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‘O Strega! : Bella mia (Elliot) Donatella Di Pietrantonio

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Elliot e le storie tese

di

Francesco Forlani

(Nota al sesto dei dodici romanzi candidati al Premio Strega 2014)

Un peccato, avere privato  dei primi due versi  la poesia che apre, in esergo,  il secondo romanzo di Donatella Di Pietrantonio; davvero un peccato, avere preferito, per il titolo, alla frase abbruzzese originale, L’Aquila bella me, te voglio revete’, quella italiana ph neutro, Bella mia. La citazione davvero molto bella di Mariangela Gualtieri, tratta da Fuoco centrale, (Torino, Einaudi 2003, p. 41 ) recita così: Una volta ero piccola, ero senza parole. Ero piccola e senza parole. Una volta ero molto leggera, pesavo pochi chili. Una volta c’erano solo tre o quattro chili di me, solo pochi chili di me, solo pochi chili avevano il mio nome.

Un peccato che a lettura finita si rivelerà pertanto necessario; un romanzo così corrisponde in realtà  a quel mondo letterario parallelo, abitato da migliaia di libri e lettori e  di cui ci arriva una debole eco ogni volta che entriamo in una libreria, lasciando che lo sguardo s’involi sui titoli dei romanzi esposti senza cedere all’automatismo attratto dai soliti segni: le copertine pastello dell’Adelphi, le cartonate dell’Einaudi e della Mondadori, le blu di Sellerio o le ultime, magnifiche, sbarcate in libreria di Sur.  Generalmente un certo tipo di lettore, diciamo pure lettori come noi, quei titoli, non sempre a ragione, non li riconoscerebbe nemmeno; alla maniera dei giacobini con i blasonati dell’ Ancien Régime è convinto che la letteratura, la vera letteratura, sia altrove. Ma è davvero così? Quello che posso dire con certezza è intanto questo: primo, se non mi fossi imbarcato in questa impresa della lettura e ricognizione dei dodici libri candidati allo Strega, io questo libro non lo avrei mai letto;  secondo, le osservazioni fatte all’inizio sul verso sottratto, la lingua tradita del titolo, confortano proprio l’appartenenza a quell’altro mondo, alla visione che ne traccia i contorni  e riassumibile in una sola formula:  “si vede e non si vede”.

Bella-mia-Donatella-Di-PietrantonioLa  vicenda racconta  di una donna che all’Aquila, il 6 aprile del 2009, perde la sorella gemella  durante il sisma; sopravvissuta con la madre si fa carico del nipote. Il padre, musicista, separato da prima della tragedia e residente a Roma, non riesce a stabilire con il figlio adolescente il benché minimo dialogo. Il romanzo cerca allora di esplorare le psicologie dei diversi personaggi alle prese con lo stesso lutto e soprattutto elaborazione che dovrebbe salvarli dalla disperazione. Assenza, disparizione, rivoluzione del paesaggio con la diserzione in massa e obbligata da una città capitale, un luogo dell’anima per quanto dura e per certi versi inaccessibile. Lo stile dell’autrice invece è piano, fluido, piacevole anche se nella prima parte indugia in certi lirismi che stridono sulla pagina, creando inutili smottamenti di terreno per la frase altrimenti sobria e perfino elegante.

Dalle prime pagine, senza capire all’inizio il perché, ho pensato al settimanale Intimità. Mia madre lo comprava ogni mercoledì e per il resto della settimana dominava sul comò della camera dei miei insieme a Panorama e all’Espresso a cui mio padre era abbonato. Che rapporto ci sarà mai tra Intimità e uno dei dodici romanzi candidati allo Strega? Pochi sanno, di certo non le lettrici del settimanale, che il successo della rivista è legato alle narrazioni in esso contenute. Com’è scritto nella nota stampa: nata nel marzo 1946, pubblica ogni settimana racconti che traggono spunti dalla vita di tutti i giorni e rubriche con un taglio pratico, di servizio e di attualità. Su ogni numero di Intimità sono presenti 10 storie vere, 2 romanzi di evasione e servizi che spaziano dalla moda alla bellezza, cucina e turismo. Rivista la cui tiratura media è di 364.602 copie.

La maggior parte di quei lettori compra Intimità per le storie e chissà perchè, ho pensato che queste fossero scritte alla stessa maniera del romanzo in questione. Così, man mano che proseguivo nella lettura,  in quella scrittura trasparente, in quell’universo semplificato, intimo, com’era, rinchiuso per lo più tra gli interni, e poco per strada, sentivo crescere in me la curiosità su chi potesse mai leggere i racconti di Intimità, in generale, facendo astrazione di quanto sapessi di almeno una di loro, mia madre, ma anche la consapevolezza della fortuna che gli autori di quelle storie avevano nel ritrovarsi settimanalmente così tanti lettori.

Donatella Di Pietrantonio parrebbe volere, attraverso i suoi personaggi, tendere una corda, cartografare la distanza tra l’antica casa d’origine, semidistrutta, custodita da fragili lucchetti e la nuova casa, delle C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili) e lo fa talvolta esitando troppo tra una lingua ancestrale, autentica, che profuma di comunità e una nuova, asettica, in cui ogni slancio vitale sembra neutralizzato per sempre.

Anthony Phelps. Due poesie e qualche domanda all’autore

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A cura di Ornella Tajani

«Io, negro d’America, non sono uno scrittore negroamericano. Non sono uno scrittore afroamericano. Non esiste una letteratura negroamericana, né una letteratura afroamericana. Noi, negri del Nuovo Mondo, non siamo degli africani in esilio in America. È fuori questione che qualcuno ci affibbi un prefisso. Vi sarò grato se vorrete considerarmi uno scrittore americano, uno scrittore caraibico, uno scrittore haitiano o, più semplicemente, più umanamente: né nero, né bianco, né rosso, né giallo: un Poeta e basta».

.È così che Anthony Phelps, nato a Port-au-Prince nel 1928, si è più volte definito.

I santi padri di Amelia Rosselli. “Variazioni belliche” e l’avanguardia

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(È uscito in questi giorni in libreria I santi padri di Amelia Rosselli. “Variazioni belliche” e l’avanguardia di Antonio Loreto, primo volume della nuova collana Letteratura italiana – Edizioni e ricerche oltreconfine, diretta da Paolo Giovannetti per le edizioni Arcipelago. Riprendiamo qui la Premessa del volume).

antonio loreto

Non sempre si può chiudere con un suicidio.
Amelia Rosselli

Lavorando sull’opera di Amelia Rosselli la critica ha da principio seguito essenzialmente due filoni, volentieri combinandoli tra loro in virtù di una evidente comunanza prospettica. Da una parte la condizione idiomatica e il disagio mentale dell’autore – certo grazie anche allo spunto del pasoliniano lapsus[1] – hanno orientato le letture in direzione dell’irrazional-linguistico, tradendo perfino un intenditore quale Pier Vincenzo Mengaldo, che, con la storica inclusione nell’antologia Poeti italiani del Novecento, rendeva conto di una poesia «come abbandono al flusso buio e labirintico della vita psichica e dell’immaginario»[2] . Dall’altra parte, il fatto che si trattasse della figlia di Carlo Rosselli ha costituito per molti l’invito naturale a un approccio anche più insistentemente biografico, nel segno di un’esistenza (e lo fu, indubbiamente) tragica.
In un secondo tempo non sono mancati tentativi di abbandonare quel paradigma critico, a partire dal rifiuto esplicito che la diretta interessata espresse in qualche intervista; ma tuttora vi è chi parla di una poesia/poetessa caratterizzata da afasia, autismo, affabulazione incontrollata, con eventuale declinazione nei tòpoi della visionaria e della sibilla, che con preoccupante disinvoltura allineano poeta e soggetto lirico, al di là, molto al di là di unlegittimo rifiutodella vecchia (allora non così vecchia) barthesiana sentenza di «morte dell’autore».
Non che la valorizzazione di qualche riscontro d’ordine biografico sia da evitare, naturalmente; tuttavia è bene che di effettivo riscontro si tratti – la critica tenendosi lontana dal rischio di essere semplice «scrittrice di memorie»[3], ricettrice di confessioni – e che esso giunga ad aumentare in capacità il senso di un’opera già verificata nel suo reggersi perfettamente, nel tenersi. È bene in particolare lasciare che il soggetto poetico si formi sopra la pagina piuttosto che costringerlo a ricalcare il medaglione del suo autore: tanto più per un’opera come Variazioni belliche, che ha una gran parte di ragione, e di senso, proprio in un soggetto compreso nel recupero di un’identità che – per cause che sono insieme individuali e collettive, esistenziali e storiche, e che ricevono trattamento insieme lirico e narrativo (se si può far valere qualche omologia tra queste coppie) – appare sempre lontana, come il suo passato, dal concederglisi pacificamente. Un passato chiuso come si vedrà entro un’amnesia, che mentre fissa una specifica affinità tra autore e soggetto[4] inevitabilmente, definitivamente li separa.
La prospettiva che Barthes tratteggiava con polemica efficacia – «l’Autore, finché ci si crede, è sempre visto come il passato del suo stesso libro: il libro e l’autore si dispongono da soli su una medesima linea, organizzata come un prima e un dopo. […] con la propria opera [l’Autore] intrattiene lo stesso rapporto di antecedenza che un padre ha con il figlio»[5] – si rivela così specialmente inadatta al libro dell’esordio rosselliano, il cui soggetto, menomato com’è nella memoria storica personale, fa saltare ogni linearità del tempo e dei rapporti.
È un complicato lavorìo logico-sintattico, fondato innanzitutto sulla variazione, a far apparire l’io a questa stregua, e al contempo impegnato tanto in un’autoesibizione ossessiva quanto nell’elaborazione continua ed elefantiaca di nessi logicitra i materiali a disposizione, rinvenutianche e soprattutto attraverso il ricorso alla tradizione letteraria, che assurge allora – al di là del fatto che è attraverso il linguaggio, in generale, che si costruisce un soggetto in senso pieno (Benveniste) – alla funzione di surrogato mnestico. Non si tratta di ricostruire, da ciò che egli scrive, l’autore; non si tratta in sostanza di una ricostruzione dell’altro («Non ho mai ricostruito mio padre tramite la letteratura»). Piuttosto, Rosselli si mostra convinta – e concepisce il suo soggetto poetico sulla base di questa convinzione – che la letteratura consenta una auto-ricostruzione (il passo appena citato così continua: «l’ha fatto benissimo da solo lui stesso»), sia nell’atto della scrittura sia, quando accade, nell’atto della lettura («una volta mi è capitato di aprire a caso un libro chiamato Fuga in quattro tempi, che è l’unico breve libro suo [di Carlo Rosselli] non dedicato a politica o a problemi di antifascismo o di resistenza […]. Ebbi un piccolo spavento […] ho sentito una specie di identità»). Si capisce dunque, in Variazioni belliche, l’ipertrofica componente lirica, che risulta in tensione con la narratività prodotta funzionalmente al recupero del passato. Tensione si dà peraltro anche tra la dimensione individuale della ricerca e la dimensione almeno collettiva degli archivi – quelli letterari – entro cui la si conduce.
Di un tale quadro dialettico partecipa in modo tutt’altro che accessorio quell’invenzione, incerta o piuttosto ambigua tra prosa e verso (ma la sua sembra essere una ragione più ampiamente estetica e ambiziosamente universale), ad oggi non sufficientemente chiarita, che va sotto il nome di «spazio metrico». Variazioni belliche mentre cerca una nuova forma del verso mette in discussione i fondamenti della metrica stessa, il tutto entro un disegno complessivo di una coerenza impressionante: per quel che riguarda il sistema degli elementi testuali e per quel che riguarda la sponda che questo sistema riceve dalla biografia dell’autore (da non sfruttare senza mediazioni ma anche da non rifiutare a priori, lo ripeto), il quale, a non aggiungere troppo altro, vediamo frequentemente impegnato, per mezzo di false datazioni come di occultamenti delle fonti – faccio valere il caso macroscopico del saggio di Charles Olson Projective Verse (1950), a calco del quale Rosselli scrive il suo Spazi metrici –, in un «lavoro di autocostruzione»[6]. E verrebbe da pensare a Spazi metrici come ad una vida e ad una razo (data anche la sua natura tecnica e insieme di narrazione biografica) per la scarsa attendibilità e per quel certo fondarsi sul dover essere, quasi dando un referente esistenziale all’io lirico, secondo la formulazione di Paul Zumthor[7].
D’altra parte il superamento delle ristrettezze del dato biografico permette, per esempio, di vedere nella devianza linguistica della tardivamente italofona Rosselli un fenomeno interno a una più larga critica del linguaggio, capace di coinvolgere svariati istituti poetici (anzitutto metrico per primo) e infine lo statuto stesso della poesia. Siamo alla marxiana «autocritica» di un’istituzione, che nel caso dell’arte (ma non solo in tal caso, evidentemente) corrisponde all’avanguardia […]. L’istanza critica rosselliana e gli strumenti che l’attuano sono in effetti debitori (come si è a volte disposti a riconoscere genericamente) delle ricerche che le avanguardie artistiche, musicali e letterarie hanno compiuto dall’inizio del Novecento: richiedono perciò (ma questo non si è disposti ad ammetterlo neppure genericamente, come qualche pubblica discussione mi ha insegnato) di riferirsi alle questioni estetiche e filosofiche – perlopiù di stampo analitico[8] – che quelle esperienze hanno contribuito a sollevare.
Se l’opera rosselliana si costruisce attingendo alle diverse discipline (ben oltre il vago richiamo alla musica e al post-webernismo su cui in anni non lontani si è lavorato) e, dentro queste, alle diverse tradizioni, essa va d’altra parte manifestando una notevole autononima intellettuale, poiché è nei confronti del linguaggio della stessa avanguardia che Rosselliesercita la propria attitudine critica: esercizio – anche tematizzato (bastino i citatissimi versi della Libellula: «La santità dei santi padri era un prodotto sì | cangiante ch’io decisi di allontanate ogni dubbio | dalla mia testa purtroppo troppo chiara e prendere | il salto per un addio più difficile. […] E io | lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su | de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia | fattucchiera») che da un lato la mette nella condizione di non far gruppo(ha buon gioco Pasolini nel tentativo – ché tale fu lo sponsorizzare Variazioni belliche presso Garzanti – di strappare Rosselli al Gruppo 63), e dall’altro lascia emergere, se possibile, una personalità poetica ulteriormente d’avanguardia. Anche perché, se l’avanguardia è caratterizzata da un allargamento dei confini della singola disciplina, da un movimento estensivo[9], e se tale movimento – inteso come tentativo di dare soluzione formale ai nodi problematici della propria arte rifacendosi ad arti altre e ad aspetti attuali del mondo extra-artistico, e attraverso questi ridiscutere l’arte stessa e i modi della sua presenza nel mondo – è necessario (e forse sufficiente) a definire una inclinazione d’avanguardia, bisognerà separare da essa, e direi subordinare ad essa, l’idea di avanguardia come gruppo organizzato e intenzionato ad incidere, per via estetica, sulla configurazione sociale e politica del tempo; il quale gruppo può comprendere autori e opere che ai problemi formali forniscono soluzioni tutte letterarie, e in generale tutte interne alla disciplina d’appartenenza, insomma autori e opere che d’avanguardia, presi per sé, non sarebbero.
Per tornare al motivo primario del libro, e per concludere, dominante è la ricerca del tempo perduto e dell’identità che l’io ha perduto con esso. In questa ricerca la poesia, la letteratura, più che essere sintomo abnorme (posizione superata dalla stessa psicoanalisi, col Lacan del Seminario VII)possono servire da strumento prezioso, anche se – siamo di fronte a un’opera tragica – finalmente inefficace: perché il soggetto, nella brama di riconoscersi, finisce col fabbricare una storia di cui l’io è fulcro a tal segno da annullare i riscontri del reale, che pure dovevano essere garanti della sua auto-costruzione, e si svela quale funzione del linguaggio invece che quale individuo. Dicevo: un reale soprattutto letterario, carattere che lungi dall’essere responsabile del fallimento implica una collettività se non universalità del riferimento. Non per nulla è a un’opera tra le universali per antonomasia come quella di Shakespeare che Variazioni belliche soprattutto si affida, all’Amleto e al Macbeth in particolare. Per essi Franco Moretti annota:

Avviene spesso […] che l’eroe inizi un monologo alla presenza di altri personaggi: costoro – letteralmente – non lo udranno, e il monologo potrà avere termine solo quando l’azione […] tornerà a reclamare i propri diritti. […] addirittura, il personaggio che lo pronuncia non ne serba alcun ricordo, tanto che Amleto e Macbeth ricominciano ogni volta daccapo tutto il ragionamento. […] Qui parla sempre una sola voce, o forse meglio una sola funzione […], autoreferenziale, svincolatasi […] da tutto ciò che la circonda e ormai assorbita – dolorosamente assorbita – in se stessa.[10]

Si tratta di un fenomeno che Rosselli incorpora nei suoi testi (lo si vedrà al principio dell’ultimo capitolo, Un dramma modale), fatto salvo questo punto: all’azione – al reale potremmo dire – il soggetto rosselliano semplicemente impedirà di reclamare i propri diritti, rimanendo funzione dolorosamente assorbita in sé stessa.
E dunque: dobbiamo riconoscere una validità specifica (pur negandogliene una generale, se vogliamo) al programma strutturalista secondo cui «si tratta di togliere al soggetto […] il suo ruolo di fondamento originario, e di analizzarlo come una funzione variabile e complessa del discorso»[11]. Il che, se non significa la morte dell’autore (la morte – eventualmente per suicidio – è quel necessario accidente che riguarda l’individuo; o magari ha ragione Artaud: «on ne se suicide pas tout seul»[12]), significa il caos. E laddove questo può in effetti essere compreso e razionalizzato comunque entro una funzione – così è per l’ottimismo logico di Leibniz, ad esempio – Rosselli devasta quell’ottimismo per elefantiasi. Ciò che ne risulta per il soggetto è la perdita senza rimedio della propria identità? Forse solo il suo discioglimento in un’identità collettiva, nella storia di tutti.

Antonio Loreto

[1]           Cfr. Pier Paolo Pasolini, Notizia su Amelia Rosselli, “il menabò”, n. 6, 1963.
[2]           Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento [1978], Mondadori, Milano 1990, p. 995.
[3]           Mario Lavagetto, Il letterario, la letterarietà e l’antropologia spontanea dei critici letterari [1983], inId., Lavorare con piccoli indizi, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 49.
[4]           Si può stralciare da qualche intervista a Rosselli, che rievoca la scomparsa della madre («quella morte fu dolorosissima, persi addirittura la memoria»), e si può fare riferimento agli elettroshock che, durante alcuni ricoveri, causarono appunto perdita di memoria. È infine da citare la lettera a Pasolini del 29 ottobre 1962, scritta dalla clinica Villa Santa Rita in Roma: «Per fortuna sono stata curata bene e ora non posso lamentare inceppi o accidenti salvo e soprattutto l’aver perso del tutto la memoria d’ogni mio atto o incontro degli ultimi tre mesi».
[5]           Roland Barthes, La morte dell’autore [1968], in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici IV, traduzione di Bruno Bellotto, Einaudi, Torino 1988, p. 54.
[6]           Emmanuela Tandello, La poesia e la purezza: Amelia Rosselli,saggio introduttivo a Amelia Rosselli, L’opera poetica, a cura di Stefano Giovannuzzi, Mondadori, Milano 2012, p. XV.
[7]           Cfr. Paul Zumthor, Langue, texte, énigme, Seuil, Paris 1975, p. 177.
[8]           Che l’arte d’avanguardia e la filosofia analitica si rivolgano sguardi reciproci è un fatto: basti pensare al concettuale Joseph Kosuth e all’analitico A.C. Danto. Con questi due nomi siamo già al di qua della metà del secolo – ed è a questo periodo che verrà dedicata la panoramica iniziale, anche perché gli anni Cinquanta e Sessanta sono gli anni della formazione e della prima attività letteraria di Amelia Rosselli – ma è chiaro che tutto ha inizio cinque decenni avanti, perlomeno da Duchamp e da Wittgenstein, che sono poi le due figure nei confronti delle quali Danto e Kosuth, rispettivamente, e con un significativo chiasmo, mostrano la maggiore attenzione.
[9]           Cfr. Renato Poggioli, Teoria dell’arte d’avanguardia, il Mulino, Bologna 1962, p. 153.
[10]          Franco Moretti, La grande eclissi. Forma tragica e sconsacrazione della sovranità [1979], in Id., Segni e stili del moderno, Einaudi, Torino 1987, pp. 89-90.
[11]          Michel Foucault, Che cos’è un autore [1969], in Id., Scritti letterari, a cura di Cesare Milanese, Feltrinelli, Milano 1996, p. 20.
[12]          Antonin Artaud, Van Gogh le suicidé de la société [1947], in Id., Œuvres complètes, vol. XIII,Gallimard, Paris 1956, p. 61.

‘O Strega! : Ovunque proteggici (Nottetempo) Elisa Ruotolo

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Immagine di Philippe Schlienger
Immagine di Philippe Schlienger

I ferri del mestiere

di

Francesco Forlani

(Nota al quinto dei dodici romanzi candidati al Premio Strega 2014)

 

Il Nottetempo (Knight Bus)  in Harry Potter, è un mezzo
che maghi e streghe possono utilizzare per spostarsi in Inghilterra, su strada.
È un gigantesco autobus a tre piani di colore viola scuro (blu nel film)
che ha al suo interno delle sedie scompagnate di giorno e dei letti a castello di notte.
Per far arrivare il Nottetempo è necessario puntare la bacchetta tesa verso la strada.
(da Wikipedia)

 

Elisa Ruotolo, una delle migliori penne del nostro panorama letterario, è una giovane scrittrice che se la guardi in faccia non ci leggi carriera; questo ti fa amare ancora di più quello che scrive come lo splendido Ho rubato la pioggia, uscito nel 2010, sempre con Nottetempo.
Vorrei approfittare allora di questa quinta lettura dell’O Strega per condividere con i lettori una considerazione che ho in mente da tempo. Riguarda la nuova generazione di scrittori, under 30,  ormai alle prese con un secondo o terzo romanzo e il cui talento sia fuori discussione.  Quanti di loro si sono formati sulle pagine di Harry Potter? Si tratta di una semplice intuizione che potrebbe far infuriare non poche persone, a partire dalla  geniale editrice Ginevra Bompiani, nonostante il fatto che la casa editrice sia omonima del magic bus della fortunata saga e  che come lei si chiami la futura sposa di Harry Potter, Ginevra Molly Weasley, Ginny per gli amici. Se a questo aggiungiamo che il premio in questione ha un nome decisamente fantasy, Strega, sembrerebbe davvero ricomporsi davanti a noi un puzzle quantomeno sorprendente. C’è un solo dettaglio che stona ed è che Elisa Ruotolo, classe ’76, è over 30,  e soprattutto non ha mai letto Harry Potter, come mi ha lei stessa confessato in una recente conversazione.

ovunque-proteggici-d231In quella che è stata definita, “un’intensa saga familiare”, la storia attraverso ben cinque generazioni dei Gerosa, un certo realismo magico si coglie dalle prime battute, insieme alla moltiplicazione durante il racconto dei personaggi evocati. Se di realismo magico si deve parlare, però, sarà più nel segno  di Anna Maria Ortese, dell’Iguana, per esempio, che di quello latino americano, com’è stato scritto, e il consistente numero di personaggi,  messi in campo, farà certamente pensare al romanzo moderno, quello non contaminato dalle scritture di genere o peggio ancora dall’autofiction.

E intanto mi viene da pensare a come il nome Rowling rimandi al termine inglese Rolling che, nella traduzione in italiano,  corrisponde quasi al nome della giovane scrittrice di Santa Maria a Vico, Ruotolo. La questione, forse, è meglio chiuderla qui.

La prima domanda che mi è invece sorta spontanea dopo aver letto, Ovunque proteggici,  è stata chi o cosa potesse proteggerci e la seconda, essenziale, da chi o da cosa. La sola risposta  possibile la troviamo nelle prime pagine di cui consiglio vivamente la la lettura.

Dopo la dimenticanza di cuore, il Vecchio Girosa dovette provare anche quella di testa. E da allora i suoi pugni divennero tanto feroci da dargli fama di pericolo. Combatteva ogni sera fino a ridursi in melma, poi di ritorno guardava fisso quei genitori bambini che avevano rivoltato la terra per ricavarne solo un ferro scacciaruggine – rubato nella campagna veneta a rischio di buscarsi la pellagra – e una cassa di legno senza attrattive, acquistata in un negozio di robivecchi. La chiamavano Mondo Novo, ed era il loro ultimo sistema per fuggire ancora da quelle stanze in cui di notte giravano a vuoto.

Il Mondo Novo, una scatola custodisce un ferro del mestiere, una lima, il cui compito è quello di levigare, proteggere le cose dalla ruggine. La ruggine si sa, è nemica anche della memoria, è l’ostacolo più duro da affrontare per riconciliare le esistenze, amici che furono amici, amanti o familiari. “Dovevano avere con lui una ruggine segreta (Manzoni). Una forma di rancore o di rimorso che disgrega gli elementi, manda in rovina. Una lima che in questo magnifico romanzo vuol dire comunque salvezza oltre ogni suo possibile uso, di recidere o levigare, scrostare. Nella prima parte, storia di una famiglia, per esempio, accompagna le gesta eroiche del Vecchio Girosa tra le trincee della prima guerra mondiale. La Der des Ders, l’ultima delle ultime,  come l’avevano chiamata i francesi riservando il maschile ultimo ai fanti che l’avrebbero combattuta. Dopo quella non ci sarebbero state più guerre, dopo di loro non ci sarebbero stati più soldati. I Gerosa, tutte e cinque le generazioni messe in campo dall’autrice, combattono la loro penultima guerra, contro il tempo, paesi inospitali, la miseria, padri contro figli, mettendo in conto insieme ai rischi e pericoli,  l’estinzione stessa della famiglia e delle risorse delle eredità. Il patrimonio, per quanto custodito dalle madri, è una casa-cassa, una villa che di stanza in stanza trattiene le voci di tutti, e innanzitutto della voce narrante, quella di Lorenzo Girosa che di questa guerra ne porta le stimmate; nei pugni stringe una lettera anonima, un segreto di famiglia, che brucia. Solo una lima bastarda potrà proteggerlo; con quella dovrà limare le sbarre della memoria,  evadere dalle stanze, dal passato, per guadagnarsi qualcosa di simile al futuro. Si tratta davvero di una guerra degli ultimi. 

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Come nel pregevole libro precedente della Ruotolo, Ho rubato la pioggia, Blacmàn, al pari di “Leggenda” nei racconti, incarna il male necessario, l’uomo nero, a modo suo un mago, un affabulatore, artista di strada che, nella costruzione della paura del proprio figlio, sa di dovere sacrificare al buio la propria luce.  Allo stesso modo Elisa Ruotolo  guida il lettore attraverso tutti i chiaroscuri di una vicenda che vuole essere esemplare per ogni perdono; lima le sue frasi rendendole riconoscibili per grazia, invenzione, ma soprattutto per far sì che sia sottile la sua esplorazione dei personaggi, verosimile la voce di maschio che lei femmina ha deciso di indossare. Un libro da Premio Strega? Quasi.

La ruggine, sembra in alcuni punti prendere il sopravvento anche nella narrazione. Si ha come l’impressione che dispositivi narrativi, cambio del piano narrativo  da soggettivo a oggettivo, rallentino la narrazione.  Il passaggio dai paesaggi interni fisici e mentali, comunque predominanti, a quelli esterni, minori per numero ma assai felici, appesantisce a volte lo scorrere fluido del recitato, rendendone incerto il passo. Come se stridessero forma romanzo e forma racconto in cui Elisa Ruotolo offre le migliori prove. Al pari del protagonista, Lorenzo Girosa, da lettore, ho pensato:

“All’intonaco che non teneva e c’era bisogno di una sistemata. Alla ruggine da piovana che ogni volta mi impediva d’aprire la cassetta della posta”

Vorrei però aggiungere che è valsa la pena percorrere il viaggio fino in fondo; seguirne gli itinerari; affrontarne ogni paura fino a scoprire che “Villa Girosa non era più un’enorme  scatola in uno spiazzo di terre disabitate” e  confortarci  così con l’idea dell’avvenuta evasione,  del potere dell’immaginazione. Un libro da cinquina, certo.

Prospero nutre Caliban

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di Antonio Sparzani
Caliban and Prospero

Arriva nelle Isole Britanniche nel ’500 attraverso il francese nourriture il termine nurture che Shakespeare prontamente utilizza, con una improvvisa quanto efficace allitterazione, giustapponendolo al termine nature. Siamo nella Tempesta, tra le ultime sue opere (1611), dove Prospero, il grande protagonista, mago e duca di Milano, spodestato dal fratello Antonio alleatosi col re di Napoli Alfonso, è signore di un’isola sulla quale ha costruito, in dodici lunghi anni di esilio forzato ma ben impiegato — con la sola compagnia della affezionata figlia Miranda — un potere che gli consentirà di riconquistare il ducato perduto e di sposare la figlia all’erede del regno di Napoli, Ferdinando, figlio appunto di Alfonso. Com’è stato rilevato da qualche commentatore, il vero antagonista, nella logica shakespeariana, di Prospero è Caliban, creatura ambigua a metà tra uomo e mostro, figlio della strega Sycorax, che regnava sull’isola prima dell’arrivo di Prospero,

Il fervore del corso

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di Giorgio Mascitelli

Andate a far shopping il sabato pomeriggio, or che nelle strade non ci sono più gli scioperanti, e i compratori sciamano e i venditori sciorinano. Andate a far shopping: non allevierà le pene dell’animo, ma certamente neppure le acuirà.

Grazie, dite grazie, alle donne e agli uomini che silenti e tenaci s’adoprano nella mattina prefestiva, tra il sonno degli altri, per appicciare, allumare e rifiorire il nostro corso Buenos Aires. E così nel meriggio per magia il corso diventerà festone di natale e vi scoprirai la letizia del comprare le merci, quale i padri le prime volte.

Savino Spatafora è un altro a cui dovresti essere grato nel corso Buenos Aires, esecutore di un compito più appariscente, e perciò più retribuito dalla muta cortesia delle genti, di quello dei silenziosi e tenaci addobbatori. Ma il compito di Savino Spatafora nasconde tra le sue pieghe impegni altrettanto gravi: riposa sulle sue spalle, anzi sulle sue spalline verde oliva giusta l’uniforme dell’Ambrosianpol, la sicurezza di quel pezzo di marciapiede tra i civici numeri trentuno e quarantuno. Non che la sua situazione contrattuale preveda esplicitamente tale carico, che anzi la causale delle palanche è solo la porticina di un’austera quanto renitente alle ricevute fiscali gioielleria, ma è legittimo vanto di Spatafora quello di conoscere ed applicare anche i doveri non scritti, di saper leggere tra le righe ( od anche nelle righe, se è per questo) e insomma di conoscere tutti gli automatismi del luogo. Dunque vigila e vegeta, non consentendo a chicchessia di rompere l’ordine entro i suoi confini, rispettandoli però e contentandosi di quelli: la cittadinanza commossa ringrazia. Tra il civico trentuno e il civico quarantuno di corso Buenos Aires regna l’ordine perciò. Solo lo esacerbano quegli intrugli colorati dal nome inglese che i ragazzini, ed anche le ragazzine, lasciano riversare pigramente per terra da recipienti non stagni, ma trattasi anche di un tipo d’ordine troppo abissalmente inferiore perché Spatafora possa pensare d’intervenire. Eppure le chiazze sul terreno paiono talvolta assumere la forma del ghigno.

Ad un certo momento però l’occhio di Spatafora casca sul profilo di un veicolo, luminescente ai lati, targato con targa di città nota per i suoi torroni, torrazzi e tette, parcheggiato proprio agli estremi lembi del territorio di sua competenza. Non che Spatafora ci veda qualche minaccia all’intangibilità del territorio assegnatogli, anzi è da reputare come un segno concreto della fruttuosità della sua opera questa confidenza viaria, ma insomma il sabato pomeriggio è un bel casino. Tuttavia escono subito da un magazzino i due piloti, belli d’una loro bellezza arcana, ma belli. La donna soprattutto con in testa i colori dell’ape ( giallo il crine, nero il viso e le ciglia, che se fosse il contrario sarebbe febbre gialla) ed il vestito cremisi leggero leggero, ma con certi suoi argani strani, interni e ingegnosi, appositi per il sostegno adeguato alle mammelle. L’uomo, forse più semplice ( gli zoccoli, i pantaloncini, la maglietta et cetera) negli indumenti, ma con quell’orgoglioso portamento che solo un’irrorazione regolare e bastantemente ampia di palanche sa comunicare ai muscoli e ai tendini del corpo. I visi loro sereni testimoniano dell’appena assaporato piacere dello shopping e lo testimonia anche, se proprio si vuole fare gli svizzeri,  la fila di scatole che la donna sostiene e trasporta, ballonzolandole un borsettino elegantissimo e costosissimo sull’avambraccio. Ora il corso Buenos Aires ha tanti pregi, ma non ancora quello della pulizia etnica, normale dunque che uno slavo lì di passaggio non resista alla tentazione e strattoni l’ape di Cremona, facendola volare alla maniera di una qualsiasi vecchiazza in uscita di ufficio postale, menando poi le tolle con la borsa.

-Fermatelo!- Urla il paterfamilias dell’ape indignatissimo e poi fissa nelle orbite degli occhi Spatafora. Ed in quel momento tutto il corso si ferma e tace e guarda Spatafora sulla capoccia ( mai tante figazze se lo filarono così), Savino comprende che deve e dopo una sospesa istantanea esitazione corre, con gran sollievo del corso. Corre e salta ostacoli e schiva persone e lancia stridi e prende la mira e si mette le dita nel naso e sputa  tira due madonne e allunga le mani in un placcaggio non riuscito e corre con piede alato, che diventa ala quando scivola sul milk-shake arrovesciato. E quell’insulso liquido sembra a Savino dirgli nel corso del volo e poi della tombola successiva  – non avevi da uscire dalle terre tue-  ed anche – goditi i costi del cottimo- . Prima del crac delle ossa Spatafora fa in tempo ad urlare –Chi non fa non falla-.

Più tardi, mentre i medici cercan di contare i pezzi di cui ora è composta la spina dorsale di Spatafora, trovando un accento sincero il fuco di Cremona si esprime in siffatta maniera:- Ed il colmo della disdetta nera è che nulla o quasi restava nella borsa, avendo fatto compere-. E questo però non dev’essere da freno, ma se mai da sprone all’azione di Spataora, ché, come è noto, a rubare a chi ha poco si fa peccato due volte.

( apparso nel volume Milano giallonera, Roma 1995)

Arena / Arenas

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Il poeta che scriveva sugli alberi: fenomenologia di Reinaldo Arenas

di Alessio Arena

“Il realismo è quanto di meno realistico possa esistere in letteratura. Dacché esso elimina tutto quello che si muove in un essere umano: non solo la sua vita esteriore, ma i suoi misteri, il suo potere di creare, di dubitare, di sognare, di pensare, di vivere incubi.”

Da un’intervista concessa da Arenas a Ann Tashi Slater nella biblioteca dell’Università di Princetown[i]

arenas

In uno di quei viaggi che mi portavano, in varie occasioni dell’anno, da Napoli a Barcellona, dove vivevano mia madre e i miei fratelli, avevo partecipato a una campagna di raccolta fondi per GreenPeace. Ero un adolescente squattrinato, con poca faccia tosta, e le commissioni che ricevevamo per ogni volontario ingaggiato, nel mio caso, erano ridotte all’osso.

Verso la fine della campagna, ci avevano detto di andare a cercare possibili interessati all’ingresso del camping Estrella de mar, che occupava, pare in maniera non del tutto legale, una vasta pineta affacciata sulla spiaggia di Castelldefels, non poco distante dall’appartamento dei miei.

Anni dopo, mentre ponevo frettolosamente fine ai miei studi di letteratura comparata all’Università Autonoma di Barcellona, avevo scoperto che in quello stesso camping, alla fine degli anni settanta, aveva lavorato Roberto Bolaño, come guardiano di notte. E di certo quel posto doveva albergare uno strano magnetismo poetico, perché proprio al termine della mia poco proficua giornata in qualità di promotore per GreenPeace, avevo conosciuto, nel bar vicino all’ingresso del camping, il signore americano che, visibilmente infastidito dal caldo, aveva usato come se fosse stato un ventaglio il primo libro che io vedevo di Reinaldo Arenas.

Avendo notato la mia insistenza, l’uomo, che con mio grande stupore si rivelò essere Carl Brownlee, professore dell’Università di Princetown, mi spiegò che si trattava della prima edizione di Celestino antes del alba, l’unico romanzo pubblicato da Arenas a Cuba, nel ’67, ed esaurito nel giro di una settimana. Dopo aver precisato di essere stato colto in un momento di estrema debolezza e di non avere l’abitudine di trattare i libri in quel modo, il professore Brownlee mi mostrò il volume dalle pagine ingiallite, in una bellissima rilegatura a cura della UNEAC (Unión de Escritores y Artistas de Cuba)

Da quel giorno non ho mai smesso di desiderare una copia di quella prima edizione, e di dedicarmi con constante entusiasmo alla lettura, allo studio e alla traduzione in italiano dell’opera di Reinaldo Arenas.

819079Il primo romanzo del grande scrittore cubano nato nella provincia rurale di Aguas Claras e noto al grande pubblico per la versione cinematografica della sua autobiografia diretta dal newyorkese Julian Schnabel, fu premiato con una menzione speciale nel premio che ogni anno la UNEAC organizzava per scoprire e promuovere le nuovi voci letterarie dell’isola. Ma il romanzo che in un primo momento aveva avuto un titolo diverso (Cantando desde el pozo), resterà l’unico libro di Arenas pubblicato a Cuba.

Dissidente sotto qualsiasi aspetto, diventerà presto un vero e proprio perseguitato politico nel suo paese, e i suoi romanzi saranno pubblicati in forma clandestina all’estero, mentre l’autore vive una vita di miserie dentro e fuori dalle prigioni di Cuba. Le motivazioni di un tale ostracismo sono riassunte dallo stesso Arenas, al suo arrivo a Miami nel 1980, in un’intervista raccolta da Manuel Zayas per il suo documentario Seres extravagantes[ii]. Esule insieme ad altre decine di migliaia di indeseables ai quali il regime di Fidel aveva permesso di abbandonare l’isola attraverso il porto di Mariel, Arenas dice: “Sono omosessuale e sono anti-castrista. Vale a dire che riunisco tutte le condizioni per le quali non mi pubblichino mai un libro e per vivere al margine di qualsiasi società.”

Privo di studi letterari formali, con errori ortografici nelle prime opere, assolutamente alieno alla Escuela de Letras, attorno alla quale si muoveva il grosso dell’ élite culturale di quegli anni, Arenas si era fatto molti nemici tra gli scrittori cubani, la maggior parte dei quali avrebbero poi popolato i suoi spettacolari e corrosivi libri in qualità di tremende caricature: formava parte del piano secondo cui lo stesso autore, con estrema onestà, considerava la sua scrittura come un atto di vendetta.

Primo episodio del progetto più ambizioso della sua opera, la Pentagonía che diluisce e sublima, in un ciclo di cinque romanzi, la miserabile e appassionante biografia dell’autore, Celestino antes del alba, stando alle parole del messicano Carlos Fuentes, è “Uno dei romanzi più belli che siano mai stati scritti sull’infanzia, l’adolescenza e la vita a Cuba”.

Sullo sfondo della Cuba rurale di Fulgencio Batista, irreale a arcaica, il libro è un affascinante poema in prosa, a tratti violento, sulla scoperta intima della diversità. Celestino, il bambino protagonista, è impegnato in una continua lotta contro le sue zie e contro i suoi nonni che non comprendono il perché del suo scrivere ovunque, addirittura sulla corteccia degli alberi. Egli sente la necessità di creare un’alternativa di bellezza all’oscura tradizione, alla forza, al potere rappresentato dalla sua famiglia, nel seno della quale non esiste alcuna empatia con il talento del giovane scrittore. I nonni e le zie di Celestino considerano che con il suo compartamento egli stia osteggiando lo status familiare e il sacro codice di normalità al quale sono abituati. Per questo ogni albero sulla cui corteccia la mano di Celestino ha iniziato a scrivere una poesia, viene presto abbattuto senza pietà.

Brownlee, il giorno che lo conobbi nel bar del camping Estrella de mar, mi raccontò una storia che aveva ascoltato dal giovane scrittore cubano Carlos Velazco[iii], il quale, a sua volta, l’aveva raccolta da Onelia Fuentes, zia di Reinaldo. La letteratura, disse pure, a volte non è altro che quello spazio infimo dove ci rifugiamo da migliaia di pettegolezzi e dicerie della vita reale.

Onelia diceva che, esattamente come Celestino, Reinado volle scrivere sin da piccolo, e lo faceva dove poteva: pezzi di cartone, e fogli usati, stracciati, tutti di diversa grandezza e di origine diversa, che si erano accumulati in casa. Allora li perforava in un angolo con un fil di ferro e li teneva uniti, con l’allegria di aver fatto un libro. Il suo libro. Quel fil di ferro a volte gli faceva sanguinare le mani, facile indizio di ciò che sarebbe stata la sua vita e la sua opera, attraversate entrambe come una meteora furiosa, e vissute selvaggiamente, fino alle più estreme conseguenze.

 

 


[i] The literature of Uprootedness: An interview with Reinaldo Arenas, Ann Tashi Slater, The New Yorker, dicembre 2013

[ii] Con gli scrittori: Reinaldo Arenas, Delfín Prats, Antón Arrufat, Tomás Fernández Robaina, Ingrid González. Premio Unión Latina-Festival di Biarrtiz, 2006 e Premio al miglior documentario al Torino Gay & Lesbian Film Festival

[iii] Cópula con Reinaldo Arenas, testo di presentazione del libro Misa para un ángel de Tomás Fernández Robaina, settembre 2010

 

Ciao Fabrizio

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fabrizio casavolaun breve ricordo di Gianni Biondillo

Non ho avuto internet per alcuni giorni ed ho scoperto solo ora che domenica scorsa Fabrizio Casavola ci ha lasciati per sempre.

Fabrizio non era un rom, uno zingaro, un camminante, un sinti, un gagé, un italiano.

Era un uomo.

Un ponte fra mondi, culture, persone.

Ci lascia il suo lavoro on line e l’affetto di moltissimi.

Non ho mai saputo restituirgli neppure un grammo di tutto quello che ha saputo regalarmi.

Aveva 55 anni.

‘O Strega! : il padre infedele (Bompiani) di Antonio Scurati

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Les particules alimentaires

di

Francesco Forlani

(Nota al quarto dei dodici romanzi candidati al Premio Strega 2014)

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Un piatto di Davide Scabin

 

Dalle prime pagine del romanzo di Antonio Scurati, Il padre infedele, precisamente da quando sappiamo che Glauco Revelli fa il cuoco, tutto quanto accade nel mio immaginario di lettore, attinge alla decennale esperienza maturata nel mondo della cucina grazie a Cocina Clandestina e alle centinaia di cuochi, critici enogastronomici, buone forchette, dj incontrati, a partire dal mio socio Marco Fedele e finendo con Davide Scabin. Questa premessa mi sembra necessaria per spiegare meglio come e perché, un romanzo estremamente intelligente, acuto, graffiante, come questo, manchi il proprio oggetto letterario, la sua causa prima, non per la cosa in sé ma per quanto di essenziale ruoti intorno al personaggio,  alla maniera di certi dipinti o fotografie la cui cornice rende invisibile quel che avrebbe dovuto mettere in risalto; il pretesto, il mondo della cucina in overbooking (overcooking) è talmente inverosimile e contraddittorio che il testo, la genesi di un adulto che osserva dal di fuori il mutamento di sé e della propria epoca, ne esce come impoverito.

Il padre infedele è un diario. Ce lo dice l’autore con l’attacco del terzo capitolo:

“In principio fu la misoginia.  Non mi piace per niente doverlo ricordare ora che, anni dopo il nostro incontro, Giulia è la madre di mia figlia  e io sono un altro uomo, ma ho deciso di confessarmi a questo diario e (…)”

Glauco fa il cuoco dopo essersi laureato in filosofia, discutendo una tesi sulla filosofia dell’arte in Hegel. Per chi non avesse nozione della cosa vale la pena riportare un passaggio del magister in questione, in grado di comprendere attraverso  quale visione del mondo Glauco vede le cose, se le vede fino in fondo:

“L’opera d’arte è tale solo in quanto, originata dallo spirito, appartiene al campo dello spirito, ha ricevuto il battesimo di spirituale e manifesta solo ciò che è formato secondo la risonanza dello spirito”. In parole povere il bello non può essere naturale in nessun caso.

Antonio-Scurati-Il-padre-infedele

Eppure tutta la narrazione di Scurati è pervasa da questo ordine naturale, a volte perfino se ne serve per smascherare con effetti davvero esilaranti l’artificiosità del mondo come insieme di relazioni di potere: ora il  direttore di banca, portatore sano di gravità in un ufficio tappezzato di rappresentazioni del bene e del bello, dove facce sorridenti accampano pretese di fiducia nel futuro e nei propri conti; nella descrizione dei partocipanti “fuori tempo massimo”ad un corso prenatale o  in un reparto di  maternità in cui l’ostetrica sciorina le centinaia modalità di parto possibile in una prova di forza con dio in persona che vorrebbe a tutti i costi punire “facendo partorire nel dolore” l’offesa umanità; in modo magistrale quando Glauco e Giulia si ritrovano prigionieri di un ristorante new age in cui il mangiare narrato crea una barriera tra cibo e palato lasciando gli ospiti a digiuno di qualsiasi cosa possa significare gusto.

In queste pagine, del Revelli- Scurati filosofo, ho sentito tutta l’energia e forza del Michel Houellebecq delle Particelle elementari, lo stesso disincanto e moto di ribellione a un universo che si vorrebbe riappacificato intorno al nulla. Risulta allora davvero sconcertante la superficialità con cui il Glauco cuoco si determina come tale con ben poche cose,  attraverso il cambio della carte del ristorante, nel passaggio di consegne, avvenuto suo malgrado, del padre ristoratore, o la fissazione per la mancata stella Michelin talmente astratta da farci pensare all’ossessione dell’autore per il Premio Strega. L’universo gastronomico di Antonio Scurati è pretestuoso e povero a tal punto che dalla sua cucina non si sente fuoriuscire nessun profumo, rumore di pentole, e tanto meno il “sacro” silenzio che solo gli amanti del cibo possono generare nei rapidi gesti e preparativi di un piatto da portare in sala.

Togliere alla cucina tutto questo significa eliminare dalla storia del romanzo l’essenziale, come se in una immaginaria e tribale antologia si decidesse di  omettere il suo più brillante inventore, Rabelais. Così ci rimangono soltanto le fragilità di un personaggio che declina il proprio declino di maschio attraverso la sua tele-ipnosi su una pubblicità del Mulino Bianco.

Il padre infedele, dicevamo, è un diario e Scurati un impeccabile diariste. Il termine l’ho ritrovato facendo alcune ricerche sulla differenza tra mèmoire et journal intime dove il primo si differenzia dal secondo soprattutto per il suo valore di saggio, di riflessione intellettuale e morale. Non essendoci in francese un termine più esatto di quello di journal, una brillante studiosa, Michèle Leleu, negli anni cinquanta scrive in Les journaux intimes:

« Nel corso dell’opera, faremo uso corrente del termine Diariste per indicare un autore di Journal intime; senza disconoscere  come possa tale neologismo prestarsi a critiche, crediamo che si giustifichi a diversi titoli… Si può accostare il termine  Diariste al vecchio  francese « Diaire » talvolta usato come aggettivo (cf. Littré), ma che indica anche  le Livre de raison, tenuto regolarmente in certe famiglie d’altri tempi. »

Il Livre de raison o anche Libro dei conti, veniva trasmesso di padre in figlio, di generazione in generazione, quasi a costituire la memoria viva di una famiglia e in grado attraverso la ricchezza dei documenti presenti oltre alle registrazioni dei conti di spesa, di raccontare quella storia di tutti.

iBion���»�>@i>b���qpoo��F��îA�îAEcco perché il passaggio che ho amato di più è stato quello in cui Glauco deve cantare una ninna-nanna alla sua piccola Anita e non trova son Livre des Comptes; lo cerca invano in quella galassia di voci che dicono nonni, suoceri, senza accedere al quanto mai prezioso documento. All’improvviso però spunta una Bella Ciao, che suo padre gli aveva cantato da piccolo; Le livre des comptes gli serviva su un piatto d’argento la comptine, qualcosa di cui nutrirsi ma soprattutto da custodire per le generazioni a venire. Qualcosa di naturale, come la magnifica cucina di Davide Scabin. Altro che Hegel.

 

‘O Strega! : Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) di Giuseppe Catozzella

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Monaco in riva al mare, 1808 – 1810, Berlino, Alte Nationalgalerie, di Caspar David Friedrich

Sublime\Samia

di

Francesco Forlani

(Nota al terzo dei dodici romanzi candidati al Premio Strega 2014)

Quando si conoscono persone di altri paesi, di altre lingue, viene sempre spontaneo chiedere cosa significhi il loro nome. Perché i nomi, al di là o grazie al suono che portano, spesso nascondono nella propria etimologia un significato che non sempre, ma spesso, traduce insieme all’augurio un destino. Samia, in arabo, significa sublime, elevata, vicina a Dio. La matrice è ovviamente religiosa ma quando ho terminato la lettura del libro di Giuseppe Catozzella, è alla categoria estetica che ho pensato, alla sua distanza dal bello, dalla dimensione pacificatrice a cui certe cose, un libro, un quadro, una musica, appartengono e che trasmettono in forma di piacere, conforto. Ho pensato dunque alla storia di Samia come a una storia sublime e a come la parola paura ne fosse, tradizionalmente, filosoficamente, il fondamento. Senza paura non può esserci sublime, e di tutte le paure possibili in qualsiasi esperienza vitale, quando diciamo sublime, si tratta di paura della morte.

Non dirmi che hai paura”, ingiunzione che si trasmettono fin da bambine le due sorelle somale  Hodan e Samia  Yusuf Omar, come un grigri, talismano, portafortuna, si inscrive così in un naturale gioco di specchi che coinvolge oltre alla minuta e coraggiosa protagonista della storia, e del romanzo, il lettore-spettatore, ma soprattutto l’autore. La scelta della prima persona, l’immedesimazione da parte di un reporter milanese in un corpo che aspira alla levità, alla sottrazione di ogni gravità per diventare vento e correre più veloce di tutti, è inimmaginabile in un contesto diverso da quello della paura. La storia in cui si imbatte Giuseppe Catozzella è una storia che nell’estate del 2012 ha fatto il giro del mondo. A pochi giorni dalla tragedia che coinvolse un vecchio peschereccio al largo di Lampedusa provocando la morte di diversi migranti d’origine somala, pubblicammo su Nazione Indiana la disanima, precisa e struggente che ne aveva fatto Igiaba Scego su Pubblico.

quarta.jpg.207x324_q100_upscaleTutte le “figure del dramma” erano in campo a cominciare dal vecchio campione somalo  Abdi Bile, che chiede: “sapete che fine ha fatto Saamiya Yusuf Omar?” E sappiamo dall’autore stesso che fu proprio questo racconto a far nascere in lui il desiderio di dare ad ognuno di quei frammenti una storia in grado di salvare dall’oblio, più che la morte, la vita della giovane atleta. Nel romanzo si racconta come i sogni prendano forma; in che modo vecchi ritagli di giornale dedicati ai campioni poveri dell’atletica ravvivino la fiamma di un’ambizione che trascende il singolo per diventare voce di popolo oppresso, riscatto femminile; in quale maniera questi possano sopravvivere al cambio di paesaggio interiore, bambina e poi donna, ed esterno, sia che si tratti di eventi politici come la guerra a sbrecciare le facciate delle case, o naturali, dalla città al deserto fino al mare. Tutto è in una frase che il padre consegna alle figlie nella prima parte:

” Figlie mie, tutto ciò che fino a ieri era normale, oggi è complicato”

Per raccontare il complicato viaggio di un sogno, solo una sensibilità straordinaria come quella di Giuseppe Catozzella  poteva riuscire a non cadere nella trappola  del desiderio di successo editoriale passando su tutto e tutti, in cui scivolano, va detto, molti dei narratori italici under 40. Sicuramente incoraggiato dalla delicatezza con cui Fabio Geda aveva raccolto la storia di Enaiatollah Akbari, per il romanzo documento Nel mare ci sono i coccodrilli , la sensazione che ho avuto è stata che “quella paura” di cannibalizzare l’altrui sofferenza, sia stata una presenza costante e necessaria, riuscendo a guidare l’autore nel passo e nel tono, a lasciare intatto il respiro della vera protagonista, di fare in modo che il “doppiaggio” della voce non sacrificasse sull’altare della narratività o peggio ancora, dell’editorialità  marketing la VO di Samia.  Un libro, verrebbe da dire a questo punto, che dovrebbe vincere lo Strega? Avrebbe potuto se l’autore a partire dagli ultimi capitoli non avesse smesso di avere paura. Nel finale il sogno dell’autore, dai contorni incerti ed esageratamente lirici, prende il sopravvento sul sogno originario, scuote la fragile barca sospesa in mezzo al Mediterraneo, nella cui deriva rimangono a filo d’acqua due fotografie in bianco e nero, quella di Samia e dell’amata e mai incontrata nipote, Mannaar.

 

 

IGIABA SCEGO Affile: una vergogna nazionale da “Roma negata” [ediesse 2014]

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I ritorni di memoria, come li ha chiamati efficacemente Silvana Palma, hanno avuto la loro apoteosi nefasta nella costruzione ad Affile del mausoleo dedicato a Rodolfo Graziani, uno dei peggiori criminali di guerra che il mondo conosca.

‘O Strega! : Unastoria ( Coconino Press/ Fandango ) di Gipi

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Disegno di Andrea Pazienza

Plus compliqué que ça 

di

Francesco Forlani

(Nota al secondo dei dodici romanzi candidati al Premio Strega 2014)

Per questa edizione dello Strega ci sono, tra le altre, due notizie degne di nota. La prima, bbuone, è che per la prima volta un\una graphic novel sbarca nel più importante premio letterario italiano. La seconda, malamente, è che per la prima volta un\una graphic novel sbarca nel più importante premio letterario italiano. Soffermarsi sulla notizia rischia di farci perdere di vista il vero oggetto di questa lettura, ovvero un’analisi dell’opera per quella che è, a prescindere dal contesto eccezionale in cui è stata presentata.

Cominciamo allora dal titolo:  Unastoria, tuttoattaccato. In realtà le storie sono almeno due ma sarà proprio nella sovrapposizione, identificazione delle due guerre, mentale quella dello scrittore Silvano Landi e reale del bisnonno Mauro al fronte, che la storia diventa una . Più bello, al di là della dimensione evocativa e più vero, in senso letterario, quello scelto per l’edizione francese:  Vois comme ton ombre s’allonge. (Vedi come la tua ombra si allunga). Anche la copertina cambia e se in quella francese prevale l’idea di un piano sequenza, in quella italiana un albero spoglio, senza più foglie, quasi capovolto per come i rami suggeriscano l’idea di radici, emana una luce quasi metafisica. Un albero e un distributore di benzina sono i due totem con cui Gipi traccia la frontiera del racconto, della storia che anima il delirio del protagonista, Silvano Landi, scrittore alla soglia dei cinquant’anni e “caduto fuori” dalla natura, come ha rivelato Gipi in un’intervista. Nella caduta che trascina con sé la sua storia d’amore, di padre, di autore, l’unica ancora di salvezza è la storia dal fronte della prima guerra mondiale del bisnonno Mauro, e più particolarmente la corrispondenza che ne ripercorre la paura e la voglia di vivere.

Due guerre allora, con generali sparsi sui rispettivi campi di battaglia, sia che indossino un’uniforme o un camice da medici, e a colpire le pallottole di una Maschinengewehr o una pillola di Bituprozan; entrambe le armi sembrano essere state inventate per “velocizzare le cose”.

Couv_205839La storia sembra quindi, nel suo corso inesorabile, macinare vite, alimentarsene quasi a sancire il ritorno delle cose alle cose, della natura alla natura, lasciando agli esseri viventi solamente una presa di consapevolezza spesso risolta con un’arte dell’oblio, un accecamento volontario. Il turbinìo di immagini, il grande talento del fumettaro Gipi, l’assordante visione dei suoi cieli tolgono il respiro in più di una pagina e l’esperimento, per quanto controllato, di mettere in campo il terribile gioco di forze che solo una guerra può e deve prevedere, raggiunge a mio parere il suo obiettivo.

Cosa manca allora a questo\a graphic novel per essere un romanzo e vincere lo Strega?

Scrive Milan Kundera nell’Arte del romanzo :

Che cos’è il romanzo? Dice un bellissimo proverbio ebraico: L’uomo pensa, Dio ride. Prendendo spunto da questa massima, mi piace immaginare che François Rabelais abbia udito un giorno la risata di Dio, e che sia nata così l’idea del primo grande romanzo europeo. Mi diverte pensare che l’arte del romanzo sia venuta al mondo come eco della risata di Dio.

Ma perché Dio ride guardando l’uomo che pensa? Perché l’uomo pensa e la verità gli sfugge. Perché più gli uomini pensano, più il pensiero dell’uno si allontana dal pensiero dell’altro. E infine perché l’uomo non è mai ciò che pensa di essere. E appunto all’alba dei Tempi moderni si manifesta questa situazione fondamentale dell’uomo, uscito dal Medioevo: Don Chisciotte pensa, Sancio pensa, e ad entrambi sfugge non solo verità del mondo, ma la verità del loro stesso io. I primi romanzieri europei hanno colto appieno questa nuova situazione dell’uomo e su di essa hanno fondato la nuova arte: l’arte del romanzo.

Certo si può essere d’accordo o meno con il romanziere, e non a tutti  potrà piacere quanto c’è di “massimalista” in quella che sembra una massima secondo cui, imprescindibile per un romanzo, è la scomparsa dell’autore a beneficio dei personaggi; certa mi sembra  una cosa, però, a prescindere dall’orientazione estetica e dalle playlist letterarie di ciascuno ed è che un romanzo non sarà mai una risposta, dal punto di vista dell’autore. Un vero romanzo è quello che riesce proprio attraverso l’unicità dei personaggi e delle situazioni che ne determinano scelte, omissioni, verità o menzogne, a tessere una tela di ragno in cui l’unico a poter giocare la parte della mosca è il lettore; l’unico a poterne testimoniare la verità sarà sempre e soltanto lui.

Questo/a magnifico/a graphic novel di Gipi, invece, non sovrasta né il proprio autore, né il passaggio all’atto grafico dei suoi pensieri, a differenza di altre opere come Maus di Art Spiegelman, l‘Eternauta (Héctor Oesterheld/ Francisco Solano López), RanXerox (Tamburini/Liberatore) per citarne solo alcuni, la cui solidità romanesque, per le ragioni evocate, è inopinabile,

Dammi risposte complesse” leggiamo all’inizio e a fine lettura ci rendiamo conto che si trattava soltanto di domande complicate.

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Eros, Thanatos, Editoria

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dadati-1di Romano A. Fiocchi

Gabriele Dadati, Per rivedere te, Barney Edizioni, 2014; Piccolo testamento, Laurana Editore, 2011.

“Il 12 giugno del 2009, un venerdì, poco dopo mezzogiorno, stavi percorrendo la strada statale numero 45 in uscita da Piacenza”. Incomincia così, con l’investimento e l’uccisione di un cane, la rievocazione di una storia d’amore. Che non è solo una storia d’amore ma un recipiente letterario dove Dadati ci infila un po’ di tutto: dalla sua passione per i libri al suo atteggiamento da écrivain maudit, dal sarcasmo vivace e dissacrante agli stati di cupa depressione. È un Dadati che si racconta attraverso l’uso della seconda persona: lo scrittore che parla al personaggio, che è poi il personaggio di se stesso. Mi viene in mente un precedente illustre: La modificazione, dove Michel Butor, padre dell’ École du Regard insieme allo straordinario Alain Robbe-Grillet, racconta un viaggio in treno usando il “tu” e alternando i tempi presente e passato.

Ma quella di Dadati non è una “modificazione”, piuttosto una cristallizzazione. Che è poi già contenuta nel titolo stesso: Per rivedere te, il desiderio di fermare nel tempo quella precisa storia per evocare la figura femminile che si nasconde dietro la finzione narrativa di Tabita. Dadati è così. Già in Piccolo testamento, uscito nel 2011, dietro la finzione del nome di Vittorio c’era l’amico letterato che nella realtà è stato portato via da un male incurabile. Il fantasma di Vittorio torna in Per rivedere te con l’iniziale del suo vero nome, S. Così come tornano le figure evanescenti di altri amori incompiuti: Camilla, Aniela, Paola. Scompare Marta, o meglio: si trasforma in Tabita. Tabita, personaggio controverso, che entra in scena ritratta con due pennellate da impressionista: “Aveva denti regolari e forti, arruolati in due arcate che non lasciavano scampo”.

dadati-2I due romanzi sono insomma simmetrici: Piccolo testamento è la rielaborazione di un lutto, Per rivedere te la rielaborazione di un amore. Una coerenza poetica che Dadati spiega apertamente quando cerca di definire il suo essere homo scribens: “Un narratore il cui immaginario è popolato di vicende che escono dalle scaturigini del reale e nel loro farsi lo rispecchiano e in qualche modo cercano di indagarlo”.

Il suo non è dunque un mondo di fantasia ma una rielaborazione del mondo reale. Un mondo reale che produce già di per sé storie e personaggi: “Tabita, Dario, Camilla, il cane Tabacco, i tuoi genitori, Manlio Castoldi, le telefonate a Spaini, Emi dietro al bancone che non poteva ignorare i vostri discorsi, tua sorella e la sua famiglia, il padre di Tabita, la cognata di Castoldi, i tuoi compagni di liceo, la ragazza alla reception del Biffi, il cugino Matteo, S., i ragazzini con la reflex in mano, i genitori del nuovo sincronizzato di Monza. La figure si accalcavano facendo spessore attorno al tuo cervello e alla tua capacità di maneggiare le cose, come una guaina che diventa insonorizzante nella misura in cui è chiassosa”.

I personaggi letterari sono dunque proiezioni di personaggi reali. La vita di S., personaggio realmente esistito, si lega alla vita di Castoldi, finzione letteraria. Che a sua volta si intreccia con quella di un altro personaggio reale, Raffaello Brignetti, che vinse realmente il premio Strega nel 1971. L’ideatore della ormai estinta rassegna di libri Parole nel Tempo Guido Spaini, con cui Dadati “trova piacevole parlare” nella postfazione di Piccolo testamento, qui diventa Mattia Spaini, committente del libro-intervista dedicato a Castoldi. Anche le descrizioni attingono dalla realtà e si fanno espressioni di un realismo esasperato e minuzioso di sapore minimalista. Un solo esempio: “La ragazza ha sparato sul codice a barre, ti ha confermato la cifra, dalla cassa è scivolato fuori lo scontrino largo mentre scattava in avanti il cassetto. Hai pagato e presto il resto. Vi siete sorrisi. Poi sei uscito in strada”. Se fosse un pittore, Dadati sarebbe uno strano incrocio tra un Edward Hopper e un esponente della Pop Art, ossessionato da un mondo dove le bottiglie d’acqua sono bottiglie di Rocchetta, i pantaloncini blu sono dell’Adidas, le gomme da masticare della Vigorsol, i distributori di benzina della Q8. Così come il libro tra le mani del protagonista non è un qualsiasi libro in lettura ma “Hans Magnus Enzensberger, Hammerstein o dell’ostinazione, Einaudi”. Autore, titolo, casa editrice. Anche questo fa parte della fedele adesione di Dadati al suo concetto di realismo.

dadatiDella stessa meticolosa sincerità sono le sue illuminazioni sul mondo editoriale. E qui Gabriele tocca l’altro argomento che gli sta a cuore, i libri: “Gli editori non pubblicano libri, ma scrittori. (…) Non vogliono mandare in stampa bei romanzi, ma bei romanzi scritti da gente che presto consegnerà altri bei romanzi. E, se possibile, ogni tornata di bei romanzi avrebbe dovuto avere una certa resa nel mercato librario, finire dentro il drappello di finalisti di qualche premio, sollevare e acchiappare l’interesse di qualche editore straniero, magari un produttore cinematografico”.

Come a dire che nel mondo editoriale di oggi, dove gli scrittori fanno i fenomeni da baraccone in trasmissioni come Masterpiece, non ci sarebbe spazio per un Joyce, che pubblicò solo quattro libri (di cui uno – orrore per gli editori italiani contemporanei – una raccolta di racconti!), né per il suo amico Svevo, anche lui autore di soli tre romanzi.

Le critiche ai meccanismi editoriali lasciano affiorare il sarcasmo sottile di Dadati, lo stesso che contamina i suoi personaggi e fa dire a Tabita, insegnante di nuoto sincronizzato, che il saggio di fine anno serve ai genitori delle piccole allieve per “verificare come hanno speso i loro soldi”. Oppure a Castoldi che siamo usciti dal fascismo storico “scegliendo di volta in volta un Mussolini diverso, che un tempo poteva essere la Chiesa cattolica, ma che oggi forse è più di ogni altra cosa la televisione, con i quiz e i giochi a premio”.

In ultimo il linguaggio. Quello di Dadati è un bell’italiano tra il letterario e il parlato. Sembrerà banale ma questo va detto, perché nel panorama editoriale odierno non mi sembra cosa affatto scontata. Certo, anche Dadati scrive “faceva blitz” in luogo di faceva incursioni, browser in luogo di navigatore, balloon di messaggistica in luogo di fumetto, e si compiace di infarcire il testo con una nomenclatura da internauta: cliccare, desktop, Facebook, Wikipedia, YouTube, Corriere.it, e così via. Ma il tutto rientra nella sua adesione puntigliosa alla realtà, un po’ come le bottiglie di Rocchetta. O come l’immagine volutamente ributtante di Charles Manson messa di sentinella sullo sfondo del suo portatile.

Sono Orwell

2

di Angela Bubba

GF

L’uomo si trascinò faticosamente al centro del palco, era sudato e vestito con abiti inconsueti e nessuno vi badò finché una delle telecamere, quella frontale, non incappò nello scintillio del suo cranio aguzzo e a tratti spettinato. Quindi il cameraman sbottò in un urlo automatico, ma non ottenne risposta; l’uomo spiccava sul pavimento, luminoso e innaturale per la sua estensione, e s’addensava man mano in un’ombra oscillante, come una fiammella grigia e gentile, e non la smetteva di avanzare.

Solo dopo un paio di minuti uno spettatore, una ragazza pettoruta e che indossava una specie di cencio elettrico, un mutandone traslucido e acceso al centro da un colore rosa tragico, pensò l’uomo, e che presenziava sugli spalti svitando i fianchi da danzatrice, emise uno stridio. Acuto, puro, toccante.

Quando la donna al centro del palco si girò e l’uomo colse il brivido che la percorse, una frustata che dal minitunnel dei suoi tacchi la leccava fino all’acconciatura liscia, spigolosa e isterica quanto una sterlitzia, inverosimilmente bionda, e che s’abbinava all’annichilimento dipinto sulle sue pupille, allora, solo allora, l’uomo intuì che era arrivato il momento delle spiegazioni. Forse avrebbe potuto aprir bocca e dire a tutti di non agitarsi, così, tanto per cominciare, e di non saltare alle conclusioni prendendolo per spacciato per via della sua aria smorta, i vestiti retrò e logori come dio solo sa cosa e il viso che pendeva da una parte all’altra del teschio.

– Buona sera, disse.

La donna gli andò incontro stringendo gli zigomi. Era malfida e trattenuta, ma anche sinceramente curiosa. Delle faccione su uno schermo l’incitavano ad accostarsi a quella figura incongruente, lunare, come fotocopiata lì dall’alito di un altro pianeta, mentre un paio di quelli che all’uomo parvero degli alfieri esagitati e parecchio strambi per le minacce con cui presero a sputacchiarlo, subito la trassero via chiedendole se andasse tutto bene, se fosse sana e salva e altre cose che l’uomo non poté distinguere.

Andava calmandosi, vide, anche se presto si divincolò agitando sia braccia che piedi e con una veemenza peculiare, da pugile, per poi dirigersi verso di lui proprio mentre veniva bloccato dagli arti: le sembrava un monolite, un’aragosta dalle chele braccate con lacci di carne nera, eleganti e livide come custodie di spade giapponesi.

Escluso muso, naso e fronte, quelle guardie erano totalmente coperte, la donna non avrebbe potuto dire chi fossero, e si scambiavano ordini pare molto intimi prima di spintonare l’uomo al di fuori del palco.

– Aspettate!, gemette la donna. La sua voce era molliccia e trepidante, mossa da una cauta intelligenza.

– Liberatelo, fatemi parlare con lui!

Il suo sguardo bucò il cuore delle guardie, le quali mollarono la presa e lasciarono che l’uomo si ricomponesse.

Ora tutti trattenevano il respiro. Il silenzio piombò come un veleno e ogni cosa dava l’impressione di voler esplodere.

A stento la donna si fece avanti allungando una mano, le sue falangi scricchiolarono emettendo un trillo.

– Piacere. Alessia Marcuzzi.

L’uomo l’assecondò.

– Eric Arthur Blair, molto lieto.

La donna si avvinghiò a quella pelle e notò che era viscida e gelata. Ritrasse la mano.

– Sono la conduttrice di questo programma, aggiunse.

– Del mio libro, vorrà dire.

– Prego?

– Magari il mio nome non le dice niente, ma il mio pseudonimo forse sì.

Le facce sullo schermo intanto si accaloravano, le loro labbra sbollicinavano tant’è che sembrava friggessero; mentre il pubblico, sia il laterale che quello ricacciato nel fondo, si sollevava componendo smorfie sguaiate ma piene d’interessamento.

– Sono Orwell. George Orwell.

Dopo un istante di trepidazione, al quale seguì un ammiccamento del viso che sembrava riaversi da una convalescenza, la donna si contorse cominciando a sbandare, un fenicottero che si schiantava sulla sua magrezza, crollando infine in un accasciamento gentile, contemplativo: le ciglia si toccarono, e la bocca emise dei rintocchi subacquei.

– Allora? – fece l’uomo con un che di irritante e insieme d’infantile. – Avete letto il mio libro? 1984?

Nessuno rispondeva. I ragazzi nello schermo erano ammutoliti al pari delle guardie, degli operatori e del pubblico in sala. L’unica presenza viva proveniva dall’uomo che si era spostato, mugugnando e tracciando ellissi sformate torno torno il centro del palco.

– Credevo fosse scontato.

Si fermò. Squadrò il pubblico laterale dopodiché passò ai ragazzi nello schermo.

– Credevo che ci fosse addirittura una clausola nel regolamento. Ognuno di voi avrebbe dovuto leggerlo. Come può essere successo?

Quando scostò lo sguardo, roteò il collo porgendolo alle guardie e poi agli operatori oltre le cineprese; in ultimo ispezionò la donna accasciata a terra: il suo corpo componeva una sorta di onda, armonica e pungente.

– Per voi…

Tornò lentamente ai ragazzi.

– Per voi è un gioco essere spiati?

– Sì, rispose uno di loro.

– Avete la più vaga idea di chi io possa essere?

L’uomo sentì ridacchiare ovunque. Notò che anche le guardie ora si storcinavano in rimbrotti strani e ripetuti.

– Figuriamoci!, riprese il ragazzo con tono divertito. – Sarà uno scherzetto organizzato dalla redazione. Ce ne combinano di continuo. Lo sappiamo che Alessia sta fingendo, Alessia è bravissima.

L’uomo aspirò fra i denti.

– E ditemi… chiese dopo un po’. – Vi state divertendo?

– Oh, sì. Tantissimo.

– Tantissimo, ripeté.

– Ci sentiamo davvero fortunati.

– Fortunati?

– Sì, è ovvio.

– È ovvio?

– Be’, mettiamola in questo modo. Mezza Italia vorrebbe essere qui al posto nostro ma il caso ha voluto che ci fossimo noi, proprio noi! Si rende conto?

– Mi rendo conto.

– Siamo stati scelti, siamo consapevoli di essere speciali.

– O siete più ortodossi?

– Cosa?

L’Ortodossia consiste nel non pensare – nel non aver bisogno di pensare. L’Ortodossia è inconsapevolezza. Avete presente?

Senza attendere risposta l’uomo depose entrambi i palmi sul cuore, e strizzò a lungo gli occhi, come per ripescare un’immagine troppo intensa perché troppo bella per essere spiegata. Nessuno osava muoversi o fare altro, le luci delle sala erano tenui ma in grado di sfilettarla in griglie di chiarore quasi artico, perturbante. Risollevando le palpebre l’uomo capì che la paura era tutto nella vita, e che nella vita tutto dipendeva dalla paura.

– Eppure… riattaccò con cortesia. – Confidavamo davvero in giorni in migliori, quando scrivemmo quel libro… Io e Winston, a-ah! Che romantici! Non trovate?

L’uomo si commosse.

Al futuro o al passato, al tempo in cui il pensiero sia libero, gli uomini siano gli uni diversi dagli altri e non vivano in solitudine… a un tempo in cui la verità esista e non sia possibile disfare ciò che è stato fatto. Dall’età dell’uniformità, dall’età della solitudine, dall’età del Grande Fratello, dall’età del bipensiero…

Si asciugò le guance e fece per allontanarsi, voltando le spalle lunghe e bitorzolute. Si girò solo per alzare una mano e dire a gran voce – Salve!, mentre tutto lo studio sussultava perché l’uomo, all’improvviso, non si vedeva più.

‘O Strega! : Come fossi solo (Giunti) di Marco Magini

1

arancia
Ceci n’est pas un Limonov

di

Francesco Forlani

(Nota al primo dei dodici romanzi candidati al Premio Strega 2014)

 

Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
(Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano, 1988, p. 58)

Quando ho terminato la lettura di Come fossi solo, il primo autore che mi è venuto in mente è stato Italo Calvino e  precisamente il passaggio che ho messo qui in esergo, tratto dal suo migliore libro, Lezioni americane. Nella terza, intitolata, Esattezza, scrive dell’approssimazione come di una peste, forse il male peggiore che possa accadere al linguaggio ed è proprio su questo segmento, esattezza-approssimazione, che vale la pena posizionare il lavoro d’esordio di Marco Magini, che tra l’altro, come recita la bandella in copertina, del Premio Calvino è stato finalista nel 2013. In molte delle recensioni lette, la parola che ricorre di più è coraggio e a seguire reportage; la prima, per sottolineare la presa di rischio da parte del giovane autore nel volere raccontare un conflitto complesso come quello scoppiato nei territori dell’ex Jugoslavia tra il 1991 e il 1995; la seconda per “proteggere” l’opera da qualsiasi critica relativa alla veridicità  dei dettagli dei fatti raccontati, specificando che si tratta di un romanzo e non di un saggio storico. La domanda che mi sono posto è stata a questo punto: può esserci coraggio se non c’è verità? E se un romanzo ha diritto alla sua propria verità rispetto a quella conclamata nei libri di storia o nell’insieme di fascicoli, articoli, testi che vanno sotto il nome di documenti, cosa ci farà dire di un libro che è un vero romanzo o meno?

Molti sono gli spunti interessanti in questa narrazione e per quanto giovane, Marco Magini dimostra una vera maestria nella composizione del racconto, a tre voci; quasi sempre in perfetto timing e con una prosa elegante, sobria riesce a portare il lettore attraverso i diversi mondi, immaginari o meno delle tre maschere del dramma: un casco blu olandese, un soldato serbo e un giudice spagnolo. I primi due raccontano in soggettiva i fatti terribili nel luglio del 1995 a Srebrenica, eccidio che accade loro malgrado o grazie a loro, sotto gli occhi impotenti della comunità internazionale. Il terzo, il più delle volte descritto e raccontato alla terza persona, si concentra sul caso del soldato Dražen Erdemović unico reo confesso dell’eccidio. Il tema che sovrasta l’opera è quella del male radicale e come sia possibile, ove possibile, stabilire l’innocenza degli uni rispetto alla colpevolezza degli altri, quando la linea che dovrebbe demarcarne i terrritori si fa sottile prima di scomparire del tutto.

A più riprese l’autore descrive  Dražen Erdemović attraverso le parole dello stesso soldato come quello “dalla terza divisa”. La prima era stata indossata quando ancora esisteva l’esercito jugoslavo, la seconda appena “sfiorata” da arruolato nell’esercito croato all’inizio del conflitto con la Serbia, e la terza inscrollabile quella delle forze serbe impegnate in Bosnia. Il romanzo delle tre divise, potremmo dire a questo punto riferendoci ai tre personaggi, accomunati ancor prima che dal bisogno di sapere chi ne fosse stato responsabile veramente, dal perché quelle cose poterono accadere. E proprio in una delle descrizioni del giudice, l’autore ci racconta come Romeo Gonzalés senta la propria divisa:

“Il fastidio è un vestito che non hai scelto, un vestito che non senti tuo. Lunga, troppo lunga, continuava a trovarsela fra i piedi. Non gli avevano mai fatto indossare una toga così prima di allora. Che fosse un materiale diverso dal solito? C’era qualcosa in quel tessuto che gli faceva venire voglia di grattarsela via”

Divise o uniformi? Cherchez l’erreur

9788809994478“Uniforme” si chiama quella che portano: potesse essere non “uniforme” ciò che si nasconde sotto di essa!

Di tutti gli aforismi di Friedrich Wilhelm Nietzsche è quello che ho sempre amato di più. Ce lo avevo annotato nel diario quando ero in collegio militare perché  raccontava meglio di qualsiasi altra cosa quello che accade quando si indossa un’uniforme. Il limite di questo romanzo, secondo me,  sta proprio in questo passaggio dalla divisa all’uniforme; a partire dalla copertina, in cui si vede, com’è stato notato dal Manifesto, un soldato russo durante il conflitto in Cecenia. Ma non eravamo in Jugoslavia?

Affidare all’uniforme di un soldato russo il compito di raccontare fatti di altri soldati e di altre guerre sembra suggerirci che la tesi di fondo del romanzo prenda a prestito dalla realtà una storia privandola della sua specificità, di quell’hic et nunc che determina un qualsiasi tipo di fatto realmente successo; la precisione diventa un’ opzione cui si può rinunciare senza che l’impalcatura della storia venga giù alla maniera di un castello di carte alla prima corrente. Così quando leggiamo in nota che a Srebenica vennero uccisi tra gli ottomila e i diecimila musulmani bosniaci perché non alzare timidamente il dito come a scuola e fare notare che  le vittime furono 8.372, con tanto di nome, cognome e causa del decesso? Del resto la bibliografia essenziale posta a fine romanzo più che essenziale mi è sembrata scarna, ai limiti dell’insignificanza. E infatti perché una bibliografia ?

Il vero problema però lo incontriamo proprio nell’uniformità delle voci e dunque sul terreno letterario. Che si tratti dell’uno o dell’altro, i tre personaggi parlano la stessa lingua.  Come se fossero interscambiabili e relegando le psicologie di ognuno in una sorta di limbo di cui nulla è dato oltre le descrizioni che ne sono fatte.

Come lettore accade così di confondersi in più punti, per quanto l’autore si sforzi di colorare i timbri di ciascuno in modo da renderle riconoscibili. Non si tratta della deliberata Plateforme alla Michel Houellebecq, tanto per fare un esempio, ma di una normalizzazione linguistica a parer mio sintomatica di un’idea di letteratura molto in voga ai nostri giorni. La Peste “uniformizzante” è ormai tra le mura della cittadella delle lettere?

Che tale rischio potesse esserci lo avevo sentito già dalla prima pagina. Dirk, l’olandese, dice: ” Ha affogato nel deodorante l’odore di vomito di ieri sera”. Certo il vomito ha un odore, le rose hanno un odore, un buon piatto di pasta, una casa, un morto hanno un odore. La parola odore agisce da deodorante sulle cose anche perché nell’epoca del radical kitsch in cui viviamo, non sono tollerate parole che dicano di più, che dicano meglio e con più precisione. Tutto deve essere inodore allora e se non lo è bisogna fare in modo che le cose si neutralizzino, perché solo una volta neutralizzate si potranno mangiare e digerire, come un trauma, o una guerra. Ecco perché ci sembra poco incisivo se confrontato all’immenso Limonov di Emmanuel Carrère e particolarmente al capitolo VI, Vukovar-Sarajevo, in cui con un’abilità e acume quasi irritante il romanziere spariglia le carte sul tavolo della storia, di come  viene raccontata in occidente, a cominciare proprio dalle uniformi in campo: “Nell’ex-Jugoslavia le guerre non sono state mai, o quasi mai, combattute da eserciti regolari, bensì da milizie”.  Se non ci sono uniformi, blocchi di popoli, tribù e governi,  diventa ancora più complesso stabilire in che modo la responsabilità individuale in una strage si disegni e su un piano più generale capire la fondatezza o meno di quanto la lavagna mediatica dei buoni e dei cattivi, bosniaci da una parte e serbi dall’altra, avrebbe raccontato di quanto accadeva in quell’umida aula di periferia dell’occidente. Emmanuel Carrère descrive così questa impasse del giudizio, irretito da un “Sì” e da un “No”; “oui, c’était plus compliqué que ça” da una parte e dall’altra ” Non, ce n’est pas  plus compliquée que ça, c’est au contraire tragiquement simple.”

In conclusione a me sembra che al romanzo di Marco Magini manchi proprio  il senso del tragico, la dimensione autentica della colpevolezza necessaria ed è per questo che manca il suo obiettivo. Del romanzo di guerra, poco importa quanto storico o immaginario, rimane allora ben poco come se la neutralizzazione delle eccedenze, la de-odorantizzazione, attraverso il linguaggio, delle esperienze ci lasciasse tra le mani qualcosa di terribilmente vuoto, impreciso, approssimato.

 

 

 

 

 

 

II (la devastata)

18

di Manuel Cohen

(Eboli dal treno a Battipaglia)
“Trenitalia augura ai passeggeri Buon Viaggio”
“Avvisiamo i signori viaggiatori
Che tra 5 minuti saremo alla stazione
Di Salerno”
“Salerno stazione di Salerno
Avvertiamo i signori viaggiatori che siamo
Alla stazione di Salerno
Prossima fermata Napoli Centrale”.

fine
gennaio ghiacciato giorno di sole
nel rinnovato parco di Trenitalia
tra Freccerosse d’argento Eurostar
qualcosa del vecchio mondo motorio
è rimasto ancora vivo funzionante
ad esempio sulla tratta Potenza-Napoli-Roma
fa la sua figura l’Intercity-Littorina
sali il giorno dopo la Memoria a Bella Muro

tra campi non più arati  finite le fatiche le sementi
archeologici siti ammantati  per mancanza di finanziamenti
10 sindaci commissariati  per illeciti accaparramenti

ma questo dal treno non si vede vedi verdi
costoni monti aguzzi penetrando in gallerie
seriali che incidono il fiume le vallate zigzagando

scorci di pale eoliche pascoli vigneti

finché dopo l’ultimo traforo la vista si spalanca
l’orizzonte mentre il monte si allontana
ai lati ai piedi della piana ovvero vallata
ineducata colata edificata di cemento

rivoli neri discariche diossina
corsi d’acqua cementati
tralicci della luce allineati
fili tra filari fitti di frutteti
casupole campi capanni copertoni
rimesse di imprese Pezzullo-Oro-Di-Napoli
una piana invasa sterminata tra costoni
di monti a picco dirupanti ammassate
sgarrupate distese cementizie abitazioni
depositi palazzoni fabbrichette indotti installazioni
pratoni incolti coltivati capannoni Motta-Casa-Di-Spedizioni

a destra su palazzine a 7 piani a Battipaglia
snulleggiano parabole a sinistra scheletrici
roveti canneti acacie sconce nella piana
ebolana sagome di costruzioni spettri
abusivi mai finiti grandi firme repertuali fornaci
incenerite attività inattive e inoperose di archeologia
industriale depositi della S.L.A. Ditta Trasporti Inurbani
e una scritta sui cementi dei muri di contenimenti:

‘prendimi ora e per sempre ti amo esageratamente’

sbirri
stazionano silvani alla banchina
per controlli a fumanti marocchini
sotto il cartello: Paestum-Litoranea
tra casupole dai tetti d’amianto
ammantate alberelli di mimose
in gennaio già fiorite

mentre la corsa tra i binari

si distende
si srotola
si scorpora
s’apre ad libitum

indefinito

indefinibile

indifendibile

continuum

 

*

 

da Manuel Cohen, L’orlo (CFR, 2014)

Blues di West End

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di Filippo Tuena

(Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, un estratto da “Quanto lunghi i tuoi secoli”, Armando Dadò Editore – Pro Grigioni Italiano 2014. Un’*archeologia personale* di Tuena che raccoglie testi inediti e sparsi in prosa e in versi, nonché alcuni esempi di scrittura teatrale e recensioni letterarie che coprono più di un ventennio di attività sempre più indirizzata da un lato verso l’auto-fiction e dall’altro verso la saggistica narrativa. In Italia si può acquistare andando sul sito dell’editore.)

tuena Il tram di St. Charles faceva capolinea sul lago Pontchartrian alla stazione denominata West End. Di domenica era punto di ritrovo per la gente di colore. Sulle sponde del lago dopo la messa si riunivano per i pic–nic, concerti improvvisati, danze, storie d’amore che si consumavano tra i cespugli o semplicemente in luoghi appartati, poco lontani dalla folla. Poi, poco prima del tramonto raccoglievano gli avanzi e si mettevano in cammino verso la stazione dei tram dove si formava una lunghissima fila che a stento i tram in partenza riuscivano a smaltire. Poco alla volta tornavano verso sud, la domenica stava terminando, il tram li riportava a casa.

Quando Louis Armstrong nel 1922 raggiunse Joe Oliver a Chicago, per entrare come seconda cornetta della band, i picnic del Pontchartrian entrarono nel novero delle memorie di casa, assieme alle prostitute di cui s’innamorava, ai pranzi della madre, alle passeggiate lungo il Mississippi. C’impiegò alcuni anni per formare un suo complesso – gli Hot Five a volte Hot Seven – e il 28 giugno 1928 registrò la composizione più sentita del suo maestro: West End Blues.

Esordisce con uno spaventoso lamento della sua tromba, una cadenza abissale, galattica, che distilla sangue e lacrime, che grida e piange straziando l’animo dell’ascoltatore prima che il tema accompagnato da una ritmica asciutta si distenda sul rassicurante giro armonico del blues. Alla seconda strofa Armstrong canta, ma non il canto scat che appare in molti altri suoi brani a ritmo più serrato. È piuttosto una nenia, articolata su fonemi realizzati esclusivamente con vocali – ua ua uaa, ua ua uaa. È sale intriso di miele, è tempo struggente che ritorna; sono memorie che non appassiscono neanche a migliaia di miglia di distanza, sulle rive dei grandi laghi, nella città del vento freddo, nella città ostile. L’unico musicista originario della Lousiana che lo accompagni in quel brano è il batterista Zuggy Singleton e il lavoro che compie sui piatti – colpi secchi, asciutti, implacabili – la dice lunga sul sentimento che lo avvolge mentre suona e ascolta l’assolo di tromba del leader. Soltanto Zuggy sa che cosa Louis sta raccontando, ricorda perfettamente quel tram stracolmo, le occasioni mancate che assaporava mentre dopo la giornata festiva se ne tornava verso casa. Ricorda i volti di ragazze rimaste laggiù, ormai appassiti, svaniti, irrecuperabili.

***

***

Mardi Gras. Si vestivano come regine ed erano regine per davvero: diademi, strascichi lunghi otto metri, merletti ricamati dalle creole. Finita la festa, percorsa Canal street in cima al carro, scucivano lo strascico e lo donavano all’altare della cattedrale. Diventava un arredo sacro ma rimaneva l’odore del Carnevale. Lentamente si mischiava alla cera delle candele, al profumo dell’incenso ma il senso di quella donazione profana non si poteva cancellare. Inginocchiate davanti all’altare, durante il rosario, le beghine ricordavano l’occasione nella quale lo avevano visto la prima volta – il Mardi Gras del ’96, il ballo del Comus del ’902. E ricordavano la regina che lo aveva indossato.

Oggi, la creola che lo supera con passo di gazzella lo porterebbe con grazia infinita, anche se la sfilata ha assunto un carattere spaventoso, perfino volgare. Ma la sua pelle è bronzea e il sorriso meraviglioso. Lei sì che sarebbe una regina perfetta per il prossimo Carnevale.

Percorre spedita la via, scarta i turisti che sono fermi davanti alle vetrine del negozio di chincaglierie e aspettano la guida per lo walking tour. Vorrebbe seguirla ma non sa dove lo condurrebbe. Forse nella parte della città off-limits, nell’inferno dei diseredati, tra gli zombi del dopo uragano, così pigri, così inafferrabili da mettere paura. Una paura infinita pari alla sua grazia.

‘O Strega: la sporca dozzina

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poster-strega-dudovichDal prossimo lunedì pubblicherò le mie dodici note ai libri candidati quest’anno allo Strega. La rubrica si intitolerà ‘O Strega! Tale ricognizione critico-letteraria  si concluderà mercoledì 11 giugno  quando sarà votata in casa Bellonci la magnifica cinquina.

Questa la rosa:


Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) di Giuseppe Catozzella
Lisario o il piacere infinto delle donne (Mondadori) di Antonella Cilento
Bella mia (Elliot) di Donatella Di Pietrantonio
Una storia (Coconino Press-Fandango) di Gipi
Come fossi solo (Giunti) di Marco Magini
Nella casa di vetro (Gaffi) di Giuseppe Munforte
La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie) di Francesco Pecoraro
La terra del sacerdote (Neri Pozza) di Paolo Piccirillo
Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) di Francesco Piccolo
Storia umana e inumana (Bompiani) di Giorgio Pressburger
Ovunque, proteggici (nottetempo) di Elisa Ruotolo
Il padre infedele (Bompiani) di Antonio Scurati

Il primo titolo di cui parlerò lunedì è : Come fossi solo (Giunti) di Marco Magini
La nota di lettura si intitolerà: Ceci n’est pas un Limonov

arancia
Ceci n’est pas un Limonov

 

Mode d’emploi

Se è vero  che in questi ultimi anni la letteratura italiana ha manifestato tutto il proprio disagio rispetto alla perdita aurorale dell’esperienza, in una diserzione in massa dalla realtà, in tutte le sue varianti, politica, culturale, sociale, religiosa, va altresì sottolineato che mai  resa fu tanto benefica, liberatoria e, aggiungo, fruttuosa per i nostri narratori. Lo stesso discorso potrebbe valere per la poesia, questa grande sconosciuta, ma qui si tratterà esclusivamente di narrativa; si userà lo specchio del suo più importante premio letterario, lo Strega, cui va riconosciuto il grande merito di presentare, in questa penultima fase, titoli che al di là degli stili, delle tematiche, della poetica, rappresentano davvero il migliore spaccato della nostra letteratura. Le note che seguono non mettono dunque  affatto in dubbio la buona fede dei giurati assicurando che in nessuno di questi dodici casi mai che l’umile estensore di queste note sia sbottato in un : “come diamine ci è arrivato questo libro in finale?”. Tale excursus, impegnativo dal punto di vista dello sforzo profuso, sia in termini economici che di tempo, vuole essere un’analisi ragionata il cui fine ultimo è quello di fornire argomenti validi, critici, in grado di spiegare come e perché il premio Strega 2014 debba andare ex aequo a Paolo Piccirillo e Francesco Pecoraro; essenzialmente per due nobili e inoppugnabili ragioni.

La prima è una motivazione formale. Gran parte della stampa, dei giurati, dei candidati ritiene che il premio andrà a Francesco Piccolo. Non ne ignoriamo le ragioni politiche, in senso di politica editoriale, e letterarie, ed è proprio per non corrompere i complessi dispositivi messi in campo che l’ipotesi da me formulata riuscirebbe ad accontentare tutti; l’ala oltranzista della critica letteraria, detta anche talebana, convinta del fatto che non tutti i libri siano letteratura, e che a proposito di Piccirillo e Pecoraro si è già espressa anche entusiasticamente; l’ala radical kitsch che in un ex aequo tra La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie) e La terra del sacerdote (Neri Pozza) vedrebbe, nella ricomposizione- condensazione del nome e del cognome dei due autori, il trionfo di Francesco Piccirillo, una variazione, seppure dialettale, sul tema del nome designato come vincitore.

La seconda, sostanziale, si evincerà dalle note che pubblicherò e che contribuiranno sicuramente a rendere la mia posizione di scrittore pre-postumo ancora più solida e invisa ai più e anche ai meno.

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Il disordine e l’ordine

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 di Giorgio Mascitelli

 

 

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Due fenomeni opposti ma complementari sembrano, anche a uno sguardo superficiale, caratterizzare lo spazio del discorso pubblico contemporaneo: da un lato il fenomeno della produzione culturale della rete e del sistema mediatico, talvolta descritta con metafora alluvionale come massa indistinta che sommerge tutte le tradizionali procedure di controllo, anche qualitativo, del discorso  a vantaggio di un indistinto che toglie significato, dall’altro la persistenza e il rafforzamento di saperi specialistici fortemente autonomizzati anche in campi che avrebbero bisogno di un controllo non specialistico, cioè politico. Comune a questi due fenomeni è  il mettere in crisi la funzione intellettuale così come è stata intesa finora. In questo contesto rispolverare una vecchia categoria foucaultiana come quella di ordine del discorso rischia di sembrare inutile o addirittura fuorviante, tanto più che nella ricezione del pensiero di questo gigante, sulle cui spalle saremo destinati a salire ancora per molto tempo, sono altre le categorie che sembrano oggi godere di maggiore apprezzamento.

Certo se l’ordine del discorso è quell’insieme di procedure che devono governare e delimitare la disordinata proliferazione della parola della gente, il flusso ininterrotto dei nuovi media sembra indicare la fine dell’ordine e la vittoria del disordine. Ma non è detto che sia sempre così: se prendiamo, ad esempio, la descrizione fatta da Giorgio Lunghini ( si trova in Conflitto crisi incertezza, Torino 2012) della ricezione che il mondo accademico degli economisti ortodossi ha riservato negli ultimi trenta anni alle soluzioni di alcuni problemi teorici dovute a Sraffa, è chiaro che ci si trova di fronte a una tipica procedura di interdetto. Così si può anche ricordare la disputa che nel quadro del tentativo della riforma Berlinguer della scuola alla fine degli novanta oppose i ‘metodologi’ ai tradizionalisti: i primi, desiderosi di dimostrare che per insegnare le materie storiche l’idea di farne conoscere ai ragazzi qualche contenuto fosse un disdicevole pregiudizio passatista e bastasse insegnare la metodologia della ricerca storica, misero in campo una serie di discorsi, di giochi di regole e di delimitazioni che sono chiaramente un’applicazione di quel principio  disciplinare che è tra gli elementi meno vistosi, ma decisivi di regolazione dell’ordine del discorso. Naturalmente un’obiezione potrebbe essere quella che l’ambiente universitario è sociologicamente e numericamente piccolo e circoscrivibile,  perciò alcune procedure possono ancora funzionare, laddove nel mare magno della comunicazione sociale generale si perdono. Considero questa obiezione in parte fondata, ma non risolutiva. Innanzi tutto l’autorappresentazione della comunicazione contemporanea come un flusso magmatico continuo di una impressionante mole di informazioni  che annulla le specificità e il senso stesso del dibattito culturale non tiene conto che all’interno di questo stesso flusso vi sono delle ripetizioni di informazioni e di discorsi che svolgono una parziale funzione ordinatrice. In secondo luogo è noto che la circostanza che la quantità di informazioni disponibili esorbiti le possibilità conoscitive di una vita umana non risale certo all’invenzione di internet o della televisione: Elias Canetti per esempio descrive in Auto da fè una società e una vita individuale premediatiche, dove emerge con chiarezza questa situazione. Rischia dunque questo argomento di diventare un modo per autorizzarsi a una certa pigrizia intellettuale per giustificare la propria attenzione  solo ai discorsi più ripetuti. Queste considerazioni, in ogni caso,  non mirano a smentire, come detto sopra, tale rappresentazione, ma piuttosto a relativizzarla, a schiarirla perché laddove dominano i quadri a tinte forti è difficile cogliere i dettagli interessanti e anche gli spiragli.

Forse è possibile pensare che ordine e disordine del discorso convivano assieme in una prospettiva in cui la proliferazione dei discorsi non può più essere governata in forme pianificate di controllo globale.  Il quadro che emergerebbe da questa ipotesi è dunque di un discorso magmatico, continuo e potenzialmente desemantizzato che viene attraversato da alcune ripetizioni che attirano l’attenzione della gente e dall’altro la persistenza di punti di discorso specialistico, dove invece è possibile individuare le strutture gerarchiche canoniche dell’ordine del discorso.  Questa rappresentazione  ha il vantaggio di essere omologa a quella della geografia sociale della globalizzazione che offre Saskia Saassen ( per esempio in Fuori controllo trad.it. Milano 1998): nel notare che lo sviluppo delle comunicazioni materiali e virtuali ha reso obsolete le città nella loro funzione economica tradizionale di centri della produzione delle merci, l’autrice nota altresì che i centri urbani svolgono ancora un ruolo essenziale di aggregazione e scambio sociale per i cosiddetti corporate service specialmente per i settori più nuovi. Analogamente, alla dispersione e segmentazione delle unità produttive nelle grandi multinazionali corrisponde un rafforzamento delle tradizionali attività direttive centrali.  Ipotizzo quindi che anche la geografia del discorso contemporaneo funzioni in spazi simili, nei quali trovano la loro collocazione flusso ingovernabile e disciplina del discorso.

In una situazione così fatta resta da chiedersi se una critica dell’ordine del discorso abbia un senso e uno spazio culturale nel mondo attuale. Rispondere a questa domanda significa porsi innanzi tutto il problema del soggetto che critica ossia dell’autore della critica: è indubbio che la posizione occupata dall’autore rispetto al discorso  determina il senso della critica. Se l’autore è dentro o fuori un’istituzione riconosciuta, se ha molto prestigio e capitale culturale o al contrario ne ha pochissimo o per nulla, se colloca la sua voce in un’istanza collettiva di critica oppure sottolinea la sua irriducibile singolarità, tutto questo è decisivo per determinare il senso e lo spazio della critica. Sono inoltre possibili altre situazioni e posizioni, ma quello che mi sembra impossibile è che ci sia una critica dell’ordine del discorso senza che ci sia un autore. Si sa però che il concetto di autore è uno degli elementi fondanti dell’ordine del discorso, ciò comporta anche che non si può criticare l’ordine del discorso dall’esterno, ma soltanto dall’interno. In altri termini non si può eliminare  l’ordine del discorso ma soltanto chiederne uno differente, uno migliore. Migliore vuol dire o più funzionale a certe esigenze o più giusto. L’autore della critica, tuttavia,  che occupa le posizioni più svantaggiate in termini di capitale culturale e sociale non può che parlare a partire dalla giustizia per essere ascoltato. Se egli si limiterà, come gli altri, a parlare a partire dalla funzionalità delle sue esigenze, scoprirà che esse sono considerate meno interessanti di quelle degli altri. Dunque  dovrà fondare la sua critica sul piano della giustizia e non in maniera parziale od opportunistica, quasi fosse un pretesto per rendersi interessanti, perché se no indebolirebbe la sua stessa voce autoriale. Per esempio, molte delle polemiche che sono seguite all’elaborazione della nozione di orientalismo da parte di Edward Said, in particolare le accuse di aver ideologizzato la discussione scientifica sull’etnografia orientale, non ci sarebbero state se questo autore palestinese residente negli Stati Uniti avesse mosso la sua critica a partire dalla funzionalità anziché dalla giustizia, nel contempo però difficilmente avrebbe potuto modificare l’ordine di quel discorso.

Inoltre bisogna tenere in considerazione che oggi non ci sono più istituzioni che si fondano sic et simpliciter sulla verità del loro discorso. Perfino le chiese, perfino quando hanno attaccato l’evoluzionismo,  non solo hanno fatto ricorso ad argomenti relativistici ( è una storia che racconta,  per l’Italia, Telmo Piovani in In difesa di Darwin, Milano 2005), cosa in sé non nuova,  ma a una linea di critica integralmente relativistica. Oggi ciò che ogni istituzione dice non è ciò che è vero, ma ciò che è utile o ciò che piace. Ne segue che la classica operazione preliminare di ogni critica, cioè la demistificazione, adesso si colloca su un terreno più mediato, meno immediatamente comprensibile.   Inoltre in questo modo viene meno il bisogno per le varie istituzioni e per chi detiene posizioni di vantaggio di compiere un discorso di legittimazione. Nell’era della globalizzazione, ha scritto Peter Sloterdijk ( si trova ne L’ultima sfera trad.it. Roma 2005), “l’effettuazione sostituisce la legittimazione”, chi ha il potere di fare una cosa è di per sé legittimato a farla. Questo stato di cose ha strettamente a che fare con l’abbandono della verità come categoria di legittimazione. Ne segue che chi critica a partire dalla giustizia ha un compito ancora più impervio che nel passato e necessita di una pazienza ancora maggiore.

Un terzo elemento da prendere in considerazione è l’emersione della categoria della novità come fatto incommensurabile e perciò come non criticabile. Non sto affermando che oggi nel discorso certe cose sono presentate come nuove e invece non lo sono o lo sono molto parzialmente, ma che al concetto di nuovo viene associata la qualità logica della diversità radicale rispetto a tutto ciò che è stato prima ed esso pertanto non abbisogna dei normali requisiti di credibilità per essere creduto. Basterà qui ricordare a titolo di esempio il modo in cui si parlava di Facebook nelle settimane precedenti il suo collocamento in borsa come se ci fosse trovati improvvisamente sul promontorio estremo dei secoli; il fatto che questa procedura fosse verosimilmente funzionale a una grossolana operazione speculativa non indebolisce, ma semmai rafforza il valore di questo esempio: si sa che le speculazioni si muovono a loro agio entro le convenzioni e le aspettative sociali. In fondo questo statuto logico del nuovo è paragonabile alla vecchia prova ontologica anselmiana dell’esistenza di Dio: essendo Dio l’essere perfettissimo colmo di ogni qualità non può certo mancare di quella dell’esistenza; così anche il nuovo, essendo per definizione foriero di cambiamenti epocali, non può che essere immune dalle normali linee di discussione.  Ponendosi come incommensurabile con il passato questa procedura evita il confronto storico, che è con la demistificazione uno dei punti di partenza fondanti di ogni discorso critico che voglia un discorso più giusto. Ancora una volta la critica si deve porre su un piano più mediato e più periferico oppure al contrario deve accettare le procedure di validazione legate alla  categoria di nuovo, limitandosi a sostenere che quel particolare oggetto, fenomeno o discorso non è nuovo. Insomma ad ogni passo una nuova difficoltà, ma l’autore della critica si sentirà meno solo se converrà che questo suo persistere lo apparenta a quel personaggio di Calvino scambiato per demente dagli astanti su una spiaggia di notte per il suo armeggiare con la torcia elettrica nel vano tentativo di contemplare le stesso con l’ausilio di una mappa astrale o ad altri folli di lignaggio ancora maggiore.

( apparso su Alfabeta 2  n.22 )

Qualche lucciola nel buio pesto di Giorgio Vasta?

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di Luca Salza

Ad aprile, abbiamo accolto Giorgio Vasta all’Università di Lille, nel seminario «La democrazia in Italia» che organizzo con Mélanie Traversier. Questo mio testo prende spunto dalle discussioni svolte in quell’ambito, con lo stesso Vasta, Pierandrea Amato, Gabriele Della Morte, Fanny Eouzan, Stefano Savona, Mélanie Traversier e gli studenti presenti al seminario

Italia, anni ’70. Scomparsa delle lucciole, assassinio di Aldo Moro. E cosa fanno i bambini in questo mondo diventato terribilmente scuro, o meglio, talmente accecante di luci (quelle delle televisione, quelle degli stadi dei grandi eventi, il Mondiale di calcio argentino del ’78, quelle delle vetrine dei centri commerciali) da annebbiare la vista? I bambini, quelli che all’epoca erano bambini, e cioè noi oggi, quarantenni un po’ persi in questa intricata e drammatica situazione, che chiamano «crisi». Il tempo materiale di Giorgio Vasta (minimum fax, 2008) parte, forse, dal tentativo di rispondere a questa domanda. Parte cioè dall’articolo di Pasolini che denunciava la scomparsa delle lucciole («Il Corriere della Sera», 1° febbraio 1975) ossia l’affermazione di un nuovo fascismo, un fascismo più pericoloso di quello storico perché, a differenza di questo, è riuscito ad omologare le coscienze, a distruggere lingue, culture, popoli. L’energia della Montedison, dell’ENI ha generato una nuova epoca, nella quale l’inquinamento apparentemente solo luminoso ha in realtà fatto scomparire non solo le lucciole, ma l’umano stesso. Georges Didi-Huberman è recentemente ritornato su questo articolo e ne ha messo in luce le implicazioni storiche e filosofiche per il nostro presente: la scomparsa delle lucciole coinciderebbe con la fine della possibilità della trasformazione dell’esistente (Come le lucciole, Bollati Boringhieri, 2010). L’articolo delle lucciole di Pasolini aveva però all’origine un titolo diverso («Il vuoto del potere») che significava una presa d’atto di un cambiamento di paradigma nel «Palazzo». Si era sgretolato il vecchio sistema di potere clerico-fascista che dominava l’Italia da sempre, contemporaneamente si iniziava a sfilacciare anche quel blocco di contro-potere che vi si opponeva dialetticamente, unificato da un generico spirito anti-fascista (che poteva essere liberale, cattolico, comunista e socialista). Contro quanti paventavano un ritorno del vecchio fascismo, Pasolini invece scorgeva già l’emergere di nuove forme di potere, più segrete perché più liquide e diffuse, più ampie perché già transnazionali, meno violente forse, ma molto più pervasive. E allora il «Palazzo» iniziava a essere sgomberato, si svuotava delle vecchie, solite figure… Il vecchio antifascismo che, pur aveva scritto pagine gloriose, negli anni 70, e a noi a fortiori oggi, è incapace di leggere questo «vuoto», questo potere spettrale; incapace e quindi bloccato e superato dagli eventi. Infatti, dopo l’«orda d’ora» stentano a manifestarsi su scala ampia nuove forme di controcondotta, di resistenza. A fare le spese di questo cambiamento epocale sono gli stessi uomini del potere. Qualche anno dopo l’articolo di Pasolini, Aldo Moro sarà ucciso.

Aldo Moro: la lingua di Aldo Moro era, secondo Pasolini, un nuovo linguaggio per la nuova epoca. Moro era un gerarca, come gli altri capi democristiani, che tuttavia «per una enigmatica correlazione» era «il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal 69 ad oggi». Ed anche quello più all’altezza, proprio dal punto di vista linguistico, a segnare il passaggio alla nuova fase storica, quella della scomparsa delle lucciole, cioè l’avvento di un nuovo tipo di fascismo. Quando Sciascia riapre l’affaire Moro qualche mese solo dopo i fatti di via Fani, parte da Pasolini, da quell’amico vicino eppure distante alle prese con le lucciole, con il Palazzo (L’affaire Moro, Sellerio, 1978). Sciascia, nelle folgoranti pagine iniziali del suo libro, cammina, dopo Pasolini, con Pasolini, alla ricerca delle lucciole per scoprire, poi, che quell’enigmatica correlazione era, in realtà, una contraddizione (una contraddizione fra Moro e gli altri capi DC), ed è per questo che la correlazione non sarà più enigmatica, ma diventa per Sciascia «tragica». Moro è ucciso perché, pur essendo un gerarca, è diverso dagli altri, solo solo è infatti restato in quel Palazzo, mentre altri hanno già traslocato in quelle segrete stanze del potere più nuove, più vaste e più sicure. Il libro su Moro di Sciascia, come osserva Belpoliti (Settanta, Einaudi, 2010 nuova edizione), non è un’inchiesta. A Sciascia non interessa sapere perché e come Moro sia stato ucciso. Egli interroga piuttosto la sua tragedia, la tragedia di un uomo di potere restato solo. Solo nella sua prigione, solo con le sue parole. Le parole. L’interrogazione di Sciascia porta sulle parole di Moro, le lettere che egli scrisse ai suoi compagni di partito, ai suoi familiari, gli scambi con i brigatisti. Al punto che la tragedia di Moro diventa un fatto letterario, «compiuta opera letteraria», si ha «l’impressione che l’affaire Moro sia già stato scritto, che viva in una sfera di intoccabile perfezione letteraria». Chi lo ha scritto già l’affaire Moro? Pasolini appunto, ma anche lo stesso Sciascia, Scrittori, le cui sintesi hanno anticipato, profetizzato il reale, se non lo hanno proprio istigato. L’idea, certo provocatoria, al fondo di un tale ragionamento è che una certa letteratura, non realistica, ma nemmeno post-moderna, produca la verità. Non a caso Pasolini proprio in quegli anni torna al «romanzo» (al «progetto di romanzo», cioè a Petrolio) perché sente l’impossibilità di «dire» altrimenti quello che «sa».

Il romanzo di Vasta non rivendica, non vuole rivendicare quella «passione del reale» che leggiamo in Pasolini o Sciascia. Scegliendo come protagonisti dei bambini, Vasta scivola verso un’altra dimensione, non solamente storica, e pur sempre buia, dopo la scomparsa delle lucciole. Ma conserva quella idea. Conserva cioè l’idea della potenza delle parole sul reale. Questa potenza è talmente alta che affascina, corrompe dei ragazzini i quali creano una cellula terroristica e sul modello delle azioni della colonna romana delle BR sequestrano e uccidono, in quegli stessi mesi del 1978, un compagno di classe, Morana, anch’egli il meno implicato di tutti. Nimbo, il protagonista, è mitopoietico, fabbricatore di parole. La comunità che crea con altri due ragazzetti si fonda sul loro amore per le parole. Questi tre bambini parlano come adulti, sono diversi dai loro coetanei. Sono soli. Esuli in patria, perché nessuno parla come loro. Anzi no.

«Siamo colpevoli di linguaggio, esclama Bocca.

Si, fa Scarmiglia. Il linguaggio è la nostra colpa.

Nessuno parla come noi, dice Bocca orgoglioso. Oggi, adesso, specifica.

Non è vero, dice Scarmiglia. Qualcuno c’è. (…)

Le Brigate Rosse, dice Scarmiglia. Loro parlano – o meglio scrivono – come noi. I loro comunicati sono complessi, le frasi lunghe e potenti. Sono gli unici in Italia a scrivere così» (p. 56-57).

Perché il linguaggio rende colpevoli? Perché foucaultianamente è un «dispositivo». Esso dis-pone, cioè configura le empiricità. In tal senso esso è potere, perché assoggetta quegli individui empirici a un codice, a un ordine (del discorso). Potremmo dire che il comunicato delle Br costituisca l’ultimo esempio del tentativo novecentesco di imbrigliare il mondo nelle parole, di dare un ordine al caos del mondo, di fabbricare il mondo. Tale pretesa intende dis-porre le individualità, le incanta e le incatena. Esse separano e ordinano il mondo. Le vittime/carnefici sono qui dei bambini. La forza del linguaggio delle Br è, infatti, nella sua semplicità «Perché l’obiettivo di queste frasi è distinguere. Come quando si divide in due la lavagna con il gesso per segnare i buoni e i cattivi » (p. 71).

Le frasi delle Br sono ancora belle, dice il piccolo narratore. Eppure egli già sente che, nel loro costringere il mondo in una frase, c’è già la morte. Sarebbe tuttavia errato attribuire questa violenza solo ai comunicati delle Br. Il romanzo di Vasta ci mostra che, dopo la scomparsa delle lucciole, cioè a partire dagli anni 70, è lo spettacolo – la televisione, il juke-box delle canzoni popolari, il cinema popolare (Bud Spencer e Terence Hill, Fracchia), la pubblicità – a mettere in atto dei processi di soggettivazione, cioè a configurarsi come dispositivo avente la capacità di modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. I bambini si appropriano o meglio riformulano il linguaggio rivoluzionario delle Br inventando un nuovo alfabeto, l’alfamuto, ancora più semplice delle frasi brigatiste e soprattutto sorprendentemente ispirato ai valori più banali e conosciuti della nascente cultura di massa (i bambini creano un linguaggio muto che si basa sui gesti di personaggi celebri come Raffaella Carrà, Mike Bongiorno, o di scene della pubblicità).

La spettacolarizzazione della società italiana è la linea, il filo fra Il tempo materiale e Spaesamento (Laterza, 2010). Qui lo scrittore racconta il suo ritorno rapido, tre giorni, nella sua città natale, Palermo. Innanzitutto egli continua il suo straordinario lavoro linguistico. Lo «stile di scrittura» di Vasta è in questo lavoro di scandaglio profondo del reale. La sua scrittura è in realtà una archeologia o, meglio, una entomologia. Tutto il reale è messo sotto il microscopio, nelle sue pagine passiamo dall’umano ai più diversi insetti e viceversa (instaurando veri e propri dialoghi, fra il delirante e un fiabesco che fa pensare a Collodi, fra uomini e animali). Penetriamo fin dentro gli strati geologici più antichi della Terra, dalle lucertole e le lumache ai dinosauri. In Spaesamento, appunto, Vasta dà un nome a questo suo lavoro. Egli parla di carotaggio. Tale tecnica consiste in prelievi di campioni di roccia che poi saranno analizzati per diversi usi (per scoprire risorse energetiche o per ricerche archeologiche, ad esempio). Questi campioni sono chiamati carote. In Spaesamento, il campione, la carota, per comprendere quello che accade in Italia è Palermo. Vasta sceglie cioè ancora una volta una dimensione periferica, financo insulare, per parlare della nostra storia. Il protagonista-narratore inizia a errare a Palermo, nell’afa estiva. Mare, spiagge affollate, negozi chiusi: tappe che gli servono per prelevare campioni di realtà al fine di «farmi un’idea di dove sono, a descrivere la forma di questo spaesamento». Egli si sente estraniato, alienato nella sua stessa città, il che gli procura non poche difficoltà nel muoversi e nell’agire. Ma, in realtà, è anche il campione stesso, la carota Palermo, cioè Italia, che è estremamente fragile.

Alla fine questo carotaggio gli rivela che l’Italia non esiste più in quanto materia: «il mio carotaggio non è altro che l’attraversamento di un fantasma proteiforme, di una materia immateriale che pervade ogni interstizio dell’esistente italiano» (p. 56). Berlusconi, il totem. Altri bambini sulla spiaggia affollata di Mondello attraversata dal narratore stanno costruendo un’enorme statua di sabbia con le lettere della parola Berlusconi. Ancora lettere, parole per dire il reale. Ma ora tutto è sabbia. Perché nella civiltà dei consumi, nata dopo la scomparsa delle lucciole negli anni 70, si è star per un giorno o due, o anche per vent’anni, ma poi non resta niente. Berlusconi, la nostra ossessione ventennale, è un fantasma, qualche lettera di sabbia, forse l’ultima, provvisoria, sintesi di uno spettacolo, che continuerà domani con altre immagini, altri nomi.

Quello che è certo è che Vasta non risparmia nessuno. In questo suo lavoro linguistico, in questa sua critica del linguaggio come dispositivo, aspettavamo di attaccarci ad una via di salvezza, assolutamente linguistica. Se il linguaggio è sempre un esercizio di potere, forse un altro modo di parlare (naturale, popolare, spontaneo) avrebbe potuto rappresentare una fuoriuscita dallo spettacolo. Il dialetto, i dialetti come forza dirompente del codice, e invenzione del nuovo, costituiscono una costante della letteratura italiana. E invece in Vasta chi parla in dialetto è deforme: c’è questa amara constatazione nei due romanzi. Sia nel Tempo materiale che in Spaesamento, le «famiglie dialettali» vengono dipinte senza nessuna pietà. Il dialetto non è più risorsa, strategia per uscire dalle logiche del potere, è solo un suono sgradevole, un colpo per gli altri (uno sputo in faccia). Niente di più antipasoliano si direbbe. Eppure, queste pagine, in un ipotetico tribunale, potrebbero costituire una eccellente testimonianza a favore dell’articolo delle lucciole di Pasolini. Sì, è vero, quel poeta aveva ragione. La scomparsa delle lucciole ha significato la morte delle lingue, delle culture, dei popoli in Italia. Ha prodotto la «mutazione antropologica» degli italiani. Questa mutazione ha imborghesito, cioè livellato i caratteri, anche somatici, dell’italiano medio, il suo modo di essere, la sua cultura, ma ha ridotto in modo ancora peggiore la plebe, quella che parlava il dialetto, e che oggi ha perso financo la capacità di articolare suoni.

Insomma, Vasta recepisce radicalmente il discorso di Pasolini sulle lucciole. Oggi, nella società dello spettacolo, nel luccichio costante di tubi catodici, sulle linee fosforescenti di internet, sotto i riflettori dei grandi eventi (concerti, partite di calcio, ecc.), sotto i led delle gallerie commerciali che invadono ormai anche quel bellissimo grigio delle stazioni ferroviarie, la cultura – l’unica possibile, quella popolare – è morta. L’intelligenza stessa che, pure naturalmente sgorga ancora in Italia, non rappresenta più niente: «Questa intelligenza fa parte della resa» (p. 107). Le lucciole non ci sono più. Sono morte cioè le differenze. Morte delle differenze vuol dire morte della possibilità stessa di resistere. Si possono forse capire delle cose, ma è morta la possibilità di mutarle. L’undicesima tesi feuerbachiana di Marx sconfessata definitivamente. TINA: there is not alternative. Tutto è nero. Notte profonda, sull’Italia, sull’Europa, sul mondo.

Ora, Giorgio Vasta, nella sua ricognizione disperata del presente, trova ancora qualche fioca luce di speranza. Tutti siamo coinvolti e colpevoli, dicono le diverse voci narranti dei romanzi di Vasta. Tutti lo siamo perché tutti siamo presi in meccanismi di potere, a partire dal primo grande «dispositivo», il linguaggio. Allora forse occorrerebbe stare un po’ zitti. Nel Tempo materiale gli unici personaggi che conservano qualche forma di umanità, sono Cotone, il fratellino del protagonista, e la bambina creola (e, in parte, la stessa vittima, Morana). Non dicono una sola parola o solo qualche sillaba. La bambina creola è anche veramente muta. Sono, come scrive Vasta, «organismi non verbali». È proprio nel silenzio della bambina che Nimbo capirà il male fatto, il male delle e attraverso le parole:

Cosa ne è stato del tempo profondo che avevo immaginato, il tempo morbido, liquido, il tempo materiale che mi avrebbe dissetato? Perché al suo posto ci sono le parole, migliaia di frasi, questa ordinata strage di insetti? Perché balena ancora il linguaggio quando vorrei solo entrare nel silenzio, nel tuo silenzio, e piangere, smettere di sentirne solo il bisogno e piangere? (p 270).

La questione dell’ultimo capitolo del Tempo materiale, il capitolo del pentimento e cioè dello svelamento amoroso (il bambino si pente perché ama) diventa allora proprio questa: «come si entra nel silenzio?», cioè «come si evita la volontà di potenza delle parole?» oppure «come si preserva la capacità infinita delle parole senza ingabbiarle?». La bambina è muta, ma è anche «creola» e quindi essa apre verso il mondo del silenzio, ma pure ad un mondo di creazione continua della lingua, come notava giustamente durante il dibattito di Lille, il filosofo Amato. La bambina, di fronte a un linguaggio unico, violento, totale, dice il suo silenzio, tacendo. Lei, creola, la voce del molteplice, evita di prendere la parola in un mondo in cui la parola è stentorea e mortale. Si sottrae ai meccanismi del potere, destituendoli. Lei parla perché è muta.

La prospettiva delineata da Vasta è quella di una diminuzione dell’arroganza dell’umano, di una sua metamorfosi nel grande ciclo della natura infinita. Una conclusione che fa pensare ad un altro siciliano, Pirandello, ma più generalmente alla grande tradizione materialistica «italiana», da Lucrezio, a Bruno e Leopardi. Autori legati dall’idea che l’uomo sia una «minuzzaria», un «pulviscolo di atomi» nell’universo infinito. Quando avrà capito questo Nimbo si unirà, non oggi né domani, ma in un tempo stellare, in un amore cosmico davvero lucreziano, con la sua bella e si potrà pentire e finalmente piangere.

Non è una conclusione disperante. Il romanzo sulla storia degli anni 70, il romanzo di formazione, la favola dei bambini terroristi è in realtà innanzitutto un romanzo d’amore. Allora qualche flebilissima luce appare anche nel mondo di Vasta:

A un metro da me, sul pavimento, in un alone chiaro rarefatto c’è qualcosa che brilla. Strofinando sulle mattonelle mi allungo e raccolgo quella microscopica luce tra le mani. Attraverso la fosforescenza riconosco il corpo leggermente rannicchiato, le braccia già schiuse a benedire, un piccolo nimbo di plastica incollato dietro la testa (p. 274).

Se Pasolini considerava morte le lucciole in Italia, spente tutte le luci di una possibile nuova resistenza, Vasta, nonostante il dolore del mondo e il buio che ci circonda, lascia baluginare ancora qualche lontana, sommessa fosforescenza.