falta vigilar porque ella misma se anunciaba desde mucho tiempo antes de doblar la esquina. Ese llevaba una pelliza de cuero y siempre le hablaba a mi padre entre carcajadas.

Mi padre no tenía amigos que trabajasen en oficinas ni amigos que usaran corbata ni dijeran demasiadas veces buenos días. Alzaban las cejas, guiñaban, movían la boca y se reían en voz alta. Eso es lo que hacían. Ese parecía su verdadero trabajo.

En vez de amigos mi padre parecía que tenía cómplices.

Yo jugaba con los indios y los cow-boys. Los enterraba en las macetas, fingía que disparaban y que se morían entre los geranios, pero en realidad estaba vigilando.

Mi indio de la mano en la frente, el que miraba el horizonte, nunca moría. Nunca caía entre los grumos de tierra ni se despeñaba desde lo alto de una maceta. Él y yo estábamos atentos a lo que ocurría a nuestro alrededor, a lo que decían mi madre y la madre de Mauri, a los movimientos de mi hermana y sus amigos, a la gente extraña que asomaba por el comienzo de la calle y al notarse perdida se daba la vuelta.

Me habría gustado seguirlos, saber quiénes eran y adónde querían ir en verdad.

Yo vigilaba y fingía ser bueno. Siempre. Pienso ahora que fingir era un modo de vigilar.

Hasta cuando dormía fingía ser bueno. Sabía cuál era la postura en la que mi madre reconocía la bondad. Sabía cómo a la mañana siguiente ella se lo transmitiría a la madre de Mauri y la madre de Mauri a otra madre. Esa era mi salvación.

Vigilar y fingir.

Yo no disimulaba mis nervios, simplemente disimulaba mi maldad.

En un principio, en los primeros meses o semanas que pasé con la señorita Elvira en el colegio, sentado en el primer pupitre mirando sus rodillas anchas, pensé que ella sabía que yo estaba fingiendo todo el tiempo. Como si tuviera la radiografía de mi cerebro en uno de aquellos cajones donde guardaba las gomas, los lápices nuevos, las libretas que ella cortaba cuidadosamente en dos con unas tijeras enormes, silbantes, justo por la mitad, para venderlas. Para vendérnosla a nosotros, los niños que escribíamos en aquellas medias libretas.

A mí me gustaban las mitades superiores, las que tenían los márgenes anchos, blancos, en la parte de arriba, un pequeño cielo blanco flotando sobre los renglones.

La señorita Elvira cortaba libretas y yo pensaba que también cortaba mi cabeza en dos y sabía lo que había dentro. Pensé que ella me vigilaba a mí. Pero luego supe que solo vigilaba mis ojos, el tiempo que estaban detenidos en la anchura marmórea -poderosa y pálida- de sus rodillas o en los renglones de la media libreta que me había vendido esa semana.

También estaba atenta a mi ropa, a los jerséis que me tejía mi madre, a la calidad de la lana. Solo eso.

Mi padre ni siquiera reparaba en esas cuestiones. A veces me preguntaba a mí mismo si mi padre habría sido capaz de reconocerme entre un montón de niños. En la salida del colegio por ejemplo. Si habría sabido distinguir a la primera, con precisión, como hacen los padres, a su hijo, a mí, entre todos aquellos niños en movimiento.

Nunca, jamás, ni una sola vez y por ningún motivo, mi padre fue a mi colegio, al colegio de la señorita Elvira. Nunca supo que existía una señorita Elvira, un edificio con esa fachada verde y un patio lleno de voces por el que corríamos desesperados doscientos o quizá trescientos niños durante la media hora del recreo.

Mi padre no sabía nada. Solo conducía el camión, lo llevaba por carreteras o quizá solo al puerto y allí robaba sacos o los compraba a un precio más bajo del que tenían y los llevaba a otra parte, a un lugar para mí tan remoto como mi colegio podía serlo para él.

Mi padre iba de un lado a otro y de paso cogía aquellos palos con los que me iba construyendo el fuerte, la caseta interior del polvorín -todavía sin techo-, las empalizadas que nunca se acababan, la supuesta casa del capitán del fuerte, en cuyo suelo, sin embargo, dormía mi indio, con su lanza en una mano y la otra mano en la frente.

Palitos, una especie de lápices rugosos y sin mina que mi padre sacaba del bolsillo de la chaqueta y echaba descuidadamente en una lata grande de Cola-Cao que guardaba en el lavadero. Palos de árboles extraños, rojizos, oscuros.

“Estos son los dedos de los árboles”, me dijo un día mi padre mientras yo vigilaba desde lejos cómo guardaba los palos.

Tal vez lo dijera para asustarme, para hacerme creer que él era capaz de ir por ahí cortando dedos, o quizá lo hiciera solo porque se le ocurrió en ese momento y por eso se puso triste y dejó allí los palos con desgana, como si de verdad dejara los dedos de alguien. De un amigo que se hubiera muerto, por ejemplo.

En la lata, además de los palos, estaban las cuerdas, los hilos gruesos, el pequeño berbiquí que también usaban para abrir botellas, unos alambres y unos cuantos clavos. Las herramientas que mi padre utilizaba para construir mi fuerte.

Nadie habría podido imaginar nunca a don Guillermo guardando nada en una lata como aquella y menos aún yendo al lavadero de su casa en busca de un berbiquí cada vez que quería sacar el tapón de corcho a una botella. No. Ni siquiera el padre de Mauri tenía una lata parecida guardada en ninguna parte, abollada y con manchas de óxido.
Nada de eso.

Mi padre tenía esa lata. Yo un fuerte a medio construir. Yo tenía un padre que tenía una lata como aquella.
Ese podía ser el indicador de mi existencia, el punto que después he visto en algunos planos de ciudades. “Usted se encuentra aquí”.

Mauri tenía un mecano de metal con multitud de piezas de color verde y rojo, con tornillos de todos los tamaños, perfectamente niquelados, tan bien niquelados que según él eran de plata. Alicates en miniatura y un destornillador igualmente diminuto. Todo eso guardado en una sólida caja de madera, despintada pero con compartimentos para las distintas piezas.

Erenestito, además de sus cuentos y su colección de coches metálicos, tenía su castillo de plástico endurecido, con un torreón con almenas desde las que podían disparar cómodamente los arqueros. Un castillo con paredes ensambladas que reproducían en su superficie exterior las piedras e incluso el moho de las fortalezas antiguas y que estaba rodeado por un foso de agua, pintado de un azul igual al del cielo en aquellos días. Tenía indios, soldados con metralletas y ballesteros de colores. Tártaros con sables curvados, gladiadores. Mi indio era de color verde. Verde entero, la carne verde y el pantalón verde, las plumas, la lanza, todo de un color verde venenoso.

Ernestito, y también Mauri, usaban pegamento Imedio para pegar sus estampas. Sus álbumes de animales desprendían desde lejos una especie de olor metálico, a perfumería.

Mi álbum crujía. Crujía como si las fieras, los leones, la hiena y hasta las cabras montesas de los cromos rugiesen cuando uno se acercaba al álbum.

Yo pegaba las estampas con una masa de harina y agua que mi madre me fabricaba en una huevera, una masa que yo, desanimado, restregaba sobre los recuadros del álbum con un palillo de dientes y que inevitablemente dejaba grumos, bultos de distinto grosor bajo los cromos, deformándolos.

Mi jaguar, precisamente el jaguar, parecía mellado por el desnivel que aquella masa había formado bajo su mandíbula.
Era un álbum escarpado y crujiente. El ruido de las páginas al pasarlas era igual al que hace una puerta vieja o una persiana rota. Mi álbum tenía las hojas onduladas. Habría sido mejor no tener nada. No importaba cuántos cromos ni cuántas páginas hubiera conseguido completar. Cuando Mauri o Ernestito entraban en mi casa yo escondía el álbum debajo de la cama.

Así eran las cosas.

Don Guillermo Galiana olía a colonia y mi padre olía a calle y a otros hombres. A hombres que hablaban en voz alta y reían en voz todavía más alta. Olía a tabaco, a humo, a sitios con poca luz, a cueva de Alí Babá.

Quizá por todo eso más me valía vigilar. Estar atento a lo que ocurría fuera de mí.

Aunque finalmente no importó cuánto tiempo ni con cuánta atención vigilase. Un buen día, Ernestito se colocaría sigilosamente a mi espalda y comprobaría en mi nuca la dureza del carbón cristalizado. De esa piedra negra y brillante que él, o quizá su tía Tusa, llamó carbón mineral.

© Antonio Soler, Una historia violenta, 2013, Galaxia Gutenberg.

Quella vita dove sono io, cioè La Casa in Via Palestro di Franco Buffoni

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di Marco Corsi
Cas Pal Joaquim Ringelnatz
Una dislocazione autobiografica della realtà: forse coniando qualche nuova formula risulta più accessibile questo ultimo lavoro in prosa di Franco Buffoni. Una dislocazione, agli effetti, che passa attraverso fatti, personaggi, eventi, documenti, e compone in filigrana il Bildungsroman dell’uomo e del poeta, rendicontando il tempo della storia e il tempo della scrittura.

Ave Bernhard: cantus responsorius

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black cat bone - www.behance.net

di Martial Pyrrhus e Lucretius Porphirogenitus

1 Ave Bernhard

… morte le gore, morte le campagne,
morta la morte e morta la rimorte
(un sole nero in pieno giorno guarda
sul golgota due morti ed un rimorto),
rimorti i morti e i non ancora nati,
morti i sepolti, morti gli esumati,
gli agnelli divorati, con le cagne
morte già prima di averli sbranati …

I fatti di Roland Barthes (prima parte)

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« Structure du fait divers », Roland Barthes, in Essais critiques (1964)

 qui la versione originale

In Italia questo testo è già stato tradotto e pubblicato in una versione differente.

 “Struttura del fatto di cronaca”

di Roland Barthes 

traduzione di Francesco Forlani

Siamo davanti a un omicidio : se è politico, è una notizia, se non lo è, si tratta di un fatto di cronaca. Perché? Si è portati a credere che la differenza sia qui tra il particolare e il generale, o, per essere più precisi,  quella tra nominato e innominato: il fatto di cronaca (il termine  faits divers pare quanto meno indicarlo) sembrerebbe procedere da una classificazione dell’inclassificabile, un materiale di scarto disorganizzato di notizie informi; la sua essenza sembrerebbe privativa, ovvero inizierebbe ad esistere laddove il mondo cesserebbe di essere nominato, oggetto di un catalogo noto (politica, economia, guerre, spettacoli, scienze, ecc.); in una sola parola, sarebbe una notizia mostruosa, analoga a tutti i fatti eccezionali o banali , in breve, anomici, che vengono classificati di solito discretamente alla voce Varia, come l’ornitorinco che tanta pena diede allo sfortunato Linneo. Questa definizione tassonomica non è ovviamente soddisfacente : non tiene conto della promozione straordinaria dei fatti di cronaca sulla stampa odierna (e già si cominciano a chiamare i faits divers con il termine più nobile di information générale ); quindi meglio porre sullo stesso piano i fatti di cronaca e altri tipi di informazione, e tentare così di cogliere negli uni e negli altri una differenza strutturale e non più la sola differenza di catalogazione.

Questa differenza ci appare da subito evidente allorché si confrontino i nostri due delitti; nel primo (l’assassinio politico), l’evento (l’omicidio ) rimanda  necessariamente ad una situazione estensiva che esiste al di fuori di esso, in un prima e intorno ad esso: la “politica”; l’ informazione qui può essere compresa immediatamente, può essere definita soltanto  in proporzione alla conoscenza esterna all’evento, che è la conoscenza politica, per quanto confusa; insomma l’assassinio sfugge al fatto di cronaca quando esogeno, proveniente da un mondo già noto; possiamo allora dire che non esiste una struttura adeguata, sufficiente, perché non sarà mai altro che il termine manifesto una struttura implicita ad esso preesistente:  nessuna informazione politica è senza durata, perché la politica è una categoria trans-temporale; allo stesso modo, d’altronde, per tutte le notizie giunte da un ​​orizzonte  nominato, da un tempo anteriore: queste non possono mai assurgere a fatti di cronaca. ; letterariamente sono frammenti di romanzi, nella misura in cui ogni romanzo è di per sé un vasto sapere i cui fatti che vi succedono non ne sono che una semplice variabile.

 L’assassinio politico è dunque sempre, per definizione, un’informazione parziale; il fatto di cronaca, al contrario, è una informazione totale, o più precisamente, immanente; contiene in sé tutto il suo sapere : non c’è bisogno di sapere nulla del mondo per consumare un fatto di cronaca; non rimanda formalmente a nient’altro che a se stesso; naturalmente, il suo contenuto non è estraneo al mondo: disastri, omicidi, rapimenti, aggressioni, incidenti, furti, stranezze, tutto rimanda  all’uomo, alla sua storia, alla sua alienazione, alle sue fantasie, ai suoi sogni , alle sue paure: un’ ideologia e una psicoanalisi dei fatti di cronaca sono possibili, ma qui si tratta di  un mondo  la cui conoscenza non può essere che intellettuale, analitica, elaborata a un grado secondo da colui che parla del fatto di cronaca, non per  quello che lo consuma; a livello della lettura, tutto è dato in una notizia; le circostanze, le cause, il passato, l’esito; senza durata e senza contesto, costituisce un essere immediato, totale, che non rimanda, almeno formalmente, a nulla d’ implicito; è in questo  che si apparenta al racconto o alla favola, piuttosto che al romanzo. È la sua immanenza che definisce il fatto di cronaca.

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 Eccoci dunque davanti a una struttura chiusa. Cosa succede all’interno di tale struttura? Un esempio, per quanto piccolo esso sia, potrà forse dircelo. Il palazzo di Giustizia è stato appena ripulito. Questo è insignificante . Era da un secolo che non lo si faceva. Questo diventa un fatto di cronaca. Perché? Poco importa l’aneddoto (potremmo trovarne di ben più miseri); due termini sono stabiliti, che inevitabilmente richiamano a una certa relazione e sarà la problematica legata a  questa relazione a costituire il fatto di cronaca; la pulizia del Palazzo di Giustizia da un lato,  dall’altro la rarità della cosa, sono come i due termini di una funzione: è tale funzione ad essere viva, regolare e dunque intelligibile; possiamo supporre che non esista alcun fatto di cronaca semplice, costituito da una sola annotazione: il semplice non è significativo; quali che siano la densità del contenuto, la sorpresa, l’orrore o la sua esiguità, il fatto di cronaca inizia laddove l’informazione si sdoppi fino a comportare così la certezza di una relazione; la brevità della dichiarazione o l’importanza della notizia, altrove garanzia d’unità, non potranno mai cancellare la natura articolata del fatto di cronaca: Cinquemila morti in Perù ? L’orrore è globale , la frase è semplice;  eppure, l’importante qui è già il rapporto della morte  e di un numero. Indubbiamente una struttura è sempre articolata; tuttavia, qui, l’articolazione è interna al racconto immediato, mentre nell’informazione politica, per esempio, la stessa la troviamo al di fuori dell’enunciato, in un contesto implicito.

 Quindi, ogni fatto di cronaca comporta almeno due termini diversi, o, se si preferisce, due annotazioni. E si può eseguire una prima analisi del fatto di cronaca, senza alcun riferimento alla forma e al contenuto di questi due termini: alla loro forma, perché la fraseologia del racconto è estranea alla struttura del fatto segnalato, o, più precisamente, perché questa struttura non coincide inevitabilmente con la struttura del linguaggio, per quanto non si possa raggiungere che attraverso il linguaggio del giornale; al loro contenuto, perché l’importante, non sono i termini in se stessi, il modo contingente di cui sono saturi (per un omicidio, un incendio, un  furto, ecc.), ma la relazione che li unisce.

 È  su questo rapporto che dobbiamo innanzitutto  interrogarci, se vogliamo cogliere la struttura del fatto di cronaca, vale a dire il suo significato umano. Sembra che tutte le relazioni immanenti al fatto di cronaca possano essere ricondotti a due tipi. Il primo è la relazione causale. Si tratta di una relazione  estremamente frequente : un delitto e il suo movente , un incidente e le sue circostanze , e ci sono beninteso, da questo punto di vista, degli stereotipi potenti:  dramma passionale , delitto per denaro ecc. Ma in tutti i casi in cui causalità è in un certo qual modo normale, aspettata , l’accento non è posto sulla relazione in se stessa , per quanto continui a formare la struttura del racconto; essa si muove verso ciò  che potremmo definire  dramatis personae (bambino , vecchio , madre , ecc. ) modelli di essenza emotiva , caricati per dare vita allo stereotipo .

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 Così ogni volta che si voglia mettere a nudo la causalità del fatto di cronaca, sarà una causalità alquanto aberrante quella che si incontra. In altre parole, i casi puri (ed esemplari) sono affetti da disturbi di causalità, come se lo spettacolo (“il degno di nota”, dovremmo dire), iniziasse laddove la causalità, senza cessare di essere affermata, contenesse già un germe di degradazione, come se  la causalità non potesse che consumarsi solo quando inizia a marcire, a disfarsi. Non ci sono notizie senza stupore (scrivere, è stupirsi); ecco che, riferito a una causa, lo stupore implica sempre un disturbo, dal momento che  nella nostra civiltà, tutto l’altrove della causa sembra posizionarsi  più o meno dichiaratamente  ai margini della natura , o quanto meno del  naturale. Quali sono questi disturbi di causalità, su cui si articola il fatto di cronaca ?

 Si tratta innanzitutto, ovviamente, del fatto di cui non si può dire immediatamente la causa. Bisognerebbe un giorno tracciare una cartina dell’inspiegabile contemporaneo, così come se lo rappresenta non tanto la scienza, quanto il senso comune; sembra che nel fatto di cronaca, l’inspiegabile sia ridotto a due categorie di fatti: i prodigi e i crimini. Quello che un tempo era chiamato prodigio, e che indubbiamente avrebbe occupato la maggior parte dello spazio a disposizione dei fatti di cronaca, se la stampa popolare fosse allora esistita , ha per spazio il cielo, ma negli ultimi anni , si direbbe che non esista ormai che un solo  tipo di prodigio : i dischi volanti; nonostante  un recente rapporto delle US Army abbia classificato sotto forma di  oggetti naturali (aerei, palloni , uccelli) tutti i dischi volanti identificati, l’ oggetto continua ad avere una sua vita mitica: viene equiparato ad un veicolo globale, inviato di solito da marziani : la causalità è così rinviata nello spazio, non è abolita; inoltre,  il tema marziani è stato significativamente messo a tacere dai voli reali nel cosmo: non c’è più bisogno dei marziani  per entrare nella stratosfera visto che Gagarin, Titov e Glenn ne sono appena usciti : tutta la realtà soprannaturale sparisce.

 Per quanto riguarda il  delitto misterioso, ne conosciamo la sua fortuna nel romanzo popolare; la relazione fondamentale è formata da una causalità differita; il lavoro della polizia consiste nel colmare a ritroso il tempo affascinante e insopportabile che separa l’evento dalla sua causa; il poliziotto , emanazione dell’intera società nella sua forma burocratica  diventa allora la figura moderna dell’antico risolutore  di enigmi ( Edipo ), che fa cessare il terribile perché delle cose; la sua attività, paziente e testarda, è il simbolo di un desiderio profondo: l’uomo intasa febbrilmente la breccia causale, si adopera a porre fine alla frustrazione e all’ansia. Nella stampa, indubbiamente, i delitti misteriosi sono rari, il poliziotto è poco personalizzato, l’enigma logico annegato nel lato patetico  degli attori; del resto, la vera ignoranza della causa in questo caso costringe il fatto di cronaca  a estendersi su diversi giorni, a perdere quel carattere effimero, così conforme alla sua natura immanente; ecco perché, in tanto che fatti di cronaca a differenza del romanzo, un delitto senza motivo è più inspiegato  che inspiegabile : il “ritardo” causale non vi esaspera il delitto, lo disfa: un delitto senza causa è un delitto che si dimentica: il fatto di cronaca scompare allora , proprio perché nella realtà la sua relazione si estingue.

 Naturalmente, poiché qui, degna di nota, è la causalità disturbata, il fatto di cronaca è ricco di deviazioni causali: in virtù di certi stereotipi, ci aspettavamo una causa, ed è un’altra quella che appare: donna pugnalata dall’amante: delitto passionale?  No, non andavano d’accordo in politica. Giovane cameriera rapisce il neonato dei suoi datori di lavoro: per ottenere un riscatto? No, perché amava il bambino. Un vagabondo aggredisce donne sole: sadico? No, semplice scippatore. In tutti questi esempi, si nota bene come la causa rivelata sia in qualche modo più povera di quella che ci si attendeva; il delitto passionale, il ricatto, l’aggressione  sadica hanno un lungo passato, sono fatti pregni d’emozione, rispetto ai quali la divergenza d’idee politiche, l’ affetto eccessivo o il semplice furto sono moventi ridicoli;  vi è in effetti in questo tipo di rapporto di causalità, lo spettacolo di una delusione, paradossalmente, la causalità è tanto più degna di nota giacché non viene soddisfatta .

(à suivre)

L’amore e Gödel

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Alcune considerazioni su Almanacco del Giorno Prima di Chiara Valerio

di Vanni Santoni

chiara valerioHo conosciuto Chiara Valerio dieci anni fa; eravamo due esordienti (anche se lei non lo sembrava, appartenendo a quella categoria di persone che sembrano sempre “nate imparate”) ed eravamo stati invitati a Roma, assieme ad altre due persone, nella sede di una casa editrice un tempo grande e prestigiosa e allora in fase di rilancio, in quanto vincitori, coi nostri romanzi, di un concorso per esordienti. Lì fummo ricevuti dal direttore della casa editrice un tempo grande e prestigiosa, il quale ci fece tanti complimenti, ci disse della fase di rilancio e ci fece parlare con la scrittrice famosa che presiedeva la giuria del concorso, la quale pure ci fece tanti complimenti, distribuì un po’ di consigli e ci rese al direttore, il quale ci fece un contratto (mi par di ricordare che fosse addirittura per tre libri) e ci rimandò a casa tutti contenti. Va da sé che il concorso si rivelò una fregatura, la casa editrice un tempo grande e prestigiosa smise di essere in fase di rilancio e anzi smise proprio di farsi sentire, ci piazzò in standby e poi, solo a fronte di nostre reiterate e via via sempre più rabbiose e disperate richieste di chiarimenti, ci fece capire che quei libri non li avrebbero stampati mai. Va da sé che le quote di iscrizione al concorso non vennero mai rese ai partecipanti, ma noi non pensavamo certo a quei dieci o venti euro: noi pensavamo ai nostri libri e infatti ricordo che con Chiara (gli altri due vincitori dopo un po’ sparirono dal radar) ci scambiavamo delle mail in cui sostanzialmente ci giravano le palle. Io, poi, ero stato così ingenuo da dire a chiunque, parenti, amici, fidanzata, che avevo vinto il concorso nazionale per esordienti della casa editrice un tempo grande e prestigiosa e in fase di rilancio – avevo, come si suol dire, “comprato il vestito buono” – e adesso l’evidenza che invece il libro non sarebbe mai uscito era esiziale (oltre che una bella figuraccia). Non so come andò per Chiara, ma per quanto mi riguarda quella bruciantissima fregatura fu decisiva per diventare uno scrittore. Non restava altro, del resto: se volevo dimostrare che davvero ero quella cosa là, l’unica era pubblicare un libro altrove. Magari con una casa editrice migliore di quella un tempo grande e prestigiosa.

Per questo, ogni volta che ne faccio arrivare uno in libreria, c’è sempre una (ormai minuscola eppure esistente) parte di me che gode anche perché è una ulteriore dimostrazione di quanto quelli furono grulli a non pubblicare il mio libro. E quella stessa parte di me gode ogni volta che Chiara Valerio pubblica un libro, poiché ciò rinforza tale dimostrazione. Avevate trovato gli scrittori e non li avete fatti, siete proprio grulli. Se poi, come nel caso di Almanacco del giorno prima, il libro è anche stupendo, allora il godimento diventa anche orgoglio per i risultati di una persona che un destino (inizialmente) avverso mi ha assorellato. Ai tempi in cui eravamo ragazzotti all’esordio, io non avevo molto da lasciarmi dietro per far spazio alla letteratura: avevo lavorato nella formazione e nel giornalismo, ero stato uno studente universitario solo discreto; dal mondo dei romanzi avevo insomma soltanto da prendere; lei invece era una matematica, una vera, di quelle col PhD, e ciò oggi – incluso, si intuisce, l’abbandono di quel percorso – si ritrova in questo romanzo, appena uscito per Einaudi. Nel leggere la sinossi in bandella, che recita, tra le altre cose, “Alessio Medrano è un broker geniale e sentimentale, scommette sui fallimenti come fossero successi: ‘i soldi sono un’idea vecchia, bisogna investire sul tempo’.”, si rischia di finire fuorviati. Lungi dall’essere solo romanzo sulla questione finanziaria postmoderna vista dagli occhi di un addetto ai lavori particolarmente dotato, in Almanacco del giorno prima la matematica, e con essa la finanza, sua figlia cinica, diventa un filtro attraverso cui guardare il mondo. Alessio Medrano siamo tutti noi, anzitutto perché, affidandosi egli a codici interiori che rimandano a un linguaggio che più o meno, a diversi gradi, conosciamo tutti, ci viene facile entrare dentro di lui: il suo codice matematico diventa riflesso chiarificato e metro dei nostri personali e più contorti codici.

Ma facciamo, per l’appunto, ordine: Almanacco del giorno prima è un romanzo in tre parti, di lunghezza decrescente. La prima ci racconta l’infanzia e la formazione di Alessio Medrano. La seconda, per frammenti, il periodo in cui il Medrano si innamora di una persona che non lo ricambia. La terza riagguanta la narrazione e la chiude.

A prima vista, la prima parte è la più potente, perché Chiara Valerio dà una dimostrazione di maestria letteraria pura, di quel tipo di raggiunta maturità della scrittura che non ha bisogno di “fare numeri” ma li tiene sotto la superficie, esprimendo una forza controllata; nel libro si evoca l’opera al rosso, ma Almanacco del giorno prima è una vera e propria opera al bianco, nella sua compiutezza stilistica e formale: le avventure di questo bambino dalla enorme intelligenza analitica (che si trasformerà, ahilui, in un adulto del tutto sprovvisto di intelligenza emotiva) conquistano perché egli, in quanto persona che riduce tutto, anche se stesso, a fattore numerico, è per forza anche noi, tutti conteniamo Medrano e ne siamo contenuti; inoltre, vederlo fare i puzzle al contrario o gabellare i compagni di scuola con trucchi grifagni, è uno spasso, così come è avvincente seguire le sue avventure nei derivati da polizze di fine vita, ovvero, insomma, la speculazione finanziaria sulla morte della gente – i cosiddetti death bond – e seguirlo quando si lancia dentro quegli abissi di senso che sono tutte le cose che mettono in comunicazione vite e numeri, tra cui le polizze ma anche i (solo apparentemente prosaici) elenchi del telefono.

Ho scritto “a prima vista” perché la seconda parte – in cui, per frammenti di vita, brani di discorsi, tic e idiosincrasie della dialettica affettiva, si racconta l’amore di Medrano per Elena, una donna che non lo ama (né però si libera di lui: una stronza, per farla breve) e lo scontrarsi, ineludibilmente tragico, di una visione del mondo che tutto vorrebbe categorizzare con una realtà, quella amorosa, che è per definizione categoria a sé – risulta apparentemente più fredda della prima, ma ciò avviene solo in fase di lettura (vi è del resto, al di là della forma meno narrativa, un ribaltamento: dall’immedesimazione col Medrano bambino si passa al nervoso per il Medrano adulto, alla voglia di urlargli “sveglia, maledizione!”), dato che successivamente, già quando si approda alla terza parte, che del Medrano ricostruisce l’educazione sentimentale e chiude la vicenda professionale e finanziaria, quei frammenti cominciano a comporsi nella memoria e riverberare: a legarsi tra loro andando a ricostruire un puzzle via via sempre più chiaro, che però, come quelli amati dal Medrano fanciullo, è ribaltato, senza immagini, tutto “color das secco”, perché è il puzzle di un amore che non esiste, e di fronte a tale spietata evidenza a poco valgono, a quel punto, i risultati delle speculazioni finanziarie di Medrano e del socio Janak, se non a confermare che, sì, oggi si può ridurre a numero chiunque, ma non colei o colui di cui si è innamorati, poiché l’amore non si misura, né tanto meno si ottiene, con gli strumenti del non-amore (da profano viene in mente Gödel e il suo teorema di incompletezza – mi perdoni Chiara se si tratta di uno sfondone matematico). Il romanzo, con ciò, pone tuttavia un’altra e più grande questione: davvero l’ultima soluzione, l’ultima salvezza che ci è rimasta è l’amor romantico? La coppia, addirittura? Morti gli idoli, finite le ideologie, collassata la famiglia, seppellito il lavoro come fonte dell’identità, superata nostro malgrado un’infanzia e un’adolescenza che abbiamo cercato di prolungare in ogni modo, divenuto tutto fluido (come un liquido, o una stringa di codice), giusto l’amore romantico è un sogno permesso? Se è così, guai allora a chi si innamora senza esser corrisposto. Questa visione del mondo riuscii a evitarla, o almeno a evitare che diventasse univoca e assoluta, buttandomi, grazie anche alla ferita infertami dal concorso farlocco, sulla letteratura. Mi par che Chiara abbia fatto lo stesso, e che la letteratura, prova ne è questo mirabile romanzo, la corrisponda in pieno.

Almanacco del giorno prima, Chiara Valerio, Einaudi 2014, pp.350 €20.

Pesci d’aprile – Una poesia di Rita Filomeni

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a.c.

Ci sono battaglie che nascono con la camicia, altre meno. Lo Stato, di questi tempi, ha la vista disgiunta del camaleonte, e se con un occhio punisce con l’altro assolve e la coerenza è un mestiere per eremiti. Il rimpallo e il rimando, allora, rappresentano il miglior modo per riassicurarsi la parte e o l’impunità per le azioni, omissioni.
Sorte vuole che oggi, 1 aprile, scada il termine per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), più comunemente noti come “manicomi criminali”. Neppure un miracolino, invece, per i “folli rei”. Già, perché – per dirla con Leo Longanesi -, “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”, e non si poteva non dare e darsi un po’ di tempo (un altro anno, se va bene, prima erano tre) per bandire a riguardo una bella ed eccitante gara d’appalto, così da mettere in cantiere un regionalismo di piccole case con tetto di paglia a venti posti letto dove eseguire le misure di sicurezza, soluzioncina, questa nuova, certo meno contestabile, indigesta e nauseabonda rispetto alla colonia penale, e per di più ineccepibile sotto il profilo dei comfort. La vicenda, che si invita a seguire nelle sue pieghe più da vicino, è scandalosa quanto certamente complessa, ma esorta ugualmente tutti ad opporre alla minaccia dell’insensatezza sociale, un nucleo irriducibile di sopravvivenza dell’amore e dell’etica. R.F.

 

. pesci d’aprile

    al concorso a premi sabbie immobili,

ognuno sa che il gioco e suo è già fatto
come tra amici e niente ostacola niente,
squalifica, a chi l’assale, ‘l pentimento

e monetina a cemento, tutti accontenta
e sì pure ‘l taglio del nastro inaugurale
con il sindaco, la banda e i chierichetti

emoziona ‘l tour le stanze ‘n ipercubo
a otto facce, e per ciascuna a detenuto
che lì spera rinvio a altro non rimandi,

la morte abbia pietà di un pesce muto