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Nel bosco degli Apus apus

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di Mariasole Ariot

 

Apus apus: “Una sua peculiarità è quella di avere il femore direttamente collegato alla zampa, tanto che il nome scientifico deriva dalla locuzione greca “senza piedi”. Questa sua caratteristica fa sì che non tocchi mai il suolo in tutta la sua vita; infatti se disgraziatamente si posasse a terra, la ridotta funzionalità delle zampe non gli consentirebbe di riprendere il volo”. Quindi dorme in volo.

Il corpo urta sugli spigoli non per eccesso di ossa ma per un compendio di niente. Mi accorgo della grande solitudine del cielo, di questo filo tirato tra un muro e l’altro per appendere gli impiccati.

Ce ne stiamo lì a guardare, ogni mattina, come fossimo un pubblico in fila al concerto, o alle poste, ci spintoniamo per guardare il massacro.

Io vivo, lui non vive, io non vivo. Lui si ritrae nella cantina. Io mi affaccio. Lui vede il bulbo, io vedo il fiore. Lui mi pettina i capelli con il rastrello, io preparo la camomilla.

Quanto manca al primordiale? Amare ha un nome proprio. Io ho perduto il mio.

Amarcord Poétique : Italo Testa

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Nota

di

Alida Airaghi

Questi versi di Italo Testa interrogano il lettore -emozionandolo, anche- già dal titolo, che (al di là del riferimento al gruppo punk inglese Joy Division) non allude come ci si aspetterebbe a una “condivisione” della gioia (tra l’autore e chi legge, tra protagonista recitante e deuteragonista che ascolta), bensì a una sua “divisione”: quindi a una frammentazione, a una non totalità e non completezza, ribadita in tutti e tre i capitoli che compongono il libro. La cui nota dominante è senz’altro una rassegnata malinconia, attualissima però, disincantata in un soliloquio che tenta vanamente il dialogo, con alle spalle uno scenario grigio, silenzioso, di smobilitazione post-industriale. E opportunamente il poeta cita, in esergo alla seconda, splendida sezione, una frase di Edward Hopper: perché proprio agli interni disadorni e ai desolati esterni del pittore americano sembra rifarsi l’ambientazione dei suoi versi (“I was more interested in the sunlight on the buildings and on the figures than any symbolism”).

Eccoli, dunque, gli interni raccontati da Testa nelle quattro parti in cui si suddivide la sezione che dà il titolo al volume: “un interno spoglio e taciuto…a telefono spento…nello specchio marmoreo di un tavolo…le grate che spartivano il vetro…i gradini lucidi…di sbieco su una sedia…in una stanza anonima, spoglia…in una stanza vuota”: un crescendo di non appartenenza, in cui si muove la coppia di amanti. Il poemetto (che è poi una lunga lettera d’amore, sfiduciata eppure tenera, delusa dalla propria non-passione, rivolta a una lei sempre lontana anche quando viene descritta nella sua fisicità più intima), ha un ritmo lento e avvolgente, assolutamente musicale, nella pacatezza delle sue rime e di una metrica tradizionale però mai scontata, priva di qualsiasi brusco scarto formale. Una bassa marea di sonorità, che accompagna queste immagini dal sapore cinematografico (campi lunghi, sfondi dai colori tenui, una natura indifferente se non ostile alla presenza umana): i luoghi sono quelli, padani, pianeggianti, del delta del Po. E gli echi letterari (una presenza costante del primo Montale: come non ricordare Dora Markus?) rimandano forse alla narrativa di Bassani (le bellissime pagine de “L’Airone” trovano un’empatica rispondenza in questi versi); ma anche a Celati, a Tonino Guerra, e ad altri visionari della pianura tra Veneto ed Emilia.testa

Gli esterni non sono più partecipi dell’avventura umana di quanto lo siano gli interni: “spazio deserto…sotto un lampione astioso…la fissità del cielo…statue mute…i tetti opachi e le lamiere arroventate…la distesa dei campi d’acqua…case abbandonate…fabbriche addormentate…l’armatura dei pilastri…erbe matte sul terreno…mattoni e lamiere ondulate…”). E la nebbia, il silenzio, in cui si muovono i due protagonisti, sospesi, incapaci di vera comunicazione. Italo Testa recita le sue parole in prima persona, si rivolge a un tu che stenta a raggiungere, a toccare concretamente: i due amanti sono descritti spesso in piedi, “appoggiati”, “affacciati”, zitti e in attesa, quasi a chiedere conforto e sicurezza alla realtà dei muri, dei balconi, degli oggetti. E non trovano certezza nei loro gesti, nei pensieri, nei reciproci abbandoni: “così aspettiamo giorno per giorno,/ un foglio in mano, lo sguardo perso”, “la fragilità ci insidia dall’interno”, “stiamo lì, col capo arrovesciato/ un po’ assonnati sopra il letto,/ le gambe appena reclinate/ contiamo le pieghe sul lenzuolo”, “il braccio nascosto tra le gambe, la luce sulle mie cosce nude,/ la mano a coprirti il pube”. In un’estraneità sofferta, immodificabile: “saremo corpi in attesa, tronchi/ riversi, distesi tra le cose”.

La stessa incomunicabilità che ricorda i film di Antonioni, e, come già detto, l’angosciante desolazione dei quadri di Hopper, la ritroviamo nelle altre due sezioni del volume: “Cantieri” e “Delta”.  Quest’ultima ancora centrata sui temi sentimentali della precedente, espressi in versi più veloci e orecchiabili, al limite del cantato, con qualche concessione alla retorica di più facile presa. Il paesaggio è sempre segnato da pioppi e argini, nebbia e neve, rami-confluenze-strade come si conviene in un delta, entro i cui confini i due protagonisti si cercano e si sfuggono, trincerandosi in rapporti sessuali veloci e talvolta colpevoli, chiedendosi e negandosi aiuto reciproco. I colori non transigono, severamente sfumando dal bianco al grigio, “nel polverio/ di una geografia remota” che non sembra conoscere l’indulgente abbandono al sole, al calore, alla luce.

Decisamente più originali sono invece le poesie della prima parte, ambientate nelle periferie industriali di Marghera, tra pale meccaniche, cisterne, torri e silos, container, gru, pilastri di cemento, cavi dell’alta tensione, tralicci, rimorchi; tra fabbriche disumane dai nomi inclementi (Fincantieri,  Saipem, Crion), in orari albeggianti di “luce polverosa” e proletaria. Eppure in questi versi privi di rabbia e semplicemente descrittivi, che si limitano a constatare una realtà perdente e umiliata, aleggia uno stupefatto e accorato sentimento di solidale comprensione, e pietà, per le persone, la loro vita e la loro storia, che avvicina il lettore alla verità disadorna della poesia più autentica.

 

Italo Testa, La divisione della gioia – Transeuropa Ed-Massa 2010 – Euro  9,50 – Pagine 75

 

Juan Pablo Villalobos. “Se vivessimo in un paese normale”

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(L’incipit del romanzo di Juan Pablo Villalobos, Se vivessimo in un paese normale, Gran Vía, 2014. – Lagos de Moreno, Messico, fine anni Ottanta: in una catapecchia alla periferia del paese vivono il tredicenne Oreste e la sua scombinata famiglia…)

VillalobosProfessionisti dell’insulto

«Va’ a farti quella gran puttana di tua madre, bastardo! Vaffanculo!»

Sì, lo so che non è il modo migliore per iniziare, ma la mia storia e quella della mia famiglia sono piene di insulti. Se devo raccontare le cose per come sono successe veramente, dovrò scrivere un sacco di parolacce. Giuro che non c’è altro modo, perché la storia si svolge nel luogo in cui sono nato e cresciuto, a Lagos de Moreno, Altos de Jalisco, regione che per sua maggior disgrazia si trova in Messico.

Astronomi di costellazioni linguistiche- Gaetano Delli Santi

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“Astronomi di costellazioni linguistiche”: serie di incontri con scrittori sperimentali che proseguono da anni una ricerca sulla lingua e sulle forme letterarie. Dialogando con loro, che leggeranno brani editi o inediti, indagheremo il come e il perché delle scelte adottate, in molti casi tese a evadere dai limiti di convenzioni sentite come assurde, restrittive o molto povere rispetto alle potenzialità del linguaggio e del narrare.

Terzo appuntamento: 30 marzo, H. 18.00, con Gaetano delli Santi, scrittore.

“L’udito ci indica la strada per vedere, così come la vista ci indica la strada per udire. L’udito aguzza la vista quando la vista aguzza l’udito.  Difatti noi siamo quell’udito di vista ascoltata di cui la vista dispone e dispone la vista che gli occhi non possano vedere senza aver udito l’orecchio che vede.”

Gaetano delli Santi. Nato a Vieste nel 1959, vive a Milano. Negli anni novanta ha fatto parte della Terza Ondata dell’avanguardia. Con il testo “defungi scelere” ha vinto l’anti-premio Feronia per la prosa (1993). Ha inoltre pubblicato poesie (tra cui “Il resto ve lo dirò dal mànfano”), prose (tra cui “Mottetti e monologhi di uno schizoide”) e saggi, in particolare sul rapporto fra Barocco e avanguardie. E’ in corso di pubblicazione un suo lungo romanzo che reinterpreta la figura del Faust.

Il ritardo all’asilo

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bambi II  di Andrea Inglese

Quando è venuto il momento di portare la bambina all’asilo, è stato un momento solenne, è banale ovviamente portare il proprio bambino all’asilo, dal momento che tutti i bambini vanno all’asilo, salvo quelli che vengono piazzati dalle balie, o negli asili privati, l’asilo comunale, in fondo, è meno banale di quanto si pensi, infatti la madre aveva dei timori, e oltre i timori, probabilmente, delle angosce, non dico enormi, ma era più allertata di me, più pensierosa, quando preparava il biberon della bimba aveva uno sguardo cupo, come se ci fosse il rischio di avvelenarla con una dose sbagliata, come se il latte invece di un normale nutrimento fosse una medicina, di quelle con possibili effetti indesiderati se non viene dosata,

Trafficare con i piedi

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trafficdi Gianni Biondillo

La storia della medicina ha visto nascere quasi contemporaneamente, nell’Ottocento, le pratiche anestetiche e quelle di sterilizzazione degli ospedali. La chirurgia cambiò radicalmente, oggi non riusciremmo a concepirla altrimenti. Se dapprima i dottori dovevano operare in tutta fretta, ed anzi la loro velocità era un merito perché evitava atroci sofferenze ai pazienti, oggi, in camere asettiche, possono con tutta calma lavorare di fino sul corpo malato. Ebbene, la cosa curiosa è che questi due capisaldi della chirurgia moderna, che oggi diamo per assodati, ebbero a suo tempo fortune ben differenti. L’anestesia ebbe un successo immediato nella comunità scientifica. Era il 1846 quando a Boston il dottor Morton utilizzò l’etere per addormentare un paziente, permettendo così al dottor Warren di poter operare all’asportazione di un tumore al collo. Neppure un anno appresso, nel 1847, ci fu la prima applicazione di etere come anestetico in Italia, all’Ospedale Maggiore di Milano. Ben altra storia ebbe l’idea che i medici dovessero lavarsi abbondantemente le mani, che i pazienti dovessero essere ricoverati in ambienti sterili, che le operazioni venissero fatte in ambienti protetti. Per decenni la medicina ha guardato con sospetto tali teorie. Spesso i chirurghi si mostravano in corsia, come beccai, coi camici insanguinati, a prova del loro alacre lavoro coi ferri. È che mentre l’anestesia aveva una sua evidenza immediata – il paziente dormiva, il medico operava, il risultato era alla portata intuitiva di tutti – accettare invece che microrganismi invisibili potessero agire sulle ferite aperte sembrava un po’ fantasioso anche agli uomini di scienza dell’epoca. L’aspetto meccanico della chirurgia sembrava prevalere come cornice di riferimento, al punto di non trovare contraddittorio il fatto che molte operazioni fossero perfettamente riuscite ma il paziente morisse ugualmente. Per infezione, ovvio. Ovvio per noi oggi, molto meno all’epoca.

Ebbene ogni volta che sento parlare di mobilità privata, di inquinamento, di chiusura dei centri storici, di ZTL (Zona a Traffico Limitato), ripenso sempre a questo aneddoto. Ciò che per noi è ovvio e di buon senso spesso non ha ancora raggiunto la sua evidenza per tutti. Esiste una sorta di resistenza al cambio di modalità, la paura di perdere un privilegio è più potente della speranza di un guadagno ben più fruttuoso, anche se non così immediatamente evidente.

armanÈ una questione di narrazione. Ci siamo lasciati ammaliare dal mito della libertà assoluta che un’automobile porta con sé. Liberi di muoverci ovunque, dove ci pare, quando ci pare. Guardate le pubblicità dei produttori di autovetture: macchine che sfrecciano libere immerse in paesaggi incontaminati, nessun vincolo, tutto può essere raggiunto dalla nostra volontà. L’esaltazione del solipsismo, l’individualismo fatto lamiera e gomma. Potenza della propaganda, capace di farci vedere quello che non c’è. L’arte, rispetto alla propaganda, si comporta in modo differente. Qualcuno forse ricorda quando Ico Parisi, nel 1991, realizzò un’installazione in Piazza Cavour a Como: un’automobile imprigionata in un cubo di cemento. Opera che dialogava con altre esperienze europee, come quella di Arman che, nel 1982, aveva realizzato una scultura fatta dalla sovrapposizione di 59 automobili affogate in 1600 tonnellate di calcestruzzo, o con César che decenni prima comprimeva come uno sfasciacarrozze le automobili fino a ridurle a cubi, liberando lo spazio che occupavano e dimostrando la loro intrinseca essenza di scarto.

Comp17 1aaSiamo tutti amanti della natura e tutti ci lamentiamo del tasso d’inquinamento delle città, però appena una amministrazione comunale cerca di agire concretamente, limitando il traffico privato, aumentando la pedonabilità, etc., si scatenano le critiche più radicali. Va bene tutto, ma nessuno può impedire la libertà di muoverci in macchina! Libertà che ovviamente non esiste. Basta girare per una qualsiasi strada a grande scorrimento, e non solo nelle ore di punta, per capire che siamo tutti imprigionati in un cemento invisibile ben più consistente di quello delle provocazioni artistiche. La libertà di fare quello che ci pare e piace non esiste, è un mito pubblicitario. Spesso ci vuole davvero poco per prendere una pessima abitudine poi difficile da scrollarci di dosso. Sembra che siamo sempre stati animali meccanizzati, sembra che camminare sia cosa che non ci sia mai appartenuta. Qualche mese fa ero ospite di una manifestazione in Sardegna. Accoglienti come sempre, gli organizzatori pretendevano di portarmi in macchina tutti i giorni dall’albergo alla fiera del libro. “È dall’altra parte del paese” mi dicevano preoccupati. Cioè a soli dieci minuti a piedi. Dieci, andando con calma. Loro, nipoti di pastori transumanti. E così in tutto lo Stivale. L’automobile è stata la concreta rappresentazione dell’emancipazione dalla povertà. Camminare è da poveracci. Ci fregiamo di possedere il più alto numero di bellezze storiche e artistiche, ma vogliamo raggiungerle in macchina. E trovare parcheggio proprio di fronte alla cattedrale che andiamo a visitare. Dalla costiera amalfitana ai Sacri Monti sembra che l’unico modo di valorizzare il nostro patrimonio artistico sia costruirci affianco uno smisurato parcheggio. Per meglio usufruire del bello.

È chiaro che questa narrazione tossica deve cambiare. I nostri nipoti non riusciranno a capire come sia stato possibile aver accettato per decenni – non ostante gli allarmi lanciati da tutti gli scienziati del globo terracqueo – di ingerire veleni e deturpare il paesaggio nel nome di una falsa libertà individuale. Perché che esista un legame assodato fra polveri sottili e salute pubblica è cosa ormai innegabile. Si potrebbe quasi citare alla Corte dell’Aja la politica nazionale per tentato disastro sanitario e crimini contro l’umanità. L’esposizione acuta all’inquinamento atmosferico danneggia le vie respiratorie, il sistema cardiovascolare, peggiora la meccanica respiratoria, altera i meccanismi di regolazione del cuore. Non c’è pneumatologo che non ci dica quanto gli effetti sulla saluta dei Pm10 e Pm2,5 siano gravi e molto spesso cronici. Molti studi, fatti soprattutto all’estero, associano i livelli d’inquinamento col numero di ricoveri e morti quotidiani per cause respiratorie e cardiovascolari.

Il problema è che tutto questo “non si vede”. Proprio come nell’Ottocento, che non c’era l’evidenza immediata dei benefici della sterilizzazione. Il mito dell’automobile come simbolo di emancipazione è potente. Nessuno dice che non serva, persino io che non ho la patente. In una nazione che ha un sistema di mobilità pubblica deprimente come il nostro si crea una sorta di circolo vizioso: un italiano su dieci si muove coi mezzi pubblici perché, come ci viene detto, chi abita lontano non può muoversi mancando una rete pubblica degna. Però è anche vero che praticamente nessun pendolare condivide il tragitto casa-lavoro con i colleghi (risparmiando, tra l’altro, soldi e spazio occupato) e, peggio, quasi la metà di chi si sposta in macchina abita a neppure mezz’ora dal posto di lavoro. In bicicletta ci metterebbe meno!

600_multipla_pfCi sono alcune famose fotografie degli anni del boom economico dove si vedono graziose famiglie sedute in un parco a fare un picnic con la loro 500, o 600 cabrio, che li guarda, gomme sul prato, protettiva. Queste immagini sembrano quasi dirci che noi italiani siamo sempre stati così, menefreghisti del bene pubblico, incapaci di fare due passi a piedi o di prendere una bicicletta quando il semplice buon senso ce lo consiglierebbe. Insomma, nel conto della modernità lo scotto del caos automobilistico urbano dobbiamo pagarlo, non siamo mica olandesi, loro sono sempre stati così! Bugia. Negli anni del boom economico anche Amsterdam era nella morsa dell’inquinamento del traffico privato, e i pochi che si muovevano in bicicletta venivano investiti tanto quanto a Milano, Roma o Palermo. Poi la politica, cioè la gestione del bene comune – questo dovrebbe essere la politica! – valutati o pro e i contro, decise di cambiare le pratiche della mobilità, anche contro l’opinione dei molti, moltissimi automobilisti. Gli olandesi non sono naturalmente ciclisti, lo sono diventati. Così come il numero più alto procapite di biciclette in Europa non ce l’ha Amsterdam ma Ferrara. A dimostrazione che anche noi italiani possiamo, volendolo, cambiare le abitudini quotidiane e migliorare la qualità globale della vita di tutti.

auto parcoLa questione classica che viene posta, quando si propone una ZTL, è sempre la stessa: ma così, chiudendo alle macchine votiamo a morte sicura il commercio minuto. Nessuno vorrà più comprare se dovrà farsela a piedi, andranno tutti nei centri commerciali. Anche questa è una narrazione tossica, un sillogismo falso. Non voglio neppure entrare nel merito su quanto sia devastante il consumo di suolo e di energia di un centro commerciale. Non voglio parlare di quanto sia opaca la gestione del flusso di denaro che ha fatto sorgere dal nulla sull’intera nazione questi centri, spesso vere e proprie lavatrici di soldi sporchi accumulati dalla criminalità organizzata. Neppure voglio dire di come sia un modello insediativo nato in un paese che ha dimensioni e tradizioni completamente differenti, imposto d’imperio qui, come prototipo unico della modernità. Lasciamo stare, tutto questo potrebbe sembrare un discorso “ideologico”. Arriviamo alle cose concrete, evidenti. Cosa facciamo quando andiamo in un centro commerciale?

SITE parkPrendiamo la macchina, ovvio. Ci allontaniamo dal centro storico, ci incuneiamo in quale tangenziale ingorgata, troviamo finalmente l’uscita, posteggiamo in un parcheggio grande come due campi di calcio (mi viene in mente il “Ghost Parking Lot” dei SITE, dove le macchine, calcificate, ormai sembrano reperti archeologici), quasi sempre lontanissimo dall’ingresso, camminiamo in mezzo a tonnellate di lamiere per raggiungere finalmente l’entrata e poi finalmente dentro… camminiamo. Per ore. Camminiamo come fossimo per strada in un finto centro storico, kitsch fino all’inverosimile. Camminiamo per false piazzette, ci fermiamo a prendere un caffè in finti dehors, acquistiamo cose in pseudo negozi arredati come fossero finto-antichi. Bella contraddizione. Poiché non si può andare in macchina nel vero centro storico a comprare cose nei veri negozietti e prendere un caffè negli autentici bar delle vere piazze antiche, preferiamo prendere la macchina per andare in un luogo falso dove non facciamo altro che camminare come fosse autentico. Puro surrealismo.

I negozianti dei centri storici o sono miopi o forse fingono di non vedere che se la gente va nei centri commerciali è per colpa della politica della grande distribuzione che abbatte i prezzi e fa concorrenza sleale, mica perché la gente non ha voglia di camminare. Se esistessero politiche commerciali differenti, capaci di proteggere la vendita al dettaglio, se si riuscissero a ideare tecniche innovative e concorrenziali da parte delle associazioni di commercianti, l’intera categoria potrebbe vivere di rendita di posizione. La pedonalizzazione dei centri storici, là dove abbiamo depositato la nostra identità comunitaria, dovrebbe essere ovvia. Dovrebbe diventare un plus, non un disvalore. Certo occorre cambiare le pratiche quotidiane, inoculare nella testa di tutti che girare in macchina è da sfigati, che è molto più intelligente, per l’equilibrio psicofisico di ognuno e per la salute di tutti in generale, potenziare i mezzi pubblici, sviluppare la mobilità dolce. È proprio questo salto di paradigma la cosa più difficile da fare in un popolo in fondo pigro al cambiamento quale il nostro. Eppure questo salto è ormai improcrastinabile, se non vogliamo essere ricordati con stupore e imbarazzo (per non dire di peggio) dalle prossime generazioni.

 

(Pubblicato su L’Ordine, inserto de La Provincia di Como, il 23–03–2014, in una versione assai più breve.)

 

Trivio a Milano

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Milano, venerdì 28 marzo 2014, alle ore 21.00

presso la Libreria Popolare

via Tadino 18 (MM Porta Venezia)

 presentazione della rivista

[trivio] poesia, prosa, critica

unoduemilatredici

trivio

Introduzione critica di

Paolo Giovannetti e Antonio Loreto

Letture poetiche di

 Daniele Bellomi, Alessandro Broggi, Chiara Daino,

Laboratorio Defunto Bib(h)icante, Domenico Lombardini Manuel Micaletto

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 Indice del numero:

Editoriale

Antonio Pietropaoli

Presentazione
Marco Berisso e Antonio Loreto ( a c. di)

Antologia di poeti liguri e lombardi

Federico Alberto * Laboratorio Defunto Bib(h)icante *
Chiara Daino * Domenico Lombardini * Luciano Neri * Luca Villani *
Daniele Bellomi * Alessandro Broggi * Dome Bulfaro * Carlo Matteo
Dentali * Manuel Micaletto

Giorgio De Marchis, Tabucchi-Pessoa

Tommaso Ottonieri, Partirsi

Gabriele Belletti, La cosa oltre il caos: il Trovarsi Altrove di L. Erba

11!

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eleven

 

 

 

 

Già undici anni? Come passa il tempo quando si sta bene assieme…

 

 

 

Un poeta russo del sottosuolo

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Aizenberg di Michail Ajzenberg

traduzione e nota* di Elisa Baglioni

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Per irrompere con un folle discorso diretto.
Per liberarsi d’un fiato.
Non filtrare parole.
Non fasciare d’ovatta.
E non ardere come il fuoco fatuo della pratica intellettuale.
No, non sono di grande valore culturale.
Non sono un uomo di cultura.
Sono un uomo di nostalgia.

Bentornato Uwe Johnson. La parola ai traduttori: Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti

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(Da pochi giorni è in libreria il terzo volume de I giorni e gli anni – Jahrestage – romanzo monumentale dello scrittore tedesco Uwe Johnson, che lo pubblicò in quattro parti tra il 1970 e il 1983. Di recente (o forse no) i primi due volumi erano usciti nelle Comete di Feltrinelli: nel 2002 e 2005. Adesso il testimone passa a L’Orma Editore, che lo raccoglie completando la tetralogia. Il quarto e ultimo volume sarà pubblicato entro un anno circa. I primi due torneranno, sotto il “segno” dell’Orma, entro l’estate di quest’anno. Tutto sembra cambiare, ma resta la continuità della traduzione, affidata ancora a Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti. Ho inviato loro qualche domanda. Hanno risposto regalandoci il testo che segue. D.O.)

Drink Me

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paura di Francesca Matteoni

schiudi:

sangue
latte
saliva
lacrime che si allargano
riflettono sagome e volti

devi avanzare a rapide bracciate
finché si secca il mare
sui tuoi bordi.
Vedi fluire
al vetro del fondale
i liquidi
che ti escono dal corpo.
Si fermano.

Reader’s digest: Filippo Deodato

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The_Brothers_Karamazov_by_LordShadowblade

Un incontro inatteso

di

Filippo Deodato

Aveva terminato la sua lezione su I Fratelli Karamazov quel pomeriggio. Aveva chiarito a se stesso e forse anche ai ragazzi presenti ad ascoltarlo, che le figure del Cristo e del Grande Inquisitore, convivono nel fondo dell’anima di ciascun uomo. Il giorno che si stava consumando volgeva rapido verso quella fase, che prende, nel tepore delle case, la forma dell’agognato riposo; niente aveva più da chiedere a quella mente stanca, che lenta, stemperava la sua estenuante tensione. Eppure, scritto segretamente nell’immediato futuro, c’era ancora qualcosa che lo attendeva e che avrebbe risvegliato nuovamente, di lì a poco, la sua attenzione; qualcosa che del resto aveva spesso vagheggiato nelle sue innumerevoli e malinconiche fantasticherie.

– Ciao Nathan, ci sentiamo presto. Oggi devo correre a fare la spesa e poi passare a ordinare il Dvd che ci servirà per il prossimo incontro – aveva detto prima di congedarsi da lui la sua amica e collega con la quale aveva ideato il progetto che una volta alla settimana li teneva impegnati di fronte trenta studenti di un liceo di periferia. – Ma no Carla, potrei prenderlo io il film. Di recente l’ho visto esposto nella libreria del centro commerciale che sta proprio lungo la strada che faccio per tornare a casa – rispose con naturale cortesia. – Oh caro, te ne sarei grato davvero se lo prendessi tu. Allora buona serata e … A martedì! –. Nathan si diresse verso il negozio ad effettuare l’acquisto come aveva promesso.

La libreria era semivuota, pervasa dagli umori eterogenei dei clienti che nell’arco dell’intera giornata l’avevano popolata. Una volta rimanere davanti a tutti quei libri senza sceglierne uno da portare via con sé, sarebbe stato impensabile; che la lettura compulsiva degli anni passati avesse molto spesso frenato i suoi slanci creativi più che alimentare un autentico desiderio di conoscenza, oggi rientrava tra le sue consapevolezze. La scrittura che aveva per anni mormorato dentro di lui come una vocazione silenziosa e immanifesta era ormai diventata una sorta di guardiano, e al contempo, un prezioso strumento che poteva dar voce all’impellente necessità presente nei recessi più profondi del suo essere; lo aiutava a perforare quel muro  che blindava la sua frustrata sensibilità.

Passò con una rapida occhiata le novità impilate e ben in vista, sdraiate come seducenti sirene sugli scogli; lambì con lo spirito il suo reparto prediletto costellato di antiche e nuove costruzioni narrative. Sogguardò sprezzante la saggistica solida e velleitaria, tutta tesa a spiegare le tortuosità dell’attualità politica, prima che un rifiuto animalesco lo spingesse oltre, verso i quadri e i disegni che raccontavano la storia dell’arte. Una spossatezza sempre più grande respinse persino la bellezza dell’arte figurativa. Come dimentico del motivo che lo aveva portato fin lì, cercò allora i ripiani che ospitavano la fotografia, per documentarsi su uno degli autori contemplati nel suo progetto scolastico. Provò ad immergersi nel mondo colorato di McCurry; lesse, rimanendo impermeabile al loro significato, i commenti che raccontavano la complessità di quei luoghi tanto distanti, che il fotografo aveva percorso con coraggio, quando la sua distrazione, fu scossa dal calore di un’altra presenza. Un uomo sulla sessantina, ben vestito, sfogliava con garbo uno dei volumi sulla storia fotografica di Roma. Nathan gettò un rapido sguardo sulle pagine aperte del catalogo. Una foto che ritraeva Roma ai primi del ‘900 con al centro un calesse sopra una strada interamente allagata, fu il luogo cui conversero i rispettivi bisogni di manifestare un recondito, quanto umano, desiderio di comunicare.

– Non sembra cambiata molto da allora; gli stessi problemi avviliscono gli splendori della capitale – proruppe l’uomo iniziando la conversazione. – Forse sono cambiati solamente i mezzi di trasporto – rispose scherzosamente Nathan. I due avevano deposto dal suo trono la regina che spesso decide le nostre solitudini; il regno della diffidenza si era arreso alla loro volontà di aprirsi l’uno all’altro. All’uomo sembrò opportuno continuare il discorso che aveva audacemente cominciato. Sfruttò a pieno l’argomento per distillare con disillusione i torti subiti negli ultimi anni; dalla sua amarezza zampillavano ininterrotte condanne all’economia del suo paese e all’intera classe dirigente. Nathan reagì stizzito ma dissimulò il suo stato sforzandosi di non interrompere il flusso di parole e di non chiudersi come molte altre volte aveva fatto. Gli fu più chiaro adesso, il motivo per cui la politica finisce per imporsi su qualsiasi altro tema. – Lo sa lei che la Telecom era una delle aziende più ricche del mondo con i suoi 240.000 impiegati, oggi ridotti ai soli 50.000? Siamo stati gli inventori della carta prepagata e del Gsm; ma stiamo diventando un popolo di individualisti. Stiamo perdendo irreversibilmente l’idea di comunità. Le dico ancora una cosa: molti anni fa una delle case automobilistiche tedesche era sull’orlo del fallimento; molti operai rischiarono di essere licenziati.

Decisero allora per il bene di tutti con un encomiabile atto di civiltà di abbassarsi lo stipendio. Oggi la Volkswagen è uno tra i tanti vanti dell’industria della Germania. – Nathan annuiva passivamente, temendo di ascoltare l’ennesimo sollecito che lo invitava a trasferirsi in uno stato più sano, più prospero. Invece, quell’uomo che era vissuto in molte parti del mondo, smentì la sua tacita previsione, chiedendogli improvvisamente se aveva mai veduto il monumento dell’olocausto eretto a Berlino; esaltò il genio dell’architetto che lo aveva progettato e poi recitò alcuni versi in tedesco che il fascino di quell’opera gli avevano ispirato. Lo fece con voce fioca biascicando le parole. I suoi occhi presero ad inumidirsi; divennero una sorta di acquario dove smarrita nuotava la sua commovente fragilità. Proseguì esponendo le ragioni che avevano destato in lui tanta ammirazione: – Il memoriale della Shoah mi ha dato la possibilità di vedere il confine dove convivono l’amore e la morte. – disse sommessamente l’uomo – Lei la conosce la sua struttura? – Nathan fece si con il capo. – Poter vedere tra le fessure che dividono le stele commemorative, bambini saltellanti o lo sfilare ansimante dei turisti è uno spettacolo incredibilmente suggestivo! –. Nathan ascoltò con trasporto, senza afferrare  fino in fondo il senso di quella singolare descrizione. Ripresero a parlare di politica, o meglio di tutti quegli attori politici che con ineguagliabile impudicizia e inverecondia, negli ultimi anni, avevano contribuito a gettare nel disincanto milioni di cittadini.

Nonostante i due si conoscessero da così poco tempo l’uomo confessò a Nathan un segreto che forse da qualche anno portava con sé: – Sa, lei è giovane ed ha ancora dentro di sé quella che si chiama speranza. Io non solo temo di averla perduta ma mi sento di dirle che mi spaventa l’idea di affrontare la mia vecchiaia in un paese che sembra non solo disconoscerne il valore ma che lascia i vecchi in balia delle loro debolezze. Nathan trasalì, sentendo che l’uomo che aveva di fronte non era l’ennesima noiosa incarnazione del malcontento generale; possedeva una sensibilità straordinaria ed era come avvolto da quella misteriosa tristezza di chi sopravvive ai suoi cari. Gli aveva inoltre narrato dello strano rapporto che possedeva con le proprie radici; si sentiva un specie di apolide pronto a radicarsi in tutti quei luoghi che il destino gli assegnava. I due condensarono nel favore di quella atmosfera le riflessioni che avevano maturato negli anni, fino a quando, qualcun altro non fu investito dall’emanazione contagiosa del loro desiderio di raccontarsi. Una terza persona insinuò con leggerezza il suo dissenso sulle ultime considerazioni critiche dell’uomo, che del resto, avevano lasciato perplesso anche lo stesso Nathan; lo fece non per affermare la propria ragione ma con la sola intenzione di partecipare ad una discussione dai toni pacati, aperta. I tre sconosciuti continuarono a dialogare e a scambiarsi in una totale armonia le loro idee; si ascoltavano con pazienza senza interrompersi l’un l’altro come se stesse loro più a cuore il legame magico che li teneva uniti rispetto a ciò che avevano realmente da dire.

Sembravano scoprire istante dopo istante il piacere di un umanità ritrovata. L’ultimo arrivato fu il primo ad abbandonare la discussione mentre gli altri due ne approfittarono per ritornare al loro prezioso confronto che prima di essere interrotto, aveva raggiunto una speciale intimità. Nathan si preoccupò che fosse tardi e invitò con dolcezza il suo interlocutore ad uscire dal negozio per lasciare che i commessi si preparassero per la chiusura. I due fecero qualche metro insieme fiancheggiati dai ristoranti brulicanti, interrompendo la loro marcia vicino una scala mobile. Nonostante il brusio la loro conversazione si fece ancora più confidenziale; Nathan si sentì compreso quando spiegò all’uomo i motivi che lo trattenevano nel suo paese e soprattutto gli parve di trovare un nuovo compagno lungo il suo faticoso percorso. Prima che i due si accomiatassero di nuovo qualcuno si permise di trovare un varco nella loro spontanea complicità: – Sono a quel tavolo laggiù insieme ad altri amici; se volete potete aggiungervi anche voi! Possiamo cenare insieme se vi va! –. Era lo stesso uomo che poc’anzi si era intrattenuto con loro. Declinarono entrambi con misurata gentilezza. Attraversati da un misto di stupore e gratitudine si salutarono con un inconsueto senso di pienezza generato -e di questo ne erano pienamente consapevoli – da un cibo che l’alienante modernità ha  reso sempre più introvabile.

Boum Boum Za zà

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10940_194855097070_495328_nLa domenica pomeriggio su Radio Tre, c’è un programma che mi piace assai e si chiama Zazà . A loro, in particolare all’indiano Piero Sorrrentino dedico questo divertissement. Seconda puntata effeffe

Second Act

(megafòn du shoperò)

Ke lu effeffe mo mo proprie steve ‘n miezze è ssirene de touti li type; que l’una ca pariva n’ambulance de Pompiers et l’era na machina da pulizia, n’artra qui pariva  du pronto secours  et l’era de la monnezza, alors qu’en miez à tute le sirine ce pariva da esse n’Ulysse quoi, n’Odissé du domil ma sans l’espacio quoi que l’era ocupat de tute le schole de la ciudad, de tute le fabrike, de kelle ke c’erano rimastute ça va sans dire, la plaza. E si li uni de l’action catholique parivano de sturbarse et ‘mbarazzarse nu poke dop l’ambaradan de li fimminielli ca cum tode chose musical et non, putipù et scetavajasse, stivene annanz et arète, nu groupo compacto de lo sindicat  tiniva arte et dirite le bannere rocie, arte et dirite  ca l’una nun s’era ‘n finita nei fili du Sturm und Tram facinni scintill et lampo ca pareva nu signo do deo cristiano, do deo musulmano, ‘nzom de tute l’aneme do puriatorie?

Et alors cum paso circunstanziat et la cocarda à lo bavero de la chemise effeffe circava a Zazà ‘n do trambuste general, et à quiconque lo dimandava, l’uno diziva que nu l’aviva viste pennient, n’artre qui nun sapiva manco qui l’etait sto Zazà, et nu vigili cor casco blanco e cor galiardeto de la ciudad de Turin, pariva de savoir et pure que ce stive indikàn la direziona, l’indicaziona, l’informaziona, quannno, cumm l’est cumm nun l’est, la radiotrasmittent ca ce aviva sur la spalet alarmata diciva que lo tafferuglie ‘n miez à lo cortege stava degenerann assaje.

Et c’est comme ça que lo effeffe vidiri mo c’aviva lo vigile courrir ‘n miez à les uns et les autres cor galiardeto en lanza pure gadagnari la posiziona. Et tout le cortege s’arrestette pè capiri et faciri quelque chose.

En fait, ‘n do lo miezo de la Via Po, nu cartiello No Tavor No Tavor de nu grupo ‘ntussecose assaje da sirinata des flicks et cops, s’agitava da na parte a chell’ata, que à lu effeffe pariva n’arbre magistro, nu cattivo magistro ça va sans dire, ‘n miez à la tempesta, et shake accà et shake allà, la capa de tuti li manifestant pariva de abbottari, cum consequencias facili à imaginarse.

Et cumm l’est cumm nun l’est, lo effeffe et d’autres si misiro à ir là ove se puede, pe racapizarce na chose, la chose.

Et la chose l’era simple en fait; le no Tavor nun cintravi na cipa in da lo nervosisme general car la  vira question l’era toda cuncentrata sur le philosophe ke le stava fora sur le balkon et qui diciva que la manifestaziona l’era tuta sbaliata, ke nun se potiva à l’epoque actuala de tolerarse la postaziona du cortege cum la derecha à droite ( les cathos, les liberò, les fasciò, les massons et li artri) et la gauche à gauche ( li demukrat, li comunist, li radikà)  comme effectivement se putiva notarse à regarder le cortege cum la Plaza Castelo areta et la Gran Madri devant. Et plus lo philosophe stiva a urlarse que nun c’erani plus sinistreddè, que l’era finisciuto lo temps de cerises, et kilo de druategosce, plus los autres lo stivene à auscucciar ‘mpettiti et stralunat pers. Ke  deja poki minuti auparavant l’era stat lo skandal entre deux groups de gauche que tous chacun pretenniva de starse à la senestra de l’otro, ke la instance de groupe l’era plus marxiste leniniste maoiste trotskjste de l’autre, et pareillement à l’ata parte, les uns se dicivani quel u brazio teso l’era prerogatif label markiu a difinnire de la forza nova, nova de fabrika ma antika de convincimient, et non de li furkunari ou pejo encor des centristes buttigari. Or, si le philosophe tiniva raggiuna, la chose se cumplicava encore de plus, et poke ce stava da faciri a li viggili, de tratenerse les deux skieramenti a sinistreddè, alors que nun se putiva mica spustare la question sur l’avant et andrè? Li progressist en fait se revelàn cunservatori et li reazionà prugressist, les futuristes passatistes et li campagnari metrupulità, li stracciun comme vestiti à la moda de la street fescion et la pasta et fasuli cunsiderata nu plat gurmé tout comme les molignane ambuttunà cunsiderati stela stela michelin mènemo mènemo comme n’ostrega fine claire de Charente Maritime!

Mo tuta sta question intellectuelle, à l’intellecto c’aveva fato surgiri nu male d’intelecto, nu male a la capa, in da nu mòment ‘n pilluli, et cumm’l’est cumm nun l’est lo effeffe lassiai lo cortege pè trasiri in da na librairie ke makari truvasse lo libro do philosophe fore comm’un balcùn. Et c’est ainsi ca dimandette lo titro do libbro à lo libbrario que se ciamava Pablo come los apostolos, mais l’era communard anarchique  de Masa,  oui, mais de Carara.

Et si truvarini à parlà des uns et des autres, de sta crisis infinì, de sta misère du coeur et de banka et quanne lo effeffe ce dimandette de Zazà nu lecteur d’un livre à l’anne interessàt, ciertament, incurioù encore plus de toute respuesta ce dimanditte: Zazà nun sapiri saccio onde sta, mais vous sapite si la Titina c’en sta?

Or cumm’l’est cumme nun l’est se truvarini que l’uno lo effeffe circava a Zazà et l’artro, scanosciù la Titina, Pablo lo libbraio les lecteurs, et kille d’afora, la senestra et la dè. Et que se putiva diciri sans doute, que qui stava meso pejo l’era killati ke steveno à fora, à fora pesstrad et sur balcòn, avec sto bourdel de geometries post euclidiè et post fordistes.

Et c’est comme ça que penzette lo effeffe avant de riprindiri à cercarse Zazà, mo, mo que lo vigili de toute à l’heure, l’aviva briffé que Zazà steva à la fabrica de Mirafiò.

Astronomi di costellazioni linguistiche- Carlo Cenini

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“Astronomi di costellazioni linguistiche”: serie di incontri con scrittori sperimentali che proseguono da anni una ricerca sulla lingua e sulle forme letterarie. Dialogando con loro, che leggeranno brani editi o inediti, indagheremo il come e il perché delle scelte adottate, in molti casi tese a evadere dai limiti di convenzioni sentite come assurde, restrittive o molto povere rispetto alle potenzialità del linguaggio e del narrare.

Secondo appuntamento: 23 marzo, H. 18.00, con Carlo Cenini, scrittore.

“… e non sapevano (-mo) più cosa fare per arrestare l’evaporazione dell’immagine, come un dissanguamento, una polaroid che si sviluppa al contrario, ovvero prima c’è l’immagine e poi, mano a mano che la osserviamo e ne troviamo i dettagli cercando disperatamente di raccoglierli come chi durante una bufera ha troppe cose da salvare, tutti quei preziosissimi e interessantissimi e fondamentali dettagli vengono irreparabilmente risucchiati, sprofondando come gigantesche ossa deformi nell’abisso della loro stessa, diciamo, alchimia.”

Carlo Cenini, nato nel 1978, vive a Trento. La sua produzione è in parte pseudonima e desidera rimanga tale. A suo nome ha pubblicato alcuni racconti per Linus, Nuova prosa e Nazione Indiana. Ha scritto anche testi teatrali e un libretto per un’opera lirica in inglese, oltre ad articoli di filologia e critica letteraria. Uno di questi testi teatrali contiene alcuni video, marcata parodia di prodotti farmaceutici ed erotici, che verranno proiettati durante l’incontro con l’autore. (I video sono vietati ai minori di quattordici anni).

I poeti appartati: Giuseppe Cornacchia

7

cornacchia

 

 

 

Popolari

di

Giuseppe Cornacchia

 

 
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condividendo metri
ne occupi lo spazio
non pensi quale spazio
connoti la misura
nel tutto vivo della grazia
che metro è un metro
*
Nuovi poeti italiani (22 Jan 2014)

Alla quarta stazione
di questa via crucis del cuore
mi è riemersa la voce:
io sono l’amore senza un oggetto,
io Sono. Io sono la luce del giorno,
il ragazzo che ero.
Sono sempre rimasto qua attorno.
Ora cieco, mi vedo.
*
Sogno pisano (2 Feb 2014)

Ho capito il mio male con Pisa.
Il tempo s’è fermato,
la gente resta uguale
jeans, scarpette e maglietta
dai cinque ai sessantacinque anni.
Ho capito cos’è la vita in zona rossa
la placida vita delle coppiette
innamorate, sempre come a quindic’anni,
dei bambini in gran quantità,
dell’aria stranita dei vecchi
ancora in jeans, scarpette e maglietta.
L’ho capito da un certo male di testa
che mi ha preso in città.
Era come sentire il canto
delle Sirene, l’avevo sentito
a vent’anni e mi ero legato al palo
volendolo sentire senza farmi rovinare.
E’ la vita raccontata dal mio
collega nucleare: gli eterni
borsisti senza ambizione.
E’ la vita della gente che sorveglia
l’alluvione, la piena annunciata
e puntualmente non verificata.
Gli accenti del sud delle maestranze.
E’ come se il sud,
i paesini malridotti del sud,
abbia trovato redenzione
in un paese un po’ più grande,
molto civile e tutto
sommato pacificato, ceralaccato.
Ecco dunque cosa soffrivo,
il canto della Sirena, della vita
tranquilla da buon padre di famiglia.
“Aspetto qualcuno che mi venga a salvare”
diceva il mio amore ma cara,
ti devi salvare da sola,
le braccine le hai per nuotare.
Nel mio mondo di grandi passioni
che posto mai ha la vita umile
della brava gente che vota il PD?
Io ho sempre votato radicale,
i fatti miei non me li sono mai
voluti fare, ho sempre dato,
dato, dato senza ritorno.
Ogni giorno una prova d’amore.
E’ una vita popolare
che non ho mai vissuto.

*
Popolari (17-27 Feb 2014)

Come uomo anche se
ugualmente, quando
e non capisce, in fondo
un altro scopo di me
che subisco, meno male,
e sentirsi contenti
a far delle cose,
mezz’ora di quiete
servirebbe un altrove
mezz’ora, una sera.

*
Rigeneratore del passato (28 Feb 2014)

Se penso a tutti i passato
che ho lasciato cadere
e dunque a tutti i presente
che non ho maturato, nemmeno una
delle mie mancate vite,
una strada diversa da quella
in buona fede, la storia amputata
di tutti i miei passato che non hanno
potenziale futuro, volti inerti
che distolgono da quello che manco.
*
Ri-manifesto pop (14 Mar 2014)

Nella vita la spinta lo da il fumo,
l’ambizione, la speranza di fare imprese.
Se non sai sognare non fai sognare.
L’assuefazione al compitino, il timore
che non si porti a casa la pagnotta,
puoi vivere così? Saremo spesso sazi
vendendo le emozioni, sognando sogni
concentrati sui grandi appuntamenti.

*
Donne dei pesci (15 Mar 2014)

Sto fermo all’ultima stazione,
le mie mutevoli sirene
appiccicose, più fedeli.
E’ vero, amano i gioielli
e circondarsi di attenzioni,
ci vuole senso pratico.
Noi siamo bravi in tutto, siamo
quattro, io prendo decisioni
terribilmente affascinato,
stordito nell’acquario, pigro,
avendole girate tutte
ho capito, ma le sapevo nate
viziose, sensuali, che proprio
si donano e fanno innamorare.

*
Non credo alla poesia (15 Mar 2014)

Attenzione, le mie responsabilità
me le sono sempre pagate,
nessuno può dire che non ho mantenuto
o che sono scappato.
Io dico le cose una volta
le parole sono solo parole
i fatti si fanno con chi li vuole fare
perché cruda è la vita.

*
Una sera (16 Mar 2014)

la vita che ho fatto
i tempi accelerati
voi non immaginate
sono stato felice
non avrei mai pensato
ero io senza io
una sera una sera
ho sfiorato la vita
e sono straripato

Primo capitolo di un romanzo noir

1

di Orso Tosco

Noir
Doctor Who, Pig Slaves

Il contenimento della lotta

Gesù disse “Ho gettato fuoco sul Mondo, ed ecco, lo custodisco fino a che divampi”.

E tu sei il Porco.

E devi trovare Denise Brown.

Tempo e storia sullo scaffale dell’eterno presente

2

di Claudio Vercelli

center of history
Sulla natura del tempo che stiamo vivendo, più ancora che sulla sua qualità, parrebbe di potere dire che siamo oramai calati in una sorta di eterno presente. Un tempo che è senza storia, se non altro perché essa presuppone non solo lo sguardo rivolto all’indietro, ovvero a ciò che è stato, ma anche e soprattutto la fiducia verso quello che potrà essere. La storia, come racconto di un’origine comune, condivisa, accetta, e come tale anche però demitologizzata, si sfarina dinanzi all’atto d’imperio di un presente che, nel dichiarare impraticabile l’idea di un tempo a venire (se non come foriero di dubbi e angosce) lo sostituisce con un «qui ed ora» che sembra essere l’unica dimensione plausibile non solo delle relazioni umane ma anche dell’identità individuale.

Pezzi di merda

3

di Ranni Querciano

Tentare è il primo passo verso il fallimento (Homer Simpson)

 Me lo ripete da così tanto tempo che ho quasi finito per crederle. “Devi imparare a volerti bene” – mi dice, saggia materna e femmina – “smetterla di trattare te e gli altri come se in ogni scelta o cazzata ci fosse sempre in ballo il giudizio di dio. Meno pesantezza e seriosità soprattutto. Leggero, leggero …”. Le piace proprio sta storia del giorno del giudizio, deve averla sentita da qualcuno alla tele o dalla parrucchiera. E adesso me la rivoga a ogni occasione propizia per farmi intuire verso quali lievità godute mi potrebbero condurre la sua mente e le sue mani (“Abbiamo un corpo! Non dimenticarlo mai. Tu sei tutto testa!”), se soltanto non opponessi tutta sta resistenza inutile.

video arte #28 – carlo casas

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carlo casas

Carlo Casas, End Trilogy, 2002-08. 

(Proiezione video multicanale: cliccare due volte sull’immagine, qui e nel sito di arrivo.)

Rap news: Media war games

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Consigliati schermo pieno e volume alto.

Vedi: https://en.wikipedia.org/wiki/Rap_News

Da Belleville al Kitsch

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Di Ornella Tajani

Nelle ultime settimane mi è capitato di leggere due articoli che parlano dell’abitare nell’est parigino. Il primo, scritto da Jean-Michel Normand per il magazine di Le Monde, si intitola «Paris, si les bobos votaient à droite» e analizza le contraddizioni della vita nella boboland, il regno dei bohémiens-bourgeois convenzionalmente situato nel triangolo del decimo arrondissement intorno al canal St Martin.