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Il bridge dei free-lance

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Di Ornella Tajani

Da qualche tempo ormai penso che la difficoltà principale di un’attività free-lance non stia tanto nel procacciarsi i lavori, e nemmeno nell’esigere un contratto, negoziando tariffe che convengano a entrambe le parti. Queste due indiscutibili e considerevoli fatiche sono soltanto seconde al problema davvero decisivo, e cioè fare in modo che il contratto in questione sia rispettato.

Maledetti architetti: Beniamino Servino

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servino otto

Beniamino Servino

 

OBVIUS 

 

Diario [con poco scritto e molte figure].

…Una teoria dell’architettura sotto forma di diario

 

LetteraVentidue Edizioni \ Aprile 2014, formato 18,5×23,5 cm, 256 pagine, brossura, colore, ISBN 9788862421164

Una teoria dell’architettura sotto forma di diario

Oggetti smarriti

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di Mario Sammarone

Oggetti smarriti_copertina

Oggetti smarriti. Perché sono oggetti e perché sono smarriti. La sofferenza arriva quando, riguadagnata la loro soggettività – dunque non più oggetti – sentono il graffio della vita. Sono i personaggi di Lea Chiabrera, riuniti nel libro edito da Empiria. Racconti dissimili nel risultato: alcuni più riusciti, altri che restano più indistinti, ma tutti con una loro vita autonoma tracciata un po’ sotto tono.

A sangue freddo: le Schegge Taglienti di Alessandra Daniele

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cover3Alessandra Daniele, Schegge Taglienti, satire al vetriolo da Carmilla on line, Agenzia X, Milano 2014, pag 192 € 13

di Mauro Baldrati

In Italia c’è bisogno di una satira politica come quella di Alessandra Daniele. Ce n’è un bisogno vitale. Ciò che resta della satira, infatti, nella frattaglia mediatica-populistica che ormai si è impadronita dell’immaginario italico, devastato da quella sindrome “del pecorame” di cui parlava Gramsci negli anni Venti, si concentra soprattutto sugli aspetti folkloristici dei personaggi, qualche tic, miserie umane, talvolta con l’interessato in studio che ridacchia mentre lo si sbertuccia (come sovente accade da Crozza-Floris, che nella triste Waste Land attuale resta comunque uno dei migliori). Invece la satira deve essere cattiva, scorretta, perfida. E’ la sua natura. Deve ferire, non avere pietà, perché si rivolge a chi non ha alcuna pietà per gli altri, chi ruba, calunnia, inganna. La satira può essere una valida arma di difesa/offesa. Quella di Alessandra Daniele lo è.

Questo libro raccoglie i testi brevi – i corsivi – che appaiono il lunedì su Carmilla nell’omonima rubrica Schegge Taglienti. Alcuni sono sotto forma di racconti, altri di commenti, o di invettiva, con lo stile della “rasoiata”: fendenti secchi, micidiali. La Daniele fa scattare il rasoio contro la folla di bugiardi, politici da strapazzo, macellai sociali, buffoni di corte, imboscati, corrotti, mentitori di professione, insomma l’affollata cricca parassitaria che – come Alessandra Alez ripete spesso nei suoi testi – forma i governi di paglia, uomini e donne prestanome che fingono di governare ma lo fanno per conto terzi, in cambio di laute prebende, per conto di chi sta fuori dall’Italia e decide del nostro destino (la Troika, la BCE, le multinazionali finanziarie ecc.).

Le Schegge vibrano di un odio freddo, con buona pace di chi stigmatizza il politicamente scorretto del vituperato I hate. Invece l’odio va lavorato, filtrato, ripulito, perché l’odio sociale può essere la base di una nuova resistenza, di un conflitto di classe, di una battaglia politica. Lo è stato per il punk, I hate Pink Floyd. E Alez in fondo è un po’ punk. C’è come un nichilismo nei suoi pezzi brevi, una rabbia iconoclasta che tuttavia non è mai fine a se stessa. Anche perché è “lavorata”, riscattata dalla scrittura letteraria. La sintesi così estrema è un requisito difficile da raggiungere. Non una parola sprecata, non un ragionamento di troppo. Non una concessione all’entertainment o all’affabulazione. Come scrive Valerio Evangelisti nella prefazione, arrivano gli echi del mitico Fortebraccio, il polemista-moralista che dalle antiche pagine de L’Unità sferzava i politicanti democristiani; c’è lo stile del Male, del Journal bête et méchant Hara Kiri, ma anche dell’ultimo Giorgio Bocca, che nella rubrica l’Antitaliano su l’Espresso faceva a brandelli il malcostume italiano. Ma c’era più disperazione, in un certo senso. Era un pessimismo disperato. Invece le Schegge non si avvitano sul negativo e la rassegnazione. Sono intrise di vendetta, di indignazione, ma anche di dolore. Sì, negli spazi bianchi c’è il dolore di chi è costretto ad assistere – e a subire – alla deriva italiana verso il servilismo senza ritorno ai potenti, al malaffare, al populismo, all’agire omertoso e mafioso, mentre tutto crolla tra le orge di una cricca politica di mantenuti, di famigli e di cazzari.

Latte e linguaggio – Seconda edizione

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Milano, Biblioteca Comunale Chiesa Rossa, 17-18 maggio 2014

Comitato scientifico
Luigi Ballerini, Michele Corti, Pasquale la Torre, Stefano Mayr, Laura Zanetti

L&L

Sabato 17 maggio 2014

Ore 14.00 Stefano Parise, Direttore Settore Biblioteche Comune di Milano.

Saluti

Presiede Michele Corti, Docente di Zootecnica Montana, Università degli Studi di Milano

Ore 14,10 Antonio Carminati, Sindaco di Corna Imagna (BG)

Il recupero della cultura del latte.

Intervento in diretta della casara Celina Carminati sulla lavorazione dello “Stracchino all’antica”

Ore 15.00 Selene Siria Alessandro, Ostetrica Consultorio G..Beretta Molla

Latte materno pro/contro e latte artificiale?

Ore 15,30 Giorgio Ficara, Docente di Letteratura Italiana, Università di Torino

Lettere non italiane

Ore16.00 Gerard Haddad, Scrittore e psicanalista(Parigi)

Latte e carne, un’origine del linguaggio

Ore 16,30 Pausa

Presiede Laura Zanetti, Etnografa e giornalista sociale

Ore 17.00 Andrea Falappi, Agricoltore Cascina Campazzo (MI)

Excursus sulla trasformazione del paesaggio agricolo negli ultimi 25-30 anni

Stefano Moltrer, Presidente Associazione Culturale

Ore 17,30 “schartl”del Bersntol (mocheno).

Accompagna Agnese Jobstraibizer casara e malgara della Malga Cagnon de Sora.

Plètzet Goas van Bersntol, la capra pezzata della Valle del Fersina e la tradizione locale

Domenica 18 maggio 2014

Ore 14.00 Filippo Del Corno Assessore alla Cultura Comune di Milano.

Saluti

Presiede Luigi Ballerini, Prof. Emerito di Lingua e Letteratura Italiana, UCLA

Ore 14,10 Luca Barbieri, Giuslavorista, attore

Lavoro e prossimità

Con tavola rotonda su LAVORO E CITTADINANZA.

Partecipano: Jatinder Singh, Presidente Associazione Sikh.

Jaswant Singh, membro Associazione Sikh

Dalido Malaggi, Sindaco di Pessina Cremonese (CR)

Ore 14,50 Ornella Discacciati, Docente di Lingua e Letteratura Russa, Università della Tuscia

Nella Russia delle sette con i “bevitori di latte”

Ore 15,20 Melania Gazzotti, Critica d’arte

Latte e autarchia:il LANITAL, la stoffa che ispirò Marinetti

Ore 15,50 Stefano Mayr, Naturalista, Presidente Libera Associazione Pastori e Malghesi del Lagorai

Ecosistemi pastorali e praterie d’alpeggio:

elementi di biodiversità colturale e culturale da preservare sulle Alpi

Ore 16.20 Pausa

Presiede Paola Mieli, Presidente società Psicanalitica Aprés Coup, New York

Ore 16,50 Gianluca Rizzo, Docente di Lingua e Letteratura Italiana, Colby College (Maine)

Like mother’s milk: lingua, purezza e traduzione

Ore 17,20 Frédéric Boyer, Scrittore (Parigi)

Ho un animale sulla lingua

Ore 17,50 Ornella Piluso, Direttore artistico Associazione Culturale Arte da Mangiare

Lattarte”-Il latte e l’arte

In mostra “VIVE 2014” di William Xerra

Benway / Syn

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A Firenze, venerdì 16 maggio 2014, alle ore 17:00

presso Cuculia Ristorante Libreria

[ via dei Serragli 3R – Tel./fax 055-2776205 ]

presentazione delle collane di scrittura e dei progetti

Benway Series (Tielleci)
e Syn (IkonaLíber)

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Working underclass heroes

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lavavetridi Gianni Biondillo

Da buon dietrologo, quando cadde il muro di Berlino mica ci avevo creduto. D’altronde non ci avevano detto che lo sbarco sulla luna non era mai avvenuto, che era tutta una finzione della propaganda yankee? Non sapevo bene cosa volessero inculcarmi con quelle immagini girate in chissà quali studios hollywoodiani che mostravano gente festante che ballava sui resti del muro, ma di certo da qualche parte c’era la fregatura. Il mondo così come l’avevo conosciuto era bello, chiaro, statico. La fine delle ideologie era di certo una bugia propagandistica del capitalismo ormai al tramonto. Poi li vidi, ai semafori, circa vent’anni fa. I polacchi.

Mai visto un polacco prima, escluso Wojtyla, ovvio. Che fosse a Roma o a Milano, appena scattava un semaforo rosso i polacchi si fiondavano sui parabrezza delle macchine in coda e, armati d’acqua saponata e tergicristalli, le strigliavano per bene. Il muro era caduto per davvero, allora. Gli abitanti dell’ex blocco sovietico esistevano, non erano una fantasia dell’immaginario collettivo. Abbattuta la rassicurante cortina di ferro iniziarono a tracimare per tutta Europa. Ma non chiedevano la carità, macché. I polacchi, presi dal sacro fuoco del capitalismo occidentale, si convertirono in un batter di ciglia da collettivisti a imprenditori. In Germania tutti idraulici. Qui da noi lavavetri. Non mi stupisce, sono cattolici, e alla faccia di Max Weber siamo stati proprio noi cattolici a inventare il capitalismo. Ce lo ricorda Carlo Cipolla, nel suo Allegro ma non troppo: siamo stati noi italiani, nel medioevo, a ideare le cambiali, la partita doppia, le banche. Poi i re inglesi e francesi non pagarono i loro debiti e allora ci siamo buttati nell’arte, altrimenti chissà dov’eravamo oggi!

La logica di scambio dei polacchi non era quindi una novità per noi. Niente a che vedere con l’accattonaggio. Si tratta di rilasciare un servizio e riceverne il giusto compenso: potere contrattuale e libero mercato. Ho un cugino che al paese, in meridione, fa il posteggiatore abusivo. Lavoro non ne trova, mi dice, e di rubare non ne ha voglia. Preferisce fare qualcosa di onesto. Rilascia un servizio. Economia informale? Finanza creativa? È un servizio di guardianeria personalizzato. Lo so, ora voi maligni potreste pensare: e cosa succede se non lo pagano? Che brutta cosa la dietrologia, fate come me, che ne sono uscito e che ora credo nelle progressive sorti dell’economia globalizzata.

I polacchi poi ad un certo punto sparirono e per le strade arrivarono bosniaci, albanesi, slavi, rom. Levantini creativi, proprio come noi, mostravano la spugna intrisa d’acqua lurida e tutti preferivano pagare pur di evitare il trattamento. Economia liquida, la chiama qualcuno.

A fare certi lavori occorre sapersi specializzare, è una cosa seria. Mica si tratta di starsene sul sagrato di una chiesa con la mano tesa. È roba del passato. Il capitalismo richiede creatività. Giro in metropolitana e vedo rappresentazioni degne del miglior teatro dell’assurdo (una volta un tizio con un gilet catarifrangente voleva farmi credere di aver appena trovato un cucciolo smarrito. L’ho rivisto per giorni, sulle varie linee, sempre con lo stesso gilet e lo stesso cucciolo in mano, lesto a raccogliere denaro), oppure ho assistito a cantanti degni di un talent show televisivo, microfono in mano e miniamplificatore nello zaino, espettorare il loro virtuosismo tonsillare. Alcuni sono proprio bravi, fa piacere contribuire allo sviluppo del loro talento già alle sette del mattino. Magari indirizzandoli nella carrozza successiva.

E poi, diciamocelo, la tecnologia piuttosto che venirci incontro sembra respingerci. Siete in macchina, fuori fa freddo, avete una banconota sgualcita da venti euro. Perché non usufruire di un giovane bengalese che si prende il freddo e si arrovella per voi al self service, provando a fare benzina al posto vostro? Non merita un contributo il suo efficiente servizio personalizzato?

Il mercato dei servizi alla persona è attento, creativo, sa riconoscere i bisogni. Pensiamo alle file di turisti o agli “esclusi digitali” che di fronte ai dispositivi che erogano biglietti ferroviari si comportano come stessero contemplando un polittico bizantino. Alla stazione Centrale di Milano ci sono giovani senegalesi pronti a dare una mano, nel caso. Ho visto fare la stessa cosa per i biglietti del tram. Ovunque c’è necessità, qualcuno risponde. E non parliamo di fastidio o di molestia, per piacere. Non sono forse più fastidiosi i dipendenti delle aziende pubbliche che non sono mai in ufficio perché occupati da infinite pause caffè? Non sono forse più molesti i call center dei gestori telefonici o quelli che ti chiamano cercano di venderti qualunque cosa, da un’assicurazione sulla vita a intere damigiane di olio d’oliva? Non sono ai limiti dello stalkeraggio gli agenti immobiliari che suonano alla porta di casa chiedendoti informazioni sui vicini?

Vediamola in un altro modo, allora. Viviamo in una società del terziario avanzato, non credo mancherà molto alla creazione di corsi di aggiornamento, di scuole di apprendimento. Basterà mettere i nomi dei corsi in inglese e il pudore un po’ peloso che ancora resiste in noi sparirà all’istante: helper digital divide, oil costumer care, rail ticket dispenser, itinerant singer, street washer cars… Finiamola di parlare di accattonaggio, povertà, marginalità! Sono semplicemente lavori del nuovo millennio. Quello che ci tocca vivere.

(pubblicato su IoDonna,  il 3 maggio 2014)

Nove giochi

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di Gianluca Codeghini

guardati alle spalle

LA DECISIONE POLITICA (2000)

Questo gioco è molto diffuso ed è il best-seller tra i giochi di società.
Uno dei suoi segreti (ma certamente non l’unico) è probabilmente il fatto di dividere i giocatori, fin dall’inizio, sulle regole del gioco stesso.
Quanto alle regole sono assai semplici, ma le affronteremo solo in un secondo momento.
Il gioco è composto di una scatola, una quantità adeguata di cioccolatini e un normale dado dalle molteplici facce.
Pur essendo un gioco moderno, competitivo, le regole lo rendono alquanto conservativo.
Il gioco è strutturato su una serie di affermazioni che determineranno le dinamiche del gioco medesimo. L’obbiettivo è decidere intensamente, al punto tale da lasciare nella memoria il dubbio di aver deciso altro o di non aver deciso affatto.

LA SCATOLA DI UTENSILI (Tre giochi da libro) (2001)

RITRATTO

Il gioco si presta a numerose osservazioni. Per cominciare, sotto l’intestazione c’é un cartiglio con una citazione poetica:

Quocirca et absentes adsunt… et, quod difficilius dictu est, mortui vivunt…
Cicerone, Læliud de Amicitia

Nell’offrire alle famiglie questo gioco, abbiamo avuto di mira il divertimento e l’istruzione. Rendere dilettevole la scienza, imprimere ad un passatempo di società la nobile missione di arricchire la mente di cognizioni utili e varie: ecco lo scopo che ci ha guidati in questa compilazione.
Ritratto non è come può sembrare uno dei tanti e stanchevoli giochi di economia, con i soliti ingredienti del compro-vendo, non è come può sembrare uno dei tanti e diseducativi giochi di strategia, con i soliti inni e gli inutili sforzi, non è come può sembrare uno dei tanti e noiosi giochi educativi, con le solite domande e le insolite risposte, non è come può sembrare uno dei tanti e precari giochi di fortuna, che fanno leva sul disimpegno, perché Ritratto come può sembrare non è solo come può sembrare o forse… perché Ritratto non è un gioco di società ma il gioco della società.
Come tutti i bei giochi la prima regola è la semplicità.
Per giocare a questo gioco bisogna essere almeno in due, con un libro concordato assieme e che nessuno dei due ha ancora letto; la posta in gioco è la possibilità per chi vince di leggere il libro, chi perde per giocare con lo stesso libro può solo aspettare di essere nuovamente sfidato.
Si decide di comune accordo l’ordine di gioco e il numero delle pagine messe in gioco. Il gioco consiste nel destinare prima all’uno poi all’altro parola dopo parola del libro, fino alla fine delle pagine concordate. Ogni giocatore prepara una tabella dove annota la propria parola smembrata in singole lettere. Vince chi al termine della lettura ha nella somma dalla A alla Z il maggior numero di lettere.
Per consentire una verifica successiva ogni parola assegnata va sottolineata sul libro possibilmente con un pennarello evidenziatore di colore diverso per ciascun giocatore. Non è possibile rigiocare le stesse pagine.
Esempio: giocatore uno e giocatore due decidono di giocare da pagina venti a pagina ventidue, per un totale di tre pagine. La pagina comincia con “Erisittone”, il primo giocatore la annota e la scompone in 2e, 1r, 2i, 1s, 2t, 1o, 1n; il secondo giocatore, meno fortunato, continua e trova “era”, annota 1e, 1r, 1a; tocca al primo giocatore che trova “il” e segna 1i e 1l; ora il secondo trova “figlio” e annota 1f, 2i, 1g, 1l, 1o. Alla fine delle pagine concordate i due giocatori sommano ogni singola lettera e chi tra i due vince più scontri “letterari” è decretato vincitore della partita.
In questo caso, entrambi hanno conquistato otto lettere, ma vince il primo giocatore, con 2e, 1r, 2i, 1s, 2t, 1o, 1n, 1l.
Buona lettura.

TRA LE RIGHE

Tra le righe è uno di quei giochi che appassiona a tutte le età e che ricorre costantemente nella vita di tutti. È un vero e proprio gioco di abilità, ma anche un grattacapo e in certi punti un simpatico burlone.
Ha due livelli di gioco, differenti non tanto per la difficoltà quanto per l’approccio: in uno si consuma una relazione lettore-libro, con un solo giocatore e un solo libro per volta, nell’altro interagiscono sullo stesso testo più giocatori in tempi diversi. Il primo livello di gioco è consigliato ai principianti e a chi si vuole tenere in allenamento. Per giocare occorre un libro proprio; gli esperti pronti a sfidare degli sconosciuti transitano dal primo al secondo livello con un libro di pubblica provenienza. Ciò che differisce tra i due livelli è che con un libro proprio il gioco si conclude al suo interno, mentre se il libro è ricevuto in prestito o è di una biblioteca il gioco si estende al proprietario o ai successivi lettori.
Lo scopo in questo gioco da libro è quello di produrre una letteratura del lettore tra le righe bianche al punto da lasciare nella memoria il dubbio di aver giocato ad altro o di non aver giocato affatto.
Si possono usare matite, penne, pennarelli a punta fine e media e pastelli a cera.
Chi comincia il gioco ha l’obbligo di definire un tempo di gioco – minimo due anni – e di segnare in prima pagina le proprie iniziali caratterizzate dal colore e dal segno che da quel momento adotta, chi in seguito aderisce al gioco deve fare lo stesso. La fine del gioco è decretata dall’impossibilità di continuare a giocare su quel libro per mancanza di spazio su cui interagire. Non si possono modificare in alcun modo gli interventi degli avversari. I modi di utilizzo del libro e i modi di interazione con il prossimo lettore possono essere svariati, il gioco consiste proprio nel considerare ogni pagina come un nuovo piano di gioco, di discussione, di critica, di proposta, di negazione e di ricontestualizzazione del rapporto libro-lettore. Scritte, disegni, linee, tagli e macchie riclassificano lo stato della battaglia. La capacità del giocatore è valutabile nel tempo, quantificata nelle partecipazioni di altri giocatori che non solo hanno risposto ai suoi primi input ma che a loro volta hanno occupato altro spazio per rivedere ed enunciare nuove regole di gioco.
Non si può trattenere il libro oltre i tempi concessi dalla biblioteca, altrimenti scatta l’automatica squalifica dal gioco con quel libro, ed è consigliata una osservazione costante dello sviluppo del gioco, almeno due aggiornamenti l’anno.
Buona rilettura.

ALLA POLVERE

La mia storia? Un libro mancato, potrebbe anche essere il titolo di questo gioco da libro, in cui chi vuol giocare deve per prima cosa riconoscersi in una delle seguenti vicende: tutti ne parlano… è un best-seller… asino chi non legge… non si può dire di amare i libri senza aver letto… è uno dei classici… adesso lo leggo… è una vita che ci provo ma… Queste sono alcune delle vicende possibili in cui il potenziale giocatore deve riconoscersi, perché quello che importa è che, per cominciare a giocare, deve ancora persistere un desiderio di lettura da libro incompiuta, mancata
Spiegazioni del giuoco:
In questo gioco, simpaticissimo, allegro ed ingegnoso, il numero dei giocatori è illimitato; ma non è obbligatorio che siano al completo, anche uno solo può cominciare a gareggiare, ma certo, maggiore sarà il numero dei contendenti maggiormente la partita sarà interessante.
Per cominciare a giocare è necessario:
– un’indagine nel passato o nel presente alla ricerca di una delle situazioni sopra segnate e/o affini;
– che il libro non sia stato mai letto;
– procedere nell’acquisto;
– posizionarlo in libreria tra altri libri.
Il libro diventa giocabile anche se ricevuto in regalo, trovato o ereditato, sempre purché risulti nuovo, ancora con gli angoli senza pieghe e con le pagine illibate, ancora meglio se il libro ha l’odore di stampa ancora presente, insomma un libro fino a quel momento defunzionalizzato.
Non è possibile giocare con libri presi in prestito, incelofanati o usati. Per migliorare nella strategia si consiglia di frequentare ambienti letterari.
Una volta posizionato in libreria il libro non può essere più rimosso, la polvere deve sedimentare. Si consiglia di dedicare una zona ai libri con cui si intende giocare, in modo tale da non condizionarne la superficie e favorirne la verifica e la lettura dei punti raggiunti da parte di altri concorrenti.
Una persona in visita deve essere facilitata sia all’apprendimento del gioco che, nel caso sia già un partecipante, alla verifica e al confronto del livello di gioco del concorrente che si trova di fronte.
Il livello è dato da una misurazione in centimetri; in caso di parità si guarda alla somma dei libri e nel caso di una nuova equità verrà preso in esame il numero di libri non letti per autore; dopodiché, se si verificasse un nuovo caso di parità, i due giocatori dovranno affrontarsi in una somma delle lettere che compongono titolo, nomi e cognomi degli autori di tutti i titoli in gioco.
Chi perde è costretto a regalare un libro desiderato, mancante, alla collezione dell’avversario, e nel caso volesse rimettersi in gioco ha come punizione l’obbligo di spolverare e leggere quello più spesso, che decentimetrato ricomincia.
È un gioco senza limiti di età.
Un giocatore può lasciare in eredità i propri libri da gioco. Nel testamento la collezione può essere suddivisa tra più persone, purché parenti, e la quantità va espressa in centimetri, la destinazione è casuale; risultasse che i libri ereditati sono già presenti tra quelli letti o tra quelli non letti, il concorrente deve nel primo caso eliminare il libro, mentre nel secondo è costretto a leggerlo e poi a eliminare la copia dalla sua collezione. Prima del decesso viene stimato un punteggio sulla collezione che in seguito verrà smembrata; come è evidente un’eredità è un enigma, può aiutare come anche vanificare gli sforzi, è perciò obbligatorio applicare un controllo del punteggio dopo l’eredità ricevuta.
Si ricorda che chiunque volesse giocare spinto dalla menzogna e dall’imbroglio si troverebbe privato di quel sublime piacere di non leggere un libro. Più la libreria è ricca di libri non letti e più si è vicini alla soluzione del gioco…

WAR BURG ER ovvero Il gioco dell’autostrada e della sottiletta (2004)

Prima di cominciare a giocare è opportuno introdurre le caratteristiche che lo hanno reso uno tra i più apprezzati giochi da muro.
Accingersi a giocare a Warburger è in qualche modo come apprestarsi ad un lauto pranzo.
C’è lo stesso tipo di gioiosa anticipazione, a patto che i giocatori siano realmente affamati, cioè che abbiano un bruciante desiderio di vincere, al punto da lasciare nella memoria il dubbio di aver giocato ad altro o di non aver giocato affatto.
Il sapore di questo gioco, vuoi per la sua collocazione, visto che una delle poche regole impone quale scena d’opera una cucina, vuoi per la voracità con cui lo si consuma, vuoi per la sua conclusione che gusterete giocando, è simile a quando parliamo con la bocca piena.
È come la parete nera di un grande gioco di guerra.
È come gli infiniti strati che compongono un grande panino.
È come un grande là.

CAMPO DI CONCENTRAZIONE CULTURALE (1993-2007)

È un progetto commissionato dalla città di Dortmund e mai apparentemente realizzato. L’invito era di ripensare la città in modo da creare nuovi stimoli culturali per coloro che ci vivono.
Campo di concentrazione culturale avrebbe avuto tutte le credenziali per diventare il gioco della città di Dortmund perché ha contemporaneamente uno svolgimento ludico e serioso, stupido e intelligente, che appaga tutti i corpi e le menti. Ogni partecipante, quando comincia, durante e in conclusione del gioco, non si sentirà mai smarrito o solo, perché tra la moltitudine di partecipanti sarà sempre l’oggetto di una calorosa attenzione politica.
Per cominciare ogni giocatore deve recarsi alla biblioteca preferita munito esclusivamente di buona volontà, perché all’entrata, oltrepassata la scritta di benvenuto “Gedanke macht frei” (pensare rende liberi), verrà accolto e munito di un pigiama e di lenzuola, perché Campo di concentrazione culturale potrà essere sì il più bel momento della vostra vita ma solo se preparerete bene il vostro letto. Perché il vostro letto sarà il vostro libro non letto, quello con l’angolo piegato delle lenzuola così da non perdere il segno nel sogno.
Lo scopo del gioco va letto nella sua struttura prospettica, quella sempre successiva, solleticata ma ancora inespressa, all’interno di un processo di crescita docile, senza particolari cambiamenti o fratture d’intelletto, falsi movimenti della città con i suoi abitanti e della felicità gasata dei suoi burocrati. Vince chi si concentra intensamente al punto tale da lasciare nella memoria il dubbio di aver letto altro o di non aver letto affatto.
Buona notte a tutti.

UNA QUESTIONE IMMATERIALE (2007)

Quanta realtà è ancora intenzionata a dare delle opportunità all’arte?
Questo gioco dalla realtà “immateriale” è da considerare a tutti gli effetti un non gioco, non perché sia poco divertente o perché ambiguamente troppo reale ma perché è solo un gioco.
Paradossale nelle regole, intransigente nello svolgimento, realistico nella conclusione, Una questione immateriale risulta essere uno dei giochi realmente meno giocati ma a detta di tutti quello più cercato, uno di quei giochi riusciti a regola d’arte.
La modalità del gioco è tanto semplice quanto paradossale, semplice perché un giocatore per giocare non deve fare nulla di diverso da quello che ha fatto fino a poco prima di cominciare il gioco; paradossale perché per giocare un giocatore, allorché si rende conto che il gioco è cominciato, deve smettere di giocare.
Una questione immateriale non lascia interpretazioni di sorta. Vince chi vive intensamente la realtà al punto tale da lasciare nella memoria il dubbio di aver vissuto altro o di non aver vissuto affatto.

GIOCO DI SPONDA (2010)

Il gioco comincia con una conta
sul bordo della strada,
quella del viandante,
dove la strada prende a salire
e finisce sul bordo,
dove l’acqua prende a scendere
verso la pianura.

Vince chi da una sponda
continua intensamente a desiderare l’altra,
al punto tale da lasciare nella memoria
il dubbio di aver desiderato altro
o di non aver desiderato affatto.

AFFETTATO FINALE (2014)

Affettato finale è uno di quei giochi difficili da sostenere e da proporre al grande pubblico. Per due motivi: il primo è che non ha un taglio di gioco regolare e questo non aiuta i giocatori a trovare il giusto affiatamento tra loro, il secondo, di tipo logistico, perché più ci si mette in gioco e meno le azioni comuni avranno posto.
Affettato finale pur non avendo dei margini ha sempre un inizio e una fine, almeno per chi lo gioca; l’approccio è semplice, intuitivo, ininterrotto e in costante sottrazione. I giocatori avranno un’opportunità di gioco unica nel suo genere, di cui non potranno più fare a meno.
Prima di cominciare a giocare è utile comprendere alcune dinamiche fondamentali: più affretterete le vostre azioni e più riscontrerete una pervasiva perdita di urgenza, al punto tale da lasciare nella memoria il dubbio di aver affettato altro o di non avere affettato affatto.

[Immagine: Gianluca Codeghini, Guardati alle spalle.]

Per chi fosse interessato, venerdì 16 maggio, presso il Chiostro Gorini di Lodi (in via A. Bassi 1), si svolgerà “L’effetto finale. Aree di frizione insostenibile”, il prossimo evento-mostra dell’artista, che includerà un video, una conferenza multimediale, una pubblicazione esposta e una performance per doppio coro recitante, costruita su un mio testo. (A.B.)

I poeti appartati: Osip Mandel’štam

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La conchiglia

di

Osip Mandel’štam

Forse non ti sono necessario,
notte; dalla voragine totale
simile a una conchiglia senza perle
sono stato gettato alla tua riva.

Di schiuma gonfi impassibile le onde,
canti scontrosa;
eppure l’amerai, l’apprezzerai,
la bugia dell’inutile conchiglia.

Le giacerai accanto sulla sabbia,
la indosserai come la tua pianeta,
tenacemente unite intreccerete
l’immensa campana delle increspature,

e le pareti della fragile conchiglia
come il guscio di un cuore inabitato
riempirai dei sussurri della schiuma,
di pioggia, nebbia, vento.

1911

Osip Mandel’štam , Poesie, a cura di Serena Vitale , collezione I Garzanti .1972 ,Garzanti editore.

L’anno scorso, sull’isola di Sevan in Armenia, passeggiando nell’erba che mi arrivava alla cintola, ammiravo il fiammeggiare ateo dei papaveri; vividi come il dolore di una operazione chirurgica, lievi pseudo-cotillons, grossi, troppo grossi per il nostro pianeta, incombustibili libellule dalla bocca semiaperta i papaveri crescevano su ributtanti steli pelosi.
Invidiavo i bambini che davano accanitamente la caccia alle ali di papaveri tra l’erba. Mi chinai una volta, poi un’altra; il fuoco mi divampava tra le mani, quasi un maniscalco mi avesse offerto carboni ardenti.

[Osip Mandel’štam, Sulla poesia, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, Bompiani 2003, p. 173]

Questa nota, il cui titolo è Troppo grossi per il nostro pianeta, l’ho letta sul blog di Paolo Nori.

No WorKing Class

9

Catturaok

 

 

 

La riforma che riduce la disoccupazione

di

Livio Borriello

(pubblicato su laquinzaine N°6 Indypendentemente

 

 

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l’allestimento prospettico del mondo.

la mia presenza nel mondo è pesante, violenta.

io sconvolgo l’esistenza neutra, silenziosa, lenta delle cose.

il fatto che io esista è incalcolabilmente più denso del fatto che esista quel tetto.

la mia presenza nel mondo è un evento decisivo.

ciò che rende decisiva la mia presenza, è che io coincida con il luogo dove sono.

qui c’è carne, una congerie molle, rosacea, umida, massiccia. dunque io sono immerso e coincido con una carne, con questa carne.

 

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tu sei memoria. la memoria tecnica di un istante fa, e quella romantica della tua infanzia. il tessuto che costituisce un’individualità, è un tessuto di tempo digerito, e trasformato in linguaggio. tu non sei in te, in te sei solo un morto, il morto che coincide col tuo corpo. la tua armatura, il tuo sviluppo, è fatto dei minuti, di questo materiale fatiscente e invisibile, che qualcosa (soggetto) allucina, dei minuti toccati al tuo corpo, così come esso li ha trattenuti in qualche forma ancora non chiara alla logica. quando il corpo sente la loro profondità, e la loro irreversibilità, i ricordi lancinano. dunque tu sei fatto di questa vertigine inaccettabile e inconoscibile, e puoi sopravvivere solo se la neutralizzi, se la mineralizzi, se la lasci nel corpo ad agire meccanicamente. i moti muscolari e chimici intanto ti incalzano, e producono incessantemente – sulla cresta del presente – nuovo passato, nuovo L.. sei una macchina che produce passato, che produce memoria, che ti produce. e questa è l’unica cosa che sei, che sei individualmente – questa operazione sul tempo.

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se questo è il passato – se tutto finisce in questa voragine– io ho diritto alla più feroce, più violenta, più dissennata felicità. nessuna felicità ci ripagherà dello sprofondamento della vita.

i fiori di carne delle donne, che sbocciano nel limo del grigio pomeriggio piovoso. il tepore, la nudità, la motilità, l’organicità  delle carni.

le psichi invece sbiadite, rattrappite, marcite, asfissiate nelle loro lingue.

poi ci sono io, cosa delle cose, cosa dal cui interno si esiste.

 

 

 

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altri, ci sono nel mondo, in una situazione stranamente simile alla mia

 

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fra me e gli altri, il mondo si alleggerisce, diminuisce. prima che il mondo da che era me sia un altro, si attraversano estesi spazi insignificanti, poco significanti. fra me e l’altro c’è l’aria.

questo, mi impedisce di sentirlo bene. io sono sempre io, e anche lui.

tutti sono “un altro essere”, senza saperlo, anzi un dio – scivolante fra le vetrine, un dio che compra la pizzetta,  in quanto hanno ben complicato la polvere che erano. noi siamo questa congerie di aria, di suoni, di macelleria e di intenzioni, di cui una frazione infinitesima compra una pizzetta – 1 euro e mezzo – segno che esiste il reale, prova contabile e funzionante. e dopo era passato pure un minuto!!

il fatto che io mi sia infine depositato in me, è del tutto casuale. il corpo dell’altro, mi assicura la scienza, è fatto con strutture e liquidi e umidità e fori e pori e dinamismi straordinariamente simili ai miei.

ma le sue braccia, non obbediscono  al mio comando, il segnale dovrebbe arrivare troppo lontano, attraversare troppi valichi e barriere.

io non sento il suo dolore.

io non godo il suo orgasmo.

se è mio figlio, se mi innamoro, onde si ripercuotono fra me e l’altro, e rendono molti più intensa la rispondenza. quasi mi sembra di essere dal suo corpo. ma non è proprio così, e poi dura poco…

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e tuttavia,  se io metabolizzo questo sentimento, se io mi posiziono in quello stesso punto e in quello stesso istante in cui tutto coincide, se io mi concentro in me fino al punto in cui dileguo, se mi esproprio, se mi sporgo dal mio orlo, se colliquo dal mio contorno, se affino la carne fino a sentire la pastosità e la conduttività dell’aria, se mi ricordo del mio non essere ancora – del mio non essere mai stato – se sbaglio ad essere stato, se vacillo dai suoni e segni della mia lingua, io posso sentire, come una risonanza, come una ripercussione, quello che diversamente, che altrimenti sono. ci sarà un giorno in cui il dovere sarà il de-habere, il non più essere. ci sarà un giorno in cui sentiremo il dolore di denti del nemico, e godremo della carezza nella sua mano.

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questo è per me l’atto politico più urgente, la riforma che riduce la disoccupazione.

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L’uomo che sapeva ascoltare il vento

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di Nicola Fanizza

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Ogni anno, terminati gli esami di maturità, verso la metà di luglio, ritorno a Mola, il Paese che mi ha visto nascere. Tuttavia quest’anno non ci sarà più Nicola Palazzo ad aspettarmi in piazza XX Settembre. Il vento, che è metafora di tutte le cose, se l’è portato via. Aveva da poco festeggiato – il 28 agosto 2013 – i suoi cento anni e per l’occasione erano giunti a Mola i nipoti che vivono in Inghilterra. Nulla poteva far prefigurare il triste evento. Certo, a differenza degli altri anni, Nicola non si era fatto vedere in piazza. Eppure quando andai a trovarlo a casa sua, le sue condizioni mi apparvero buone. Mi disse che il medico gli aveva consigliato di tenere a freno i suoi piedi nervosi. E tuttavia la stretta della sua mano non aveva perso vigore. Conservava intatta la forza – incredibile per un uomo della sua età – che aveva acquisito in gioventù, quando aveva lavorato alla costruzione delle strade in qualità di cazzavrècce (spacca pietre).

Ogni volta che mi incontrava, con gli occhi contornati dal sorriso, diceva di aver ascoltato il vento: «sono uscito, perché sentivo che saresti arrivato oggi». Di fatto Nicola, come tutti gli uomini che vivono sulla costa, prestava attenzione al vento, ne sentiva le voci e gli odori, così stranieri, leggeri e invisibili. Fu proprio il fragore del vento a svegliarlo, mentre era in Etiopia, la notte del 9 giugno 1940: «Per circa un’ora, un’intensa aurora boreale illuminò di luce rossa il castello di Gondar che mi stava di fronte, mentre la volta del cielo era una tavolozza di tutti i colori dell’arcobaleno. Lo spettacolo produsse nella mia mente una profonda inquietudine, era il presagio di future sventure. Il giorno dopo, infatti, il comando ci comunicò che eravamo in guerra contro la Francia e l’Inghilterra».

Viviamo già da molto tempo in un mondo in cui i vecchi, i saggi e i profeti parlano a una città che non li vuole più ascoltare, in un mondo in cui si è infelici non perché sono crollate le ideologie, ma in quanto non si hanno più amici. Il deserto avanza! Siamo un po’ tutti soli e gli anziani sono più soli che mai. Da qui l’esigenza di Nicola di addomesticare la distanza dagli altri attraverso le rituali chiacchierate che a Mola nei mesi estivi hanno luogo nelle prime ore del crepuscolo.

A quei riti di solito partecipavano Domenico Deluso, Michele Tenzone, Pinuccio Gelsomini, Giovanni Pesce, Umberto Pietanza, Martino Vitulli, Franco Catalano, Pinuccio Magnifico, il poeta Tonino Abatangelo e il dott. Luigi Lattaruli. Fu proprio quest’ultimo – il più anziano del gruppo insieme al poeta (sono nati ambedue nel 1926) – a mettermi in contatto con Nicola. Ricordo il nostro primo incontro: da una parte Nicola raccontava gli eventi a cui aveva partecipato a partire dagli anni Venti; e, dall’altra, il Dottore ascoltava con attenzione, alternando momenti in cui dava l’assenso a momenti in cui interveniva per precisare o rettificare il contenuto delle sue affermazioni.

Nel corso della sua vita Nicola aveva svolto diverse attività lavorative: come musicista nella banda del Paese; come siparista presso il teatro Niccolò van Westerhout; come muratore nella costruzione delle strade; e, infine, come volontario nel Corno d’Africa. Qui, sfruttando le sue competenze musicali, era entrato a far parte della banda del CLI Battaglione. Ed è proprio sulle modalità del suo arruolamento che emergeva il dissenso fra Nicola e il Dottore: mentre Nicola diceva che era stato arruolato a sua insaputa, il Dottore lo smentiva ritenendo che ciò fosse impossibile.

Il periodo che egli visse in Africa si configura come la stagione più importante della sua vita. Era questo il fuoco da cui si originavano i suoi ricordi più intensi: «La guerra in Etiopia – ripeteva spesso – non era finita nel 1936, poiché gli Abissini avevano continuato a combattere anche negli anni seguenti».

Fra le cose liete ricordava: di aver allevato un cucciolo di leone, che accoglieva gli sconosciuti con spruzzi di pipì e di essere stato costretto in seguito ad abbandonarlo per ordine del suo comandante; di aver avuto la fortuna di conoscere le donne abissine, che, a suo parere, avevano i seni duri come l’avorio; e, infine, di aver apprezzato il comportamento dei soldati abissini, i quali, dopo la vittoria, non consumarono alcuna vendetta nei confronti degli Italiani.

Fra le cose tristi, ricordava: il massacro dei civili e dei religiosi sospetti, che seguì l’attentato subito dal generale Graziani il 19 febbraio 1937; l’introduzione dell’apartheid, che vietava i rapporti sessuali fra i cittadini italiani e i «sudditi dell’Africa orientale»; e, infine, la paura di essere colpito dalle bombe sganciate dagli aerei inglesi.

A partire dall’inizio del conflitto, le truppe italiane presenti nel Corno d’Africa – senza alcuna copertura aerea, senza carri armati e senza rifornimenti – furono abbandonate al loro destino. Ciò accadde poiché il controllo del Canale di Suez e, insieme, dello Stretto di Gibilterra da parte degli Inglesi impediva allo Stato Maggiore dell’Esercito italiano di inviare rifornimenti alle nostre truppe presenti in Africa orientale. Agli inizi della guerra – diceva Nicola – «speravamo che da un giorno all’altro arrivasse dalla Libia un’armata in nostro aiuto, poi, a partire dai primi mesi del 1941, perdemmo ogni speranza: quell’armata nei nostri discorsi diventò l’armata fantasma».

Di fatto, nell’estate del 1941, le truppe inglesi avevano conquistato gran parte dell’Etiopia, anche se alcuni focolai di resistenza italiana si mantennero attivi a Gondar, dove Nicola combatté fino a novembre del 1941.

Proprio nel distretto di Gondar, Nicola dice di aver incontrato e di aver parlato più volte con un tabaccaio, che era privo di un braccio. Quest’ultimo gli aveva detto che era genovese. In più occasioni lo aveva visto in luoghi diversi: seguiva con il suo carro gli spostamenti dei soldati per vendere loro sigarette, cartoline postali e francobolli. Ma non era vero. Quel tabaccaio – come scopriremo fra poco – era una spia che seguiva i nostri soldati per comunicare, attraverso una radio trasmittente, agli aerei inglesi le ordinate degli obiettivi da colpire.

Dopo la resa del presidio di Gondar, Nicola fu trasferito prima a Chisimaio, nel sud della Somalia e poi, per via mare, in un campo di prigionia in Kenia. Qui scoprì che il colonnello inglese che interrogava i prigionieri italiani era proprio il tabaccaio che aveva conosciuto a Gondar. Quando giunse il suo turno, Nicola si trovò di fronte il colonnello e due interpreti. Chiese, pertanto, a questi ultimi di poter parlare da solo con il colonnello, il quale diede subito il suo assenso. Nicola gli disse di averlo gia visto in altre vesti a Gondar e gli chiese dove avesse imparato a parlare l’italiano. Il colonnello rispose sorridendo che sapeva parlare la nostra lingua, poiché era nato a Malta e che si sarebbe comunque attivato per rendere meno pesante la sua condizione di prigioniero di guerra.

Durante i quattro anni vissuti in prigionia, Nicola riusciva a vincere la malinconia con la brezza che veniva dal mare. Quel vento leggero gli annunciava che sarebbe tornato a casa.

Nel secondo dopoguerra, Nicola ritornò a Mola. Qui, ogni mattina, dopo essersi levato, rivolgeva la sua attenzione alla torretta del palazzo Pesce, dove era ubicata una banderuola, uno strumento che serviva per indicare la presenza e la direzione del vento.

Ricordo che durante gli anni Cinquanta rivolgere l’attenzione alla banderuola era ancora un rito. Anche mio padre, prima di recarsi in campagna, rivolgeva il suo sguardo alla banderuola, ubicata sulla medesima torretta laica. La banderuola era una sorta di mediatore fra l’uomo e la natura: era, infatti, un ausilio per interpretare il tempo, soprattutto per chi doveva affrontare le avversità del mare, una partenza, una semina e tutto ciò che era legato alle condizioni atmosferiche.

A partire dagli inizi degli anni Sessanta, il tempo non è stato più interpretato ma ci è stato dato, in modo gerarchico, dalla TV. Da qui il venir meno della stessa utilità pratica delle banderuole. Corrose dalle intemperie, le banderuole non sono più state sostituite e sono per lo più scomparse dalle torrette dei nostri palazzi e dai campanili delle nostre Chiese. Ciò nondimeno Nicola non si è arreso: ha continuato a rivolgere il suo sguardo alla banderuola che tutt’oggi svetta sulla torretta di palazzo Pesce.

Nicola era un uomo mite, un uomo che aveva imparato ad ascoltare il vento, ad annusare, a porgere la mano al vento; come se fosse un compagno d’avventura; come fosse un antico conoscente, familiare e, insieme, affascinante, che ci prende per mano, fa volare le foglie e la polvere e per pochi istanti fa dimenticare della gravità che ci tiene attaccati alla terra.

D’altra parte Nicola sapeva che col vento non si può in alcun modo scherzare. Chi mai l’ha sconfitto? In ogni battaglia, gli spetta sempre l’ultimo colpo, il più terribile.

Nel chiudere queste brevi note, ripenso a Nicola che mi aspetta a Mola in piazza XX Settembre e scorgo sul suo volto il sorriso che vince la morte.

I rapimenti

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di Matteo Salimbeni

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Camille Pissarro, Les chataigniers a Osny

Un uomo che conduceva un’esistenza poco entusiasmante venne rapito, una mattina, dagli alieni. Sua moglie, con la quale aveva litigato la notte di Capodanno e che non gli rivolgeva parola da più di tre settimane, quel giorno si svegliò con una gran voglia di fare l’amore. Allungò il braccio verso il marito e non lo trovò. Così si girò dall’altra parte e chiuse gli occhi. Erano le cinque, e l’eco del vento lontano, fra i pioppi, le conciliò presto il sonno. Quando si destò nuovamente sentì il calore dell’uomo che si era rannicchiato su di lei come un bimbo e un odore buonissimo, di ortensie e gerani, che proveniva dal cortile. La finestra era socchiusa e l’aria penetrava leggera nella stanza, mischiandosi alla cappa viscosa della notte. Fecero l’amore come conigli. Si baciarono, si carezzarono. E pianti, schiaffi, graffi, cazzotti. Se avessero avuto un martello si sarebbero pure presi a martellate, dalla voglia che c’avevano addosso. Fecero l’amore come non avevano mai fatto l’amore, tanto che alla fine, nonostante fosse inverno e i giorni della merla fossero alle porte, le lenzuola erano talmente intrise di sudore che dovettero spostare il materasso e poggiarlo contro il muro a sgocciolare. Era fradicio. Trascorsero più di un’ora ad asciugarlo con il phon e quando il loro figlio, che ai tempi aveva sei anni, entrò in camera e li colse in quell’inusuale occupazione fecero una cosa che non si erano mai sognati di fare: lo ingannarono. Anzi, a dirla tutta, si fecero proprio beffe di lui, un po’ perché erano impreparati (un trasporto del genere non gli era mai accaduto, nemmeno ai tempi belli della seduzione), un po’ perché si sentivano così complici – e finalmente!, dopo anni a volar bassi come quaglie gravide, di matrimonio mesto, mestissimo, d’unione impiegatizia, di minestrine e tute e di sciapi, grigiognoli “evviva complimenti tanti auguri” durante le feste comandate -, ma così complici che persino una piccola presa di giro al sangue del loro sangue gli parve cosa lieta e naturale:

“Papà si è pisciato addosso”, gli dissero e poi scoppiarono a ridere come due scolaretti.

Otto mesi e mezzo dopo nacque il loro secondo figlio. Ma, cosa oltraggiosa sopra ogni altra, decisero di non dargli un nome. Dapprima se ne scordarono proprio, rapiti com’erano dall’estasi e dall’incontinenza di quella tardiva passione. In un secondo momento, travolti dallo sbalordimento dei parenti e dalla pletora di domande e proteste, dovettero affrontare la questione. Si sedettero al tavolino della cucina, stapparono una bottiglia di vino e ne discussero, ma più che ne discutevano e più che il fatto, anziché umiliarli o impensierirli, li divertiva. Sì: li divertivano il tormento nei volti dei familiari, li divertiva l’idea di non poter chiamare se non con schiocchi di dita, fischi e maleducatissimi “oouh!” il proprio figlio e li divertiva il concetto stesso di persona senza nome. Li divertiva così tanto che decisero che per nessuna ragione si sarebbero privati di una gioia così travolgente e di un’impresa così epocale: loro due contro il mondo, contro regole, consuetudini millenarie e ragionevoli sentimenti, contro tutto e tutti. Resero la loro decisione pubblica, suscitando un livore mai visto prima sulla faccia della terra. Per mesi le conversazioni e le cene dei loro amici in comune verterono sul fattaccio, restituendo a quei bigi ritrovi fra quarantenni il nerbo, l’indignazione, la sana cattiveria, quella vita in ultima analisi che sgorga solo di fronte all’incomprensibile e al meraviglioso, quella vita che l’età tende a stemperare, se non addirittura a strangolare. Ma loro, ormai, erano una cosa unica e se ne fregavano del resto. Mai si erano amati a tal punto in vent’anni di matrimonio. Mai, forse, al mondo qualcuno aveva raggiunto vette così alte, silenzi così lievi, risate così argentine. Niente li scalfiva. Né le malelingue, attorcigliate l’un l’altra come un covo di rovi, e velenose; né gli scrupoli che ogni genitore avrebbe avuto dopo una scelta così pretenziosa, sofisticata e impopolare. Ma quello, a dire il vero, non fu che il primo passo. Niente, da quel giorno, li poté fermare, né arrestò il vorticoso processo che, nel giro d’un paio d’anni, li consegnò al più cocciuto degli isolamenti. Spavaldi, col petto gonfio e le narici fumanti, cominciarono a prendere a male parole chiunque con una sfacciataggine e con un incuranza tale delle conseguenze che se una persona non coinvolta, uno sconosciuto non turbato dalle loro angherie per esempio, li avesse potuti osservare dall’esterno, sarebbe giunto alla conclusione che lo facessero per un secondo, meschino fine. Che fosse un piano parecchio inutile ed altrettanto intricato per consegnarsi a una gloria passeggera, per entrare in una di quelle classifiche à la page, in un guinness, in un articoletto buono per entusiasmare le folle per dodici, massimo sedici ore, tipo “scambia sua moglie per una lavatrice e la riempie di lenzuola”. E invece – semplicemente! – si amavano a perdita d’occhio. Ogni cosa che li distoglieva dal loro amore era un fastidio. Ogni interruzione un conato di dolore. Camminavano per ore, fissandosi negli occhi, sbranandosi con gli occhi. Se qualcuno li fermava a un angolo di strada per chiedergli: “Scusi, sa dov’è Piazza Indipendenza?”, Carlo (questo era il nome dell’uomo) si premurava di rispondergli, con disarmante innocenza: “Sì”, e poi tornava a guardar la moglie, con una complicità incommensurabile, traboccante orgoglio, come se entrambi avessero appena distolto lo sguardo dall’altare sul quale il loro bambino aveva baciato la sposa: la splendida, longilinea, benedetta nuora che aveva avuto la magnifica idea d’innamorarsi del loro piccolo e portarglielo via per lasciarli, finalmente, la casa tutta per loro.

Un giorno – il loro secondo figlio aveva da poco compiuto dodici anni e l’altro veleggiava sicuro verso la maggiore età – Carla (così si chiamava la donna) chiese al marito:

“Ma che ci sta succedendo? Perché… perché sono passati più di dieci anni e sembra trascorso appena un minuto? Perché non mi stanco mai di te e tu non ti stanchi mai di me e perché tutto questo, così, all’improvviso? Perché è tutto così bello, struggente e pare ben avviato, se non destinato proprio a non finire mai?”

“Credo di sapere perché”, rispose il marito. “Lo vuoi sapere?”

“Non so… forse è meglio…”

“Ti amo tantissimo, Carla”, la interruppe l’uomo.

“Anch’io… ma… non capisco… com’è che… che… ch… co… oddio balbetto!”

“Mi sento un ragazzino. Pensi che quando mi scenderanno le catarratte e comincerò a puzzare di morte, anche allora…”

“Sarà così per sempre. Ne sono sicura. E anche se non lo fosse è come se lo fosse, quindi lo sarà. Ma cosa sto dicendo?”

“Sciocchezze.”

“Già…”

“E lo sai perché?”

“Perché sono felice.”

“Esatto.”

“E perché lo sono?”

“Un’idea ce l’ho. Vuoi saperlo? Davvero?”

“Perché?”

“Vieni con me”, e Carlo prese la moglie per mano. La portò laddove il prato finiva, a picco, sulla sconfinata foresta che circondava la loro casa.

“Sai scavare?”

“Scavare? Con… le unghie?”

“Usa questi”, disse Carlo cavando dalle tasche un paio di cucchiai. Era una bella giornata d’inizio ottobre. Il cielo era così bianco e abbacinante da ingoiarsi il sole e ogni pietra, ogni pianta, ogni frasca brillava di una luce intensa, purissima.

“Perché anche adesso che ho i polsi gonfi come plafoniere e le unghie rosse di sangue e nere di terra, radici e lombrichi, perché non smetto di essere raggiante, e piena di fiducia?”, mormorò la donna dopo molte ore che se ne stava lì, china, sudata, la schiena sconvolta da spasmi lancinanti.

“Ci siamo quasi”, decretò il marito. Ormai la giornata stava volgendo al termine e i due avevano scavato appena un paio di metri in profondità. Cominciava a gelare, dal bosco s’alzavano correnti fredde, profumate e un borbottio crescente di cervi, faine e civette.

“Eccolo”, disse Carlo indicando una protuberanza grigiastra che sbucava dal terriccio. “Vedi Carla… ti devo confessare una cosa. Ecco… molti anni fa sono stato … insomma… come dire… sono stato rapito dagli alieni…”

“Carlo… Cosa dici?”

“La verità. Ho aspettato perché temevo che potesse… insomma… distoglierci… ma adesso, ecco, adesso…”

“Gli alieni non esistono.”

“Certo che no, tesoro… Lo so benissimo. Ma quelli che hanno rapito me, beh, quegli alieni lì, sì… loro esistono… solo loro…”, rispose Carlo. Dopodiché grattò attorno alla protuberanza col culo del cucchiaio, affondò le mani nella piccola fossa e tirò fuori un teschio. Ricoperto da un’aureola di radici e con un codino di spina dorsale ancora attaccato alla nuca pareva quasi avesse i capelli. Lo sollevò e cominciò ad agitarlo al vento manco fosse un bandierone da parata:

“Capisci adesso? Capisci il perché… capisci?”

“Mettilo giù, Carlo. Ti prego, mi fa impressione.”

“Capisci?”

“Cosa devo capire?”

L’uomo avvicinò il teschio al volto della donna, che si ritrasse.

“Non ci vedi niente? Niente di familiare?”, disse Carlo afferrando la mascella del teschio e cominciando a muoverla in su e in giù.

“Lo vedi?”, chiese l’uomo.

“Certo che lo vedo.”

“Sono io.”

“E’ un teschio, Carlo!”

“Il mio.”

“Carlo, ti prego… ragiona… fai un respiro e…”

“Ragiona tu!”

“Tu non hai la testa di quella forma, tu non hai…”

“Sono io. Capisci adesso?”

“Ti prego smettila… smettila!”

“Sono io.”

“Lo vedi che è il cranio di un coso…”

“Sono io.”

“…di un volpino… un ghiro… d’un animale…”

“E’ il mio, mio, mio!”

“Tu, tu… tu sei matto e matta io che ho voluto… Carlo cosa ti è successo? Che sta succedendo? Cosa?!?!”, urlò la donna e poi si mise a correre per il prato, agitando le braccia in aria come un ossesso, velocissima, oltre le casa – la loro casetta cinta d’edera e con le braci ancora fumanti nel focolare – e poi via lontana, uno straccio urlante lungo la statale, verso il paese, la città.

“Sono io!”, continuava a strillare Carlo. Da quel giorno non si parlarono mai più. Carlo si portò il teschio a casa e lo mise sopra il camino. Talvolta, nei pomeriggi più cupi, quando il cielo strozzava l’orizzonte, la neve cadeva forte e la solitudine era un cappio troppo soffocante, ci faceva conversazione. Carla cominciò – e invano continuò a tentare, con dignitosa disperazione, sino alla fine dei suoi giorni… – a chiamare il secondogenito per nome, a volte Filippo, a volte Francesco, a volte Federico, un po’ come si fa coi cagnolini randagi per indovinare quale è lo stimolo giusto, ma soprattutto fece una gran fatica, una fatica maledetta, a farsi accogliere nuovamente nell’inferocita cerchia di parenti ed amici.

Editori per bene, in vista – XXVII edizione del Salone del Libro di Torino

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Installazione del gruppo Indypendentemente a The Others, 2013. Mettre en pratique la Poésie è un’opera di Gabriella Giordano.

 

 

Ieri si è inaugurata la ventisettesima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino che si svolgerà dall’8 al 12 maggio. Per il 2014 il paese ospite candidato è la Santa Sede. Ecco perchè molte sono le iniziative dedicate ai Poeti e ai Navigatori. Che la scelta del paese ospite di quest’anno sia per caso legata alla convinzione che ormai solo un miracolo potrà salvare l’Atlantide della letteratura, cartacea o digitale che sia, dall’inevitabile, pare, e lenta, mica tanto, immersione nell’oceano del nuovo ordine mondiale? Intanto ci piace pensare che il titolo di questa edizione, Bene in vista, sia un omaggio a Carmelo Bene, al bene in carme e ossa, ovvero voce che si possa ascoltare nonostante il chiacchiericcio, malgrado il rumore di fondo. Per questa edizione, particolarmente meritevole ci sembra l’iniziativa curata da Giuseppe Culicchia: Officina. ” Per Officina s’intende tutto ciò che concorre alla creazione e alla diffusione del libro in Italia: dagli autori ai lettori passando per editori, traduttori, redattori, librai, distributori. Quello dell’Officina è un programma pensato per mettere in risalto la qualità di quel segmento dell’industria editoriale che produce libri con la passione e la sapienza dell’artigiano.” leggiamo nel programma. Dei diversi incontri mi piacerebbe segnalarvi quello che si svolgerà stasera alle ore 19. Federico Di Vita, Carla Pinna, Filippo Rossi e Silvia Tessitore ragioneranno sul libro, sul miracolo, aggiungo io. Silvia Tessitore presenterà un documento che da tempo circola in rete e che è possibile scaricare nella versione integrale in pdf qui. (effeffe)

QUELLO CHE AI LETTORI NON DICONO

Come funziona (malissimo) il mondo del libro di carta in Italia

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di Silvia Tessitore

 

Una premessa

Nell’attuale momento di crisi del mercato e del Paese, lo scopo di questo documento è di offrire un quadro (non esaustivo ma chiarificatore) dello stato dell’editoria libraria in Italia, con particolare riferimento alla piccola e media editoria indipendente, nella speranza di suscitare attenzione attorno a una questione di democrazia e di libertà largamente ignorata e sottaciuta – quella dell’oligopolio italiano, con i suoi risvolti economici e politici – ma anche di risvegliare energie in grado di ipotizzare soluzioni e trasformazioni ormai improrogabili.

La crisi che ci riguarda come lettori, editori, librai e operatori di filiera, è una crisi strutturale, riguarda cioè la struttura stessa del mercato, del mondo stesso del libro così come è concepito in Italia: una struttura che non è stata in grado di fronteggiare la lunga e sciagurata congiuntura economica del Paese – che negli ultimi quattro o cinque anni ha piegato ed espulso decine di marchi ed esperienze, anche di lunga e provata professionalità – mettendo a rischio vita e libertà d’impresa delle piccole e medie aziende indipendenti con basse tirature e fatturati.

Questo documento è stato chiuso nel mese di agosto 2013, e parte dall’analisi del rapporto AIE 2012 sullo stato dell’editoria. Il successivo rapporto AIE 2013, diffuso nell’ottobre 2013 in occasione dell’ultima Fiera del Libro di Francoforte, non presenta novità sostanziali rispetto al precedente e ne conferma le tendenze. Per questo motivo non si è ritenuto di aggiornare il testo che segue. (st – aprile 2014) continua qui

 

 

 

Sestina

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di Antonio Maggio

Le mie parole scorrono sul mare
indifferenti a voci della vita
ma l’onda si assottiglia sulla strada
come una piaga chiusa dalla luce
l’immagine minuscola di un uomo
che cerca fra le nubi un altro sogno.

Come mi sono infiltrato in una riunione socialista dedicata a Tsipras e come, trovato un vocabolario, ho scritto una lettera a Barbara Spinelli

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 di François Milieu

«Ora vi racconto come è andata. Se mi concentro tiro fuori la prima immagine, poi seguiranno le altre. Vedo una sala ampia ampia piena di sedie di plastica. Le persone sedute sulle sedie. Davanti c’è un tavolino dove stanno tre microfoni con annessi signori a bocca aperta, poi chiusa. Nell’ombra ecco apparire un altro tavolo dove dita svelte scrivono su tastiere meccaniche. Occhi dall’ombra gettano sguardi per controllare che tutto fili via liscio. “Riportiamo il socialismo in Europa”, un’eco resta nella testa. Così posso dire di aver descritto lo spazio. Io? Io non so come ho fatto ad arrivare lì, né ricordo perché ci sono entrato.»

Orient-Express : Ye Funa

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Come dirsi Cinesi

di Barbara Waschimps

YEFUNA, Minority Scenery, 2013,Lightbox, 110 x 220 cm. ©Ye Funa
YE FUNA, Minority Scenery, 2013,Lightbox, 110 x 220 cm. ©Ye Funa

 

La ridefinizione di un’identità culturale nel composito sistema cinese è un’istanza fortemente sentita dagli artisti contemporanei. Soprattutto coloro che sono nati negli anni 80 (i cosiddetti balinhou) si sono trovati immersi nella standardizzazione che passa sotto il termine glamour di globalizzazione subendone la eccessiva velocità e, di conseguenza, non avendone esperito il processo. E’ il caso di Ye Funa, classe 1986, in mostra con la sua prima personale in Occidente presso la storica galleria parigina Pièce Unique* .
Artista definita concettuale, nelle sue foto e nei suoi video mette in scena con maestria tecnica, precisione formale e fisico coinvolgimento una rilettura di modelli fortemente caratterizzanti della recente memoria collettiva cinese.

Ye Funa cresce come ogni suo coetaneo bersagliata da cliché piatti, limitati e impoveriti, imposti con dovizia dalla televisione e dal cinema. La sua reazione iniziale è quella di entrare nella parte: “Mi chiedo sempre se la nostra cosiddetta identità non sia in realtà un altro ruolo.”(YF) L’imitazione, il travestimento, la recitazione diventano fin dall’ inizio un prisma ottico per decodificare la realtà, agendone in sostanza i codici. Ben presto, tuttavia, Ye Funa decide di volgersi verso un sostrato piu’ autentico, con il fine (e il bisogno) di restaurare la visione di una memoria concreta, sfaccettata, che rappresenti il patrimonio umano che sta dietro l’immagine apparentemente monolitica del gigante cinese. Nei fatti, si orienta verso il periodo storico che precede la sua generazione.

Le serie Nationalities Illustration Covers e Family Album esposte a Parigi sono tra i progetti piu’ significativi dell’artista e rispondono, in due modi differenti, alla ricostruzione di questa memoria. Sono il recto e il verso, la macro e la microanalisi di una cultura proteiforme.

 

Nationalities Illustration Covers

Nationalities Illustration Covers è il frutto di un monumentale lavoro che Ye Funa compie dal 2008 al 2012 documentando l’evoluzione dell’immagine delle minoranze etniche nei media cinesi. Immagine che si basa, ci indica, su stereotipi originati negli anni ’50. La strumentalizzazione di una visione idilliaca, quasi arcadica, di minoranze che il sistema centrale desiderava mostrare come perfettamente integrate collimava con la propaganda di un governo di successo e democratico. In pratica si vetrificavano le caratteristiche culturali per rivendicarne l’appartenenza. Ye non esita a coinvolgere amici e conoscenti , lavoratori e operai affinché incarnino i personaggi rappresentati sulle copertine del Mingzu Huabao (= Nationality Pictorial, pubblicazione edita per 50 anni dal Partito Centrale e da lei minuziosamente studiata e ricreata con perfezione quasi maniacale). Ye Funa è nata a Kunming, capitale dello Yunnan, una regione che vede la presenza di 25 etnie riconosciute nell’ambito delle 56 ufficiali, e dove ha sede l’ Università delle Minoranze: “uno dei dieci istituti nazionali istituiti sin dal 1949 al fine di educare il personale indispensabile per la propaganda della politica nazionale del Partito” . Sua madre appartiene all’etnia Bai, la seconda  per numero. Non stupisce quindi la ricettività di Ye Funa nei riguardi dell’argomento.

I lavori compresi in Nationalities Illustration Covers si compongono delle foto delle copertine delle riviste originali del Minzu Huabao affiancate a quelle ricostruite da Ye Funa attraverso un’elaborata mise en scène.

 

YE FUNA, Front Cover - National leaders, 2008. Video: PAL, 2', colore, muto, cm 54 x 33.  Foto: stampa digitale, cm 75 x 55 ©Ye Funa
YE FUNA, Front Cover – National leaders, 2008.
Video: PAL, 2′, colore, muto, cm 54 x 33.
Foto: stampa digitale, cm 75 x 55 ©Ye Funa

 

In ‘National Leaders’ sono quattro guardie di sicurezza ad incarnare una foto storica, quella dell’agosto del ’56, in cui il Panchen Lama, Mao Zedong, e l’attuale Dalai Lama camminano affiancati e sorridenti durante un incontro con le 56 minoranze etniche. Nel video gli attori si muovono impercettibilmente, come provassero la posa per lo shooting. Mao sembra tenere per mano il Panchen Lama; il Dalai Lama tende per due volte il suo braccio verso il Grande Timoniere, invano.

Il corposo lavoro sulle Nationalities Illustration Covers di cui la mostra parigina espone 11 composizioni fotografiche e 3 video, culmina nell’ incantevole Minority Scenery che ne riassume l’intero significato. Sullo sfondo di uno scenario di cascate caro alla tradizione pittorica cinese, Ye Funa pone gli attori abbigliati secondo la tradizione dell’etnia corrispondente componendo un rondo’ corale e gioioso di convivenza. Nessuna divisa, nessuna bandiera. Ye Funa sottolinea in tal modo che nella memoria collettiva l’identità culturale non è il risultato dell’ assimilazione da parte del modello dominante, ma deve rappresentarne una parte integrante e distinta. E nel redifinire questa memoria Ye Funa ne restituisce prima di tutto i codici (visuali e linguistici).

Un’ archeologia del Sé: Family Album

Family Album è il secondo progetto di ampio respiro cui Ye Funa lavora dal 2010 al 2012. In brevi video e foto l’artista mette a confronto nuovamente l’originale con il restituito attuale, le antiche fotografie di famiglia con quelle da lei ricreate, senza fotomontaggi, nelle quali interpreta quasi ogni singolo personaggio. Nei primi video della serie, da lei stessa definiti come moving images, le voci registrate sono quelle dei personaggi originali intervallate con i suoni delle conversazioni familiari in dialetto. Nei video più recenti in mostra a Parigi, la suggestione evocativa diventa più intensa. Un lavoro che partendo da una traccia personale assume un significato storico e documentario che “riconcilia finzione e realtà, esibizionismo e voyeurismo, attore e spettatore” (YF).

 

 

YE FUNA, My maternal grandparents and me,2012, Video PAL, 3’20”, muto , b/n, dimensioni variabili. ©Ye Funa
YE FUNA, My maternal grandparents and me,2012,
Video PAL, 3’20”, muto , b/n, dimensioni variabili.
©Ye Funa

 

L’atto del mettersi in scena non è mai un mero espediente in arte contemporanea, ed è un tratto comune a molti artisti della generazione che precede Ye Funa. E non c’è bisogno di richiamarsi a Cindy Sherman per trovare un esempio di auto-rappresentazione fotografica en deguisé . Basti pensare alla serie Urban Fiction di Xing Danwen (artista ora in mostra a Milano in una personale piuttosto tardiva, ma i cui lavori la galleria Pièce Unique ha presentato a Parigi a partire dal 2004) laddove è l’artista a calarsi nella parte dell’attore. Tuttavia Xing Danwen in quelle opere descrive una contemporaneità urbana composta da milioni di satelliti di solitudine. Le figure da lei interpretate si perdono, isolate, nelle forme in colorato cemento di una repentina urbanizzazione. Xing descrive la “disintegrazione e liquefazione del Sé“ generata dalla distruzione e ricostruzione delle città cinesi, anticipata da Hanru e Obrist nel ’97 . Xing Danwen nasce nel secondo anno della Rivoluzione Culturale (66 – 76) e inizia a fotografare durante i moti di piazza

Tiananmen (1989). Ye Funa nasce nel 1986. I contenuti sono necessariamente differenti, e quanto. Lo scarto generazionale di un solo ventennio diventa emblematico dell’evoluzione dell’arte cinese contemporanea.

Dopo la Rivoluzione Culturale e la morte di Mao, le Accademie poterono riaprire i battenti e nuovi linguaggi e contenuti trovarono finalmente spazio, grazie anche alla politica della “porta aperta” instaurata da Deng Xiaoping. Dal 1985 al 1989, (anno della leggendaria esposizione China Avant-Garde  al National Art Museum di Pechino – e dei fatti di Tiananmen) la Cina conosce l’esplosione del cosiddetto ’85 New Wave Movement (Bawu yundong o Bawu xinchao). Nei soli due anni 1985-86 29 province vedranno la nascita di circa 80 gruppi artistici. La scena di Pechino è intensa e provocatoria -come descrive Xing in una bella intervista per Art in America . Tra gli artisti della capitale ci sono Zhang Huang, Ma Liuming, Zeng Fanzhi, giusto per citarne alcuni . Una delle principali correnti di quegli anni farà capo al Southwest Art Research Group (Xinan yishu qunti), che unisce tredici artisti dello Yunnan e dello Sichuan. Caratterizzato da un approccio soggettivo e anti-razionalistico il gruppo ha le sue punte di diamante in Zhang Xiaogang, Mao Xuhui e Ye Yongqing.

 

YE FUNA, My Parents and me, 2012.Video: PAL, 5’, muto , b/n, dimensioni variabili .Foto: stampa digitale, 70x70 cm ©Ye Funa- nella foto in basso Ye Yongqing e Fu Liya, ripresi nella loro casa di Kunming nel 1984.
YE FUNA, My Parents and me, 2012.
Video: PAL, 5’, muto , b/n, dimensioni variabili .
Foto: stampa digitale, 70×70 cm ©Ye Funa- nella foto in basso Ye Yongqing e Fu Liya, ripresi nella loro casa di Kunming nel 1984.

 

Nel 1999 Ye Yongqing, che era stato appena classificato come uno dei venti artisti d’avanguardia più autorevoli degli ultimi due decenni da Asian Art News, istituisce un cenacolo artistico all’interno di una villa vecchio stile di Kunming, che chiama “Upriver Club”. Mentre il concetto di gallerie d’arte era ancora nuovo per la Cina, l’“Upriver Club” divenne il primo luogo di promozione in Cina gestito da un artista, e ospiterà i lavori di Xu Zhongmin, Xin Haizhou, Fang Lijun, Zeng Fanzhi, Yue Minjun, and Zhang Xiaogang. Ampliando il suo raggio d’azione, un anno dopo Ye Yongqing creerà “LOFT”, uno spazio poli-funzionale ricavato nei locali di una vecchia fabbrica, sempre a Kunming. Nel giro di un anno “LOFT” diventa una comunità capace di ospitare più di trenta laboratori di pittura, quattro gallerie, due ristoranti, quattro bar, una libreria, una società di scambio culturale e diversi atelier di design e di fotografia. Nulla del genere esisteva prima in Cina. Dal 2004 Ye Yongqing torna con la famiglia a Pechino, per spostarsi infine a Dali, città natale della moglie, ma continuerà la sua opera di curatore ed organizzatore parallelamente alla personale attività artistica, divenendo uno dei più celebrati artisti cinesi contemporanei.

 

YE FUNA, 2012,Pregnant maternal grandma and me. Video: PAL, 5' , colore, muto, dimensioni variabili. Foto: stampa digitale, cm 70x70 ©Ye Funa
YE FUNA, 2012,Pregnant maternal grandma and me.
Video: PAL, 5′ , colore, muto, dimensioni variabili.
Foto: stampa digitale, cm 70×70 ©Ye Funa

 

Ye Funa è decisamente figlia d’arte dunque, eppure ad una prima lettura non vi sono punti di contatto con la generazione che l’ha immediatamente preceduta. E’ in questo figlia del suo tempo: si laurea a Pechino alla Central Academy of Fine Arts; consegue il master al Central St. Martin’s College of Art di Londra. Di questo tempo padroneggia tecnicamente tutti i mezzi. Ma a differenza di altri artisti suoi coetanei (mi riferisco anche agli scrittori, come Han Han o Chun Shu) non mette in risalto un’alienazione generazionale o una rivolta contro i sistemi educativi. Non è più un’esibizione di sé quella di Ye Funa; finita la drammatizzazione presente in altri suoi lavori. Piuttosto si tratta di un’ archeologia del Sé, come è stata definita, e il suo lavoro, assolutamente unico, conduce a ripensare l’ingombrante passato recente del suo paese in modo nuovo, lucido, individuale, fino a rivelare anche dettagli potenzialmente sovversivi. In un periodo in cui la generazione di Ye Funa ancora non può accedere ad una informazione libera, puntare l’indice su un’epoca che il sistema considera gloriosa per riportarne in luce ciò che non è da sottolineare definisce Ye Funa come artista dalla forte maturità e consapevolezza, pronta a riprendere un ideale testimone. La figurina sottile e intensa che ‘agisce’ la madre di sua madre incinta ci guarda con fiera enigmaticità come a dire: se la fotografia è memoria, la memoria sono io.

YE FUNA, Galerie Pièce Unique, Parigi,

4, rue Jacques Callot e 26, rue Mazarine, 6° Arr.

fino al 31 maggio 2014

 

 

 

 

Il cane di Frungillo e l’anitra di Inglese

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 Milano – Libreria Popolare di via Tadino 

Sabato 10 maggio  ¦  ore 19.30

Presentazione e lettura di
Vincenzo Frungillo, Il cane di Pavlov
&
Andrea Inglese, La grande anitra

°

 Oltre agli autori interverranno
Alessando Broggi e Luciano Mazziotta

°

L’amore normale

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di Daniela Brogi

SARCHI_LAmoreNormale

«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo»: questa famosissima dichiarazione ha centotrentasette anni di vita: è l’inizio di Anna Karenina, e ha funzionato da pietra miliare nella storia e nella teoria del romanzo moderno. Dentro quelle due frasi si fondono, come appunto nella tradizione del “novel”, da un lato la costruzione di un’inquadratura seria sulla vita comune: quella che fa famiglia e assomiglia, sia in senso metaforico che letterale, alla vita di tutti;

La prova del cuoco: Ivan Ruccione

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Quando penso a Maria

di

Ivan Ruccione

Camminavo verso casa, poi all’altezza del niente mi sono fermato.

Piedi poggiati saldamente a terra, la testa chissà dove. Attorno a me l’aria fredda, la notte. La sequela di luminarie appese ai pali della luce, la strada ghiacciata che luccica come lo strascico di un abito da sera. Il campo brullo che riposa per accogliere la semina del granoturco. Un cane, che ha sentito il crick e crock dei miei passi sulla patina di neve raggelata, mi abbaia contro. Vigevano, in tutta la sua dannazione. Il mondo. Che senso ha tutto questo? Niente, nessun senso. E quando non vedo niente, mi fermo. Mi perdo. Ecco perché non vado mai da nessuna parte.

E mi sorprendo che esista un cervello, dentro la scatola. Che sia per altro lui a decidere. A dire fai questo, fai quello. A dire incazzati, piangi, gioisci. Ama, odia. Crea, uccidi. Se vuoi dimenticarmi per qualche ora: bevi; drogati; dormi. Se vuoi sfruttarmi: leggi.

Bello o brutto che importa, se sono schiavo fin dalla nascita; che importa lo specchio? Schiavo di una cosa così vicina, così intrinseca, ma che mai vedrò o toccherò in vita mia.

Non riesco a toccarlo ma ce l’ho. Paradossale. È mio, di mia proprietà, a tutti gli effetti, e nessuno, legalmente, può violare tale diritto umano.

Magari se decido di donare gli organi, alla mia morte, potrò privarmene. Ma difficilmente un bravo medico mi espianterà il cervello; difficilmente ne avrà bisogno, per aiutare il prossimo. Sarebbe un folle, dico io. Sarebbe come trapiantare un tumore dopo aver tolto un altro tumore.

Arrivato nel bilocale preso in affitto, ho salutato Maria. Maria è la mia ragazza. Non conviviamo ma è quasi come se lo fosse. Ho eluso in qualche modo le chiacchiere che avrebbe voluto intavolare e le ho detto che non stavo bene, che volevo ficcarmi subito a letto.

Maria abbassa lo sguardo e mi segue in camera. Si spoglia dei vestiti, fa passare le spalline del reggiseno sotto le braccia. Lo slaccia, se lo sfila. Lo butta sulla sedia, si china a prendere dal cassetto la camicia da notte mostrandomi un didietro perfettamente disegnato dal tessuto del perizoma, poi si fa scivolare addosso la camicia da notte. La guardo, con grande ammirazione. Guardo i capelli castani chiari e ondulati caderle sulle spalle, le mani che poi li spostano da un lato.

Maria si avvicina, scopre dalle lenzuola la sua parte di letto e si stende. Adagia la testa sulla mia spalla. Con la mano mi carezza il petto, sale a sfiorare il collo. Poi scende nuovamente sul petto, sul ventre. Più giù, mi sfiora l’inguine. Il pene. Lui niente, io niente. Le bacio la fronte.

Lenta e stanca come la lacrima che mi sta scendendo, Maria si volta per darmi le spalle. Poi tira le coperte fin sopra la testa. Solo un ciuffo di capelli, esce.

Quando si addormenta, la scopro un poco. Guardandola rannicchiata, la penso bambina. Penso alla gioia dei suoi genitori di vederla, carezzarla. Persone squisite, i suoi vecchi. Penso che una creatura nata da tanto amore, altro non poteva che dare tanto amore.

La abbraccio forte.

Mi ama, Maria. E io? Com’è possibile che io non sia più capace di amarla?

Poi penso di avere una testa di cazzo poiché nato da un amore del cazzo.

Ne sono sicuro. Gli aspiranti bambini sono molto sensibili.

Il mattino dopo mi sveglio con gran fatica.

Sento l’acciottolio delle stoviglie nel lavandino, Maria che chiude gli sportelli dei mobili facendo un casino del cavolo. Se c’è una cosa che odio è quando le persone aprono ante, porte e robe del genere e le chiudono facendo un casino del cavolo. Perché quelle persone, di norma, sono le stesse che quando escono dalla tua vita poi fanno lo stesso casino: dopo averti aperto il petto come se fosse una finestra, lo richiudono di colpo quando vedono che piove di sbieco. Sole, sole, vorrebbero sempre il sole, ma non pensano affatto che il troppo sole secca la vita.

Però di Maria non posso dire niente di male. Anzi. Sono mesi che va in giro bagnata fradicia.

In cucina la saluto. Lei mi sorride compiaciuta della colazione che mi ha preparato: latte di soia e caffè, biscottini biologici, marmellata biologica su margarina biologica su pane di kamut biologico; un dito di sciroppo alle erbe depurative diluito in un bicchiere d’acqua. Insomma, un buffet di diavolerie per vegani.

– Grazie amore. Era davvero buonissima la colazione, – le ho detto prima di uscire.

Poi ho abbassato in fretta le tapparelle e chiuso le finestre. Ho infilato il cappotto e le ho detto di muoversi sennò avrei fatto tardi al lavoro.

– Le bacche di Goji, – dice, avanzando con un cucchiaio raso di bacche di Goji. – Amore, non le prendi le bacche di Goji?

– Santo Cielo, devo per forza?

– Ma se sono buonissime! – dice.

Buonissime un corno.

– Ho male cane a un dente qui in fondo, guarda, – mento, slargando la bocca con le dita.

– Su, non fare storie, – dice. – Fa’ il bravo almeno oggi che è il tuo compleanno.

– Che cavolo di giorno è oggi? -. Faccio il finto tonto.

Vado a controllare sul calendario di Elvis appeso in corridoio.

– Che pirla, è vero!

Ma è da qualche anno, ormai, che non festeggio più il mio compleanno. Dalla mattina in cui scoppiò un litigio tra i miei genitori, l’ennesimo per via di mio fratello Simone. Simone ha un ritardo cognitivo grave. Ha diciassette anni ma è come se ne avesse sette. Sapete, non è facile essere genitori e fratelli di un ragazzo disabile. Umiliazioni, frustrazioni, limitazioni, tristezza e rabbia che si accumulano di giorno in giorno non possono che tendere i nervi al limite dell’esaurimento.

Quella mattina ricordo che Simone aveva puntato i piedi per non andare a scuola. Vattelappesca cosa gli passasse nel cervello, ma non ne voleva sapere. Aveva iniziato a urlare, a dare in escandescenza; mia madre tentava di tranquillizzarlo invano prima che, in soggiorno, distrusse i vetri del mobile porta-tv, accanto alla libreria, scagliandoci contro le scarpe che stava per calzare. Mio padre andò su tutte le furie, iniziò a ruggire contro mia madre. La colpevolizzò di non provvedere alla nuova terapia farmacologica che la neuropsichiatra infantile aveva disposto. Non è che mio padre avesse torto, perché gli psicofarmaci che prendeva Simone non andavano più bene, siccome ormai entrava nell’adolescenza. E da una parte capivo anche mia madre che non voleva bombardare suo figlio con farmaci nettamente più pesanti rispetto a quelli somministrati nell’età infantile. Insomma, una grossa patata bollente.

Non mi ricordo le parole esatte, perché quando sentivo che iniziavano a litigare a quel modo io prendevo Simone e lo portavo in camera nostra, e attaccavo la musica ad alto volume. Però, quella mattina, tra il silenzio di una canzone e l’altra, ricordo di aver sentito un calcio al frigorifero, la macchina da cucire con cui mia madre stava rammendando dei panni schiantarsi a terra, e mio padre che urlava:

– Quello là che non lo cercavamo è uscito normale, questo che lo abbiamo cercato per mesi è uscito scemo!

Ci rimuginai su per tutto il giorno.

Dopo cena, mentre mamma lavava i piatti e papà e Simone erano sul divano, chiesi chiarimenti a riguardo. Non potevo sopportare che io fossi stato concepito senza volerlo. Mia madre, imbarazzata, mi spiegò fingendo un tono di leggerezza che non si trattava di una cosa così grave, insomma, che erano molto giovani e tutto quanto, si frequentavano da poco tempo, e in quel momento non è che pensassero di sposarsi. Figuriamoci cercare un figlio.

No, non potevo sopportarla questa cosa.

Il giorno dopo frugai in tutti i cassetti e gli armadi in cerca di prove. Sapevo per certo che mia madre teneva in una certa scatola tutte le stupidaggini di regali e lettere che mio padre le aveva donato quando erano giovani per corteggiarla, intortarla, scoparla; come volete. Non so perché, ma ero sicuro che lì dentro avrei trovato qualcosa. Infatti, in mezzo a tutte quelle cialtronerie di collane, bigliettini, eccetera, trovai delle lettere di mio padre, quello schifoso, in cui scriveva che non se la sentiva in quel momento di diventare padre, appunto. Che mia madre avrebbe dovuto abortire. Conseguentemente a un intuibile “No” secco della donna, una proposta di matrimonio giocoforza.

La notte, nel mio letto, non facevo altro che pensarci. Volevo dormirci sopra ma non ci riuscivo proprio. Seguitavo a pensare a tutte le cure riservatemi in passato, all’affetto ricevuto, ai gesti premurosi.

Pensavo a mio padre a bordo campo che mi incitava mentre inseguivo il pallone da calcio come un deficiente, come una gallina dietro una serpe. Un deficiente che segnava un goal e si arrampicava sulla rete di recinzione per farsi abbracciare. Mi pareva di sentire le sue carezze viscide come quel liquido seminale non desiderato. Mi sentivo tra i capelli litri di sperma marcio. Avrei preferito correre dentro una fica senza arrivare a quelle cose a forma di uovo al tegamino, oppure essere abbandonato dentro un preservativo lungo una strada di campagna. Oppure scivolare giù pel lavandino e fare amicizia coi topi. Oppure strisciare tra le gengive usurate di una puttana. Eppure ci buttano in questo cazzo di mondo senza chiederci il consenso.

Mi pensavo attaccato ai seni di mamma e sentivo in bocca come l’acido del latte andato a male. Sembrava davvero di sentirlo, quel saporaccio, tanto che mi voltai e sputai per terra, tra il letto mio e quello di mio fratello.

Decisi categoricamente che il giorno seguente avrei fatto le valigie e me ne sarei andato di casa. Sarei andato in un’agenzia immobiliare e avrei cercato un appartamento in affitto, e fin quando non lo avessi trovato, avrei piuttosto dormito in un bed & breakfast del cazzo.

Poi mi alzai e mi sistemai al fianco di Simone. Lo svegliai e mi feci abbracciare.

 

 

divagazioni sulle viole passando per l’inerzia

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di Antonio Sparzani
viole tricolor mie

A prestar fede al dizionario etimologico on-line della lingua italiana la viola strumento musicale e la viola fiore risalgono a etimi differenti: la prima risale al latino vitula e al verbo vitulari, che sarebbe come dire “fare come il vitello”, cioè “sgambettare allegramente”, s’intende al suono dello strumento, mentre la seconda accezione risale, attraverso il latino viola, alla parola greca per indicare per l’appunto il fiore, la violetta, ἴον; presente già in Omero, ben s’intende. Mi pare di aver visto che la prima occorrenza — sia pure in una parola composta — stia nell’undicesimo canto dell’Iliade, in cui si narrano varie imprese di Agamennone, sempre in giro con la sua superba protervia. Sennonché ad un certo punto Ettore, visto il momentaneo allontanarsi del capo greco, incita i Troiani alla battaglia e comincia ad imperversare lui nel campo nemico; come si sa, nella narrazione di queste battaglie non si risparmia il sangue cruentemente versato: citerò qui qualche verso, s’intende nella nostra traduzione preferita: