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Juggernaut

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juggernaut di Gianni Biondillo

Alan D. Altieri, Juggernaut, TEA, 2013, 251 pag.

 

I veri scrittori sono sempre ossessionati da qualcosa. Le storie sono solo espedienti per espettorare dal buio di sé le angosce più profonde e inconfessabili. Tutto si può dire di Alan D. Altieri tranne che sia uno scrittore parco, minimalista, senza sangue. Sono trent’anni che, viaggiando nel tempo e nello spazio, scrivendo saghe storiche, contemporanee o fantascientifiche, Altieri contempla l’Apocalisse. Guarda dentro l’abisso dell’umano per trovarlo empio, ferino, irredimibile. E ne ha terrore. Panico.

Juggernaut è il primo volume di una pentalogia (!) ambientata in un futuro postumano e premorale dove nelle Ecumenopoli – scenari metropolitani in fase terminale – si rappresenta l’incubo di una società senza scampo, fatta di caste, prima ancora che di classi. Il bene non trionfa sul male in Altieri. Il male combatte contro un male peggiore, inviluppati in un vortice autodistruttivo. Come in ogni sua saga anche qui campeggiano personaggi tratteggiati con l’ascia, antipsicologici. Pura vita in azione. Eroi necessari, di chandleriana memoria. Fra questi Karl Dekker, un hunter/killer, icona ricorrente nei romanzi di Altieri.

La lingua dell’autore prosciuga la sintassi, si fa descrizione pura, perde ogni orpello, eppure, nella sua petrosità – a tratti roboante e romantica, colma di enfasi, di anafore – si fa quasi sperimentale, avanguardista: elenchi sterminati di dati tecnici, descrizioni minuziose di armi letali, raffigurazioni plastiche di combattimenti di una violenza esasperata.

Juggernaut si legge accettando tutto, pure l’ipotesi di non capire esattamente cosa stia accadendo. Il mondo immaginifico di Altieri è più grande, è più largo del nostro. Avremo bisogno di altri quattro volumi per comprenderlo appieno. Eppure non si riesce a staccare gli occhi dalla pagina, tale è la capacità visionaria. In un mondo privo di pregiudizi di genere (letterario) Altieri avrebbe un posto d’onore. O lo si ama o lo si odia, lo so. Di certo non può lasciare indifferenti.

 

(pubblicato su Cooperazione, n° 29 del 16 luglio 2013)

Sei poesie

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di Luigi Socci

Da Il rovescio del dolore, Italic Pequod, 2013.

luigi socci

Il viaggiatore ignoto

Accappatoi fregati negli alberghi
saponi con i peli appiccicati
sfoghi d’acne da treno:
segni inequivocabili di viaggio
più o meno.

L’avviso ai naviganti era criptato.
Era evidente il posto era sbagliato.

Scelte per punto fermo
come riferimento
stelle cadenti e vento.

Era evidente il posto era sbagliato
col cane che non solo
non riconosce ma persino
staccare dal polpaccio è complicato.

Era evidente
il posto era sbagliato:
tizi mai visti
spazi ridotti, pieni di rischi.
non ho
amici con divani come questi.

Come in una morale
senza l’ombra di fiaba
era evidente io stesso ero sbagliato,
andato a finire
e tornato.

0.8

Chino nel mio cunicolo.

Munito di binocolo.

Non cerco l’ironia, trovo il ridicolo.

28 agosto 94

per Franco Scataglini

Nerastro miramare
funereo zittarsi di triglie
bare a vela.

Onde con l’ombra al collo,
il loro andar di sale
ingozza il porto.

Cozze col cuore a pezzi
tette a lutto.
Il sole simultaneo
traduce sassi in terra
(grossi, di Portonovo; grassa di Tavernelle)

Curioso capolino
di vermi o cicche spente?
Dentro le sabbiature
lenta lebbra dei vivi.

Un morto vive altrove.

In attesa dell’onda anomala delle 15.30

Lei si legge l’oroscopo si scambia
messaggini carini, fa il sudoku
(a lei niente pertiene
di questa apocalisse
in un bicchiere d’acqua e nelle vene
a lei niente ne viene)
si controlla e si tocca
per vedere se c’è
ancora il suo sedere.

Abbi pietà di noi
nave superveloce per la Grecia
di noi che ti preghiamo
di passare d’urgenza in barba ai limiti
di chiuderci nel gorgo
(noi che non siamo a bordo) di strapparci
gli asciugamani a nodi marinari
via dalle mani.

Prima della liquefazione
dello sgocciolamento del calippo
prima che le mie membra
finiscano di spargersi di crema
prima del compimento
dello smutandamento,
al largo (l’acqua in bocca)
portaci a un punto dove non si tocca.

Venga l’acqua
alla gola
che si sloga e si sgola
che per ogni parola
che dice si allaga.
Annegherai i parei,
gli infradito di prada
e piangerà anche lei
ma l’acqua farà sì che non si veda.

Scrivo, con la pistola ad acqua
a spari sul bagnato
di profonde immersioni
nelle proprie ferite
fatte da uno che ha appena mangiato.

Nuova forma di nuoto
invoco
verso il fondo
imploro la marea
che mi nasconda
e mi alzo mi abbasso
faccio l’onda.

Di proprio pugno

Mi scrivo una tua lettera
finché dura la mano
finché mi regge il pugno, finché stringe
finché so l’italiano.
Come consolazione o per rivalsa
mi scrivo una tua lettera
falsa.

Mi scrivo di mio pugno
(la grafia non è mia)
senza fare la brutta
copia, senza bisogno
di sprecare saliva
per chiudere o affrancare.
Mi scrivo una tua lettera.
Poi te la faccio firmare.

Questa poesia non è
per te né per nessuno
non lascia alone
ha l’aut. min. ric.
non odora di chiuso
e poi
non si fa i fatti miei
ha tutte le carte in regola
è ochei.

Questa poesia è bielastica
può essere una esse
o volendo un’ixelle,
questa poesia si stende
come una parte del corpo,
una pelle.

Questa poesia non quadra
il cerchio casomai
si acumina in un rombo,
questa poesia non è
per te che sparirai
prima che tocchi il fondo.

(Per chi fosse interessato, una prossima doppia presentazione della raccolta di Luigi Socci e de Il sangue amaro di Valerio Magrelli si terrà a Roma giovedì 20 marzo alle 18.30 presso l’Esc Atelier autogestito di via dei Volsci 159, con la presenza di entrambi i poeti e il coordinamento critico di Andrea Cortellessa.)

Una testimonianza

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di Carlo Carlucci

Avevo letto i libri di Davide Lajolo su Beppe Fenoglio. Quelli finalmente positivi sugli scritti del letterato di Alba ed erano scritti bene, stimolanti, pieni di rispetto. Inquadrandolo finalmente nel suo ruolo di partigiano e di scrittore autentico dalla prosa secca,scarna, creatore di personaggi e di atmosfere di quel periodo sulle Langhe indimenticabile.
Ero andato ad Alba con l’amico Vincenzo, un mio collega di scuola, ed avevamo girato a caso. Avevamo trovato la piazza con la macelleria di suo padre, e poco altro. Poi passammo davanti alla sede del partito comunista ed entrai a chiedere informazioni. Un militante trentenne simpatico si offrì di accompagnarci nei luoghi segnati dalla presenza dello scrittore. Il campo del gioco dove anche lui scommetteva, altri posti,ma poi gli feci la domanda che mi stava in gola: vedere la sua casa e conoscere la madre che allora era ancora in vita. Eravamo nel 1976 o nel 1977. Non ricordo la data precisa.
Entrammo finalmente nella casa e il militante ci tenne ad avvertirci che la madre parlava uno stretto dialetto albese, per noi quasi incomprensibile. La signora Fenoglio, quando capì che volevamo rendere omaggio a suo figlio, diventò gentilissima sapendo che venivamo apposta da Milano per conoscere la casa dello scrittore e lei.
Prima di ascoltare lei io rubavo le atmosfere di quella casa dove “il partigiano Johnny era vissuto, aveva concepito i suoi romanzi e mi guardavo in giro un po’ distratto.
“Lui scriveva sempre”, disse subito lei, in ogni angolo e su ogni tavolo di sala e cucina. E qualche volta io e suo padre lo abbiamo rimproverato perché lavorava poco in macelleria (non aveva ancora un impiego fisso) e qualche volta facevamo fatica a tirare a campare.”
Era una donna forte, dal viso severo e segnato dagli anni, ma molto sicura di sé e dura nelle difesa della memoria del figlio scrittore. “A Torino hanno dedicato una via a Cesare Pavese ma a lui no. A Mosca però una via lo ricorda.”, confermò lei molto orgogliosa.
A un certo punto parlò anche della moglie di Beppe, la nuora. Lui stava già male e lei una volta era uscita dopo aver aver ricevuto un mazzo di fiori, l’ho vista io.
La conversazione durò circa un’ora. Lei confermava che il figlio fumava e tossiva molto. Ma non si aspettava una fine cosi rapida in un uomo così giovane. Alla fine il giovane del Pci ci accompagnò anche alla tomba di Fenoglio, e lì ci siamo commossi tutti. .

Paolo Lezziero


La scarna, essenziale testimonianza rilasciatami dal carissimo e laconico amico Paolo apre, a distanza di quarant’anni, uno sguardo su un mondo che non c’è più. Non ci sono più i comunisti. Quel gentile cordiale ‘militante’ del Partito ci tenne a precisare a Lezziero che comunque tra i compagni che erano stati partigiani, Fenoglio non se la diceva molto. E, nell’Italia di allora, dove buona parte degli intellettuali erano più o meno allineati, l’attacco sarcastico de I 23 giorni della città di Alba suonò come un’offesa alla Resistenza. Peggio ancora doveva aver suonato ad Alba. Il punto però è un altro. Lezziero che riporta di questa visita alla madre di Fenoglio mi conferma che durante il colloquio ebbe quasi sempre bisogno dell’assistenza del giovane di Alba come vero e proprio traduttore altrimenti avrebbe capito ben poco. Dunque in casa, alla macelleria, si parlava esclusivamente questo dialetto strettisimo, vera e propria e tempestante lingua materna che avvolgeva lo scrittore che ‘scriveva sempre’ come disse la madre. L’apprendimento dell’italiano era avvenuto sui banchi di scuola e molto con le divoranti letture cui si affiancò a un certo punto l’inglese della straordinaria Maria Lucia Marchiaro. A dirla tutta sul giovane Fenoglio furono determinanti anche il prof. Leonardo Cocito di italiano, e il prof. Pietro Chiodi. Un trio di insegnanti straordinariamente dotati per un alunno decisamemente fuori del comune.
Il ricorso a quel potente soggiacente che era il dialetto albese, vera e propria lingua materna e originaria (non va dimenticato il legame profondo che c’era con la madre) non era quindi un mero artificio ‘afrodisiaco’ come lo presentava Vittorini, ovvero non era un ricorso a una matrice (dialettale) al fine di ottenere particolari effetti espressivi. Nella cucina dove regnava la madre, era sovrana la parlata dialettale come l’acqua in un acquario. E Fenoglio sempre intento a scrivere (sotto gli occhi della madre povera di cultura ma intelligente e lucida come il figlio), con la perenne sigaretta accesa, si trovava a ‘trans-ducere’, a tradurre quel potente soggiacente materno nell’italiano come seconda lingua, un particolarissimo italiano che ha fatto di lui oramai una vera e propria icona letteraria. E naturalmente, vedi Il Partigiano Johnny, laddove ai fini espressivi l’italiano poteva sembrargli povero o raggrinzito ecco giungere in soccorso il vocabolo se non la frase inglese. Di ciò e di quant’altro me ne sono occupato doviziosamente ne L’inglese di Beppe Fenoglio e in vari altri saggi minori più di quaranta anni fa. Le critiche che mi vennero dal clan della Corti (che sosteneva tra l’altro come le vicende del Partigiano fossero una stesura a caldo immediatamente a ridosso degli avvenimenti) sempliemente mi distolsero dall’occuparmi ulteriormente dello scrittore di Alba.

Armando Punzo – È ai vinti che va il suo amore

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La direttrice
della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte
Maria Concetta Petrollo Pagliarani
e
Compagnia della Fortezza / Carte BlancheCentro Nazionale Teatro e Carcere

sono lieti di invitare la S.V.

alla presentazione del libro

 È ai vinti che va il suo amore

I primi venticinque anni di autoreclusione con la Compagnia della Fortezza di Volterra
di Armando Punzo / Ed. Clichy

Mercoledì 19 marzo 2014 – ore 17.30

MiBACT- Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte
Sala della Crociera
Via del Collegio Romano, 27- II° piano – 00187 Roma

Intervengono:

Armando Punzo – autore del libro e regista della Compagnia della Fortezza
Aniello Arena – attore della Compagnia della Fortezza
Anna Bandettini – La Repubblica
Ilaria Bonaccorsi – Left
Ninni Cutaia – Teatro di Roma
Laura Palmieri – Rai Radio3
Lidia Riviello – poetessa e scrittrice

coordina:

Massimo Marino – docente universitario – critico Corriere della Sera/Controscene

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Sarebbe da non crederci, se non fosse tutto vero:
c’è chi fa di tutto pur di entrare in carcere.
No, non è uno scherzo: è la pura verità.
Accade in Italia, a Volterra per la precisione, città toscana
le cui origini affondano nell’epoca etrusca.
E’ qui che l’impossibile si fa realtà.
Tutto merito della Compagnia della Fortezza,
compagnia teatrale dei detenuti attori della Casa di Reclusione di Volterra
e della lucida “follia” del regista e drammaturgo Armando Punzo,
fondatore della compagnia e ancora oggi
al timone di questo incredibile gruppo.
Venticinque anni fa Punzo ha concepito e battezzato
una rivoluzione culturale e sociale:
trasformare il carcere in luogo di cultura,
e ancora oggi la cavalca senza scendere a patti o a compromessi,
fermamente intenzionato a non lasciarsi distrarre
da chi è incapace di andare oltre quello che vede con gli occhi
e a non lasciarsi tentare da strade più facili.
Senza mai accontentarsi di quello già

Amarcord Poétique : Valerio Magrelli

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978880621845GRANota

di

Alida Airaghi

VALERIO MAGRELLI – IL SANGUE AMARO – EINAUDI – TORINO 2014 – pagine 136 –    euro 13

Il sangue amaro di Valerio Magrelli, che esce a otto anni di distanza dal suo ultimo volume, è una raccolta estremamente articolata e varia, sia nei contenuti sia formalmente. Suddivisa in dodici sezioni, spazia dal privato al politico, dalla religione alla denuncia civile, dalla polemica letteraria alla riflessione filosofica. Lo stile sa adeguarsi plasticamente ai temi trattati, sia utilizzando metri e formule tradizionali (sonetti, endecasillabi, epigrammi: con un ricorso più esplicito che nel passato alla rima, sfruttata non solo ironicamente), sia servendosi di curiosi stratagemmi quali le sciarade e finti rebus, o inserti prosastici e narrativi. In maniera decisamente meno cerebrale e oscura che nelle precedenti prove, qui l’ansia comunicativa del poeta diventa più esplicita, segnata dalla risentita amarezza nei riguardi della società e del mondo cui fa riferimento il titolo. «Io mi faccio il Sangue Amaro./ E’ una specialità della casa, sin dal lontano 1957»: così nell’ultima sezione, dedicata a un se stesso depresso e immalinconito, talvolta rabbioso («Mia debolezza, debolezza mia//…la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi,/ e in questo Grande Sfascio…»; «Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza»; «Sopporto le ingiustizie dalla nascita,/ a cominciare ovviamente dalla nascita./ Lo Stato che depreda, gli amici che tradiscono, necroburi, ogni variante dell’illegalità…»). Aiutarsi medicalmente non basta («Queste che prendo gocce/ con tanta religiosa compunzione…»), se lo spettro della morte attanaglia pensieri e cuore («Qui, tutti noi aspettiamo/ sulle rive del Nihil»; «Poi, di colpo ho capito che il problema non è morire, ma rimanere soli nella morte»), attraverso le sembianze di una futura malattia neurologica o della insopportabile separazione definitiva dai propri cari. E’ proprio dagli affetti familiari che può arrivare l’unica redenzione, e quindi i versi più inteneriti del volume sono quelli rivolti alla figlia («Ho una figlia che ha voglia di cantare/ e canta./ Può bastare»), al figlio che studia Dante sotto la doccia, e alla moglie, nella splendida sezione La lettura è crudele. Dove la constatazione banale che quando la persona amata e vicina si immerge nella lettura, inevitabilmente si allontana da noi (precipitandoci in una solitudine -vuoto, silenzio, abisso, distanza, vertigine, paura, sono i ricorrenti termini chiave- che è sostanzialmente estraneità, irraggiungibilità), sembra far precipitare il poeta in un’angoscia senza scampo («atterrito e remoto, separato,/ legato alla vertigine che amo,/ se amore è la distanza che ci chiama/ e insieme la paura di varcarla»). Paura che torna anche in un altro capitolo del libro, kierkegaardianamente intitolato Timore e tremore, e aleggia ovunque, intrecciata a sentimenti di rivolta e rifiuto nei riguardi di ogni bruttura e ingiustizia, naturale o sociale: quindi verso le infermità dei bambini handicappati, i morti della Thyssen, gli incidenti stradali, i giovani disoccupati, i balzelli fiscali, le disonestà finanziarie, le dittature telematiche («La password, il codice utente, PIN e PUK/ sono le nostre dolcissime metastasi»), i ladri che penetrano in casa, gli uccelli che entrano dalla finestra («Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola/ in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato»), lo sfacelo urbano, le latrine insozzate di una Roma pasolinianamente suburbana, o zingaresca.

Non si salva nemmeno Dio, in questa rappresentazione negativa dell’esistente, nelle sue epifanie natalizie desolatamente commerciali, o nella corruzione istituzionale della Chiesa: «reputando Dio un arto fantasma, vivo soltanto nel dolore della sua amputazione», «Tutti noi siamo vittime di una chiesa delebile,/ priva del vero inchiostro della sua verità». Una geremiade sconsolata, con toni di pessimismo leopardiano: «Non la Crocefissione, ma la Culla// è segno di martirio, lutto, scandalo». La stessa diffidenza Magrelli sembra nutrire anche riguardo al suo campo d’azione più proprio, la letteratura («il linguaggio/ ha innanzitutto lo scopo di nascondere»; «O forse sono cavie, queste poesie che scrivo»), e pare attenuarsi solo nella descrizione attenta di alcuni aspetti della quotidianità  (gesti, rumori, oggetti, musiche), o nella descrizione della natura. Così, nella sezione La lezione del fiume assistiamo a un partecipe omaggio, a una convinta celebrazione del fenomeno acquatico, dal lavaggio dell’auto all’intrico delle tubature sotterranee, dalle sorgenti agli argini, dai ponti ai canyons, alle dighe, ai pesci: nel calore estremo come nel rigore dei ghiacci.

E nei Paesaggi laziali una nota nostalgica e quasi idilliaca riconcilia il poeta con il bene, e non più con il male, di vivere: in una delle poesie più delicate e commosse della raccolta, Principe delle Volpi!, riemerge dal passato la figura proletaria di un amico adolescente dal «sorriso mite», regale come un elegante nobile russo, che avanza nell’incenso di copertoni bruciati in periferia, reso salvo dal «sacramento/ di un’Aristocrazia nata dal cuore».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Reader’s Digest: Maria Luisa Putti

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La confessione

di

Maria Luisa Putti

 

Arrivare a Bellagio in gennaio non è una gran fortuna. Passate le feste di Natale non ci si vede più un’anima e fa veramente un freddo boia.

I negozi sono chiusi; le saracinesche abbassate e mucchi di posta infilati a forza nelle cassette. Un paio di caffè illuminano i porticati di aria calda e di pochi rumori. I lampioni con le luci gialle, le insegne dipinte a mano e coltellate di vento all’incrocio di ogni salita rendono questo paese un presepe immobile.

Sono sempre le stesse persone, sempre la stessa gente, i bellagini. Vivono d’estate; tra Sant’Ambroeus e la Befana riaprono per le feste. Ma subito dopo si adagiano nel loro letargo pigro. Dietro le finestre delle case, il muoversi operoso delle chiacchiere, che creano, distruggono, inventano, così, per ammazzare il tempo e questo freddo boia.

Oltre ai caffè, d’inverno a Bellagio rimane aperta la salumeria, la farmacia, il panificio, il giornalaio e, ovviamente, la chiesa.

Il vecchio parroco è morto da tre settimane, giusto in tempo per la messa di Capodanno. Litigava con quelli del coro: «Ma che roba è questa qua?», gridava don Luigi dalla sacrestia. Non gli piacevano i canti moderni da chiesa, con quella chitarra strappata e le «canzonette», come le chiamava lui. Si arrabbiava e diventava tutto rosso, come una bolla che sta per scoppiare. Era uno all’antica. Un montanaro che sapeva il latino e amava la musica. Gli piaceva il suono dell’organo, il gregoriano, «il canto che avvicina a Dio», diceva, quello buono. Ma l’organista si era ammalato, e Antonio, il ragazzo che lo aiutava con il coro, se n’era andato con la moglie in città, a lavorare nell’azienda del suocero. Era pianista, Antonio. Ma non faceva mica i soldi insegnando musica nei paesini. E poi, d’inverno, con questo freddo boia, oggi un bambino ha l’influenza, domani c’è neve e non c’è verso di arrivare a far lezione, e poi devono preparare i compiti in classe per la scuola e non hanno il tempo di mettersi al piano. Insomma: nulla di sicuro. Meglio lasciar perdere.

È bella la chiesa qui. E andare in chiesa è meglio che star sempre in casa. Una ragione per mettersi un vestito, una scusa per andare a spettegolare, per osservare e criticare, un luogo dove trovare qualcosa da raccontare e far passare di bocca in bocca fino a che, quel «qualcosa», diventerà un’altra cosa, condita di dettagli piccanti, di particolari buoni a renderla più credibile, ma, alla fine, molto diversa dalla realtà.

Che la signorina Costanza non venisse mai in chiesa si erano affrettate a riferirmelo il primo giorno: «È una strana persona, padre, sa? Non viene mai in chiesa. Però manda le offerte».

«Non la si vede in giro nemmeno d’estate»

«Non ha parenti, non ha nessuno…»

«Si affaccia al balcone, innaffia le piante, prende un po’ d’aria così…»

«Mi hanno detto che insegni ai bambini, il pomeriggio. Non si fa mica pagare…»

«Era un’insegnante, credo. Non è di queste parti…»

Le voci delle beghine si confondevano, una sull’altra. Ognuna a voler dimostrare di saperne di più.

Non mi restava che andare a trovarla, questa signorina Costanza. Non so se, come parroco, ne avessi veramente il dovere, ma di sicuro mi sembrava la cosa più divertente da fare in un paesino di mille anime, a gennaio, con questo freddo boia.

Suono al portone. Mi aspetto di trovarmi di fronte una di quelle mezze matte che vivono con i gatti, che parlano da sole, e che in fondo non hanno mai vissuto. Mi aspetto di vedere una vecchia trascurata, sciatta, una povera anima da ricondurre all’ovile del Signore. Suono ancora. Una voce limpida mi risponde, chiara, giovane, calda: «Sì? Chi è?». Immagino sia qualcuno che è venuto a farle visita: «Sono don Flavio, il parroco. Cerco la signorina Costanza». Il portone si apre, una porticina in legno massiccio. L’androne è buio, anche ora che sono le dieci del mattino; le scale ripide e polverose. In cima alla rampa si dischiude una porta: vedo una lama di luce proiettarsi sul muro. Dalla fessura di quella porta aperta, un calore dolce di casa mi viene incontro: odore di zucchero a velo, odore di Carnevale. I ricordi della mia infanzia si affacciano uno ad uno, ad ogni gradino che salgo, ad ogni passo, ad ogni respiro, che profuma di cannella, di biscotti appena sfornati. E i ricordi si affacciano ora alla ringhiera di ferro battuto che costeggia la rampa, nella sagoma imponente di una donna. La vedo controluce, ora che la porta è spalancata alle sue spalle e di fronte ai miei occhi: una poltrona foderata di verde e un lume su un tavolino déco è tutto ciò che riesco a cogliere. E quella sagoma ferma che mi scruta nella penombra, i capelli raccolti, il corpo formoso. Arrivo in cima: «Si accomodi, padre». La stessa voce che avevo udito al citofono, la stessa voce bella che nulla aveva di vecchio mi invita ad entrare. Ancora non riesco a vedere il viso di questa donna: perché mi offre le spalle per farmi strada nell’ingresso della casa. Si volta, ora, per chiudere la porta; mi guarda negli occhi e mi sorride: «Lei è il nuovo parroco, allora…».

«Sono arrivato da pochi giorni. Mi hanno portato la sua offerta domenica scorsa e sono venuto a ringraziarla.»

Non è vero; non sono venuto per ringraziarla. Sono qui perché ero curioso, terribilmente e morbosamente curioso di vedere lei, la signorina Costanza, che immaginavo così diversa.

I capelli biondi raccolti in uno chignon elegante, gli occhi azzurri, grandi, truccati come si usava negli anni Sessanta, con l’ombretto celeste e le ciglia allungate di nero, e il corallo lucido del rossetto. Indossava una gonna grigia, la signorina Costanza, e sopra un twin set giallo chiaro con un filo di perle. Il profumo è lo stesso che portava mia madre, Arpège, sì, mi sembra Arpège. Ed è tutto questo insieme di odori, di colori, di parole scelte come si faceva una volta, di toni di voce pacati, di gentilezze ormai passate, a darmi la sensazione, tanto istintiva quanto irrazionale, di ritrovarmi dentro la mia infanzia, di fronte alla mia maestra.

Mi offre un caffè. Apre una scatola di cioccolatini e la poggia sul tavolo tondo del soggiorno, dove siamo seduti a chiacchierare: «Non ho un vero salotto in questa casa, padre. Mi perdoni se la ricevo così». Nessun altro, in questo Duemila senza forma e senza sostanza, avrebbe mai pronunciato una frase del genere. Ma la signorina Costanza sembra uscita da un quadro antico, in una casa pensata all’antica, vestita com’era di moda quand’era ragazza lei, e il fascino delle donne era pieno di mistero, e lentamente si lasciava scoprire.

«Non ha voglia di confessarsi?»

«Di confessarmi? È venuto a casa mia per redimermi?». La signorina scoppia in una risata piena, non sguaiata, ma libera.

«Non so, se vuole, io potrei confessarla.»

«È passato mezzogiorno, padre», prosegue sorridendo con tenerezza «sarebbe il caso che lei tornasse ai suoi uffici. E poi, io non mi confesso da quarant’anni, per cui, se proprio vuole, dovrebbe restare a casa mia una settimana… Perché per confessarsi dopo quarant’anni almeno una settimana ci vuole».

Capisco che è una battuta, ma la prendo sul serio: «Va bene: resterò qui da lei per una settimana». Mi fissa negli occhi, mi sfida: «Allora cominci col venire in cucina con me: dobbiamo preparare il pranzo».

Il tavolo di marmo della cucina con la verdura da lavare; il frigorifero pieno di roba; la cassetta del vino, l’acqua minerale e i dolci di Carnevale in un piatto con il bordo dorato. Apparecchio la tavola; la signorina Costanza comincia il suo racconto. Non è solo una confessione, ma una narrazione che confonde il giorno con la notte, il pranzo con la cena.

È una settimana che non dico messa; tutto contravviene al protocollo, alle regole, e forse persino alla decenza. Non vorrei andarmene mai più. Me ne starei per sempre qui, in questa casa con il parquet, con le stufe di ghisa, con i mobili antichi, con l’odore del bucato e il profumo di Arpège. Con lei, che mi parla senza segreti, che sorride con ironia, che si commuove, che ricorda, che si arrabbia, e che cucina da Dio: lo sformato di spinaci, il pasticcio di lasagne, le cotolette, l’arrosto, il polpettone, le patate al forno, la pizza di ricotta, i panzerotti, fave e cicorie, i tortellini, la pasta all’uovo, il bollito, la polenta con gli osei scampai, risi e bisi.

Fuori dal portone il freddo mi sorprende, impreparato. È quasi notte, ed io mi volto a guardare le finestre di quella casa, le luci accese, la sagoma della signorina Costanza in controluce, che scioglie i suoi capelli come non avevo mai visto nei giorni della confessione.

Continuo a camminare, ripensando, ricordando, rivivendo.

Incontro un paio di beghine. Di sicuro si aggirano da queste parti perché muoiono dalla curiosità di sapere. Mi fermano, smaniose di chiedere: «Non posso dire nulla: è una confessione».

Astronomi di costellazioni linguistiche

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ASTRONOMI DI COSTELLAZIONI LINGUISTICHE – GIORGIO MASCITELLI
“Astronomi di costellazioni linguistiche” è una serie di incontri con scrittori sperimentali che proseguono da anni una ricerca sulla lingua e sulle forme letterarie. Dialogando con loro, che leggeranno brani editi o inediti, indagheremo il come e il perché delle scelte adottate, in molti casi tese a evadere dai limiti di convenzioni sentite come assurde, restrittive o molto povere rispetto alle potenzialità del linguaggio e del narrare.

Primo appuntamento: 16 marzo, H. 18.00, con Giorgio Mascitelli. A Macao (sala archivio biblioteca) viale Molise 68, Milano

“Fischiettai la nota canzone “La Fine” del noto canzonettista americano e ciò fu simbolico. Me ne stetti così lunga pezza senza muovere nulla, come chi scriva e non sa cosa scrivere. Avrei voluto fare un po’ di tutto e un po’ di niente, ma non feci né un po’ di tutto né un po’ di niente.”

Giorgio Mascitelli (1966) vive a Milano. Ha pubblicato racconti e romanzi (“Nel silenzio delle merci”, “Catastrofi d’assestamento”, “L’arte della capriola”) e diversi suoi scritti sono apparsi su riviste cartacee e on-line nonché in volumi collettivi. È redattore di ”Alfapiù” e “Nazione indiana”. Dal suo racconto “Ancora un incendiario!” è stata tratta l’omonima opera rappresentata a Venezia nell’ambito della rassegna “La costruzione del suono”. Con Andrea Inglese ha curato la rassegna di letteratura contemporanea Akusma, tenutasi presso il Teatro Franco Parenti di Milano.

Pitch

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pitch

 

 

 

 

 

 

 

di Mattia Paganelli, 2006-2014

 

Per chi non avesse dimestichezza con le regole del gioco:

Pitch = campo di gioco

Herd = mandria          Team = squadra

School = banco            Band = banda

Pack = branco              Squad = plotone

Flock = stormo            Crew = equipaggio

Litter = cucciolata       Staff = personale

 

Alain Resnais e la Nouvelle Vague.

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di Carlo Carlucci

Finivamo il liceo, si superava il Manzoni (ma non il Leopardi) e il D’Annunzio fastoso con Ungaretti e Montale letti alla macchia, non per obbligo scolastico grazie a Dio. Quanto alla prosa, vi erano state le onnivore letture a partire dai primi anni delle elementari ma mancava un ipotetico, difficile ubi consistam per la prosa. Moravia, Pasolini, Pratolini? Oscuramente qualcosa ci diceva di andare oltre, ma dove, ma come?
In questa attesa, in questa ansia del nuovo arriva l’esplodere di Resnais e della Nouvelle Vague attraverso il meccanismo allora in voga del cineforum. Nella piccola e chiusa provincia dove vivevo, Trento, il cinema sociale interrompeva la sequela dei film in programma per regalare a noi patiti del nuovo dieci giorni di proiezioni seguite immancabilmente da discussione o dibattito che sia. Qualcosa di sconvolgente e nello stesso tempo di coinvolgente dentro l’atmosfera chiusa della piccola città. Al termine di quella pausa o astinenza per il pubblico ‘normale’ e riprendendo il Cinema Sociale le normali rappresentazioni con ‘Ben Hur’, colossal americano, uno spettatore soddisfatto dell’abbuffata nell’uscire dal locale fu udito esclamare:’ Finalmente un film che pone e risolve un problema!’ Già perché il non tirarci fuori la cosiddetta morale o conclusione che sia era un po’ il nuovo credo artistico. E proprio in quegli anni (1962) Umberto Eco usciva col suo ‘Opera aperta’ a giustificazione della nuova tendenza.
Sia Resnais sia i cineasti della Nouvelle Vague (che provenivano dai Cahier du Cinema) improvvisamente venivano ad operare una radicale rottura coi moduli narrativi tradizionali sia del cinema sia della narratio romanzesca. La longevità creativa di Resnais si può spiegare in vario modo. Innanzitutto con la sua flemma che non ammetteva discussioni a costo di apparire distante e anche soverchiante. In secondo luogo egli si serviva e sapeva servirsi, di volta in volta, di uno scrittore ad hoc che lavorava attorno al copione. In quel corto terribile dedicato ai campi di sterminio nazisti si era servito di uno scrittore che vi era stato deportato e il risultato è sconvolgente.
Marguerite Duras nata e cresciuta in Indocina, autrice assolutamente ribelle a qualsiasi classificazione fu colei che lavorò alla stesura del testo di ‘Hiroshima mon amour’, film che irruppe come novità assoluta e sovvertitrice dentro l’operoso quasi soporifero tran tran dell’Italia. Per tanti giovani (io avevo 18 anni) i tanti temi mescolati dalla sapiente mano del regista, la Bomba orrenda, la distruzione, la tragedia collettiva, la relazione affettiva fra un giapponese e un’europea, il sesso, i silenzi, le incerte, a tentoni prese di coscienza fra i due apparvero come vera e propria epifania sovvertitrice.
Il passo successivo ‘L’anno scorso a Marienbad’ vedeva all’opera un altro scrittore, quel Robbe-Grillet teorico del Nouveau Roman e fondatore della cosiddetta école du renard che rifiutava il romanzo tradizionale e la sua presunta mimesi del reale. Il ricordo che ancora ne porto è di una sontuosa, geometrica e in definitiva assolutamente algida anzi glaciale perfezione formale. Davide Montemurri che vi ebbe una parte ricorda la distanza che il regista frapponeva fra sé e gli attori, quasi temesse una possibile, deprecabile, invisa contaminatio. M era in definitiva il necessario distacco che il regista si imponeva e imponeva presagendo quella lunghissima, inalterabile, incredibile creatività au but du souffle.

da “Utopie Letali”

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[Da quando, più di tre anni fa, è iniziata l’avventura di “alfabeta2”, ho cominciato a seguire il lavoro di Carlo Formenti, e mi è parso ben presto insostituibile all’interno della costellazione teorica dell’anticapitalismo di sinistra. Insostituibile, innanzitutto, per la sua capacità di criticare parole d’ordine che in questi anni hanno facilmente attecchito tra le file della pur dispersa sinistra radicale. Parole d’ordine spesso elaborate in laboratori universitari e poi date per buone dai movimenti. In questo suo libro appena uscito, di cui pubblichiamo le conclusioni, è possibile anche leggere la parte propositiva della sua riflessione. a. i.]

I dimenticati del terremoto

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di Angelo Mastrandrea

da IL PAESE DEL SOLE
EDIESSE Marzo 2014

    All’ingresso di San Gregorio c’è una voragine lunga qualche decina di metri e larga un po’ meno. «Lì c’era casa mia, è stata abbattuta perché pericolante, attendo che arrivino i soldi per ricostruirla».

    Carlo Cinque abitava dove ora crescono le erbacce, in questo borghetto di case in pietra che piange il cuore a vedere così malridotto: ferito a morte dal terremoto di quattro anni e mezzo fa, abbandonato, destinato a essere cancellato dalle cartine geografiche. San Gregorio è una delle 59 frazioni dell’Aquila, neppure la più lontana dal capoluogo. Troppo piccole per avere la pretesa di assurgere alla dignità di comune autonomo, ma ognuna con una vita propria, una sua storia, un’identità e una fisionomia uniche. Bisogna prendersi la briga di venire fin qui, fuori dalla città e lontano dallo scandalo del centro storico senza vita, per comprendere fino in fondo in che modo vivono i dimenticati del terremoto abruzzese, come interi paesi siano stati uccisi, e con essi un intero tessuto economico e culturale sia stato lasciato marcire. Il loro cuore si è fermato alle 3 e 32 del 6 aprile 2009, quando una tremenda scossa – magnitudo 6,3 della scala Richter – ha cambiato per sempre l’assetto urbanistico e sociale di un pezzo di Italia appenninica. Il resto lo hanno fatto gli uomini.

    Carlo Cinque oggi vive in uno dei moduli abitativi provvisori costruiti dal Genio militare sulla collina che sovrasta San Gregorio, una delle 19 new towns sorte a margine dei centri abitati distrutti, vere e proprie «non-città», come le definirebbe l’antropologo francese Marc Augè, o ancora peggio «anti-città», come le ha definite Barbara Spinelli su «Repubblica» sottolineandone la cancellazione di un elemento costitutivo fondamentale: la polis, ossia quella forma di organizzazione civile, politica, urbanistica che trasforma gli individui in cittadini. La casetta provvisoria del signor Cinque è un’abitazione di 40 metri quadri in legno e dalle pareti in cartongesso, poggiata su una superficie in cemento armato. Prima o poi dovrà lasciarla per tornare ad abitare una casa vera, ma quel giorno pare ancora lontano. Nell’attesa, ogni mattina il nostro interlocutore esce per andare al lavoro, da geometra all’Agenzia delle entrate, e ritorna quando ormai è sera. Così fan tutti, nel dormitorio di San Gregorio.

    Nessuno sa quanto eterna sarà la provvisorietà. Queste casette non sono fatte per reggere a lungo, da queste parti il tempo è inclemente e le infiltrazioni di umidità sono comuni come i raffreddori invernali. Ma lo scandalo peggiore non sono tanto le condizioni in cui versano le abitazioni, la loro fragilità, la sproporzione evidente tra soldi spesi e servizio fornito, quanto il non aver neppure immaginato la possibilità di una vita sociale. A San Gregorio non c’è un bar, un negozio o un luogo di ritrovo per i suoi trecento abitanti. È stato costruito un centro civico ma rimane chiuso «per diatribe sulla gestione», e le panchine nella piazzetta antistante sono desolatamente vuote. Un po’ di movimento c’è solo quando il bus scarica i ragazzi di ritorno da scuola e i pochi senza patente. «Qui devi avere la macchina per spostarti, altrimenti sei finito», spiega Cinque. Nelle 19 new towns che circondano L’Aquila come una corona di spine sono stati trasferiti poco più di 15 mila terremotati – su 60 mila sfollati complessivamente – e l’unico problema che non esiste è quello del parcheggio.

    Per comprendere appieno cos’è stato il berlusconismo vale la pena farsi un giro da queste parti, entrare nelle case, osservare la vita nei suoi aspetti più minuti. Alle vittime del sisma è stata fornita un’abitazione con tutti i confort: la televisione, la lavatrice, il ferro da stiro, persino lo schiaccianoci e una bottiglia di spumante come segno di benvenuto, poi sono stati abbandonati al loro destino. All’esterno, il deserto. Carlo Cinque aspetta che arrivino i soldi per ricostruire la sua casa laddove era prima del terremoto. «Per ora stanno solo demolendo le case pericolanti», sono passati quattro anni e mezzo e la ricostruzione appare una chimera. Facciamo una passeggiata nelle stradine dell’antico borgo, violando con facilità le transenne della “zona rossa”. A San Gregorio il terremoto ha fatto otto vittime, le case hanno retto abbastanza e, a girare tra i vicoli, si ha quasi un’apparenza di normalità. A un balcone ci sono dei panni stesi ad asciugare. Stanno lì da quattro anni e mezzo, nessuno è venuto a riprenderseli. Il paese è morto: su settecento abitanti ne sono rimasti una decina, gente che abitava ai margini del centro storico e che per questo ha potuto ristrutturarsi l’abitazione o autocostruirsi una baracca in legno nella quale poter risiedere. Chi poteva lo ha fatto, preferendo il proprio giardino a una asettica new town.

    Giusto a fianco alla voragine che un tempo ospitava la casa di Carlo Cinque si lavora alla ristrutturazione di un edificio religioso: «È la chiesa di Putin», intitolata a San Gregorio Magno. Leggo sul cartello che indica la data di inizio dei lavori, i progettisti, ecc: «Intervento finanziato dal governo della Federazione russa, importo 1.957.288,37 euro». È l’eredità del G8 voluto da Berlusconi proprio a L’Aquila, nel 2009: la Russia ha «adottato» l’edificio religioso e pure un palazzo settecentesco nel centro della città, mentre il governo del Kazakistan – lo stesso del caso Shalabayeva – ha ristrutturato a sue spese l’Oratorio di San Giuseppe dei Minimi.

    Camarda è un piccolo borgo arroccato su una roccia lungo la strada che porta al Gran Sasso. L’Aquila è distante una ventina di chilometri, di cui la prima metà sono tornanti che attraversano un suggestivo canyon. Il paese ha retto meglio di altri l’urto sismico, forse perché le case nascono come appendici alle grotte, che generalmente erano usate come cantine. In una di queste, Anna Barile ha portato due bombole del gas e un fornello, e organizza di tanto in tanto qualche serata “clandestina” con gli amici, riportando per qualche ora un po’ di vita in un paese-fantasma. Mentre Camarda si spopolava lei vi si è invece trasferita. Romana, trapiantata all’Aquila da vent’anni e sfollata a causa del terremoto, dopo otto mesi in una tendopoli è riuscita a farsi assegnare un appartamento di 40 metri quadri nella new town costruita sulla collina di fronte all’antico borgo grazie al fatto che il suo compagno Paolo è originario di questi luoghi. A dirla tutta, una parte dei terreni sui quali hanno costruito la città nuova era di sua mamma, gliel’hanno espropriata «e non hanno ancora pagato». «C’erano vigne, boschi, cave di tartufo, alberi secolari. Hanno abbattuto tutto», racconta. Ora ci sono file ordinate di case a due piani, circondate dall’asfalto. Anche qui, come a San Gregorio, non c’è un bar, un negozio o un qualsiasi altro punto di ritrovo, la posta apre due volte a settimana e per far la spesa bisogna attendere che passino i venditori con i furgoncini. Alcuni girano porta a porta, un camioncino che trasporta latticini parcheggia in un piazzale deserto in attesa di qualche raro passante. Chi soffre più degli altri, in queste new town che non hanno più nulla di quelle old e da cui prendono il nome, sono gli anziani, sradicati, più che dalle loro vecchie case, dal tessuto di relazioni del paese. Li vedi uscire solo quando passano gli ambulanti. Fanno la spesa e rientrano nelle loro case, spesso senza scambiare tra loro neppure una parola. «Qui a Camarda morti per il sisma non ce ne sono state. Sono arrivate dopo, sotto forma di infarti, depressioni, suicidi», sostiene la mia interlocutrice.

    Nelle “anti-città” del dopo-terremoto in Abruzzo si vive così, rintanati come topi nelle proprie tane. Si esce solo per andare a scuola o al lavoro, e ogni giorno scendere verso la città e poi rientrare è un piccolo viaggio. Anna Barile ci tiene a farmi vedere quello che è diventato l’unico spazio di socialità di questa new town sotto il Gran Sasso. È quello che definisce un «orto insorto»: un quadrato di terra con piccole coltivazioni, un tavolone per pranzi e cene, una capanna di legno e uno spazio giochi per bambini. «Si è trattato di un atto di ribellione, la dimostrazione che anche senza risorse economiche si può fare qualcosa di meglio di quello che è stato fatto», dice.

    I soldi buttati al vento nella ricostruzione dell’Abruzzo sono stati tanti. L’europarlamentare danese Soren Sondergaard ha appena consegnato al Parlamento europeo un dettagliato dossier che mette in fila tutte le assurdità della gestione del post-terremoto: ogni appartamento di quelli che mi stanno di fronte è costato il 158 per cento in più rispetto ai prezzi di mercato, diversi appalti sono finiti a società in contatto diretto o indiretto con la criminalità organizzata, il calcestruzzo è stato pagato quattro milioni oltre il previsto e i pilastri degli edifici hanno sforato di 21 milioni il prezzo preventivato.

    Anna Barile ci aggiunge i costi del pacco dono berlusconiano: 10 mila euro per i tozzetti alle mandorle, 9 mila per i portachiavi con lo stemma della Protezione civile, 24 milioni per l’irrigazione artificiale dei giardini «che non funziona perché mancano le cisterne» e così via per altre inutilità servite solo ad alimentare l’ideologia individualista della «tana casalinga» – rubo il termine ancora una volta a Barbara Spinelli – e il culto della finzione, prerogativa essenziale del berlusconismo. Come per i limoni finti fatti piantare a Genova per il G8 del 2001, mentre attorno si scatenava l’inferno.

    Il centro storico di Camarda è stato abbandonato anche da qualcuno che, sfortunatamente, aveva ristrutturato l’abitazione poco prima del sisma. Come si fa ad abitare in un paese-fantasma, senza servizi e attività? Le bollette però continuano ad arrivare, nonostante il gas sia stato staccato all’indomani del 6 aprile e le case siano state dichiarate inagibili e dunque inabitabili. Il contenzioso va avanti da mesi: le agevolazioni previste dall’Autorità per il gas e l’energia elettrica non sono state prorogate ed è accaduto che l’Enel abbia richiesto anche gli arretrati, dal giorno del terremoto.

    Felice invece non ha voluto saperne di andarsene e continua ad abitare nella casa puntellata e piena di crepe nella piazzetta di fronte alla chiesa. È l’unico abitante del paese antico. Poco più su, in cima a una torre, l’orologio del Treo continua imperterrito a sbagliare l’ora con estrema precisione: la vendetta postuma dell’orologiaio cui non fu corrisposto il compenso pattuito – «l’orologio del Treo è sempre matto per cinque lire mancate al patto fatto», recita un proverbio locale – ha resistito all’usura del tempo e alla violenza del sisma. All’ingresso del paese, ai piedi della collina, Pasqualina non ha chiuso neppure un giorno il suo negozietto di generi alimentari. E così ogni sera il negozio si trasforma in punto di ritrovo per i dimenticati di Camarda.

    Arrivo a Pescomaggiore avendo negli occhi le immagini delle new towns visitate e nella mente le parole del dossier di Sondergaard: i moduli abitativi provvisori come quello in cui vive Carlo Cinque sono costruiti con «materiale generalmente scarso, impianti elettrici difettosi, intonaco infiammabile». Quassù, invece, a oltre mille metri di altitudine, nel nevischio incombente, le case hanno deciso di ricostruirsele da soli, dimostrando che si poteva fare diversamente.

    Sarebbe bastato dare ascolto a quel gruppo di architetti esperti di bioedilizia arrivati a L’Aquila all’indomani del sisma animati da tanta buona volontà per creare dei villaggi a misura d’uomo e d’ambiente. Invece sappiamo com’è andata: troppo ghiotto l’affare per le ienae ridentes della shock economy, l’“economia dei disastri” i cui meccanismi globali sono stati svelati dalla giornalista canadese Naomi Klein.

    Gli unici che hanno dato loro credito sono stati un gruppo di abitanti di questa frazione aquilana in piena montagna. Così in cima a tutto, alle porte del paese semiabbandonato e con una vista mozzafiato sulla vallata, è nato Eva, un acronimo che vuol dire Ecovillaggio autocostruito. Sono sette abitazioni che qui chiamano “le case di paglia” per via della loro composizione: la paglia è nei muri, compressa da una rete zincata sulla quale viene gettato l’intonaco.

    Le travi e tutta la struttura delle case sono invece di legno. Il risultato è eccezionale: ogni abitazione rispetta l’ambiente ed è perfettamente isolata dalle intemperie.

    Gli abitanti di Eva, non più di una dozzina di persone, hanno messo su anche un orto sinergico, un impianto per la fitodepurazione e un altro per il compostaggio. L’obiettivo è raggiungere l’autosufficienza alimentare. L’ecovillaggio edificato su questa punta d’Abruzzo, per le sue caratteristiche e la lontananza anche geografica dalla modernità, è diventato in breve tempo una sorta di città ideale per neoruralisti, territorialisti, seguaci del filosofo della “decrescita felice” Serge Latouche ed ecologisti radicali, per cui gli abitanti hanno costruito anche una casa per gli ospiti, che arrivano da tutto il mondo. «Un giorno si è presentato qui persino un giapponese da Fukushima», ricordano. La porta è sempre aperta: all’interno ci sono pomodori messi a maturare e arnesi da lavoro. In un’altra abitazione Evandro, un operaio edile, sta finendo il bagno di quella che sarà la casa del figlio. «Se avessero fatto tutti come noi, sa quanto si sarebbe risparmiato?», dice. Per costruire il villaggio sono bastati 150 mila euro, raccolti attraverso una sottoscrizione via web. Nel frattempo, i costi delle case nelle new towns lievitavano a 2.800 euro al metro quadro.

    Il paese non è stato completamente distrutto, però è abbandonato. Il terremoto non ha fatto altro che accelerare, qui come in altri piccoli borghi sperduti dell’Abruzzo, un processo di spopolamento già in corso da tempo. Ormai Pescomaggiore è abitato non più di qualche decina di persone. La vita quotidiana, quassù, non è agevole. Senza negozi e attività produttive, e con una produzione agricola quasi inesistente, per qualsiasi necessità bisogna scendere a valle fino a Paganica. Vengono alla mente le immagini di un celebre documentario di Vittorio De Seta: I dimenticati.

L’anno era il 1959 e ne erano protagonisti gli abitanti di Alessandria del Carretto, un borgo del Pollino ai confini tra Basilicata e Calabria, dove si arrivava solo a dorso di mulo. A Pescomaggiore è stato rimesso in funzione solo un forno sociale, dove si fa il pane in comune, soprattutto d’estate, quando spesso si organizzano tavolate all’aria aperta. Gli anziani del paese hanno così ritrovato un pezzo di tempo perduto e gioiscono: così si faceva fino a quarant’anni fa. C’è voluto un devastante terremoto per far riaffiorare una cultura sepolta.

Nel debito d’affiliazione

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di Lorenzo Mari

Figlio di questo e di quella

Manto, Tiresia. Sei figlio di questo e di quella,
della storia e dell’incesto,
dell’impossibile piacere
di tutti, che è deserto
per chi resta. (O anche
un limbo tratto dall’inferno,
correggendo, lievi, la svista.)

Smamma mia

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smammaCon mia somma gioia l’amica Valentina Diana ha accolto la mia richiesta di pubblicare su NI due estratti del suo fantastico libro, Smamma appena pubblicato da Einaudi. Superlativo (il libro). effeffe

Sulla torta

di

Valentina Diana

Quando non so più come prenderti vado al supermercato e compro una torta di quelle nei sacchetti, che si preparano in fretta. Potrei farla anche da zero, con la farina, il lievito eccetera. Ma non mi sento sicura. Voglio fare una torta da vera mamma, ma non sapendo bene cosa sia una vera mamma, mi affido al sacchetto con l’impasto pronto. Perché in quel sacchetto c’è tutta la mammità che riesco a immaginare. In quel sacchetto ci sono tutte le mamme patinate, coi sorrisi a trecentosessantacinque denti, con i capelli puliti e lucidi e le tette floride. Ci sono anche le mamme delle mamme con la loro esperienza di mamme di una volta e la loro saggezza su come si fa una torta e come si tirano su i figli.

Quando non so più che pesci pigliare, compro una di queste torte nei sacchetti e la porto a casa e la faccio.

Dopo, quando la tiro fuori dal forno, annuso il profumo e penso che vorrei che tutta la nostra vita fosse come quel profumo: inattaccabile.

Ma una torta non è una mamma.

Poso la torta sul tavolo, la lascio lì, esco. Quando torno la torta è stata tagliata e mangiata quasi interamente, ne hai lasciato solo due minuscole fettine per me e per Gi.

Due fettine di cortesia.

Una torta di dimensioni non eccessive, ma neanche un tortino.

Deduco che ti sia piaciuta.

Non parliamo mai delle cose che ti piacciono.

 

Se noi

 

Ultimamente spio nelle case. Forse alla ricerca di una soluzione, dato che mi è presa questa fissa di osservare le famiglie, cioè, per dirla come il Manuale dello Specialista Tedesco, le relazioni tra le persone che condividono uno stesso spazio abitativo, come una casa in cui vivono una madre, un padre e alcuni figli.

Ho guardato molto nelle case, da fuori.

Quelle villette, in inverno, quando fa freddo e per le strade fiocca  neve, ho spiato le case dalle finestre, ci ho guardato dentro per cercare di capire come si fa ad essere normali.

Mi è sembrato che in quelle case regnasse un’armonia, a guardarle da fuori, una stabilità, una normalità, appunto, che noi non ci siamo mai potuti sognare.

Io vorrei essere con tutta me stessa in una di quelle case che guardo da  fuori.

Vorrei che io e te e Gi stessimo tutti e tre insieme in una di quelle case, case che dal di fuori, guardandole dalle finestre, quelle villette serene o quelle case del centro, con i soffitti alti e i lampadari, mi ispirano un senso di perfezione incommensurabile.

Se noi stessimo là. Se noi stessimo là dentro e non così fuori, le cose filerebbero in un altro modo.

Mi sono appostata  ad osservare gli abitanti delle villette a schiera e dei condomini per vedere cosa ci facevano dentro, cosa avevano loro che eventualmente a noi mancava.

A parte i soffitti dipinti.

Niente. Non facevano niente. Niente di particolare. Si alzavano, si spostavano. Accendevano magari una luce in una stanza, poi la spegnevano.

Chiudevano le tendine o le lasciavano aperte. Riponevano i piatti nell’acquaio, sparivano, ricomparivano gesticolando con qualcosa nella mano. A volte ridevano. Mi pareva che ridessero.

Niente di particolare, come ti dico. Niente che lasciasse presagire un segreto. E allora perché noi no, perché non possiamo anche noi essere come quelli, avere quello swing. Mi chiedo se qualcuno, passando fuori da casa nostra e vedendo per esempio me e te e Gi a tavola, mentre tu dici che la pasta fa schifo perché non è abbastanza cotta o che manca sale o che è la terza volta che mangiamo pasta in due giorni o ti lamenti che non c’è più coca, mi chiedo se qualcuno passando potrebbe avere l’impressione, da fuori, che anche noi si sia una famiglia. Una famiglia normale.

 

Si vis bellum, para bellum

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di Giorgio Mascitelli

Il 4 marzo scorso il Corriere della sera ha pubblicato il discorso tenuto dall’illustre nuovo filosofo Bernard-Henry Lévy in piazza Maidan a Kiev. L’iniziativa del quotidiano di via Solferino non è rimasta isolata: a me è capitato di vedere la versione tedesca sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung e suppongo che versioni in altre lingue europee siano apparse in sedi altrettanto prestigiose.

In questo discorso Lévy afferma che il popolo della Maidan è costituito da veri europei, da veri figli di Voltaire che  hanno versato il sangue per combattere la tirannide; che le accuse di nazismo o antisemitismo non solo sono false, ma da rivolgere ai russi che occupando la Crimea si sono comportati come Hitler con la Cecoslovacchia ( che invase l’intero paese nel 1938 con il pretesto di portare soccorso alla minoranza tedesca che viveva nel sud-ovest); che Klitschko, il capo del partito di centrodestra Udar, è il nuovo Danton; che bisogna intervenire in soccorso dei fratelli dell’est dell’Ucraina. Il testo non è privo di qualche passaggio involontariamente comico come quando il celebre filosofo invita l’Europa a comportarsi con Putin come si è comportata con Yanukovich: ecco che in un solo colpo vengono confermati due capisaldi della propaganda del Cremlino, negati con forza dalle cancellerie occidentali,  ossia il fatto che Yanukovich sia stato rovesciato dall’azione di forze esterne al paese e che ciò è stato fatto per minacciare la Russia.

Da circa vent’anni ormai capita di leggere/sentire in occasione di crisi internazionali discorsi analoghi a cura dello stesso Lévy o di qualche suo collega. Si tratta con evidenza di discorsi propagandistici caratterizzati da un impianto retorico non troppo dissimile da quello dei discorsi che andavano in voga intorno al 1914. L’aspetto più particolare è che tali testi vengono pubblicati in sedi che di solito si contraddistinguono per ospitare analisi e ragionamenti pacati e argomentati, dunque conferendo implicitamente a essi un valore di rappresentatività dell’ethos occidentale.

Lo schema è  grosso modo sempre  il medesimo: evocazione di principi universali in modo abbastanza astratto, loro opinabile applicazione alla situazione concreta rifiutando qualsiasi analisi della sua formazione storica e degli interessi politici ed economici presenti, richiamo alla necessità di agire rapidamente e unilateralmente per non diventare conniventi di un crimine contro l’umanità, assimilazione del nemico di turno a Hitler, implicita o esplicita classificazione di tutti gli scettici o avversari come potenziali collaborazionisti o utili idioti del nemico.  Naturalmente qualche variante c’è sempre: per esempio lo stesso Lévy in occasione della guerra in Libia sosteneva il diritto per le nazioni straniere a intervenire nel territorio di un altro paese.

Il cattivo gusto letterario di questi discorsi è l’indice della loro grossolanità e miopia politiche. In fondo la base di autolegittimazione politica che Putin ha usato per quell’occupazione della Crimea, che fa incazzare così tanto Lévy, gli è stata fornita da lui stesso in anni di teorizzazioni del diritto all’ingerenza umanitaria. Poi naturalmente non si può assolutamente paragonare questo intervento con quelli occidentali: in Crimea finora non è stato sparato un colpo, né è stata distrutta una casa o un’infrastruttura.

Questo discorso ha fatto progressivamente breccia in tutti settori delle società occidentali, grazie anche alla loro crescente depoliticizzazione,  e influenza il modo di osservare le cose anche in chi avrebbe strumenti culturali per osservare in maniera più articolata la situazione. Prova ne sia che l’uso dei diritti civili, per esempio delle donne, degli omosessuali o delle minoranze etniche, come grimaldello politico per attaccare certi paesi per tutt’altri motivi, benché sia dannosissimo per quelle cause, non solleva ormai obiezioni di sorta; o ancora il totale disinteresse per la sorte dei paesi che hanno beneficiato di un intervento bellico umanitario, una volta che questo si sia concluso con le elezioni: il fatto che in questi paesi non esista più uno straccio di vita civile e  che per molti dei loro cittadini la democrazia sia sinonimo semplicemente della pallottola vagante che ti può ammazzare mentre stai andando al mercato non ha suscitato nessun serio dibattito.

Non basta però la forza mediatica della propaganda per spiegare questa accettazione quasi unanime di un discorso così impregnato di una logica di guerra. Esso nasce da una sincera convinzione, da un’idea dominante nella società  che si sviluppa a partire dagli anni novanta: è l’idea che la vittoria sul comunismo fa dell’occidente non solo la guida del mondo, ma in qualche modo la sua verità e la sua razionalità in termini assoluti. Ciò che è buono per l’occidente è buono per il mondo.

Questa idea è presente implicitamente in varie formulazioni famose da quelle trionfalistiche di Fukuyama sulla fine della storia a quelle sulla missione statunitense di pacificare il mondo.  Si inscrive a pieno titolo in questo modo di pensare anche Obama quando ha detto, due o tre giorni fa,  che la Russia si trova dalla parte sbagliata della storia. Se però ci chiediamo quale senso abbia questa affermazione non possiamo certo pensare che si riferisca al fatto che la Russia abbia invaso un’altra nazione, visto che questa è un’attività che hanno fatto più spesso gli USA negli ultimi anni;   né che Mosca sostenga un sistema economico ormai superato, visto che l’impopolarità di Yanukovich è cominciata proprio con il suo tentativo di fare quelle riforme di mercato che la Timoshenko o chi per essa sarà chiamata a fare; né che la Russia non rispetti i governi democraticamente eletti, viste le giravolte di Obama in Egitto. L’unico significato plausibile di questa affermazione è che Mosca va contro la storia perché va contro ciò che gli Stati Uniti ritengono essere giusto. E’ inutile sottolineare che questa logica è perfettamente speculare a quella putiniana del rinascente nazionalismo russo.

In questa storia la ragione non sta da nessuna parte: la ragione è uscita un attimo a prendere le sigarette e poi non è più tornata.

Teletubbies forever

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di Helena Janeczek
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I tatuaggi li ami o li odi. Quando una cosa divide in fazioni opposte, diventa difficile guardarla senza troppi preconcetti. A meno di non voler tentare una postura elevata, una postura tipo filosofo francese che si avventura sovrano nella selva dei simboli e dei segni. Potrebbe dirci che l’umanità odierna è così incerta di se stessa da volersi procurare il senso della propria unicità marchiando indelebilmente la propria pelle, la superficie di contatto del corpo con l’esterno.

Nomi cognomi e infami

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Teatro della Cooperativa

dall’11 al 16 marzo 2014
produzione Bottega Dei Mestieri Teatrali
con il contributo di Next Regione Lombardia e Fondazione Cariplo-Etre
NOMI COGNOMI E INFAMI
di e con Giulio Cavalli

Nomi, cognomi e infami è nato come viaggio tra storie di persone “normali” diventate eroiche per per la pavidità tutta intorno, da Peppino Impastato a Paolo Borsellino, da Libero Grassi a Bruno Caccia fino ai riti e conviti mafiosi che brillano in tutta la loro povertà culturale ed etica. Il canovaccio di Nomi, cognomi e infami è quello che ci succede intorno: le città che cambiano forma per dare forma ai soldi che vanno riciclati, gli episodi di mafia che non vengono riconosciuti come tali e che basterebbe mettere in fila e soprattutto i nomi e i cognomi e questa abitudine persa di indicare i colpevoli per esporli ad un giudizio pubblico. Dice Mark Twain che “non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma di ciò che crediamo vero e invece non lo è”: noi in scena proviamo a ridere e disarticolare la nostra paura.

cavalli 2“Caro picciotto, o se preferisci, visto che hai imparato a pettinarti e vestirti pulito, caro estorsore, o, se preferisci, caro esattore. E poi caro al tuo capo ufficio, quello che sta seduto a contare i soldi quando alla sera raccoglie le mesate del mandamento, quei soldi che vi auguro che vi marciscano in mano. E poi cari a tutti i falliti, perché è da falliti mangiare sulla metastasi della paura degli altri, oppure, per capirsi meglio, cari a tutti gli uomini d’onore, così ci capiamo meglio, così vi prendiamo dentro tutti e entriamo subito in tema. Sono un commerciante di parole, a volte me le pagano bene, e arrotondo sempre il peso prima di chiudere la vaschetta. […] Questa sera apro la saracinesca fuori orario e vi vengo a cercare io, ma mica per i cinquecento euro così sto messo a posto, ma perché avrei, dico almeno, un paio di domande, una cosa da niente, mica per capire dove non c’è niente da capire, ma per togliermi il peso. Il peso di una curiosità che alla fine cercate sempre di farci pagare nel mercato della vigliaccheria di cui siete i detentori.”…

Giulio Cavalli

ORARIO SPETTACOLI:
mar | sab: 20.45
dom: 16.00
lun: riposo

L’alba delle macchine?

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di Matteo Telara
how US adults use a smartphone
Ovunque voi siate in questo momento è molto probabile che il vostro smartphone (in caso ne abbiate uno, come la maggior parte della popolazione del mondo occidentale) sappia dove vi trovate.
Per essere più specifici, è praticamente certo che sappia dove siete stati ieri, i messaggi che vi siete scambiati e con chi, e che programmi avete fatto per la serata.

Il tuo smartphone sa dove vivi, chi conosci, se sei in internet e cosa fai quando navighi. Conosce la tua famiglia, le foto dei tuoi amici e delle tue vacanze, i tuoi amori, i tuoi desideri, gli appuntamenti della settimana entrante e a che ora devi svegliarti domattina per andare al lavoro.

Toporlandia

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topor-volanddi Romano A. Fiocchi

 

Roland Topor, Memorie di un vecchio cialtrone, a cura di Carlo Mazza Galanti, Voland, 2013.

 

Erik Satie, musicista francese poco noto in Italia, è stato innovatore stravagante e ricercatore di suoni. Il vecchio cialtrone lo segue sino alla sua abitazione e svela il suo segreto improbabile: “In ogni angolo della casa c’era carta da musica coperta di scarabocchi. Non capii subito che si trattava di spartiti inediti. Decifrai non senza difficoltà qualche frase musicale… La loro crudezza mi colpì! Era questo l’incredibile segreto di Satie: scriveva di nascosto musica pornografica!”

Poi incontra Orwell, proprio lui: George Orwell, che l’aiuta ad accompagnare una donna un po’ alticcia nella stanza d’albergo numero 1984. Sembra una data, gli fa notare il vecchio cialtrone. Orwell si spaventa: non oso immaginare come sarà il mondo nel 1984, dice. Fate male, replica il vecchio cialtrone, senza dubbio sarà interessante. Orwell sospira: sarà il caso che mi rimetta a scrivere.

Arriva anche Hemingway, con il suo vizio di distribuire grosse manate sulle spalle degli amici. Per fargli perdere l’incresciosa abitudine, il vecchio cialtrone lo accompagna a visitare il campanile del villaggio, mette in moto la campana e la fa sbattere “senza clemenza” contro la testa del romanziere. Dopo aver ripreso i sensi, le prime parole di Hemingway sono: per chi suona la campana? Per te, vecchio mio, gli risponde il vecchio cialtrone, bisogna battere forte per risvegliare la ragione di un uomo. Conclusione del vecchio cialtrone: Hemingway comprese la lezione e non mi serbò rancore.

Ecco insomma in cosa consiste la cialtroneria del protagonista. Le aberrazioni del suo mondo reale-irreale continuano all’infinito. Il vecchio cialtrone, guarda caso chiamato ora Roland, ora con ironica inversione sillabica Laurent, non solo è il più grande artista del Novecento (“Un uomo può incarnare la Storia. Io sono stato quell’uomo per quanto riguarda la storia dell’arte”), ma rivive tutta la storia artistica musicale letteraria cinematografica politica e di costume del secolo, incontra i principali protagonisti e a tutti – artisti e non – sa dare un consiglio determinante per il loro successo. A Picasso, che gli copia Les demoiselle d’Orange ribattezzandole d’Avignon, suggerisce l’idea del cubismo. A Proust lo spunto evocativo delle madelaine per la sua monumentale Recherche. A Ghandi, in rotta con la suocera, il suo atteggiamento filosofico della non violenza. “Li ho conosciuti tutti, tutti! – proclama il vecchio cialtrone quando ricorda i colleghi artisti – E quelli che non ho incontrato dal vivo, li ho visti in televisione. Sono io che gli ho dato le idee migliori, io che ho mostrato la strada dell’arte moderna. Loro si sono limitati a seguire la via tracciata dalla mia opera”.

topor-catalogo1986

Topor è un artista dalla creatività vulcanica. Ho avuto il mio primo incontro con lui – intendo con la sua opera – nel 1986, a Milano, in occasione di una mostra antologica allestita presso Palazzo Reale. Fu un’esperienza destabilizzante. Ero poco più che un ragazzo. Abituato alle mostre d’arte di autori canonizzati, tutta quella grafica da illustratore cinico e provocatorio al limite della brutalità si impresse nella mia memoria in modo indelebile. Il Pinocchio che bacia la Fatina (non dai capelli turchini ma bionda) e le trafigge il viso con il naso di legno, immagine poi utilizzata nella copertina del catalogo, per anni mi sembrò il simbolo della sua visione parodistica e distorta del mondo. Topor per me era un Pinocchio surreale, crudo e dissacratore.

Ora, grazie a Voland, scopro che Topor è stato anche altro (come dire che non è stato un Pinocchio surreale senza essere anche Pescatore verde, terribile Pescecane, Grillo parlante, Mangiafuoco, il Gatto e la Volpe, eccetera). Topor ha scritto sceneggiature, disegnato lungometraggi di animazione

Il pianeta selvaggio 

recitato nel cinema Nosferatu  (NosferatuRatataplan), ma soprattutto scritto anche libri. È stato uno scrittore cialtrone e travolgente, fedele al suo motto “Il mondo è banale, l’artista eccezionale”. Così eccezionale da ricostruire il mondo a modo suo. Un mondo paradossale e visionario che ripercorrere la Storia proiettandola in una galleria di specchi deformanti. Topor è parodia di tutto e di se stesso. Dalla letteratura alla musica, dalla pittura al cinema, a cominciare dal titolo del libro, Memorie di un vecchio cialtrone, che ricalca il Taccuino di un vecchio porco di Bukowski. In tutto il testo non c’è un solo nome inventato ma neppure una storia che non sia stravolta. Sfilano artisti come Duchamp (con cui gioca spesso a scacchi) e Toulouse-Lautrec, poeti come Apollinaire e Majakovskij, scrittori come Camus e Céline, scultori come Brancusi e Giacometti, sino al presidente americano Wilson, all’inventore Edison, al regista Vertov, a criminali come Al Capone e Landrou, a disegnatori come Walt Disney. Sono trecentosettantotto i “nomi citati” in ordine alfabetico alla fine del testo, da Albers a Ziegfeld.

Inventato è dunque tutto il resto: la storia dell’incontro di ognuno di questi personaggi con il protagonista, gli assurdi stravolgimenti caricaturali della loro vita, le citazioni sommesse travestite da aneddoti (De Chirico che commissiona parte dei suoi dipinti a Morandi e lo paga in bottiglie vuote, il sogno dove il vecchio cialtrone accoltella la moglie ispirandosi ai “tagli” di Fontana, le stringhe che si mangia Cendrars e che tornano nella La febbre dell’oro di Chaplin). La follia affabulatoria del vecchio cialtrone raggiunge l’apice negli incontri con “l’esule russo” Lenin, poi con Stalin, ma anche con l’artista mancato Adolf Hitler e con l’adoratore di ravioli Benito Mussolini. Il protagonista ha una buona parola e un suggerimento disinteressato per tutti.

La cosa straordinaria di queste Memorie è che paradossalmente la coerenza è garantita dall’eccesso. Il lettore non rischia di prendere per vero ciò che non lo è, proprio perché l’esagerazione è spropositata. Ad esempio nella morte di Trotsky in Messico, ucciso accidentalmente dal protagonista mentre lo aiuta nei lavori di giardinaggio. Un colpo di zappa alla testa, come nella Storia. Peccato che lì, nella Storia, a vibrare il colpo non fu un maldestro cialtrone ma un sicario inviato da Stalin. E sapete come Trotsky esala l’ultimo respiro? Ovviamente mormorando: “Voi siete il più grande artista che io abbia mai conosciuto… Promettetemi di continuare la vostra opera…”

Ma il vecchio cialtrone è capace anche di formidabili e surreali slanci poetici (“Il mare è il luogo antibaudelairiano per eccellenza”), di illuminanti battute sarcastiche (“Le croci uncinate che fiorivano ovunque costituivano l’ennesima prova del genio grafico dello spirito tedesco”) e di proclamarsi ideatore di movimenti artistici e periodi di fertilità creativa verosimili ma mai esistiti. Il Glissismo, con cui evoca la velocità, lo spazio, la sensualità del nudo e la brutalità della società iniqua. Il periodo Kleinkust, collocato tra la monocromia di Yves Klein e quella di Manzoni. Il periodo T, dedicato al ritratto, che prede spunto dal modello di una Ford T a seguito di un curioso aneddoto in cui è coinvolto il costruttore di automobili Henry Ford in persona. Il Puntualismo, estetica derivata dal concetto di trasmissione dell’esperienza e del prolungamento delle vite una nell’altra (“Siamo solo dei segmenti di retta, la nostra sola possibilità di comunicazione è puntuale”). O addirittura l’inevitabile “periodo rosa” di Parigi, definito dal vecchio cialtrone come il migliore che abbia mai vissuto, ed ennesimo richiamo a Picasso.

Nella storia del Novecento, secolo caratterizzato dai due conflitti mondiali, il vecchio cialtrone non poteva non prendere posizione nei confronti della guerra. È una posizione di condanna, per quanto alla Topor: “Saliva dall’Europa un odore dolciastro di cadaveri in putrefazione. Quanti Mozart sono stati assassinati dall’inizio del XX secolo? Se soltanto il massacro si fosse limitato ai compositori, il danno sarebbe stato più sopportabile. Ma come valutare con precisione i tesori scomparsi insieme ai loro potenziali creatori?”

L’amore per l’arte suggella con un folle grido anche l’ultimo capitolo, appena prima dell’epilogo: “L’arte è godimento, come la gioia. Come lei è immorale. Viva il denaro! Viva l’Avanguardia! Via il comunismo!”

“Rebibbia 1977”

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di Patrizia Vicinelli

E torno là    torno sempre là

e ho sposato uno che non era il mio

che mi sarebbe rimasto fedele per sempre

e torno sempre a te – ferito a morte –

ho avuto

tanti amanti amori tutti infedeli

per compensazione

ma   torno   sempre   a    te

non lo sapevo non lo sapevo lo giuro non lo sapevo

quel giovedì quel venerdì

di maggio non lo sapevo

e mi hai condannato per l’eternità

e sono a te finché il sacrificio sia grato

a tutti quelli che sanno

agli avi

alla mia misericordia al tempo che sul mio viso

ha scritto la nostra storia

uccelli marini che non abitano qui

parlano ancora della mia vita

furono colpiti da quelle frecce di metallo

acciaio fuso che puntasti contro

e scoccasti-sì-per difenderti

amore che mai sono riuscita ad amare

tremenda ferita che confinava con l’abisso

delle mie radici ancora inesplorate

tremendo abitacolo

che non ha più voluto abbandonarmi

vent’anni quasi e l’assassinio

il rito di quella notte di luna di fine agosto

si ri-compie

come un miracolo

come una dannazione

un back ground che resta unico

un flash back senza ritorno

Uccidimi una volta per tutte

o    lasciami        andare via

via     da     te

 

*

Da Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano. Poesia Prosa Performance. A cura di Cecilia Bello Minciacchi. Firenze: Le Lettere, 2009.

Carte da slegare 2014 – a Patrizia Vicinelli e le altre

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pv

9 MARZO

Sasso Marconi (BO),
Sala Giorgi
ore 17,15

FRAGILI GUERRIERE

con Rosaria Lo Russo (poetrice)

presentazione del progetto poetico-politico Fragili Guerriere di Daniela Rossi e Rosaria Lo Russo e letture da Patrizia Vicinelli, Amelia Rosselli, Rosaria Lo Russo

*

Carte da slegare 2014, a Patrizia Vicinelli e le altre, a cura di Loredana Magazzeni, Martina Campi, Marinella Polidori, Maria Luisa Vezzali, Giancarlo Sissa

 

Ingresso libero