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La zecca e la malacarne

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di Alessandro Dal Lago

( questa è la prefazione di Alessandro Dal Lago al romanzo di Pino Tripodi La zecca e la malacarne uscito per Milieu in questi giorni, g.m.)

 

Il Sud è sempre possibile. Si può sempre diventare un Sud, remoto ed estraneo al mondo che conta, come hanno scoperto amaramente i cittadini greci, costretti dall’Europa (burocratica, legalitaria, spietata con i deboli) a pagare debiti che non hanno contratto e a essere governati dai politici che li hanno trascinati nel baratro per interesse e stupidità. Chi pensava che l’Europa fosse una madre generosa e ospitale, capace di accordare finlandesi e spagnoli, olandesi e italiani, francesi e tedeschi, danesi e greci, è servito. Dietro la maschera bonaria di Frau Merkel, Hollande e Renzi, per non parlare degli alti papaveri e burocrati europei che nessuno ha eletto, c’è la contabilità fredda e feroce degli interessi finanziari, cioè del capitale globale nella sua versione più immateriale e al tempo stesso più letale. Nessuno degli statisti citati ha mai avuto nulla da dire di significativo sulla bolla speculativa e sulla decina di banche americane, inglesi e tedesche che strozzano l’economia reale dei paesi indebitati. Ma sono prontissimi, al primo schiocco di dita delle agenzie di rating, a tagliare bilanci, salari e pensioni. Un sistema di riduzione dei bisogni umani sino all’osso, alla fame, alla mancanza di latte dei bambini greci, che tutti, nell’opinione pubblica che conta, accolgono con un’alzata di spalle, e nessuno osa chiamare criminale.

Ma noi in Italia, si sa, abbiamo il nostro Sud, che non assomiglia a nessun altro, in Europa. Un paradiso terrestre di palme, spiagge, isole e città incantevoli sotto il cielo sfolgorante – per i turisti che sbarcano da qualche volo low cost e riempiono campeggi, club e alberghi. Per chi ci vive da sempre, invece, le cose sono un po’ diverse. Nelle periferie, invisibili dalle autostrade, l’acqua sporca tracima dai canali di scolo e dalle fogne a cielo aperto. Dovunque spuntano viadotti che non portano da nessuna parte. Gli orrendi quartieri “residenziali”, progettati da architetti di grido (come lo Zen di Palermo, opera di Gregotti, o il Librino di Catania, progettato da Kenzo Tange), si degradano tra spaccio, miseria e disoccupazione. Nelle campagne, i nuovi schiavi (marocchini, senegalesi, rumeni e, di nuovo, italiani) si rompono la schiena per dieci Euro al giorno. I ragazzi studiano, ma poi, per non restare a ciondolare tra famiglia, bar e videogiochi, se la filano appena possono, al nord e ancora meglio in Germania o Inghilterra, dove la loro laurea non servirà a granché in una pizzeria.

E soprattutto, in almeno quattro regioni italiane, si può avvertire, se proprio non si è ciechi e sordi (e muti), la presenza di un potere, economico, politico e amministrativo, onnipresente, talvolta impalpabile e talvolta ingombrante come un’occupazione militare. Perché il posteggiatore abusivo, a cui voi date due Euro al giorno, ne consegna uno e cinquanta a un tizio che compare di sera, immancabilmente? Chi raccoglie i soldi dell’eroina e che fine fanno? Perché, in una città di media grandezza, in cui i turisti arrivano solo per sbaglio, apre un negozio, che nemmeno a Milano in via Montenapoleone si vede? Chi comprerà quel vestito da 2000 Euro, quelle scarpe da 800? Perché un ristorante, sempre vuoto, rimane aperto? E perché, se un paesotto è così tranquillo, sonnolento, pacifico, tra muri imbiancati a calce, bouganvillee  e ficus che ombreggiano la piazzetta, due o tre volte all’anno qualcuno si fa trovare ammazzato in un viottolo o su un marciapiede?

Immagini banali della mafia, certamente. Ma questa, come la camorra o la ndrangheta o la varie corone unite, vecchie e nuove, è banale come un’abitudine. Ma è un’abitudine cognitiva, comunicativa e politica che ha la strana caratteristica di scomparire dal nostro orizzonte, di scolorirsi e sfumare, quanto più se ne parla, quanto più è presente e oggetto di una retorica incessante. Come si dice nelle note iniziali di questo libro, il crimine organizzato è “un alibi che giustifica e assolve tutte le malattie degenerative degli uomini e della società del Sud”. Se il Sud è quello che è, economicamente marginale, privo di infrastrutture decenti, di imprese degne di questo nome, di centri direzionali pulsanti, di effervescenza sociale e politica – è inevitabilmente colpa delle mafie. Ora, ci sarà anche una piccola verità in questo, ma come è possibile che, dai tempi di Minghetti e poi di Sonnino, le mafie siano sempre responsabili dello storico ritardo del Sud e, di conseguenza, delle molte magagne italiane? Perché questa causa non è stata eliminata in  centocinquant’anni, visto che gli effetti ancora ci ammorbano? E chi avrebbe dovuto farlo? Chiunque comprende che qui non si è di fronte a una rimozione, ma, al contrario, a una sorta di risorsa argomentativa (tra il fatalismo e una colpevolizzazione del tutto superficiale), che permette di non cambiare mai nulla. Ma se è così, eccoci davanti a un’ideologia che, come tutte le ideologie di questo mondo, copre o almeno traveste degli interessi.

 

Questo libro – romanzo nella forma di un ritorno al sud e della fondazione di un giornale immaginario – è anche un saggio, un discorso sulla mafia (la “zecca”) e l’ambiente in cui essa si forma e prospera (la “malacarne”) che non concede nulla allo stile delle pseudo-inchieste giornalistiche, più o meno romanzate, che da diversi anni pretendono di dirci l’ultima parola o verità sulla mafia (o la camorra), con il risultato di non farci sapere alcunché, ma di trasmetterci l’immagine assai confortante del giornalista o dello scrittore-eroe (“ecco finalmente qualcuno che rompe il velo di omertà!”). E nemmeno si troveranno qui  trame inestricabili che si sciolgono in una verità consolatoria, secondo quel modello assai modaiolo del thriller o del giallo, con cui la realtà complicata del mondo viene ridotta a monotona quête du Graal o a oggetto di nobile dovere professionale. Qui non si troveranno né eroici scrittori, né commissari di polizia democratici, né il nuovo folklore meridionale che fa da sfondo a qualsiasi rappresentazione letteraria o mediale del crimine organizzato. Come dice a un certo punto un personaggio di questo libro: “Ridurre la letteratura e il giornalismo e la letteratura italiana a una velina dei carabinieri è stato un grande affare ma ha recato non pochi danni alla verità e alla cultura. Ma agli scrittori che usano fare romanzi e saggi a suon di veline presto prevedo gli si seccheranno le mani.”

A ben vedere, il gran proliferare di commissari Montalbano, marescialli bonari e poliziotti dal volto umano – per non parlare di giudici integerrimi, giornalisti assetati di verità e simili dramatis personae di comune uso mediale – svolge una evidente funzione di rassicurazione agli occhi dell’opinione pubblica. Una schiera di figurine colorate che finiscono per rappresentare la società “buona” e “sana” contrapposta a quella dei malvagi mafiosi e camorristi. Si crea così una “narrazione” (la parola è frusta, ma il senso è proprio questo) che accompagna stabilmente le vicende del crimine organizzato e ne occulta la natura e il significato. In luogo di un sistema specifico, che si radica nella storia, ma è capace di evolversi e di succhiare altro sangue in tutta Europa (se non nel mondo), la mafia apparirà come una caratteristica “antropologica” della gente del Sud, il prodotto di una terra “maledetta”, se non di atavismi – luoghi  c comuni che spesso sfociano nell’orientalismo di casa nostra e nel razzismo vero e proprio.

 

Raccontando, in quadri secchi e senza alcun compiacimento narrativo (ma con un linguaggio in cui si manifesta la profonda conoscenza di un modo di essere e dei suoi orizzonti), la vita quotidiana, l’evoluzione e le trasformazioni della mafia (e anche i tentativi di opposizione civile), Tripodi fa rivivere le trame di un’intera società e offre una riflessione in profondità su ciò che costituisce il fondamento del crimine organizzato. Non che in questo libro non ci sia un plot, una vicenda in cui, a metà tra la cronaca vera o verosimile e l’evocazione di emblemi, di figure caratteristiche, i personaggi agiscono, parlano e si confrontano fino allo scioglimento. Ma la storia di conflitti locali, modernizzazione criminale, vendette ecc. non esaurisce la narrazione, anche se la innerva. Consideriamo, per fare un esempio, l’intervista a uno dei personaggi principali, uno studente sopravvissuto a un agguato di mafia:

 

“La malacarne è un’organizzazione?

Non solo, fosse solo un’organizzazione si potrebbe distruggere con uno sputo d’asino.

Cos’è allora?

È una melma. Una pastetta infame nella quale le organizzazioni, le persone, le parole, le culture, gli atteggiamenti, i comportamenti si confondono tanto da rendersi indistinguibili. È una bestia che per nutrire se stessa fa deserto e infetta l’aria, l’acqua e il mare. È la merda che in una società giusta puzzerebbe come la merda e invece da noi luccica come l’oro. È l’insieme di tutti i vigliacchi, gli incapaci, i disonesti, gli ignoranti che pensano di diventare coraggiosi, abili, rispettabili, sapienti, profittando anche della più sporca briciola di potere. È l’interesse meschino che marcia calpestando la faccia di ciascuno di noi.”

 

L’interesse: ecco la parola chiave. Qui Pino Tripodi riporta il significato di qualsiasi organizzazione deviante alla sua natura profondamente sociale. Non sono il “retaggio” culturale, l’offerta di protezione, la latitanza dello stato ecc. che possono spiegare da soli l’anomalia del crimine organizzato. È l’insieme di modalità specifiche con cui gli interessi si organizzano su base locale, nazionale e globale in certi spazi geografici e sociali.

 

“La zecca in ambienti diversi dalla malacarne non sopravvive. La malacarne, al contrario, anche in assenza della zecca, è capace di riprodursi generando per partenogenesi altre tipologie di parassiti che si specializzano nel suo habitat.”

 

Con ciò, la tradizionale visione delle mafie come eccezione (in fondo come mistero storico…) è capovolta. Quella che appare come una devianza è in realtà un’antropologia diffusa quanto l’economia di mercato. È l’ossessione per gli interessi, la ricerca spasmodica del profitto a ogni costo, che può, in determinate circostanze, dar vita a organizzazioni e sistemi parassitari, cioè criminali. Non si spiegherebbe altrimenti l’osmosi della zecca con la massoneria, nonché la contiguità con i servizi segreti e gli interessi occulti di ogni tempo e luogo (perché mai gli alleati consegnarono la Sicilia nelle mani dei mafiosi, dopo la liberazione dal fascismo, se non per stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di emancipazione sociale?).. Se vogliamo usare una parola che oggi sembra scomparsa dal lessico dominante, la malacarne non è che il capitalismo o, meglio, il suo spirito ubiquo – che non si rivela in etiche o atteggiamenti religiosi, ma nella sopraffazione quotidiana come strumento di guadagno.

Certo, nelle società in cui gli interessi sono istituzionalizzati, il tipico modo di procedere delle mafie non è accettabile. Dove comandano la finanza, le banche, le grandi burocrazie trans-nazionali e il capitale materiale e immateriale, dove il potere è gestito secondo forme apparentemente democratiche e condivise, le culture mafiose non possono avere un’evidenza pubblica. Le pseudo-regole dell’onore e del rispetto, con cui le mafie locali travestono la loro ferocia, vengono sostituire dalle procedure oggettive, “razionali” e anonime del mercato. Ma, al fondo, la realtà è la stessa. Ciò che accade nei consigli di amministrazione e nei retrobottega del potere economico e politico non è troppo diverso dalle riunioni di mafia o di camorra. La differenza principale sta nel fatto che i conflitti non vengono risolti con l’uso di fucili a canne mozze o con esplosioni spettacolari, ma ricorrendo alla diffamazione pubblica, alla rovina dei concorrenti, alle pugnalate simboliche alle spalle, all’emarginazione politica e, quando serve, a qualche discreta ammazzatina o suicidio apparente. La storia italiana, fin dai tempi di Giolitti, è un monotono susseguirsi di complotti, scalate finanziarie spericolate, corruzione di funzionari, tangenti e piani più o meno occulti per impedire qualsiasi cambiamento del sistema di potere. Spesso, in questo quadro, le mafie hanno partecipato e sono state incaricate di svolgere il lavoro più sporco. Ma pensare che siano solo loro responsabili di tutto ciò che è marcio e oscuro in questo paese sarebbe un errore capitale. Sarebbe, in poche parole, scambiare il sintomo con la causa.

Questo è un libro sulle mafie e sulla melma sociale in cui essere prosperano. Ma è anche un libro che parla di una società in cui l’interesse privato è ormai il solo criterio legittimo di giudizio e di valore. Insomma, parla di noi. E quindi, raccontando i normali delitti del nostro modo di vivere, richiama la necessità spasmodica di un’altra vita e di un’altra società.

Giorni perduti: il sogno

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di Charles Jackson
(traduzione di Simone Barillari)

[Charles Jackson (1903-1968) è stato autore di quattro romanzi e due raccolte di racconti, ma la fama gli viene soprattutto da The Lost Weekend, Giorni perduti (Nutrimenti 2014, prima edizione critica e integrale a cura di Simone Barillari), l’opera d’esordio in cui trasformò in materia narrativa la sua tormentata battaglia contro l’alcol che, tra disintossicazioni e ricadute, l’avrebbe accompagnato fino al suicidio. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo di seguito le prime pagine della Parte Quarta.]

GiorniPerduti_cover

Come un pesce degli abissi che risale verso la superficie, verso l’aria luminosa e il sole, nuotò dal nulla assoluto alla coscienza, emergendo in un mondo più bianco di come l’avesse mai visto. La luce del giorno era accecante. Sentì voci molto vicine a lui, come se fossero dietro l’orecchio, che parlavano tranquillamente tra loro con lo stesso tono di chi parla di affari, in mezzo a un confuso sottofondo di strilli e balbettii, di mormorii e mugugni. Era sdraiato a faccia in giù e qualcuno stava lavorando sulla sua schiena – le dita di quel qualcuno gli esaminavano la spina dorsale. Si ribaltò su di sé, come un pesce che si dibatte dopo essere stato tirato fuori dall’acqua, e si ritrovò in un letto basso, poco più che un materasso, così basso che i due uomini che lavoravano sopra di lui erano inginocchiati per terra, su un lato del letto.

Sorpresi quanto lui, lo guardarono in un silenzio distaccato, e poi si ripresero.

“Solo un attimo, rilassati e voltati di nuovo come prima, per favore”, disse uno dei due, e l’altro: “Rilassati, bello mio”. Dovevano aver previsto quello che stava per dire, perché lo disse— lo disse tutto d’un fiato, come se non avesse sentito o come se fosse troppo esasperato, arrabbiato e offeso per rilassarsi. “Che sta succedendo qui, dove sono, cosa mi state facendo?”. “Rimettiti come prima, ci vorrà solo un secondo”, disse il primo dei due uomini, e il secondo mormorò il classico “non ti farà male”, mentre lui urlava di nuovo l’ancor più classico “dove sono?”.

“Sei in ospedale”.

“Perché?”.

“Rilassati, bello mio”.

Quale ospedale?”.

“Reparto alcolisti”.

Non capì niente di tutto questo, non una sola parola. Si era svegliato fuori di sé dalla rabbia, o almeno aspramente offeso e indignato perché non riusciva a capire dov’era, perché stavano approfittando di lui, perché non sapeva chi erano questi due uomini, e che diritto avevano loro di toccarlo? Ora sentiva tutto il caos che c’era in sottofondo ed era fuori di sé per questa ulteriore invasione della sua quiete. “Cos’è tutto questo baccano?”.

“Gli altri”.

“Gli altri cosa?”.

“Gli altri pazienti. Ora girati e rilassati, non è una cosa da un secondo”.

“Cosa credete di fare? Chi siete?”.

“Vogliamo solo aspirare un po’ di liquido spinale. Per alleviare la pressione sul cervello”.

“Un’iniezione spinale, bello mio”.

All’improvviso capì. “Oh no, non me la farete!”. Tirò su le ginocchia e le portò contro il petto, e mentre lo faceva una fitta di dolore appena sopra gli occhi gli fece esplodere la testa. Entrambi gli uomini si rimisero in piedi e si staccarono un po’ dal letto. Uno di loro si mise le mani sui fianchi. L’altro le aveva già.

Vide la siringa e l’ago e vide anche i due uomini più o meno chiaramente per la prima volta. Uno era piccolo, piuttosto pelato, di bell’aspetto, sui quarantacinque anni. Probabilmente il dottore, anche se sembrava più un professore o un insegnante. L’altro era un tipo grande e grosso sulla trentina, largo e ben piazzato, ma tutt’altro che muscoloso. Nonostante una corporatura da lanciatore di martello, era comunque molle, al limite della grassezza. Se ne stava lì a guardare in basso con un mezzo sorriso stampato sulla faccia, e l’impressione che dava era quella di un enorme gattaccio sonnacchioso – indifferente, autosufficiente, ma famelico.

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“Che problema c’è, di cosa hai paura?”, disse quello professorale.

“Non ho paura di niente!”.

“Allora perché non ci lasci fare?”.

“Perché non voglio! A me non farete quella roba!”.

“Un’iniezione spinale non ti farà nessun male. Ne facciamo continuamente”.

“Non a me!”. Aveva il terrore dell’iniezione spinale perché quando, alcuni anni prima, l’avevano usata per un’anestesia nel sanatorio per tubercolotici, un suo amico era rimasto paralizzato; non temporaneamente, che era lo scopo dell’iniezione, ma permanentemente.

“Devi essere ragionevole. Hai troppo alcol in corpo. Questo servirà a ripulire il cervello, ad alleviare la pressione sui tessuti. Capisci?”.

“Certo che capisco, con chi credi di parlare!”.

“E a parte questo, hai una frattura cranica”.

“Una frattura cranica!”.

“Una lieve frattura, tra la tempia destra e l’occhio”.

“Non ci credo!”. La testa, che era come spaccata in due dal dolore, smentiva questa sua incredulità, ma lui non voleva crederci lo stesso.

“La radiografia lo ha mostrato molto chiaramente. Non è niente di grave, comunque. Non c’è stata una vera e propria commozione cerebrale”.

“Ma dov’è che mi sono fatto—”.

“Non chiederlo a noi, bello mio”, disse sorridendo il più grosso dei due. “Sei arrivato qui così”.

“Come sono finito qui? Io non avevo chiesto di essere—”.

“Sei stato portato qui in ambulanza. Adesso però procediamo. È la cosa migliore per te – ti farà sentire meglio”.

“Mi sento benissimo già adesso!”. Non era vero. La testa gli scoppiava dal dolore ma— non era spesso così, non era sempre così, in mattine come questa?

“Rifiuti l’iniezione?”, chiese l’uomo che sembrava un professore.

“Certo che sì! A me non farete quella roba!”.

Il più basso dei due uomini si voltò verso l’altro e parlò come se Don non fosse lì accanto, o come se non capisse la lingua. “Allora credo che non ci sia niente da fare, Bim. Non possiamo fargliela senza il suo consenso, ora che è cosciente. Il paziente sembra essere nel pieno possesso delle sue facoltà, in grado di decidere da solo”.

“Lo metta alla prova, dottore”.

Il dottore si voltò verso Don. “Come ti chiami?”.

“Don Birnam”, rispose, quasi con orgoglio.

“Dove abiti?”.

“Al tre-uno-uno della Cinquantacinquesima est”.

“Manhattan?”.

“Certo!”.

“Che lavoro fai?”.

“Cosa faccio? Io— be’, non faccio niente, al momento”.

“Disoccupato?”.

“A me non sembrava un disoccupato”, disse l’altro con un sorriso. “Almeno a giudicare dai vestiti che indossava”.

Don si guardò il corpo con un riflesso quasi automatico. Aveva una specie di camicione bianco che non arrivava alle ginocchia; fatto di un tessuto pesante, che era spesso e ruvido come la tela. Glielo avevano legato dietro la schiena: sentiva la protuberanza del nodo, ora, tra le scapole. Era furibondo al pensiero dello spettacolo che dava di sé, furibondo al vedere quell’uomo che sorrideva. Ma l’uomo che sorrideva, notò, non sorrideva di lui; era solo un’abitudine, l’espressione fissa di uno che aveva una faccia da gattone sonnacchioso.

“In che anno siamo?”, continuò il dottore.

“Ma perché mi fate queste domande sceme?”.

“In che anno siamo?”.

“Millenovecentotrentasei!”.

“Che mese?”.

“Ottobre”.

“Che giorno è oggi?”.

Oh, oh. Di questo non poteva essere certo.

“Che giorno è?”.

“Io— mi spiace, temo di non saperlo. Lunedì o martedì forse, ma io—”. Dio, se era martedì doveva tornare a casa, doveva essere di ritorno a casa, al caldo sotto le coperte, e aver chiuso con quel weekend prima che arrivasse Wick. Doveva uscire di lì, e in fretta.

“Come ti chiami?”.

“Te l’ho già detto. Don Birnam”.

“Dove vivi?”.

“Vivo al tre-uno-uno della Cinquantacinquesima est. Manhattan!”.

“Trecentoundici?”.

“Tre-uno-uno, è quello che ho detto! Che è uguale a trecentoundici, in tutte le lingue, giusto? O comunque era così quando io andavo a scuola”.

Il dottore si voltò di nuovo verso l’altro. “Ok, Bim. Dagli un po’ di paraldeide e lascialo andare. Dieci granuli. Mi trovi nel reparto donne”. Si avviò verso l’uscita della camerata.

All’improvviso Don non poteva permettere che se ne andasse così. “Dottore!”, gridò. “Aspetti un minuto!”.

Il dottore continuò a camminare senza voltarsi.

L’omone lo guardava dall’alto, stringendo leggermente gli occhi. “Cosa volevi?”.

“Che giorno è?”.

“Domenica”.

“Oh”. Si accasciò sul letto, sollevato.

“Ti hanno portato qui ieri pomeriggio”.

“Davvero in ambulanza?”.

“Puoi giurarci. Eri svenuto e ubriaco fradicio. E hai un brutto occhio nero”.

Istintivamente Don sollevò la mano e si toccò l’occhio con le dita.

“Peccato. Con degli occhi così belli, poi. Belli da morire, davvero”. La voce non aveva consistenza né forza. Era il sussurrare intimo, appena percettibile, di qualcuno che parla con la testa appoggiata sul cuscino, nel cuore della notte. “Vuoi vedere che aspetto hai?”. Dalla tasca della giacca tirò fuori un piccolo specchio rotondo e lo tenne tra il pollice e l’indice.

Don si ritrasse. “No, grazie”.

“Che problema c’è?”.

“Niente”.

“Che problema c’è, bello mio?”.

Infuriato, Don guardò di nuovo in su. Ma non era nella posizione di chi può infuriarsi. Doveva sopportare tutto finché non usciva di lì, o almeno finché non gli ridavano i suoi vestiti. “Sei un dottore?”, disse tanto per dire qualcosa.

“No”.

“Inserviente?”.

“No”.

“Cosa allora?”.

“Infermiere”. Sorrise. Poi aggiunse, in tono quasi impercettibile:

“Va bene lo stesso?”.

“Va bene per cosa?”.

“Va bene per te”. Sorrise come se fosse segretamente divertito – in modo un po’ sarcastico, ma comunque divertito – da qualche piccolo scherzo tutto suo. Niente che facesse particolarmente ridere; solo una cosa a cui pensare e ripensare di continuo.

Don era troppo a disagio per guardarlo in faccia. “E l’altro che era qui?”, disse, voltando la testa dall’altra parte.

“Quello è il dottor Stevens. Ti è piaciuto?”.

“Senti. Non ha detto che potevo andarmene?”.

“Ok, bello mio. Non ti scaldare. Vado a prenderteli”.

“I miei vestiti?”.

“I tuoi granuli di paraldeide. Ti piaceranno un sacco”. E si allontanò in silenzio.

.

Quando l’infermiere fu a una certa distanza, Don si girò sul letto per vederlo uscire. Si muoveva per la corsia con passo tranquillo, senza far rumore, come se fosse in pantofole a casa sua e stesse andando al bagno, indicibilmente disinvolto e a suo agio. Era uno spettacolo che lo faceva infuriare. Ma non è che dovevi guardarlo per forza, no? Si stese sul letto a faccia in giù, rifiutandosi di continuare a guardare.

Anche se non riusciva a credere a tutta la storia della frattura cranica, cominciò a prendere coscienza del posto in cui si trovava. Il reparto alcolisti. Così ci era arrivato, alla fine. Era inevitabile che lui finisse in questo posto e la sola cosa di cui meravigliarsi era che non ci fosse finito prima. Questa era la tua dimora naturale, e faresti meglio ad accettarlo. Ad accettarlo, a startene buono e ad aspettare finché non avrai la possibilità di uscire di nuovo – e a fare, da quel momento in poi, sempre molta, molta attenzione (specie a dove metti i piedi).

Ma, d’altra parte, tutto questo non stava succedendo – niente di tutto questo stava succedendo. Ti faceva male la testa, ma di certo non sentivi il dolore che ricordavi di aver avuto in passato, non tremavi (non più del solito), non sudavi (non più del solito). Era tutto così irreale che non stavi nemmeno soffrendo; eri semplicemente in uno stato di indefinita attesa, in un tempo fuori dal tempo. Cominciò a guardarsi intorno.

Era in una lunga camerata con il soffitto alto e il pavimento di cemento, dove non c’era nient’altro all’infuori dei letti, alcuni dei quali erano così bassi che sembravano poco più che giacigli. Solo tre o quattro erano letti di altezza normale, e ai lati erano chiusi da assi come le culle dei neonati. L’idea, pensò, era di impedirti di cadere dal letto; oppure, nel caso dei letti bassi, di evitare che cadendo ti facessi male.

Sul letto accanto al suo, un uomo che aveva l’aspetto di un messia malconcio (ma solo per via del viso scarno e svuotato) fissava il soffitto. Aveva una barba di tre o quattro giorni, le guance infossate, gli occhi grandi e tristi. Le gambe bianche spuntavano da sotto il camicione pateticamente corto, come quelle di un cadavere all’obitorio. Avrebbe potuto essere morto, se non fosse che tutto il suo corpo tremava – dappertutto, tutto insieme. Era scosso da piccoli tremiti, regolari, puntuali, costanti, come se un motore di precisione fosse in funzione sotto di lui, dentro il materasso stesso.

Poco più in là, un nero di mezza età blaterava Dio sa cosa gridando a pieni polmoni, e nessuno gli prestava abbastanza

attenzione da capire di che cosa si stesse lamentando. Nel letto di fronte un altro nero si tirò su sulle ginocchia, sollevò il camicione e urinò sul pavimento. Anche in questo caso nessuno parve prestare attenzione alla cosa o preoccuparsene minimamente, meno che mai l’uomo dall’aria intelligente che se ne stava appoggiato al muro qualche metro più in là, con indosso una vecchia vestaglia sbiadita tenuta chiusa con una spilla da balia, e che si guardava intorno con la massima noncuranza possibile, stando molto attento a evitare gli sguardi degli altri. Il suo imbarazzo era doloroso a vedersi. Don sentì che l’uomo l’aveva guardato, ma nel momento in cui si voltò per osservarlo, quello aveva spostato lo sguardo di qualche centimetro a sinistra. Non si riusciva a guardarlo negli occhi neanche a provarci. Altri uomini con indosso vestaglie sbiadite o camicioni aperti dietro si muovevano senza posa su e giù per la corsia o entravano e uscivano dalle due camerate in fondo, da dove sembrava provenire la maggior parte delle urla. C’era un forte odore di disinfettante e di piedi sporchi.

Non era possibile che lui fosse lì, non era possibile che fosse arrivato in quel posto a bordo di un’ambulanza che aveva attraversato le strade della città facendo clang-clang come le ambulanze dei film o come quella che ieri, sotto i suoi occhi, aveva fatto slalom tra i pilastri della sopraelevata. Non si poteva andare in giro in uno di quei cosi e non accorgersene. Ma a te era successo. Eri stato trasportato per le strade della città in una rocambolesca corsa a zig-zag, con un paramedico che se ne stava seduto lì accanto a te per misurarti la pressione o la temperatura e che si teneva forte a ogni curva. Ma, innanzitutto, come ci eri finito in quell’ambulanza? Dov’è che ti avevano raccolto – e chi? Chi o che cosa ti aveva procurato la frattura cranica – se davvero ne avevi una? Tutto quello che si ricordava era la bottiglia che aveva lasciato a casa, sul tavolo del salotto.

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[APPENDICE
«Io, nel ruolo dell’ubriacone, avrei preferito José Ferrer. Però scesi a un compromesso e presi Ray Milland.»
Billy Wilder (Cameron Crowe, Conversazioni con Billy Wilder, Adelphi 2002, p. 120).]

Le nozze di al-Zain

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TayebSalih

di Gianni Biondillo

 

Tayeb Salih, Le nozze di al-Zain, Sellerio Editore, 2013, 122 pagine, traduzione di Lorenzo Declich e Daniele Mascitelli

Di Tayeb Salih conoscevamo già La stagione della migrazione a Nord, vero capolavoro della letteratura del Novecento (non solo araba), fortunatamente ripubblicata da Sellerio dopo un ventennio di assenza dalle librerie. Ora la meritevole casa editrice siciliana ci propone una nuova traduzione dello scrittore sudanese: Le nozze di al-Zain romanzo tradotto già da decenni nel resto del mondo e molto amato in Gran Bretagna.

Le nozze di al-Zain è un  romanzo breve, poco più di una novella aggraziata e stravagante, che racconta di un personaggio  fiabesco, al-Zain,  goffo e allampanato uomo dal cuore tenero, capace di cadere in amore per ogni fanciulla del villaggio, la quale, proprio per l’innamoramento di al-Zain, diviene d’improvviso appetibile come sposa dagli scapoli ancora liberi sulla piazza. Al-Zain, quasi portafortuna della comunità, involontario Cupido, alla fine però non ci resta mai male. Tanto prima o poi si innamorerà di nuovo, a dispetto della sua evidente, sgraziata bruttezza (ma quanto è puro il suo cuore!). Invitato ad ogni matrimonio, canta e danza, mangia e ride. Ride, sopratutto.

E ride anche lo scrittore, Tayeb Salih, che con la scusa di raccontare le disavventure di questo personaggio fumettistico, ci tratteggia un piccolo mondo chiuso, fra deserto e Nilo, pieno zeppo di regole e convenzioni che al-Zain, utile idiota, folle innamorato, sa, nella sua semplicità, evidenziare e sovvertire. Tutto attorno a lui amici e nemici, imam e commercianti, nomadi e zitelle. E la bellissima Ni‘ma, ragazza forte e volitiva, che sua sponte deciderà di sposare al-Zain a dispetto dell’opinione dell’intero villaggio.

Le nozze di al-Zain è una fiaba comica, irridente ma affettuosa, divertente e magica, scritta da un grande narratore e intellettuale arabo, alla quale Sellerio aggiunge, in appendice, due brevi racconti, piccoli esempi di scrittura e cultura araba che dovremmo sempre tenere d’occhio, oltre il nostro eurocentrismo, ormai fuori dalla Storia.

(pubblicato su Cooperazione, n° 35 del 27 agosto 2013)

I Droni

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di Mattia Paganelli

Reaper Aircraft Flies Without Pilot From Creech AFB

 

 

 

 

 

 

Due documentari usciti di recente, e in qualche modo paralleli, mi spingono a fare alcune considerazioni sulla nozione di simulazione riguardo la guerra, la tecnologia, e le immagini nella cultura contemporanea. Non intendo farne una recensione, solo prenderli come spunto. Raccomando se possibile di vederli entrambi.

 

Overbooking: Lorenzo Mazzoni

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Con la nuova casa editrice, l’italo francese Meme Publishers, Lorenzo Mazzoni ha pubblicato Murder Time. Per gentile concessione dell’editore vi proponiamo qui in anteprima uno dei suoi racconti. Vai Lorè! effeffe

cover_mazzoni

Il disinfestatore del Caucaso

di

Lorenzo Mazzoni

Mikheil indossa un fez di feltro, un cappotto di montone comprato al mercato, pantaloni a zampa di elefante e stivali lucidi di cuoio con il tacco alto. È lungo, calvo e magro con una barba incolta. Cammina sbilenco. Intorno il buio della notte riveste i profili delle case diroccate. Mikheil odia le strade fatiscenti di Kharpukhi, uno dei quartieri più poveri di Tblisi, le maledice giorno e notte.
Arriva davanti all’entrata di un magazzino che sembra abbandonato. Un bambino in tuta da ginnastica e la giacca da commesso viaggiatore, seduto su uno pneumatico di camion, segue con lo sguardo Mikheil che apre la porta ed entra.
Percorre il corridoio umido del magazzino. Alle pareti carta da parati di epoca sovietica marcia e scrostata. C’è puzza di piscio e sigarette. Nell’ufficio lo aspetta Misha, seduto alla scrivania spoglia. È basso, magro, indossa uno sformato maglione nero con una spruzzata di forfora sulle spalle. Gli dà la mano, una stretta debole.
― Mateba Autorevolver Benvenuto, genatsvale ― dice, con una voce stanca.
― Piantala con queste stupide espressioni d’affetto, Misha.
― Ho portato fagioli e pane khachapuri ripieno di formaggio. Vuoi mangiare con me?
― No. ― Mikheil si accende una sigaretta e guarda Misha scartare una pagina di giornale che avvolge un contenitore di alluminio pieno di stufato freddo di fagioli e di pane molliccio.
― Hai il nome?
― Diversi nomi ― risponde Misha portandosi alla bocca un pezzo di khachapuri intinto di salsa.
― Non si accontenta, eh?
― Questi hanno peccato.
― Tutti peccano.
Misha estrae dalla tasca dei pantaloni un bigliettino unto e stropicciato e glielo allunga sopra la scrivania.
― Lì ci sono i nomi.
Mikheil legge distrattamente e si lascia andare in un lungo e affannato sospiro:
― Tu almeno ogni tanto puoi andartene. Farti qualche periodo di riposo all’ovile.
― Anche lassù è una noia mortale ― dice Misha. ― Anzi, preferisco stare qua. Almeno posso scopare.
Mikheil dà una lunga boccata alla sigaretta ed emette una nuvola di fumo. La fissa a lungo perdendosi nei suoi pensieri. Ad altri è andata senz’altro meglio: Parigi, Londra, Ibiza, Barbados. Anche all’isola di Tonga c’è qualcuno di loro. E lui, come un autentico fesso, sono trecento anni che si trova nel Caucaso, quasi tutti passati a Tblisi. Trecento anni passati a lavorare discretamente e a ubriacarsi senza parsimonia. Ha anche perso l’ala sinistra, bruciata durante una serata di bagordi post― indipendenza dai sovietici in un bordello fuori città.
― Insomma, ora io vado ― dice, alzandosi.
Misha continua a ingozzarsi di khachapuri. Un filo di salsa gli cola dall’angolo destro della bocca.
All’esterno l’aria è carica di ozono. Il bambino in tuta da ginnastica e la giacca da commesso viaggiatore, è ancora seduto sullo pneumatico. Segue con lo sguardo Mikheil che si allontana.
Questi, svoltato l’angolo, si accende una sigaretta. Cammina per le strade buie di Kharpukhi. Dà un calcio a un gatto randagio. Piscia contro il muro di una chiesa. Si ferma davanti a una porta con un’insegna al neon che recita: STAR. Mikheil apre la porta. Due ragazzini stanno fumando eroina seduti sul primo gradino della rampa che conduce nel sottoscala. Mikheil si fa offrire un paio di tirate. Scende. Cammina in un tunnel. Il tunnel è infinito, dritto e sempre uguale. Il pavimento è lastricato di marmo e le scritte alle pareti sono al neon, blu, luminose e fastidiose.
Entra in una stanza semibuia, illuminata tenuemente da candele posizionate a terra, fra i corpi di una decina di giovani ballerini. Agli angoli della stanza altri ragazzi. Fumano, sorseggiano drink scadenti. La musica, turbofolk serba, esce da casse malandate appoggiate su mensole di legno.
Mikheil si dirige al bar: una cassa di frutta capovolta ricoperta di bottiglie di liquori illegali. Un uomo senza età, dai tratti siberiani, siede con lo sguardo assente fumando un sigaro. Beve birra direttamente dalla bottiglia chiacchierando con quindici persone contemporaneamente.
Mikheil gli mostra la lista:
― Hai visto qualcuna di queste persone qui dentro?
Il siberiano fa un impercettibile segno di negazione con il capo.
― Zaali Kenia e Roin Loria so che sono tuoi clienti.
Il siberiano lo ignora e riprende a parlare con gli avventori ubriachi che lo attorniano.
Mikheil se ne va. Risale le scale. Si fa offrire qualche altro tiro dai due giovani eroinomani.
Debole, tremante, dà un’occhiata alla lista. Decide di andare a fare una visita a domicilio, ma è stanco e si siede su una panchina. Di fronte a lui tre donne vestite di stracci lo guardano con la mano tesa in cerca di un’elemosina. Mikheil pensa che le tre pezzenti sembrano copie effeminate di Satana. Stringe forte la Tokarev TT33 nella tasca del cappotto. Una delle donne canta con una vocina stridula. Mikheil ha un calo di pressione. Ha bisogno di zuccheri.
― Avete cioccolata?
La donna che stava cantando la sua nenia infernale si zittisce ed estrae dalla giacca logora una caramella balsamica. La porge a Mikheil. Lui la scarta e se la infila in bocca. Cerca qualche moneta in tasca. Trova un kopeko del periodo imperiale. Lo lancia alla donna. Poi, succhiando la caramella, si alza e riprende a camminare.
Dà un’occhiata ai nomi della lista. Zaali Kenia, 54 anni. Roin Loria, 49 anni. Giorgi Loria, 51 anni. Eka Kaladze, 32 anni. Nana Japaridze, 19 anni. Abitano tutti nello stesso palazzo. Indirizzo ed età sulla lista non sono segnati, ma dopo trecento anni Mikheil è un archivio vivente di tutta la cittadinanza di Tblisi.
La casa è nel cuore fatiscente di Kharpukhi. Mikheil aspetta, di fronte all’ingresso, seduto sul marciapiede a fianco di un bambino silenzioso in tuta da ginnastica e un infeltrito cashmere di lana. Per passarsi il tempo Mikheil mostra al bambino come caricare e svuotare il caricatore della Tokarev TT33.
Una Lada arrugginita, sferragliante e puzzolente arriva a tutta velocità e si ferma con uno sraziante cigolio di freni davanti al palazzo. Scendono una ragazza bionda in completino zebrato e un tipo con la pancia sporgente e i capelli ingrigiti, la giacca aperta a mostrare la pistola alla cintura. La ragazza scompare nell’androne del palazzo, ridacchiando ubriaca. L’uomo barcolla e fatica a rimanere in piedi. Quando raggiunge la porta Mikheil lo afferra per il colletto.
― Ciao Roin ― gli bisbiglia all’orecchio.
Girando su se stesso l’uomo sfugge alla presa di Mikheil e si precipita verso le scale. Mikheil lo afferra per la giacca. L’uomo prova a sfilarsela, ma Mikheil gli blocca le braccia e lo trascina verso la porta.
― Tuo fratello e Zaali sono in casa?
Roin non risponde.
Mikheil lo lascia andare. L’uomo cerca di alzarsi e scappare in strada, ma inciampa sul bambino in tuta da ginnastica e cashmere di lana.
Mikheil gli stringe il collo con un braccio.
― Questo succede alle persone cattive ― dice, facendo pressione con la mano libera a girargli innaturalmente la faccia fino a spezzargli violentemente l’osso del collo. Lo lascia andare. Il bambino guarda il grosso corpo immobile nel centro dell’atrio. Guarda la pistola, una  Mateba Autorevolver,  infilata nei pantaloni.
― Prendila. Se vuoi, è tua ― dice Mikheil. ― Devi però essere consapevole che se lo fai un giorno potrei venire a cercare te e farti quello che ho fatto a questo signore. Scegli se vuoi essere o no una persona cattiva.
Il bambino si china sul corpo. Mikhaeil sale le scale mentre il bambino si allontana per le strade di Kharpukhi armato, in cerca di qualche poveraccio da spennare.
Al primo piano Mikhaeil si ferma davanti all’appartamento di Roin Loria. La porta è socchiusa. Per essere uno dei più importanti trafficanti di eroina della città vive in un appartamento banale, con un arredamento spoglio e neutro. Sulla tavola in cucina tanto cibo che non si riesce a capire il colore della tovaglia. Uova sode, salsiccia, polli arrosto, formaggi, brocche di suco di mela, fagioli, bottiglie di vodka, pomodori, cetrioli. Il lobio, lo stufato di fagioli.
― Roin, cosa cazzo stai facendo?
La ragazza col vestito zebrato, Nana Japaridze, diciannove anni, amante di Roin, con un passato di due aborti e l’abbandono di un neonato in un cassonetto dell’immondizia, compare sull’uscio della cucina. Ha il trucco colato, non ha più il vestito. È nuda.
― E tu chi cazzo sei? Dov’è Roin?
Mikhaeil vede un coltello seghettato per il pane sul tavolo. Senza dire una parola si avvicina alla ragazza e le incide un profondo taglio sulla giugulare. La lascia cadere a terra, e mentre questa agonizza apre il frigo. Trova un succo alla pera e lo beve guardando il cielo buio e malato. Scavalca il corpo di Nana, fruga in giro e trova un martello e un portacenere. Esce dall’appartamento e sale le scale. Zaali Kenia e Giorgi Loria, soci in affari di Roin, vivono insieme, sono amanti da quindici anni anche se i due nelle uscite nella società bene dicono di essere semplici amici.
Mikhaeil bussa. Un assonnato uomo in vestaglia di raso apre la porta. Mikhaeil lo colpisce violentemente con il martello. Poi trascina il corpo in casa. Si dirige nella camera da letto dove trova Giorgi. Con una mira e una forza sovrannaturale gli lancia il portacenere che lo colpisce in mezzo alla fronte, tramortendolo. Afferra un cuscino, glielo mette sopra la testa e lo soffoca. Prende una coperta, la getta sul corpo di Zaali e gli dà una trentina di martellate sulla testa. Esce e va alla porta accanto. Eka Kaladze, 32 anni, la giornalista corrotta che nelle campagne contro il clan dei Loria li ha sempre difesi guadagnandoci soldi e un appartamento.
Mikhaeil bussa. Due colpetti leggeri.
Eka apre dopo mezzo minuto. È una bella donna dai capelli lunghi e rossi. Indossa una minuscola sottoveste nera di pizzo.
― Sì? ― chiede, guardando Mikhaeil con gli occhi gonfi e arrossati.
― Hai una cattiva anima…
La donna arretra fino al sofà, inciampa e cadendo si scopre le cosce. Si accorge che Mikaheil la guarda e fa il tutto per tutto: si alza ancora di più la sottoveste allungandosi sul divano. Mikhaeil sbuffa, estrae la Tokarev TT33 e le spara un solo colpo, in mezzo agli occhi.
Si china sul tavolino, prende la vodka, sposta le gambe di Eka e si siede a fianco a lei a bere a a guardare concerti e film in tv, cambiando continuamente canale. Stravaccato. All’alba si stanca. Trova il telefono in corridoio. Telefona a Misha per dirgli che è tutto fatto. Nella borsetta della donna trova qualche soldo, li prende e getta la borsa sul cadavere.
L’alba illumina una città deprimente. Un giallore triste e febbrile colora le facciate dei palazzi. L’aria è carica di ozono e grosse gocce di pioggia cominciano a crepitare sul selciato. I vetri delle finestre sono rotti, le grondaie sono storte, le case sbilenche e diroccate, i cartelli pubblicitari arrugginiti, i parchi coperti di rifiuti. Le strade sono piene di buche profonde come una fossa, interrotte da radici che spaccano l’asfalto. I cavi della luce penzolano ad altezza uomo. Un cane con tre zampe rovista in un sacco dell’immondizia. Due bambini, uno con la giacca da commesso viaggiatore e uno con un cashmere di lana, lo osservano passare al riparo di una pensilina. Quello col cashmere tiene in pugno la pesante Mateba Autorevolver.
Mikheil guarda in alto in cerca di un segnale, ma lassù, nell’ovile, non si muove niente.
― Vecchio bastardo ― dice Mikheil. Fa il dito medio al cielo, dà i pochi spicci che ha ai bambini e riprende a camminare.

 

 

 
Alle Ore 19 del 9 Maggio, nell’ambito del Salone Off di Torino 2014
al SiVuPlé, petite épicerie/bistrot di Via C.L. Berthollet 11, in collaborazione con la libreria Trebisonda (Enjoy San Salvario Social Festival) Lorenzo Mazzoni presenta Termodistruzione di un koala. Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico.(Koi Press)
Interviene Marco Belli.

Essere morti a Venezia

5

Gery Geddes

 (trad. Angela D’Ambra)

La torre

 

A mio modo li ho amati, al punto
da pagare il fucile in moneta sonante,
studiare la strategia l’intera notte.
Non mi lamentai per il vento freddo
o l’estenuante ascesa alla torre;
neanche la lunga attesa e il rancido afrore
dei piccioni fiaccarono la mia pazienza.

Quando, dopo un po’, apparvero,
nel fulgido sole d’inverno, a mezzogiorno
non lesinai sforzi per calibrare il fucile,
posizionare la delicata croce del mirino
in linea con le loro tempie o i petti.

E quando si misero a correre, dopo che il primo
crollò stecchito nella neve molle,
mai persi la calma, ma li presi
uno a uno, come un gatto coi gattini.

 

 

Terra Promessa

 

Quando andai a esplorare il paese
portai parastinchi, maschera antigas,
gomme da neve con borchie in metallo,
radar, bazooka, aerei da ricognizione,
borotalco, filo interdentale, fucili
FN, passaporto falso, tessera sanitaria
e un sospensorio con coppa di metallo.

Nel viaggio d’esplorazione del paese
mi procurai fumetti di Batman, walkie-talkie,
bombe a mano e baionette, uno yoyo,
il ricordo d’una madre che sventola calzini
e biancheria pulita, assicurazioni sulla vita,
l’Enciclopedia Britannica, la benedizione
di Mosè, una cassetta, un quarto di whisky,
antistaminici, alcuni indirizzi,
tamburi bongo, Playboy, congegni
per intercettazioni, sacchi da rifiuti verdi,
Kleenex, lassativo, gommone gonfiabile,
pemmican, razzi, cerotti anticallo,
biglietti di ritorno, batterie di ricambio,
contraccettivi, un atlante.

Sapevo che questo era il posto giusto:
smerciai l’intero lotto il primo giorno.

 

 

Verbo

 

Mi feci carne;
Nuotai, impaziente,
in acque placentali.

Guanti di gomma
diressero il mio cranio letale
nella breccia, mi lanciarono
in mari più sottili.

Un quarto di buon champagne
mi schizzò lungo i fianchi,
un motore minuto
mi sospinse avanti.

Navi affondarono, una dopo
l’altra, le urla degli uomini
non valsero a nulla.
Cantai nell’aria,
il mio canto
infranse un pensiero di bambino.

Mi piantarono nei campi,
sotto ponti, nessuno
raccolse i pezzi.
Mi lanciarono su città;
la carne bruciata mi s’impuntò
in gola.

Mi svecchiarono, mi resero
slanciato, bello.
Divenni vanesio. Inesausta
era la mia brama.
Li osteggiai.

Menzionarono dio, l’onore.
Mi pulii la bocca
sulla manica.

 

 

Le Piante

 

Ci reputiamo
stabili, concrete.
Nessuna rilevante caducità,
pure avemmo la nostra quota
di arrampicatori sociali.

Fummo ciò che fummo,
su noi si poteva sempre contare
per restare ferme
a produrre, o riprodurci.

Conservatrici in politica:
né avide né ribelli,
solo noiose. Che accadde?
Fu ambizione o vanità,
volare troppo vicino al sole
quasi a scrollarci di dosso
questo dedalo di radici,
lo stigma del posto?

Sia come sia, ci bruciammo.
Ci fu un’esplosione,
una luce accecante.
Saltarono i trasmettitori
si sciolsero. Uno squarcio
s’aprì nel firmamento
e con noi sparì
tutto ciò che esiste.

 

 

Pausa per la Coca-Cola

 

Marlon Mendizabel accende la TV
dopo un duro giorno di trattative. I bambini
giocano ai suoi piedi, la partita di football in onda
sul canale americano. Tutta la mattina

incontri coi dirigenti alla fabbrica di Coca-Cola
per risolvere lo sciopero. La Società
ne ha assunti tre nuovi, ufficiali dell’esercito,
a dirigere stoccaggio, risorse umane, sicurezza.

Sei occhi lo vogliono morto, sei nuovi occhi laser
negoziano la sua scomparsa pezzo a
pezzo. Prima a svanire è la voce che tenta
con passione, con logica, ma nulla di quel che

dice sembra avere il minimo effetto.
Poi le mani, riprendendo la discussione,
in sostegno alla voce, vacillano,
sconfitte a un soffio dalla meta.

Presto le sole braccia che possiede per arrendersi,
quelle pure svaniscono. S’adagia sullo schienale, uomo
invisibile, un desaparecido, ma la famiglia
non lo nota. Niente di quanto fatto o detto

gli farebbe perdere la faccia, ma quella pure
svanisce insieme col resto. Non è il solo.
Ventisette leader sindacali
della Confederazione Nazionale del Lavoro

sono stati sequestrati; due mesi dopo
altri diciassette, omicidi confermati
dalla Conferenza dei Vescovi del Guatemala.
Marlon vuole vivere per i suoi figli,

ma è troppo tardi. Delle 208 ossa nel suo corpo,
metà sono tornate in casse da imballaggio.
La dieta di paura gli contrae lo stomaco.
I figli guardano lo spot della bibita analcolica

in TV, tifando per il camion della Coca
se quello rivale lo distanzia. Vorrebbe
dir loro che non si tratta di gusto, ma di etica,
che il camion contiene le ossa di 100.000

guatemaltechi ammazzati, trucidati da squadroni
della morte al soldo del governo e di grandi compagnie.
Invece, stende una mano invisibile sulle loro teste
e offre una muta preghiera per la loro salvezza.

Il cuore di Marlon si allarga tanto da colmare la stanza
finché anche quelli alla TV se ne accorgono
e interrompono l’attività per guardare e ascoltare
il messaggio di quel cuore in comunione

con Dio. I giocatori di football si tolgono i caschi
e restano in piedi a testa china; gli speaker,
per una volta, sono a corto di parole. Fuori
Dallas, il camion della Coca accosta, luci

lampeggianti. Si apre una portiera e quelle ossa
formano un ampio ponte che si stende fino
a Città del Guatemala. Bambini lo attraversano,
mani unite, cantando. Niente li può fermare.

 

 

Vetrinette

 

È difficile, adesso, parlare di queste cose.
Descriverei invece come la luce piove
nei cortili, al mattino, su panni
stesi ad asciugare.
Quel bimbo nel vano della porta
che si volge al suono delle persiane,
fra il ridente e il corrucciato.
E i capelli di Carmen
che colmano il finestrino di dietro
della Peugeot.

Quindici finestre nel poster di Lonquen,
un volto in tutti, tranne uno.
Campesinos dall’Isola di Maupu
torturati e sepolti vivi
nella calce. Padre
e tre figli.
Riquadri di testimonianza
dell’agente Valenzuela:
un gruppo ucciso alla base aerea,
altri gettati in mare
da elicotteri, stomachi squarciati.

Ogni affisso un micro-condominio,
inquilini che fissano giù in strada
qualche fatto, un corteo,
un tramonto. Altri otto a Valparaiso
che avrebbero dovuto guardare il mare.

Ho visto una buganvillea
nella vetrina di un ristorante
vicino al luogo dell’agguato;
e una vetrina con un cactus spinoso
in fiore, un maiale di coccio
e una sfilza d’uccelli in vimini
che con grazia roteano nel vento.

Perch・sorridono, queste facce in cornice
sanno qualcosa che noi ignoriamo?
Dietro loro bianco perpetuo,
luce brillante
al termine del tunnel.
Forse siamo noi i perduti
e loro vegliano su noi
da qualche mondo perfetto,
chiedendosi la ragione di tanto
scompiglio, perché
queste maschere di sofferenza.

Quando le rompono gli occhi
le immagini restano.
Il suono d’elicottero
si perde. Il mare lecca
il rosso dal suo stomaco.

 

***

 

The Tower

 

I loved them, in my own way,
enough to pay hard cash for the rifle,
to plan my strategy long into the night.
I did not complain about the cold wind
or the exhausting climb to the tower;
even the long wait and the rank-smelling
pigeons never taxed my patience.

When they emerged, after a time,
into the bright winter sun at mid-day,
I spared no effort to steady the rifle,
to bring the delicate cross of the gun-sights
into line with their temples or breasts.

And when they began to run, after the first
had settled to rest in the soft snow,
I never lost my cool, but took them
one by one, like a cat collecting kittens.

 

 

Promised Land

 

When I went to spy out the land
I took shin pads, gas mask,
snow tires with metal studs, radar,
bazookas, reconnaissance planes,
foot powder, dental floss, FN
rifles, forged passport, hospital insurance
and a jock-strap with a metal cup.

On my way to case the land
I took Batman comics, walkie-talkie,
hand-grenades and bayonets, a yoyo,
the memory of mother waving clean socks
and underwear, life insurance,
the Encyclopaedia Britannica, Moses’
blessing, a cassette, a mickey of rye,
anti-histamine, a few addresses,
bongo drums, Playboy, equipment
for wire-taps, green garbage bags,
Kleenex, laxative, an inflatable raft,
pemmican, flares, corn-plasters,
return tickets, spare batteries,
contraceptives, an atlas.

I knew this was the right place,
I sold the whole lot the first day.

 

 

Word

 

I became flesh;
I swam, impatient,
in placental waters.

Rubber gloves
guided my lethal skull
into the breach, launched me
into thinner seas.

A quart of good champagne
splashed down my sides,
a tiny motor
propelled me forward.

Ship after ship went
down, the screams
of men meant nothing.
I sang in the air,
my song
shattered a child’s thought.

They planted me in fields,
under bridges, no one
collected the pieces.
They dropped me on cities;
the charred flesh stuck
in my throat.

They updated me, made me
Streamlined, beautiful.
I grew vain. My lust
could not be glutted.
I turned on them.

They spoke of god, of honour.
I wiped my mouth
on my sleeve.

 

 

The Plants

 

We considered ourselves
stable, down-to-earth.
No appreciable transience,
though we had our share
of social climbers.

We were what we were,
could always be counted on
to stay in one spot
and produce, or reproduce.

Our politics were conservative:
neither greedy nor revolting,
only dull. What happened?
Was it ambition or vanity,
flying too near the sun
as if to shake off
this labyrinth of roots,
the stigma of place?

Anyway, we got burned.
There was an explosion,
a blinding light.
Our transmitters fritzed,
then melted. A rift
opened in the firmament
and with us went
everything that is.

 

 

Time Out for Coca-Cola

 

Marlon Mendizabel turns on the TV
after a hard day of bargaining. Children
play at his feet, a football match in progress
on the American channel. All morning

he has met with officials at the Coca-Cola
plant, trying to resolve the strike. The Company
has hired three new army officers to direct
warehousing, personnel and security.

Six eyes want him gone, six new laser eyes
negotiate his disappearance piece
by piece. First his voice, venturing out
passionately, logically, vanishes, as

nothing he says makes the least impression.
Then his hands, picking up the argument,
running interference for his voice, falter,
are brought down short of the goal.

Soon the only arms he has to surrender
are gone too. He leans back, an invisible
man, a desaparecido, but the family
hasn’t noticed. Nothing done or said

could make him lose face, but that went too
along with the rest. He’s not alone.
Twenty-seven union leaders
from the National Confederation of Labour

have been kidnapped; two months later
another seventeen, murders confirmed
by the Conference of Guatemalan Bishops.
Marlon wants to live for the sake of his kids,

but it’s too late. Of the 208 bones in his body,
half have returned to the packing-crates.
His abdomen shrinks from its diet of fear.
His children watch the soft drink commercial

on television, cheering on the Coke truck
as it falls behind that of its rival. He wants
to tell them it’s a matter of ethics, not taste,
that the truck contains the bones of 100,000

murdered Guatemalans, killed by death-squads
in the pay of government and large corporations.
Instead, he lays an invisible hand on their heads
and offers up a silent prayer for their safety.

Marlon’s heart grows so large it fills the room
until even those on television notice
and stop what they’re doing to watch and listen
to the message of that heart as it communes

with God. Football players take off helmets
and stand with heads bowed; the announcers,
for once, are at a loss for words. Outside
Dallas, the Coke truck pulls over, lights

flashing. A door opens and those bones
form a vast bridge that stretches all the way
to Guatemala City. Children are crossing, hands
joined, singing. Nothing can stop them.

 

 

Little Windows

 

It’s difficult now to speak of these things.
I’d rather describe the way light falls
in morning courtyards, on clothes
hung out to dry.
That child in the doorway
turning to the sound of the shutter,
half smiling, half indignant.
And Carmen’s hair
filling the entire back window
of the Peugeot.

Fifteen square windows in the Lonquen
poster, a face in all but one.
Campesinos from Isla de Maupu
tortured and buried alive
in lime. Father
and three sons.
Windows of agent
Valenzuela’s testimony:
a number killed at the air-base,
others thrown into the sea
from helicopters, stomachs opened.

Each poster a small apartment building,
tenants gazing into the street
at some event, a demonstration,
a sunset. Eight more in Valparaiso
who should have looked out on the sea.

I saw bougainvillea
in a restaurant window
near the place of ambush;
and a window with a spiky cactus
in full bloom, a pottery pig
and a string of wicker birds
turning gently in the wind.

Why do they smile, these framed faces,
do they know something we don’t?
Behind them perpetual white,
bright light
at the tunnel’s end.
Perhaps it is we who are lost
and they looking out at us
from some perfect world,
wondering what all the fuss
is about, why
these masks of suffering.

When they break her eyes
images remain.
Sound of the helicopter
recedes. Sea is a window
above him, water tongues
the red from his stomach.

 

 

*

 

Gary Geddes, nato nel 1940 a Vancouver, Columbia Britannica, è poeta, critico, autore di teatro, scrittore di viaggio e nature writer, curatore di antologie ed editore. Tra le sue opere di poesia ricordiamo: Poems (1971), Rivers Inlet (1972), Snakeroot (1973), Letter of the Master of Horse (1973), War & other measures (1976), The Acid Test (1980), The Terracotta Army (1984; 2007); Hong Kong (1987), No Easy Exit (1989), Light of Burning Towers (1990), Girl by the Water (1994), The Perfect Cold Warrior (1995), Active Trading: Selected Poems 1970-1995 (1996), Flying Blind (1998), Skaldance (2004), Falsework (2007); Swimming Ginger (2010). I testi qui inclusi sono tratti dall’antologia inedita Being Dead in Venice.

Quel che passa il convento ovvero opinioni di un disadattato

5

di Giorgio Mascitelli

Uno degli avvenimenti più emblematici della vita culturale del nostro tempo è stato l’articolo, apparso sul Guardian nel 2011, del grande collezionista e gallerista londinese Charles Saatchi sul mondo dell’arte contemporanea, nel quale  esso veniva denunciato come luogo dominato da volgarità modaiola e superficialità in tutte le sue componenti: artisti, galleristi, critici e pubblico.  La novità non era certo nelle tesi, tutto sommato formulata con maggiori perspicuità analitica ed eleganza intellettuale da altri prima di lui, ma nel fatto che fossero sostenute da uno dei principali protagonisti di questo stesso mondo e, per così dire, da uno degli artefici di questo stato di cose. Insomma ciò che una volta sarebbe stato argomento di una tavolata di cinquantenni artisti falliti e pieni di ressentiment in una qualsiasi osteria della Rive Gauche globale oppure di un numero monografico di qualche rivistina di marxismo accademico, di quelle che sopravvivono grazie al sussidio pubblico perché il mercato le stroncherebbe subito, ora alligna tra le opinioni autorevoli di uno dei Gran Signori del nostro tempo.

Naturalmente questa uscita di Saatchi è stata accompagnata da una ridda di ipotesi sui motivi reconditi della sua esternazione, da chi alludeva a una raffinata operazione commerciale a chi pensava a un ravvedimento autentico a chi a un suo riposizionamento nel timore dello scoppio della bolla speculativa nell’arte. Siccome non sono certo in grado di scrutare le intenzioni e le motivazioni dei Grandi del nostro tempo, mi limito a constatare che Saatchi non è l’unico ad aver fatto qualcosa di questo genere.

Due esempi ancora più autorevoli, se possibile, sono quelli del finanziere Warren Buffet, che ha criticato a più riprese la politica liberista dei governi statunitensi soprattutto sul piano fiscale, e dello speculatore monetario George Soros, che ha denunciato  i grandi rischi per la società democratica o aperta, secondo la terminologia popperiana usata dallo stesso Soros, provenienti dalla speculazione finanziaria. In un certo senso si potrebbe dire che lo stile dei Grandi del nostro tempo prevede un loro posizionamento critico rispetto a quel mondo di cui sono se non i responsabili, gli indubbi protagonisti.

Non bisogna ovviamente sopravvalutare la portata di queste critiche: se si legge un critico autentico del liberismo o del mercato dell’arte risulta evidente che i rilievi mossi da un Saatchi o da un Buffet sono oltremodo circoscritti e semplicistici. Sul piano però della tonalità emotiva dominante oggi, quest’ultima considerazione più tecnica ha poco peso a fronte dello stupore per il fatto apparentemente inaudito che una parte, la più intelligente,  di coloro che detengono il potere esercita una critica sulle conseguenze che comporta il potere da essi stessi esercitato.

La conoscenza dell’analisi critica e rigorosa farebbe giustizia di questo stupore, in verità fuori luogo, ma essa è per così dire incomunicabile non soltanto in ragione della sua difficoltà intrinseca, ma anche della scarsa appetibilità in termini di prestigio sociale: il raggiungimento di una consapevolezza culturale e politica poco spendibile sul piano della riuscita sociale è un ben misero premio e anzi rischia di essere il marchio di un’esperienza marginale, se non addirittura di disadattamento.

Un mondo in cui il potere denuncia se stesso ( e il discorso critico è oscuro e poco attraente) fatalmente genera una sensazione di dejà vû e di noia anche in chi per la precarietà della propria vita non dovrebbe avere molto tempo per simili stati d’animo. Così analogamente la correlativa convinzione di aver già letto tutti i libri e di conoscere tutto ciò che va conosciuto spesso alligna in coloro che meno hanno letto e meno hanno conosciuto. Non si tratta di una forma di protervia o di quell’arroganza che pasolinianamente si potrebbe attribuire a una piccola borghesia globalizzata, ma più semplicemente la gratificazione che nasce da quella sensazione e da questa convinzione è l’unico schermo protettivo contro la disturbante percezione che le numerose libertà di cui godiamo siano sempre meno esercitabili in un mondo senza vie d’uscita possibili.

Ma per tornare a Saatchi, se analizzassimo la sua denuncia in un’ottica dadaista ( solo per amore di ipotesi perchè non credo che questa fosse la sua intenzione mancando nel suo scritto quella platealità ludica e il gusto per la provocazione tipiche del dadaismo), si potrebbe dire che essa contiene un paradosso per cui la denuncia da parte di colui che dovrebbe essere denunciato rende non credibile ogni ulteriore denuncia; in un’ottica giansenistica invece la sua denuncia non sarebbe credibile se non seguita da un immediato abbandono dell’attività di gallerista; in un’ottica politicizzata sarebbe il segno dell’assoluta sicurezza delle èlite, il cui dominio non trova contestazione nemmeno sul piano simbolico.

Insomma quel che passa il convento oggi è questo e proprio perciò si apre lo spazio per  un’arte ( e per una letteratura) non più di contestazione, ma di evasione.

Mondi offesi

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mondo_offesodi Romano A. Fiocchi

All’inizio di via Rovello, a Milano, c’era un’antica libreria antiquaria gestita da un bibliofilo per eccellenza, Mario Scognamiglio, presidente dell’Associazione Internazionale di Bibliofilia Aldus Club. La libreria ha chiuso i battenti il 29 dicembre 2012, i locali a tutt’oggi sono ancora vuoti. Poco più in là, nello stesso periodo, ha chiuso la Libreria di Brera (su Google Maps si può ancora vedere l’insegna). Al suo posto c’è un negozio di camicie. Se prosegui per corso Garibaldi, nell’interno suggestivo di un cortile trovi la vecchia sede della Libreria del Mondo Offeso. Ora è occupata dallo showroom di una piccola azienda artigianale di abbigliamento. La libreria ha traslocato più in periferia, verso l’Arco della Pace, dove insieme ai libri offre un servizio di caffetteria e tavola calda. Andando oltre, sull’angolo con via della Moscova, sino a poco più di un anno fa c’erano le vetrine della Libreria dell’Utopia, ora trasferita in zona Lambrate. Non reggono nemmeno i remainder: quello storico delle Librerie Riunite, nella centralissima via Dante, ha cessato l’attività nel febbraio scorso. Affitti e spese fisse li stanno decimando. Non solo a Milano, la sensazione è che il fenomeno sia generalizzato. A Pavia, la mia città, la Libreria il Delfino ha lasciato la prestigiosa piazza della Vittoria per una piazza più caratteristica ma più nascosta. I nuovi locali sono ora abbinati a un esercizio di bar e ristorazione. Il tutto con affitto inferiore, si intende.

La domanda è: cosa sta succedendo? Questa non è la crisi, è qualcosa di epocale, è la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Colpa dell’e-book, dice qualcuno. Ma il libro digitale non c’entra, è soltanto un supporto diverso, e poi è appena partito, non ha ancora i numeri per poter influenzare il mercato. Colpa dell’abolizione delle licenze avvenuta nel 2006, dice chi ha l’occhio del commerciante, così finisce per comandare il dio denaro: le multinazionali arrivano e si comprano gli spazi che vogliono. Le librerie, con il loro modesto giro d’affari, non possono competere. Il fatto è che la libreria non è un negozio qualsiasi. È uno spazio per le idee, è l’habitat della cultura e degli strumenti che la diffondono. Certo, si possono vendere libretti più o meno erotici e best seller di grido sia in un negozio di intimo che tra i banchi di frutta del supermercato. Ma la libreria, quella dove c’è un libraio con cui parlare, dove anche i piccoli editori hanno il loro spazio, dove il successo di un libro non si misura dal numero di copie vendute, ebbene, la libreria è qualcos’altro. E questo qualcos’altro sta evolvendo. Verso quale forma, è ancora da capire. Ma prima di qualsiasi ipotesi bisogna rispondere a una domanda ineludibile: cos’è la libreria.

Sono allora entrato in una delle “sopravvissute” citate più sopra: la Libreria del Mondo Offeso. Tra un’autorizzazione e l’altra è passato un anno, ma da alcuni mesi ha finalmente la nuova insegna. Tre vetrine, angolo caffetteria (in realtà quasi metà locale), un pianoforte, sedie, sgabelli, tavolini, tavoli espositivi, poster in bianco e nero sulla sezione alta delle pareti: Chaplin, Sordi, scene di vita ritratte dagli Alinari, e così via. Il resto, scaffalature e libri, compresi quelli per bambini. Prima, quando si trovava in corso Garibaldi, era libreria e basta, solo una macchinetta per il caffè accanto alla cassa. I muri con i mattoni a vista creavano un’atmosfera bohémien in perfetta sintonia con il nome, il Mondo Offeso, preso in prestito da Vittorini. Da qui ecco lo spunto per il primo tentativo di definizione: la libreria è un centro di materializzazione di fantasmi letterari. I personaggi che popolano la Libreria del Mondo Offeso sono appunto quelli di Conversazione in Sicilia. C’è l’arrotino, con la sua grande bocca da magro, la faccia nera e gli occhi scintillanti sotto il vecchio copricapo da spaventapasseri. C’è la faccia paffuta dell’uomo Ezechiele, gli occhi piccini che guardano intorno con tristezza. C’è l’immenso uomo Porfirio, occhi azzurri, barba castana e mani rosse. E poi Colombo, il nano delle miniere di vino. E poi gli uomini che cantano seduti su una panca. E i due giovani senza vino che piangono seduti per terra, nonostante il vino, in questa libreria, sia ampiamente disponibile.

Ma c’è dell’altro. Sulla vetrina è applicata la sagoma presa dalla vecchia insegna di corso Garibaldi: un gentiluomo di spalle con cappello e ombrello. Se in origine anche lui era soltanto il personaggio di un libro, Tristano, ora incarna il ricordo di uno scrittore che la Libreria del Mondo Offeso ebbe ospite nella sua vecchia sede e che è ormai scomparso da un paio d’anni. O meglio, non è scomparso. Antonio Tabucchi è qui anche lui, seduto ad un tavolino dell’angolo caffetteria come se fosse alla Brasileira di Lisbona. Sorseggia un caffè, sfoglia qualche libro, magari scambia un’occhiata di intesa con l’uomo Ezechiele e con l’uomo Porfirio. Eh, a guardare ce ne sono di fantasmi usciti dai libri, maggiori e minori… Tra i tavoli, ansioso di sedersi per mangiare un boccone, si aggira persino l’ispettore Ferraro, scappato fuori da un librettino basso basso, quasi sentisse il disagio di trovarsi nelle mani di Dio e volesse prendere una boccata d’aria. Arrampicato su una scaffalatura trovi invece Cosimo Piovasco di Rondò. È chiaro, lui non posa un piede per terra. Ma c’è anche il fantasma di un’armatura vuota che cammina davanti al bancone dei caffè, nonché un tale Marcovaldo che cerca di barattare la sua salciccia con un piatto caldo. Insomma, la fauna narrativa di Calvino al completo. Non per nulla sugli scaffali sfila la sua opera omnia, così come quella di Pasolini, di Bilenchi, di D’Annunzio, di Sciascia, di Scerbanenco, di Gadda, della Romano, di Soldati, di Pirandello e di altri mostri sacri del Novecento italiano di cui la libreria è fornita.

Con un accostamento che lascia un po’ perplessi, la Libreria del Mondo Offeso è specializzata in zuppe, risotti, taglieri di salumi e di formaggi, dolci artigianali, presentazioni di libri, incontri con autori, piccoli concerti. Andrea Tarabbia, Giorgio Falco, Andrea Bajani, Piersandro Pallavicini, Giorgio Manacorda, questi soltanto alcuni tra gli scrittori che sono di casa o quasi. Ecco allora lo spunto (a dire il vero suggerito da Tabucchi) per un secondo tentativo di definizione: la libreria è luogo dove si manifesta una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia. Come a dire, una libreria che fa la libreria mette insieme un mucchio di idee così eterogenee da fare scintille. Per di più non le lascia latenti, ci soffia sopra in modo che le scintille diventino un fuoco sempre acceso: il fuoco della cultura.

Sono tempi grami, per la cultura, appiattita sempre di più dai mezzi di comunicazione di massa che sfruttano il loro potenziale non certo per diffonderla ma per inseguire il gradimento dei fruitori. Del resto è più semplice ed economicamente produttivo adeguarsi al ribasso piuttosto che educare verso l’alto. In questo scenario, dove l’immagine fa da padrona, tutto ciò che è parola e ragionamento è considerato noia, pesantezza, inutilità. Remare contro il dilagare – non diciamo dell’ignoranza, ma della non cultura – è una delle funzioni della libreria. La libreria oggi è quindi anche questo: una scommessa. Molto difficile, visti i tempi. Anche se va detto che per le librerie, come del resto per l’editoria, i tempi sono sempre difficili.

25 Aprile 1945

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25 Aprile 1945
 

Roderick Duddle – Michele Mari

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di Antonella Falco

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Ci sono romanzi che ci catturano fin dalla prima pagina e non ci lasciano più, romanzi che ci fanno perdere la cognizione di tutto il resto. Che ci riportano indietro nel tempo, alle fameliche e appassionate letture dell’adolescenza, quando leggevamo Il richiamo della foresta di London o L’isola del tesoro di Stevenson e venivamo completamente assorbiti da quelle storie e catapultati in mondi avventurosi dai quali ci riscuotevamo solo per sopperire alle basilari necessità fisiologiche della vita. Era a malincuore che ritornavamo alla realtà, sorpresi di come il tempo fosse volato e fosse già prossima l’ora di cena: ci sedevamo a tavola con aria assente e trasognata, sotto lo sguardo perplesso di nostra madre, e tra un boccone e l’altro continuavamo a fantasticare sulle storie e i personaggi del romanzo fin quando non ci era concesso di tornare nuovamente a inabissarci nella lettura.

Il romanzo che oggi, a distanza di tanti anni, mi ha permesso di fare questo piacevole salto indietro nel tempo è Roderick Duddle di Michele Mari. Della trama svelerò poco o nulla, per non rovinarvi il gusto della lettura. Vi basti sapere che il Roderick Duddle del titolo è un bastardello di dieci anni, figlio di una prostituta ed erede inconsapevole di un’enorme fortuna che fa gola a tanti loschi figuri, facendo di Roderick il centro di una fitta trama di intrighi che si dipana per oltre quattrocento pagine. Pagine che scorrono via leggere come la prua di una nave che col vento a favore scivoli su placide acque.

Mari si diverte – ed è un divertimento che per proprietà transitiva si trasmette dall’autore al lettore – a scrivere un romanzo meravigliosamente anacronistico che se ne infischia bellamente dei temi predominanti nella narrativa odierna e dei gusti del lettore, seguendo null’altro che la propria personale e travolgente ispirazione. Ci regala così un romanzo perfettamente dickensiano, ambientato in una Inghilterra ottocentesca della quale disegna con cura certosina una minuziosa toponomastica immaginaria (il romanzo si apre con una piantina che l’autore ha disegnato di suo pugno e che racchiude l’intero avventuroso mondo di Roderick). Ma non di solo Dickens si nutre questa storia, che non trascura di omaggiare – come già Mari aveva fatto nel racconto Otto scrittori, di certo uno dei più bei racconti degli ultimi trent’anni di narrativa italiana – i classici del romanzo d’avventura marinaresco quali L’isola del tesoro di Stevenson, Moby Dick di Melville e Gordon Pym di Poe. Questi i riferimenti più macroscopici. Ma non mancano suggestioni, e l’elenco non vuole certo essere esaustivo, da Conrad, da Steinbeck (leggendo del personaggio di Lennie come non pensare a Uomini e topi?), da Mc Carthy, dal marchese De Sade e dal Manzoni della monaca di Monza (per quanto concerne i personaggi di suor Allison e della badessa), mentre il silente Ram-Singa si ammanta di tutta l’esotica e lussureggiante musicalità dei nomi salgariani: se è vero, come diceva Borges, che lo scrittore crea la realtà nominandola, allora è vero che Mari facendo propria la capacità di Salgari di racchiudere l’esotismo in una parola, in un suono, in un semplice baluginio semantico, ci spalanca tutto un mondo di leggendarie avventure miniaturizzandolo nell’ammaliante potenza del nome Ram-Singa.

Nella vasta galleria di personaggi che affollano questa intricata storia almeno tre restano indelebilmente impressi nella memoria del lettore. Primi fra tutti il Probo e suor Allison. Del primo vale la pena sottolineare l’ambiguità semantica del nome che rimanda antifrasticamente alla virtù della probità laddove egli è in realtà uno spietato e preciso sicario. Ma Probo è anche abbreviazione di “proboscide” e quindi rinvia alla singolare anomalia fisica del personaggio. Difficile non pensare al John Merrick reso celebre dal film The elephant man di David Lynch, ma trattasi solo di suggestione fisiognomica, essendo ben altra la personalità del nostro. Il dettaglio della voce bassissima, quasi un sibilo, che lo contraddistingue, giova a renderlo ancora più inquietante.

Analogamente al Probo anche suor Allison porta impresso nella propria carne lo stigma della diversità: con le loro anomalie anatomiche ambedue sono espressione di quella teratologia da sempre cara a Mari. Sono loro i personaggi più affascinanti dell’intero romanzo: la scena del loro incontro costituisce uno dei momenti più sublimi di tutta la storia.

Ma se il Probo è figura inquietante e seducente fin dal suo primo apparire, diversamente accade per suor Allison, personaggio originariamente del tutto marginale che diviene strada facendo uno dei protagonisti, nonché degli strateghi, della vicenda: vera e propria maliarda, manipolatrice di destini. Suor Allison è la dimostrazione di come un personaggio possa iniziare a vivere di vita propria e imporsi all’autore, il quale sospendendo l’onniscienza che il suo ruolo di voce narrante gli attribuisce, sperimenta il piacere di scoprirsi spettatore e di osservare l’evolversi della storia senza tracciare schemi o programmi predefiniti, assistendo piuttosto giorno dopo giorno, con la curiosità propria del lettore, al corpo a corpo inscenato dai personaggi per sopravvivere e far valere la propria superiorità su tutti gli altri.

Completa la terna dei personaggi indimenticabili il signor Jones, sorta di cattivo simpatico che pur non lesinando trame e inganni suscita nel lettore uno sguardo indulgente e divertito: le sue innocenti perversioni ce lo rendono fin troppo vicino e umano, essendo riflesso irrefutabile del lato oscuro che alberga in ciascuno di noi, mentre il procedere della narrazione ci svela l’insospettabile candore del suo animo. È Jones a incarnare il vero doppio (poteva mancare questo tema in un romanzo di Michele Mari?) della storia, molto più della coppia di bambini identici Roderick-Michael. Ma il gioco degli alter-ego e dei doppi innerva anche il prologo e l’epilogo del romanzo dove Roderick, o forse dovremmo dire Roderick-Michael, trova un ulteriore alter-ego in Michele Mari figlio di Enzo e di Iela a conferma del gioco di specchi che lega questi personaggi all’autore.

Mentre leggevo il libro mi sono chiesta più volte come possa un romanzo che ricalca gli stilemi del feuilleton e ripropone tutti gli stereotipi del romanzo d’avventura ottocentesco, un libro quindi che non racconta niente di originale, tenere il lettore incollato alla pagina senza che abbia mai un calo di attenzione o un momento di noia, facendolo anzi vivere in apnea per tutto il tempo che suo malgrado è costretto a trascorrere lontano dal libro, divenuto ormai indispensabile serbatoio d’ossigeno mentale e linfa vivificatrice della sua fantasia troppo spesso mortificata dall’orrendo mondo.

La risposta è da ricercarsi nella maestria con la quale da sempre Mari maneggia i materiali della tradizione letteraria e nella passione, nel trasporto, nell’ardore oserei dire religioso con cui li ha letti e assimilati fino a renderli parte integrante della sua stessa persona: «certe cose non solo si possono continuare a dire bene e originalmente anche se sono state già dette» ha affermato Mari in un’intervista – «ma ci sono cose – anzi, la letteratura è proprio la patria di queste cose – che si possono dire solo perché sono state già dette, proprio perché sono state già dette. […] Se ti senti non esautorato in quanto tutto è già stato detto, ma una specie di ventriloquo attraverso cui quelle voci continuano a parlare, non sei più un pupazzo di legno, sei un essere vivo, un essere che senza nemmeno accorgersene se ne trova una tutta sua, di voce».

Qualcuno, certo maldestramente, incapperà nella tentazione di definire Roderick Duddle un romanzo di formazione. Ebbene, sappiate che nulla è più alieno a Michele Mari di una concezione formativa e pedagogica della letteratura: la grande letteratura è anzi il più delle volte diseducativa, un libro non necessariamente rende migliore chi lo legge, Mari al contrario è convinto che «i libri guastino, rovinino. Che i libri turbino. Seducano e perdano» e non manca di ricordare le parole dell’amato Manganelli secondo cui la letteratura non è autentica «se non ha anche addosso qualcosa di sporco, di fastidioso, di disgustoso», a conferma del fatto che «i libri che non danno disagio sono libri disertati dagli dèi».

Dunque non esiste grande libro che non sia contaminato dal veleno della vita («Fiorita dal male e sul male della vita la letteratura, come opera di vivi, non può fare a meno di compromettersi in continuazione con quel male», scrive Mari ne I demoni e la pasta sfoglia), ma proprio in virtù di questo contagio esso non tollera di lasciarci uguali a prima. E Roderick Duddle di certo non lascia il lettore che trova.

Lana e les biches

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Tuffo di Riccardo Ielmini

 

Filava tutto liscio, alla fine dell’estate 1989: il Muro al suo posto, la Democrazia Cristiana primo partito, io spencolato sul mio futuro, in cerca del disperato amore eterno. Tutto liscio, quando mio padre mi disse che il giorno dopo lo avrei accompagnato a trovare «il senatore».

«Giovanni, fai una bella doccia» intimò. Eppure sapeva che i suoi quattro figli erano sempre puliti, perché mia madre, con la sua pervicacia cattolica, ci aveva educato ad avere cura della nostra igiene personale. Eravamo gente semplice, e la pulizia era una delle armi che avevamo a disposizione per dire la nostra. Perciò non capii subito quello che invece mi fu chiaro strada facendo, e cioè che a mio padre premeva molto facessi bella figura. Papà era un mite assistente sociale e non era mai stato il tipo del politico baciapile, impegnato a trovare improbabili sponde per garantirsi una poltrona: troppo idealista, mon père, troppo buono per arrampicarsi sulla ruota panoramica stando in equilibrio sopra una vasca di pescecani. Mi confidò che aveva solo bisogno di confrontarsi con «il senatore» a proposito di alcune scelte urbanistiche che lo angustiavano come sindaco della nostra cittadina: un gigantesco lotto vista lago Maggiore che i socialisti premevano diventasse edificabile. «Una porcata», commentò mio padre con inaspettata brutalità: ma eravamo nel 1989, e i socialisti da un pezzo stavano mandando tutto a ramengo. Io questo non lo sapevo, come non sapevo che proprio a partire dal parere del senatore le cose avrebbero smesso di filare lisce per papà e per tutta la famiglia De Ambrosis: altrimenti glielo avrei detto – papà, non ci andiamo, io non faccio nessuna doccia per nessuna bella figura.

«Va bene» dissi, invece, pronto alla mia abluzione, perché ero un sedicenne educato e rispettoso, e le mie brevi, intermittenti e velleitarie rivolte al suo nume sarebbero scoppiate troppo tardi.

 

Per quel che ne sapevo dai discorsi galleggiati a mezz’aria sulla tavola del pranzo domenicale in casa De Ambrosis, «il senatore» – non lo si nominava mai per nome, ed io, che a quel tempo mi ero invaghito di Morrissey, non sopportavo l’aura da ancien regime di cui era circonfuso – il senatore, appunto, era stato, per lungo tempo, capofila della corrente democristiana della Base, e vantava un cursus honorum di tutto rispetto, che affondava le sue radici nell’inviolabile mito della Resistenza e si librava, gemmando in varie direzioni, fino all’olimpo delle più alte poltrone dello Stato. «Il senatore». Saremmo andati a trovarlo nella sua villa dalle parti di Morcote, lago di Lugano, dove risiedeva dopo aver sposato, negli anni del boom, la bizzosa rampolla di una potente famiglia della Svizzera italiana. Dalle nostre parti, su, al Nord, dicevano avesse addomesticato la ragazza (i più maligni, invece, che fosse stato addomesticato da lei). Si erano conosciuti quando il senatore era stato primo firmatario di alcune leggi a tutela dei frontalieri, la categoria che aveva sempre sollecitato le mie fantasie – una miscela di terroni, fuoriusciti, contrabbandieri e avventurieri di ogni sorta. E poi «aveva attaccato su il cappello», come diceva, sprezzante, nonna Regina, l’arcigna matrona di casa De Ambrosis, gelosa del nostro milieu piccolo provinciale, tutto dieci comandamenti, cervello fino e maniche tirate su.

 

Il viaggio durò poco più di un’ora. Il senatore ci accolse al termine di un vialetto che avevamo percorso a bordo della nostra Fiat 131. Si presentò in puro stile lombardo: sorriso parco, stretta di mano gentile, voce rarefatta. Era diverso da quello che mi ero immaginato. Sembrava impossibile che quella figura dimessa, di altezza media e con capelli bianchissimi potesse aver raggiunto posizioni di vertice nel partito d’Italia: non con quella camicia ordinaria con le maniche arrotolate al gomito. Era diverso, ma non vinceva i miei sospetti. Nonna Regina e mia madre mi avevano tirato grande con l’idea che ricchi e potenti meritassero sempre, e a priori, gelido scetticismo, ed io ero un loro discepolo fedele.

«Ah, lei è Giovanni, il figlio del nostro sindaco De Ambrosis» disse, amichevolmente avvolgendo le mie spalle con un braccio per guidarmi verso l’ingresso della villa. Aveva detto nostro per sottolineare che era pur sempre venuto grande nella stessa cittadina in cui ero cresciuto. Fui infastidito da quell’accorciamento unilaterale di distanze.

L’abitazione era maestosa: bianca e su due piani, con tetti spioventi che venivano giù in ogni direzione. Ci portò dentro. Le grandi finestre al pian terreno erano spalancate: era una giornata afosa. Intorno a noi, la luce lattiginosa dei mattini di fine estate nel distretto dei laghi.

Il senatore chiamò sua moglie. La donna apparve immediatamente. Ora mi stringeva la mano: una distinta signora di mezz’età, snella, con un vestito leggero, verde, su cui era appuntata una vistosa spilla d’oro. I capelli, biondi, erano tenuti in ordine da un cerchietto che scopriva un volto di cerbiatta, chiaro e deciso. Conclusi che le voci su di loro erano tutte manchevoli: quei due si erano addomesticati a vicenda, come succede fra ricchi e potenti.

Ci fu un breve andirivieni di cortesie: la consegna di un bouquet che mia madre aveva avuto cura di far preparare per il mattino stesso e la finta meraviglia per il panorama del grande parco verde che scendeva raso fino ad un piccolo boschetto di tigli, oltre il quale c’era il lago. La moglie del senatore ci fece accomodare in salotto, che sembrava colorato con pastelli Caran d’Ache. Una domestica depose prontamente, su un tavolino basso di vetro, caraffe con succo d’arancia, e biscotti.

«Ti fermi a pranzo, De Ambrosis?» chiese subito il senatore. Mio padre accettò l’invito senza nemmeno consultarmi. La moglie del senatore comunicò con fervore che sarebbe andata ad «organizzare il pranzo» (un’espressione che mi fece toccare la distanza fra il ménage di quella lussuosa residenza e il nostro stile di vita, orgogliosamente arroccato ad un’aurea modestia). La sentii parlottare con la domestica che era apparsa poco prima: aveva un tono di voce fermo ed autorevole. La regina della maison. Poco dopo riapparve in salotto e venne verso di me.

«Lei si annoierà, Giovanni, in mezzo a questi due signori» disse scoprendo un sorriso pieno di civiltà e buone maniere. «Senta: mia figlia è giù, al lago. Vada là, oltre quel boschetto di tigli: vede?» disse, avvicinandosi e prendendomi dolcemente per il braccio. Aveva un profumo deciso, da donna di mezza età che abitualmente cammina sui parquet e sprofonda in grandi sofà. «Le chieda di farle fare un’uscita sul lago. Abbiamo una piccola barca, ormeggiata nella darsena». Mi dava del lei e mi usava formule di cortesia, ma ogni gesto comunicava che nel suo regno non c’era spazio se non per pragmatismo, ordine, sicumera.

Io feci un cenno a mio padre, come per avere da lui l’assenso. Sentivamo entrambi di non essere al posto giusto, ma mia madre, con il piglio della professoressa che era, una volta mi aveva citato una frase del Vangelo a proposito di volpi e tane: mi sembrava potesse andare bene per l’occasione, così trovai ragionevole dover mandare giù il boccone che mi veniva offerto. Mi avviai lungo la pelouse rasata, in mezzo alla luce prealpina, posata ovunque come l’annuncio di una prossima decomposizione.

 

La ragazza era distesa su un asciugamano, e indossava un costume bianco intero, con una fibbia argentata sulla vita. Aveva una sigaretta nella mano destra, occhiali scuri e ascoltava qualcosa da un walkman appoggiato sulla pancia, mugolando qualcosa da labbra carnose, troppo rosse. Il volto era quello di sua madre. Di fianco a lei un tavolino strapieno di libri, vestiti gettati alla rinfusa, bicchieri e bottiglie. Su un angolo libero occhieggiava un’audiocassetta fuji con una scritta in pennarello blu: Poulenc – Les Biches. Immaginai che la ragazza stesse ascoltando proprio quella: dondolava ritmicamente la gamba. Era longilinea senza essere alta, e le gambe e le braccia mostravano nitide linee muscolose, guizzanti sotto i colpetti ritmici che le percorrevano. Aveva gli occhi chiusi, probabilmente: non si accorse di me.

Mi sedetti sull’erba senza presentarmi. Guardai verso il lago: nemmeno un centinaio di metri al largo sfilò una piccola barca a motore, con lo scafo rosso e grigio. A bordo quattro ragazzi a torso nudo che si voltarono verso di noi, vociando forte qualcosa di sconcio. La ragazza non fece una piega. Io, invece, mi alzai, perché uno di quelli ancheggiava e, indicandomi, mimò un coito. Misi le mani sui fianchi, piantato come un giudice biblico, pronto a dire qualcosa. Avrei voluto protestare qualcosa sulla mia rispettabilità e sul mio onore. In campo sessuale il massimo di trasgressione fino ad allora era stato commettere atti impuri (aspettando il disperato amore eterno): come dopo aver visto un poster di Samantha Fox esibito dai miei compagni al liceo dopo una lezione di educazione fisica – lo stimolante per una gara sulla lunghezza del pene.

«Idioti» sentii dire vicino a me. «I soliti debosciati» aggiunse la voce. La ragazza si era tirata a sedere, aveva rannicchiato le gambe, strette nelle braccia muscolose, e stava attorcigliando attorno al walkman il filo delle cuffie. Debosciati. Una parola che non conoscevo e che non avrei dimenticato mai. La ragazza puntò una mano per terra, fece leva e si alzò in piedi. Senza guardare verso di me, alzò il dito medio e lo mostrò lungamente alla ciurma che stava allontanandosi dal nostro grandangolo. Lei sì, aveva l’aria di un giudice biblico.

«Tu sei il figlio dell’amico di mio padre, no?» aggiunse, le mani sui fianchi. La luce biancogrigia la straniva: era bella.

«Giovanni. Giovanni De Ambrosis» dissi, tendendole la mano come se dovessi stringere un affare milionario.

«Eliana» disse, senza ricambiare la stretta. Posò il walkman sul tavolino. «Ma è un nome da vecchi, no? Facciamo che mi chiami Lana, va bene? io mi faccio chiamare così, come la vecchia attrice, Lana Turner». Fece una pausa e poi, sorridendo, concluse: «Mi sa che non sei nemmeno chi sia: vero, ragazzino?».

«Le piogge di Ranchipur. Richard Burton e Lana Turner» recitai in un fiato. Era uno dei vecchi film che nostra madre – con il suo debole per i vecchi attori – ci aveva permesso di vedere in televisione, benché il quotidiano cattolico, che lei consultava per avere l’imprimatur, lo giudicasse «accettabile con riserva».

«E bravo il nostro Giovanni. Allora non sei un ragazzino da quattro soldi. Quanti anni hai?» chiese. Si era appoggiata al tavolino e mi fissava, ora. I capelli castani erano raccolti in uno chignon, le unghie porpora. Su tutto, le labbra eccessive.

«Sedici anni» risposi.

«Un ragazzino. Immaginavo» commentò. Sembrò voler dare un’aggiustata al disordine apparecchiato sul tavolino, mentre io traguardavo lo sguardo altrove e mettevo le mani nelle tasche dei miei bermuda, composto come uno stopper in barriera. Alla fine le cose sembravano esattamente nello stesso disordine, ma alla rovescia. Ripose la fuji nel contenitore.

«Sto preparando un balletto da Poulenc. Il musicista. Conosci?».

«No» risposi.

«Avevo ragione. Sei un ragazzino». Poi, finalmente, si levò gli occhiali scuri e mi guardò. Aveva occhi affilati e chiari. «È un balletto. Les Biches. È francese. Vuol dire le cerbiatte. È una storia erotica. Voglio dire: sesso, sai?». Estrassi le mani dalle tasche e mi misi a braccia conserte, come dovessi essere interrogato in latino.

«Comunque» continuò lei «è un balletto che sto preparando. Sono un ballerina classica» disse. Io continuavo a restare fermo, mentre Lana raccoglieva dal tavolino una polo inglese blu e la indossava. Decisi che nella mia vita avrei indossato sempre polo come quella.

«Allora, ragazzino. Cosa facciamo? Torniamo in casa?».

«Tua madre dice di portarmi a fare una gita sulla barca, quella che è nella darsena» risposi. Lei guardò il cielo, si rimise gli occhiali da sole e calzò delle scarpe di tela.

«Sai remare?».

 

Ci spingemmo al largo. La mia vogata era sicura. Per due anni avevo praticato canottaggio per allargare le spalle e diventare più armonioso, perché mia madre diceva che assomigliavo a George Peppard: un talento da non sprecare, diceva lei. Si trattava di una bella barca a remi, con gli scalmi lucidati di fresco e le sponde brillanti. Il sole era quasi a piombo su di noi, ma la nuvolaglia opaca e il vapore d’afa lo sparpagliavano dappertutto. Immaginai che la ciurma dei debosciati stesse bordeggiando le darsene in cerca di femmine.

«E cosa fai nella vita?» chiese lei all’improvviso.

«Il liceo» risposi.

«E poi?».

«E poi, cosa?».

«Cosa fai nella vita? Ci sarà qualcosa che gli altri non fanno e che fai solo tu. Io, per esempio, ascolto Poulenc». Non erano eccessive solo le labbra: ogni frase giganteggiava. Io, messo in un angolo, vergognosamente in adorazione. Ero un ragazzino di sedici anni e non avevo mai pensato che potessi fare, avere, essere qualcosa che gli altri non facessero, avessero, fossero. Però ascoltavo Morrissey, avevo visto quel film con Lana Turner; avevo un debole per le passioni brillanti, non mi piacevano i ricchi, e adoravo quelli con il talento. Forse era questo che sognavo di diventare. Passionale, povero, talentuoso – sì, avevo sedici anni.

«Intanto che ci pensi, ti va di fare il bagno?» interruppe. Non aspettò la mia risposta. Si alzò in piedi, levò t-shirt ed occhiali e si gettò in acqua, lasciando che la barca dondolasse al suo slancio. Io non avevo mai fatto il bagno nel lago: nostra madre ci aveva elencato la sfilza di malanni d’acqua dolce e di «giovani vite spezzate» (come diceva lei, teatralmente) dalle insidie del lago, e noi ce n’eravamo stati buoni al nostro posto.

«Allora?» incalzò lei non appena riemerse dall’acqua scura in cui l’avevo vista sparire. Si aggrappò alla sponda e fece dondolare la barca. Aprì la bocca in un sorriso biancoscarlatto e bagnato. Io afferrai i remi, deciso a presidiare me stesso. Lei rimase così, guardando chissà dove. Poi disse: «Aiutami a salire». Le tesi la mano. «No. Non così. Mi aggrappo alla sponda e mi afferri per i fianchi, d’accordo?», aggiunse, ma non era una proposta, e nemmeno una richiesta. Mi sforzai di non sembrare impacciato, e feci forza sulle braccia. Aveva un corpo leggero, con i fianchi compatti. Venne su con un colpo di reni preciso e veloce.

«Bravo ragazzino» commentò. «Un vero cavaliere». In un angolo della barca c’era un vano chiuso. Lo aprì e tirò fuori un asciugamano che avvolse attorno al corpo.

«Sai quanti anni ho?» chiese. «Ne ho venti» continuò, senza aspettare la mia risposta. «Ne ho troppi. Anche se ballo Poulenc, non ho quasi più speranze di carriera. Il senatore e mia madre hanno detto che è l’ultima occasione, questo balletto. Poi mi seppelliscono in una scuola di economia». Non c’era rimpianto nelle sue parole: solo dati di fatto. Anche lei diceva «il senatore». Io fissavo la linea del corpo e le rotondità zuppe dei seni. Il resto non contava più niente.

«Ti piaccio, ragazzino?»: mi spiazzò. Forse se ne era accorta. «Ti piacciono le mie tette? No, perché mi dicono che non sono un granché. Guardami bene» disse alzandosi in piedi proprio davanti a me. Aveva detto «tette». A me. Sulla pelle c’era una patina d’acqua, e mi arrivava l’odore del lago misto al profumo di crema solare. «Dai, mi piacerebbe un tuo parere» aggiunse, e dal vano da cui aveva preso l’asciugamano estrasse anche un pacchetto di sigarette e due lattine di birra. «Allora?» continuò, accendendo la sigaretta e stappando una lattina.

«Sei bella» risposi. Mi tese l’altra lattina, ma io feci un cenno per dire che no, non mi andava.

«Bugiardo. Dillo ancora» e diede una lunga sorsata di birra.

«Sei bella» mi affrettai a ripetere. Era bellissima, non bella. L’ultima volta che l’avevo detto ad una ragazza era stato su un treno delle sei del mattino verso la città, in prima liceo: una iniziazione cui i ragazzi più grandi ci obbligavano, assieme alla misurazione dei vagoni in fiammiferi.

Lana, allora, gettò per terra l’asciugamano, si mise in ginocchio e si avvicinò alla mia faccia. La prese fra le mani e mi baciò. Mi respirò in bocca fiato caldo. Sapeva di alcool.

«Morivo dalla voglia» disse, staccandosi da me. «Come sei diventato rosso. Proprio un ragazzino con la riga nei capelli». Si attaccò alla lattina, sdraiandosi lunga, con la testa appoggiata alle mie gambe. Io passai la lingua sulle labbra, la barca ferma in mezzo al lago, i remi ciondolanti in mezzo all’afa e un’eccitazione che faceva a pezzi i miei turbamenti, le gare di lunghezza del pene, i poster di Samantha Fox. Doveva essere il disperato amore eterno, questo.

«Accarezzami i capelli» intimò. Aveva sciolto lo chignon e i capelli lunghi e lisci erano stesi, bagnati, sui miei bermuda, come nastri di posidonia. Io li accarezzai una sola volta, sfilandoli fra le dita. Avevo paura. Lei finì di bere, poi disse: «Riportami a casa».

 

La darsena aveva una scalinata ripida, come quelle che infestavano i miei sogni adolescenziali. Lana procedeva davanti, la sagoma agile stagliata sulla luce che arrivava dall’apertura in alto.

«Sai come si sono conosciuti, mia madre e il senatore?» chiese all’improvviso. Si fermò: eravamo quasi al termine delle scale, dove la luce che arrivava dal giardino dava rilievo incerto alle pietre grezze delle pareti. Reggeva con una mano la lattina vuota e i vestiti. «Per caso, qui, ad una festa per quella famosa legge sui frontalieri». Ravviò i capelli umidi e sorrise. «Però noi due non ci sposeremo. Magari più in là, quando crescerai un po’, vero?». Io rimasi a guardarla, da sotto in su, prendendo sul serio ciò che non andava preso sul serio. Ma io ero fatto così: sui miei sedici anni poggiavano certezze assolute. Mentre camminavamo sul prato verde, appaiati, lei disse: «Ti manderò l’invito per assistere al mio balletto, vuoi?». Io dissi qualcosa di gentile, anche se mi sembrava che assistere ad un balletto classico fosse un cedimento, una cosa da ricchi.

 

Ma l’invito non arrivò mai.

Giunse, invece, l’autunno e con esso le lezioni liceali sulle rarefatte, inarrivabili dame dell’amor fou e dello Stilnovo, e con loro dimenticai cos’era baciare una ragazza che sapeva di alcool. E poi venne giù il Muro. La Democrazia Cristiana cominciò a flettere, mio padre perse le elezioni e poi tutto cambiò e smise di filare liscio. E Lana? Mi vergognavo a chiedere di lei. Un giorno colsi al volo una discussione fra mio padre e mia madre: dicevano che «il senatore» era un uomo distrutto, con quella figlia fuggita in quel posto di Zurigo. Intuii stessero parlando di Platspitz, quello che nonna Regina chiamava con ribrezzo «il parco dei drogati», ogni volta che mi metteva in guardia dagli amici che bucavano scuola per andare in Svizzera a comprare sigarette. Nelle mie fantasie salvifiche immaginavo di cercare Lana, tirarla fuori di lì e portarla al sicuro, afferrandola una volta ancora per la vita esile, i suoi seni bagnati che aderivano al mio corpo di sedicenne. Ma tutte le mie fantasie salvifiche duravano una stagione, come i balbettii del mio cuore.

Un giorno, però, passando per la Casa del Disco a Varese, entrai e acquistai Les Biches di Poulenc. Tornai a casa e, ascoltando il tripudio di note che folleggiavano nel magma dei sogni e dell’euforia tardoestiva, immaginai Lana come una cerbiatta che volteggiava, con i suoi lombi guizzanti, sulla inesorabile corruzione del mondo, della vita, di tutto.

 

Nel corpo della scrittura < = > Biagio Cepollaro

4

di Antonio Sparzani

Biagio Cepollaro – Lingua-1. Dipinto su mdf, cm 40 x 150. Tecnica mista, 2010
Biagio Cepollaro – Lingua-1. Dipinto su mdf, cm 40 x 150. Tecnica mista, 2010

Biagio Cepollaro è assai presente su Nazione Indiana e quindi non ha bisogno di presentazioni, qui e qui, ad esempio, ho pubblicato due interessanti conversazioni con lui.
Ora il sito di Floema pubblica finalmente

Appunti di scena

1

Plastico_teatro_big

(un mese fa Piero Sorrentino mi aveva spedito questi appunti. Per problemi miei non ho trovato il modo di pubblicarli, lo faccio ora e mi scuso per il ritardo. G.B.)

di Piero Sorrentino

L’ultimo, animato dibattito sullo stato del teatro, delle sue istituzioni e della critica teatrale risale solamente a qualche settimana fa, quando, al Piccolo di Milano, Luca Ronconi e Franco Cordelli hanno discusso in pubblico sul tema “I critici e i pubblici”.

Alcuni brandelli dei discorsi di quell’incontro milanese sono emersi anche in un altro dibattito, questa volta negli spazi della Fondazione Premio Napoli, nel corso di una conversazione a due tra Franco Cordelli e Andrea Cortellessa, nell’ambito del ciclo “Oligarchie implicite. La lingua morta della democrazia”, a cura di Gennaro Carillo.

Ancorché non cospicui, ricopio qui in forma di appunti sparsi e di note raccolte in corso di ascolto – un testo, dunque, per sua natura frammentario e poco organico, di cui mi scuso – alcune delle considerazioni dette da Franco Cordelli a proposito del teatro, della critica teatrale, dello spazio che le è riservata sui media. Non vaghe e generiche discettazioni sul senso o sull’attualità della critica, di cui abbiamo letto e sentito fino a sazietà, ma un ragionamento basato su esempi concreti e dati pratici che, per vie traverse, conduce ugualmente a faccia a faccia con le questioni che riguardano la legittimità, il senso e le finalità del lavoro culturale.

In Germania esistono circa 390 teatri stabili. In Italia, 18. Dunque, ogni media o piccola provincia tedesca finanzia, con denaro pubblico, istituzioni teatrali, compagnie, maestranze. Da noi, il circuito degli Stabili, oltre che minuscolo, ha creato una situazione pressoché autistica, in cui quei 18 teatri si scambiano vicendevolmente le produzioni, di fatto cancellando completamente dal panorama una massa enorme di compagnie, attori e attrici, registi, drammaturghi che non possono materialmente accedere alla platea degli Stabili, in pratica condannandoli all’oblio.

I direttori dei due principali quotidiani italiani, La Repubblica e Il Corriere della Sera, da qualche tempo in qua  hanno iniziato a non pagare più le trasferte – o, nel migliore dei casi, ne hanno ridotto sensibilmente le quote – ai critici e ai giornalisti culturali. Se c’è da andare da Milano a Castrovillari per assistere a un festival, il biglietto te lo paghi tu. Inoltre, i direttori impongono alle proprie firme di non accettare nemmeno le ospitalità offerte da Festival e teatri (di solito, viaggio, vitto e alloggio anche per più giorni). “È un discorso non del tutto privo di senso – dice Cordelli – Per quel che mi riguarda, non accetto mai le ospitalità dai privati, ma perché non dovrei farlo se a propormelo è un’istituzione pubblica?”

A quanto pare, alla direzione del teatro di Roma andrà Alessandro Gassman, il quale, molto probabilmente, si vedrà costretto a rinunciare, visto che il budget previsto dal Teatro di Roma per il prossimo anno ha subito una decurtazione del 90% dei fondi stanziati appena l’anno prima (fondi, a loro volta, già pesantemente tagliati). Dunque, con qualche spicciolo in cassa, che programmazione si potrà mai attuare?

Morto Franco Quadri, La Repubblica non ha più assegnato il ruolo di critico teatrale di punta a nessun altro. Lo aveva proposto ad Alessandro Baricco, il quale ha declinato l’invito.

Il declino del teatro di regia ha una ricaduta sensibile anche sul lavoro del critico e del recensore. Manca ormai del tutto una regia critica,  una regia che sia anche una critica al testo: il regista è il primo critico del testo che affronta.  La recensione è diventata un mero racconto del testo, ha rinunciato a dire la sua sui moltissimi altri aspetti della messa in scena, perdendo qualsiasi ambizione totalizzante che onori la critica fin nel suo etimo, quello legato a una scelta, a una separazione del grano del buon teatro dall’oglio di quello mediocre

Lo stallo in cui versa la critica teatrale  si misura in maniera palmare con la diminuzione, che ormai  lambisce lo zero, del numero dei critici cui pubblicamente veniva riconosciuta una autorevolezza.  I critici parlano a piccole tribù, piccole comunità, che però a loro volta sono in guerra tra di loro, un insieme che si è sgretolato e la cui parcellizzazione è pienamente riflessa dallo stato della critica. Il discorso critico non passa più sui quotidiani, i quali riservano sempre meno spazio e attenzione al teatro. In Rete ci sono siti e riviste che fanno un buon lavoro, ed esistono buoni e ottimi critici giovani, tra i 30 e i 40 anni (Cordelli fa il nome di Simone Nebbia). 

Il gesto di Marta

5

[La versione francese di questo testo, a cura di Laurent Grisel, appare simultaneamente sul sito amico Remu.net]

di Beatrice Monroy

Non posso continuare. Continuerò.

S. Beckett

Esserci nei luoghi, permette di scrivere letteratura a partire dal tuo luogo e non dall’altro mondo il luogo degli altri, quelli di fuori.

N. Gordimer

Carissima,

mi porto dietro il pensiero di te sulle rocce, sui mari e sulle montagne, quello che mi chiedi è veramente molto difficile. Perché allora noi eravamo ubriachi e, sai bene, quando si è ubriachi poi si ricorda poco. Così ci ho messo circa dieci anni per capire il peso dell’avventura attraversata e per capire, poi, come proprio questa avventura mi abbia permesso di trovare il mio posto nel mondo.

Le occasioni della Reggia di Caserta

3

Musiche di Lamberto Curtoni
Video di Francesco Forlani

Nel parco di Caserta

Dove il cigno crudele
Si liscia e si contorce,
sul pelo dello stagno, tra il fogliame,
si risveglia una sfera, dieci sfere,
una torcia dal fondo, dieci torce,

e un sole si bilancia
a stento nella prim’aria,
su domi verdicupi e globi a sghembo
d’araucaria,

che scioglie come liane
braccia di pietra, allaccia
senza tregua chi passa
e ne sfila dal punto più remoto
radici e stame.

Le nocche delle Madri s’inaspriscono,
cercano il vuoto.

Eugenio Montale, Le occasioni

 

I sette savi

1

di Antonio Sparzani
Melotti sette savi - 7
Entrate dal cancello della villa Belgiojoso Bonaparte, la villa comunale di Milano, in via Palestro, dove una volta ci si sposava, almeno quelli che preferivano il sindaco al sacerdote, proprio di fronte ai Giardini Pubblici; entrate nel giardino in stile romantico e aggirate la villa dall’interno, costeggiando il laghetto. Dalla parte opposta dunque rispetto all’entrata spingete lo sguardo tra gli alberi e gli arbusti, risalite qualche balza di terra e vi trovate davanti ai Sette Savi.
Sono un gruppo omogeneo di sculture che ci ha lasciato Fausto Melotti (Rovereto 1901 ― Milano 1986) che andrebbe forse conosciuto meglio;

. . . con la solerzia languida di dita che controllano l’accordatura di un’arpa . . .

3

Gabriel Garcia Marquez
Gabriel García Márquez: Aracataca (Colombia), 6 marzo 1927 – Città del Messico, 17 aprile 2014.
Incipit de La mala ora, uno dei suoi libri più belli:

Padre Ángel si sollevò con uno sforzo solenne. Si stropicciò le palpebre con le ossa delle mani, scostò la zanzariera di tulle e restò seduto sulla stuoia spelacchiata, assorto per un attimo, il tempo indispensabile per rendersi conto di essere vivo e per ricordare la data e il suo riscontro nel martirologio. “Martedì quattro ottobre” pensò; e disse a voce bassa: «San Francesco d’Assisi».
Si vestì senza lavarsi e senza pregare. Era grande, sanguigno, aveva una pacifica figura di bue mansueto, e si muoveva come un bue, con gesti densi e tristi. Dopo aver corretto l’abbottonatura della tonaca con la solerzia languida di dita che controllano l’accordatura di un’arpa fece scorrere il paletto e aprì la porta del patio. I nardi sotto la pioggia gli fecero ricordare le parole di una canzone.
«”Il mar crescerà con le mie lacrime”» sospirò.
La stanza da letto comunicava con la chiesa mediante un porticato interno bordato di vasi di fiori e rincalzato con mattoni liberi; negli interstizi cominciava a spuntare l’erba d’ottobre. Prima di avviarsi in chiesa, padre Ángel entrò nel gabinetto. Orinò abbondantemente, trattenendo il respiro per non sentire l’intenso odore ammoniacale che gli spremeva le lacrime. Poi uscì nel porticato rammentando: “Mi porterà la barca nei tuoi sogni”. Sulla stretta porticina della chiesa sentì per l’ultima vo1ta il vapore dei nardi.
Dentro c’era cattivo odore. Era una navata lunga, pure rincalzata con mattoni liberi, e con una porta sola sulla piazza. Padre Ángel entrò direttamente nella base del campanile. Vide i pesi dell’orologio a più di un metro sulla sua testa e pensò che c’era corda ancora per una settimana. Le zanzare lo aggredirono. Ne schiacciò una sulla nuca con una manata violenta, e si ripulì la mano sulla corda della campana. Poi sentì, in alto, il rumore viscerale del complicato ingranaggio meccanico, e subito dopo — sordi, profondi — i cinque rintocchi delle cinque dentro il ventre.
Aspettò che l’ultima risonanza svanisse. Allora afferrò la corda con le mani, se l’arrotolò ai polsi e fece suonare i bronzi rotti con una convinzione perentoria. Aveva compiuto 61 anni. L’esercizio delle campane era troppo violento per la sua età, ma aveva sempre suonato messa di persona, e quello sforzo gli riconfortava lo spirito.
Trinidad spinse la porta di strada mentre le campane suonavano, e si diresse verso l’angolo dove la sera prima aveva preparato le trappole per i topi. Trovò qualcosa che le cagionò nello stesso tempo ripugnanza e piacere: un piccolo massacro.
Aprì la prima trappola, afferrò il topo per la coda con l’indice e il pollice, e lo buttò in una scatola di cartone. Padre Ángel finì di aprire la porta sulla piazza.
«Buongiorno, padre» disse Trinidad.
Lui non avvertì la sua bella voce baritonale. La piazza desolata, i mandorli addormentati sotto la pioggia, il paese immobile nell’inconsolabile albeggiare d’ottobre gli provocarono un senso di abbandono. Ma quando si fu abituato al rumore della pioggia intese, in fondo alla piazza, nitido e un po’ irreale, il clarinetto di Pastor. Soltanto allora rispose al buongiorno.
«Pastor non era con quelli della serenata» disse.
«No» confermò Trinidad. Si avvicinò con la scatola di topi morti. «Era di chitarre.»
«Hanno continuato per un paio d’ore con una canzone scema» disse il prete. «”Il mar crescerà con le mie lacrime” Non fa così?»
«E la nuova canzone di Pastor» disse la donna.
Immobile davanti alla porta, il prete era preda di un’affascinazione istantanea. Per molti anni aveva sentito il clarinetto di Pastor, che a due isolati da lì si sedeva a provare, tutti i giorni alle cinque, tenendo lo sgabello inclinato contro il sostegno della sua colombaia. Era il meccanismo del paese che funzionava a perfezione; per prima cosa, i cinque rintocchi delle cinque; poi, il primo tocco della messa, e poi il clarinetto di Pastor, nel patio della sua casa, che purificava con note diafane e articolate l’aria satura di porcheria di colombi.
«La musica è buona» reagì il prete «ma le parole sono sceme. Le parole si possono rovesciare a diritto e a rovescio ed è sempre la stessa cosa: “Mi porteranno i sogni nella barca”.»
Si girò, sorridendo per la sua trovata, e andò ad accendere l’altare. Trinidad lo seguì. Indossava una vestaglia bianca e lunga, con le maniche fino ai polsi, e la fascia di seta azzurra di una congregazione laica. Aveva gli occhi di un nero intenso sotto il nastro ininterrotto delle sopracciglia.
«Sono rimasti qui attorno per tutta la notte» disse il prete.
«Da Margot Ramírez» disse Trinidad, distratta, facendo risonare i topi morti nella scatola. «Ma stanotte c’è stato qualcosa di meglio della serenata.»
Il prete si fermò e le puntò addosso gli occhi di un azzurro silenzioso.
«Che cosa?»
«Pasquinate» disse Trinidad. E si lasciò scappare una risatina nervosa.

Da: Gabriel García Márquez, Opere, a cura di Rosalba Campra, vol. I, trad. it. di Enrico Cicogna, Mondadori, Milano 1987, pp. 387-89. Qui il testo originale.

Soggiorno a Zeewijk

2

di Marino Magliani

(un capitoletto dell’ultimo libro di M. M., “Soggiorno a Zeewijik”, appunto sulla sua cosmica Zeewijik, Amos Editore, ora in uscita)

Cosa fanno gli abitanti di Zeewijk quando non riescono più a essere indipendenti, come succederà tra non molto a Piet?

Il luogo si chiama bejaarden huis. Ce ne sono almeno tre. Sono a rotazione, anch’essi, come ogni cosa di Zeewijk: ora costruiscono il ricovero in un posto e fra vent’anni in un altro. In questo modo, l’abitante di Zeewijk non riesce mai a identificarsi con un luogo, ma solo con l’idea di un ricovero. Questa destinazione vagamente ignota mette addosso una certa apprensione, si passeggia tra le costellazioni e si indaga, sarà qui sulla piazzetta dell’Acquarius, sarà in cima alla Pegasus?

Di solito questi ricoveri sono molto ben curati, un giardino minuscolo di modo che l’anziano non fatichi, giusto l’angolino di verde “privato”, un premio alla carriera, e la vetrata dalla quale guardare il passaggio della vita. I vecchi dei bejaarden huis sono sereni, possiedono il loro monolocale e là dentro hanno tutto: l’infermiera che passa a sorvegliare, la cucina, il bagno con le maniglie alle quali appoggiarsi, e persino la vista sui ciliegi in fiore.

Li trovo a giugno, seduti sulla sedia di plastica, fuori, alla brezza nordica. Sembra che controllino le ciliegie verdi e raggrinzite, in attesa che maturino, ma non maturano mai perché siamo in Olanda e i vecchi lo sanno. Chissà cosa pensano questi vecchi.

Forse, ci ha ragionato Piet, è come da voi in Liguria, là, in quel posto dove sei nato, che era un ospedale e dove ora la gente anziana seduta sulle sedie bianche guarda con un po’ di desiderio i grappoloni di datteri che non maturano mai.

Non lo so, ho detto a Piet. Non gli parlo mai troppo volentieri o a lungo dell’idea di un ricovero. Non sono la persona adatta, lo confesso, discorrere di un inizio e della fine mi confonde. Vorrei vedere voi se foste nati in un posto che ora ospita il tramonto.

 

Motus. Nella Tempesta

0

di Areta Gambaro

Teatro Valle
3-4-5 aprile 2014
uno spettacolo di Motus 2011>2068 AnimalePolitico Project
ideazione e regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
con Silvia Calderoni, Glen Çaçi, Ilenia Caleo, Fortunato Leccese, Paola Stella Minni
drammaturgia Daniela Nicolò.

Sei poesie

8

di Daniele Bellomi

Da Ripartizione della volta, Cierre Grafica / Collana Opera Prima, 2013.

bellomi_ripartizione_della_volta

da novae

potrei restare lontano dal luogo dell’osservazione, non farne mai più
parola per la parte in ombra con nessuno, valutare le distanze con occhi
abituati all’ipotetica esplosione, precedere come si procede fra variabili
e cautele, prossimità al collasso, ripassando il bordo già combusto
di ogni cosa vista e che si vive, simularne il pianto accelerato,
il suono ad ogni suo intervallo: guardo però a cosa rimane, se non ho
più nulla da ricordare oltre al rilascio di vestiti che sanno
solo di ciò che è ieri e che non torna, che sono lontani, sempre,
non riuscendo a variare il moto, il centro del battito, il ritmo
di ogni superficie, l’idea di corrispondere alle cose che si fanno
con le mani, quando è il caos a fare parte di parole indotte,
imposte dall’ambiente, dette o magari percepite,
appena ribattute sulla pellicola del mondo.

*

ìndico la causa del fenomeno, penso a ciò che non potrai più vedere
o salvare nella memoria docile degli altri, tenuta a parte, radente
al solco che non resta sul periodo corto degli anni che dimentichi
come si fa con tutto almeno una volta nell’esistere, riattivati al tatto
di una luce che arriva se percorre la materia, raggiunge terra,
urta la percezione esposta al flusso dei rovesci e degli incroci,
marea che scatta al suo passante, lo scavalca mentre varca il limbo
delle icone, il magnetismo di tutto ciò che si attraversa: indìco
cause e prove, fissazioni, tento di capire se è qui ed ora il lembo
del transito o se è il cervello la massa organizzata di quel no,
non posso, mi dispiace, l’impressione dell’ombra che fa muro
contro muro alla distanza, la scelta di una media percorrenza:
siamo ancora da spostare fuori dallo scoppio se interviene
in noi lo scavo, l’estensione chiusa e muta dentro l’orbita.

*

troverò sempre violenta l’idea di avere nomi, tirarli dietro come fossero
trofei per miste associazioni, in nervi, a fasci, setti e alloggiamenti,
pensando siano altro e non segnali di esistenza, se poi da questi
nascono germogli, sostanze inerti, ombre posteriori, realtà
non regolari e infette per passi traslati da una linea all’altra,
invalidati poi quando decidi che è il caso di riprendersi la vita
nei reticoli di azioni, i lati da cui mandano messaggi gli organismi,
le cellule che riconosci dentro ai fiumi più completi per scalpo
e dismisura, e poi perfetti, si lasciano chiamare dentro oceani
più saturi e volatili, se possono, da un giorno all’altro. col nome
si perde quel vantaggio che si lascia ai vivi, ci si dispone a prendere
oneri e colpe dal genoma, pronti a raggiungere i perduti
nella bocca della bestia, rendersi al vuoto più totale o selettivo:
la pace per come segue, inerte, disarticolata nella luce.

**

indice

gridano alle macchine la loro devozione, poi si danno
forza e foga per motivi di deissi: prendono le parti
indirizzate e poi colpevoli, contratte a generarsi
una sull’altra. la voce che sentono è la tua, costretta
a uscire dai ranghi del muro occidentale, dito che scatta
sul serramento, stando fuori dai legami. sarà tutto domani
e poi, se non risulta, se indicato a mani aperte, confermate.
se tocchi questo muro, se ti tocca di varcarlo tolta l’acqua
nera dalle fenditure sarai parte violenta e presa dentro
o sotto il nervo, base sacrale prima, poi sacra, sternale
di una cosa riparata. un giorno guardi e vedi e guardi
ancora e il giorno appare rivoltato dalla linea infetta
che si muove, che segue la propria veglia in fitte,
arrampicate che sorvolano gli estremi, i varchi sfigurati
nella rete. un giorno guardi e vedi e il giorno si ricorda
della propria lussazione, della luce sotto o dentro
questa curva che diventa il gomito, un bene che si spezza
o che si spezzi e trovi forza per mostrarsi dall’interno,
a tocchi e brani estratti dai fossati, stecchi, mancanze
della voce poi nei sacchi aperti che raccolgono quei resti,
rimasti che saranno frange, poi distratti da altre arcate
in cui rimane questa lingua che si stacca, poi parlata,
dopo, se c’è un dopo, o andata, per davvero, altrove.

** 

da s.n.r.

volta, che contrae la sistole dei nodi, costruita dove
non si può, dove non c’è l’arcosecondo, la recisione
vibrata che scocca dentro non-storie di anni più isolati:
è δια, che si dilata, prova lo iato, che non accenta, stola
che conserva, porta il gesto e il grado in cui si accetta
o rappresenta l’esistente senza uscita, mediato nella scena
di traverso: volta in tre, classe di luce, mappa al secondo
del processo quasi-radiale che portano le strade, quella
di lui e del maggiore, prima fratello, ombra, preposizione,
trovato appena esploso dall’interno, ancora adesso a muro
di ventre rivoltato, nel turno nascosto, che si apparta,
porta il termine, la forza, di distesa che resiste mentre
muove, radente se poi muore, sfiora il corto della lama.
sarà un taglio, a duello se può uccidere, tiro che rimane,
deflusso nel ristretto, sceso, periodico di questa linea
trasversale che ora sversa, resa facile per nota o nell’attesa
che ora apre, volta sola per non deflagrare, che accade
nel mezzo della chioma, testa che si espande, κομήτης,
che cresce perché rimasta a crudo, denudata, vista da destra,
collapsar, tentata a qualche blocco di distanza, che è sosta,
apertura che si ferma, se è selce o se è da sola, del mare

 *

volta, fase di visione della notte, intersezione nel lungo
della fibra, farsa esatta, modulata, siderale presa al punto
che si sposta verso il centro, struttura propria della nebula,
poi nebbia, calma indebolita, mai pronta a disconoscersi,
sintassi realizzata nelle cose, σύνταξις che mette a prova
il nervo più veloce, associa tutto ciò che porta ad arrow left
momento per chi stacca la materia inerte, suolo percorso,
visto più volte dalla parte del visore; ripartire per contar
i soliti superstiti, conoscere il futuro per attrito, solo modo
che diverge in percezione, l’evento che passa dal bersaglio
al detonare, linea ed energia riaperta in quota, che stalla
e sgrana giorni chiusi in altri giorni, regesti per gli equanti,
epicicli al mezzo delle postazioni. non c’è mira, o quadro
in prova a darsi avvio da solo, invalidando ciò che è vero;
terra che non trema, inverata, ridotta a calibri, cabrata
collimata per come tocca a tutti, quando accade, per quanti
potrebbero chiamarla a riconoscersi nel padre: ordine
preso su di sé, tiro costante e decentrato, ora disposto
ad acquisire tutto, porta che si illumina, rimane, svolta
a cui non essere presenti, nulla che faccia male agli occhi

Amarcord Poétique : Charles Bukowski

2

-1

Nota

di

Alida Airaghi

CHARLES BUKOWSKI –UNA TORRIDA GIORNATA D’AGOSTO – GUANDA -PARMA  2014 –  EURO 14 –  PAGINE 159 – Traduzione di Simona Viciani

 

sto usando questa poesia per riempire lo spazio/ mentre bevo/ il mio ultimo bicchiere di vino//stasera// è stata una serata soddisfacente: ho visto un/ eccellente incontro di pugilato/ prima//messo l’antipulci ai gatti// risposto a due lettere/ scritto quattro poesie./ certe notti scrivo diecinpoesie/ rispondo a sei lettere

 Quale fosse il rilievo che Charles Bukowski attribuiva alla sua attività poetica risulta evidente dai versi citati: scrivere poesie, o lettere, o i racconti che gli venivano sollecitati – e ben retribuiti – da editori di pornografia, gli richiedeva la stessa concentrazione e dedizione che occuparsi dei suoi amati gatti. Ironizzava molto sul suo essere un “grande scrittore americano”, simile a Norman Mailer nei “10 chili in sovrappeso”, e invitato a conferenze in giro per il mondo, quando in realtà si riteneva un poeta mediocre, e commentava sarcasticamente la produzione sua e di altri famosi colleghi:

gli stessi poeti che leggono e/ rileggono negli stessi posti; sono imbarazzato per/ loro e per/ me stesso:/ pensiamo davvero di forgiare la lingua in modo/ più in-/ consueto rispetto alle previsioni della borsa o/ del tempo?// tutte quelle parole – che scriviamo a profusione -/ ancora e ancora – la maggior parte di noi vive vite/ ordinarie e senza coraggio – siamo folli a pensare/ che i nostri/ discorsi siano eccezionali?

 Nessun rispetto per la tradizione letteraria, nemmeno quella classica, che volutamente tendeva a smitizzare:

metto giù Rabelais/ e gli strizzo l’occhio./ questo è quello che gli/ scrittori si fanno/ a vicenda.// al posto suo, mi/ prendo una pastiglia di/ vitamina C.//…Rabelais/ eri un/ ragazzo tanto tanto/ interessante.

Nello stesso modo sbeffeggiava lo stile tradizionale, con i suoi versi smozzicati, interrotti a metà, volutamente prosastici e ignari di maiuscole, sia all’inizio che all’interno delle poesie, quasi a voler sottolineare un polemicamente divertito understatement. Più interessato all’alcol, alle corse dei cavalli, al sesso, alla banalità della vita quotidiana, ai soldi facili, Bukowski esibiva anche rabbiosamente il suo sostanziale e motivato distacco dal mondo artefatto del sogno americano, e la sua assoluta, solidale preferenza per gli emarginati, gli ubriaconi, le puttane, le camere d’albergo, i bar più squallidi.

Be’, copuli e copuli./ lasci la casa di questa e/ vai nella casa di quella e confronti/ copriletto/ salviette del bagno/ televisori/ carta igienica/ e il contenuto dei/ frigoriferi//

 la mia lunga esistenza è sempre stata/ solo questo e niente di/ più//

 non c’era/ altro da/ fare/ se non scopare//

 Vicini ottusi e impiccioni, lavori sopportati a malapena e per poco tempo, riti-doveri-cerimonie borghesi (Natale, Capodanno, servizio militare, tasse, pulizia corporale, civismo farisaico) da rispettare per quieto vivere:

mi scoccio quando mi fotto con le mie stesse mani

se vuoi spedirmi in un inferno anticipato/ costringimi a passare una giornata intera a/ Disneyland.

Gli affetti familiari gli suonavano irrimediabilmente retorici e insopportabili (la moglie querula, la suocera che gli rimproverava le parolacce, un padre detestato che gli aveva rovinato l’infanzia):

i piedi di mio padre puzzavano e aveva il sorriso/ come un/ mucchio di merda di cane.// essere lo stesso sangue di quell’odiato sangue/ rendeva le finestre intollerabili,/ e la musica e i fiori e gli alberi/ brutti.// ma si vive: il suicidio prima dei dieci anni/ è raro.

 Cosa può salvare dallo sconforto, se nemmeno la scrittura offre più scampo?  Forse solo la magia di una “mattina strana”, come quella narrata in una lunga poesia che descrive lo spontaneo e immotivato adunarsi di una folla di uomini davanti a un bar: varia e inconcludente umanità che si ritrova solidale intorno al nulla di un mezzogiorno libero da qualsiasi impegno. Oppure la rara e rivelatrice consapevolezza che al puro esistere bisogna comunque e sempre rimanere grati:

trovi una sedia, ti siedi, accendi un sigaro./ di ritorno da un migliaio di guerre/ guardi fuori da una porta aperta nella notte.// Sibelius suona alla radio./ nulla è stato distrutto./ soffi fumo nella notte nera,/ sfreghi un dito dietro l’orecchio/ sinistro./ ehi bello, in questo momento, sei in cima al/ mondo.