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Lo Schola Post

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scolapasta

 

Alcolismo e insegnamento
di
Régis Jauffret
(traduzione di Francesco Forlani)
Faccio l’insegnante. Disprezzo i miei studenti come un datore di lavoro i suoi impiegati. Se avessi ereditato una fortuna da mio padre, invece di questo bilocale che è spazioso quanto due vasetti di yogurt, non sarei costretto a subire la loro gioventù radiosa e rivoltante per un cinquantenne allo sfascio sulla strada della vecchiaia e della morte. Il liceo in cui insegno si trova in un quartiere borghese della capitale. I genitori non si preoccupano affatto del rendimento dei loro rampolli. Gli basta fare buon uso delle loro relazioni, perché a fine anno il preside riceva una telefonata imperativa di un ministro o del provveditorato che ingiungono di promuoverli alla classe superiore. Nonostante tutto, il mio lavoro mi piace. Per via delle vacanze, degli scioperi, dei congedi per malattia. Inoltre, posso fare lezione anche  pressoché ubriaco, senza che l’amministrazione mi faccia pervenire una nota di biasimo.
Quindici anni fa, ho incontrato una collega assunta da poco, nella sala professori. Abbiamo fatto l’amore nei bagni della palestra. Seguivamo il ritmo delle flessioni che eseguivano gli allievi obbedendo ai colpi di fischietto della professoressa d’ educazione fisica. Abbiamo goduto tirando lo sciacquone per coprire il rumore dei gemiti. Ci siamo sposati il mese successivo per ragioni fiscali.
Adesso abbiamo soltanto rare conversazioni telefoniche. Lei non è completamente impazzita ma il suo stato mentale necessita di un ricovero all’anno. Ha squallidi rapporti con altri pazienti le cui performance sono rese deplorevoli dagli psicotropi. Pur non avendo alcun problema materiale e il cibo è decente, le capita di emettere un lamento che mi pare il primo tiro di una sigaretta interminabile il cui fumo si appresterebbe a gettarmi in faccia. Io riaggancio immediatamente nel timore di peggiorare il morale già a terra tra  burrasche di birra e gin.
Da tempo faccio a meno di una vita sessuale. Preferisco di gran lunga l’alcol, è anonimo, muto, e basta aprire la bocca per raggiungere l’ebbrezza, l’estasi. Gli perdono il mio decadimento e queste nausee che al mattino mi danno l’impressione di essere stato ingravidato durante la notte.

da Microfictions

Poesia contemporanea. XII Quaderno italiano.

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(Ricevo e volentieri diffondo l’esito delle selezioni per il Dodicesimo quaderno di poesia italiana contemporanea, edito da Marcos y Marcos. AB.)

Questi i sette nomi, le cui raccolte costituiranno la pubblicazione:

Maddalena Bergamin, Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Diego Conticello, Marco Corsi, Alessandro De Santis e Samir Galal Mohamed.

XII QUADERNO DI POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA

EDIZIONI MARCOS Y MARCOS

Comitato di lettura: Franco Buffoni (coordinatore) – Umberto Fiori – Fabio Pusterla – Claudia Tarolo – Marco Zapparoli

I lavori si sono svolti in cinque fasi:

A) Una prima selezione ha eliminato circa 150 delle oltre 200 candidature in vario modo pervenute.

B) Nell’arco di dodici mesi (dall’ottobre 2012 all’ottobre 2013) Buffoni, Fiori, Pusterla, Tarolo e Zapparoli, attraverso una fitta serie di letture hanno approfonditamente preso in esame l’opera dei seguenti autori, rilevando in ciascuno di loro vari motivi di interesse poetico:

1. Michele Bellotti
2. Maddalena Bergamin
3. Maria Borio
4. Massimiliano Bossini
5. Alessandro Canzian
6. Lorenzo Carlucci
7. Maxime Cella
8. Tiziana Cera Rosco
9. Diego Conticello
10. Agostino Cornali
11. Marco Corsi
12. Carlo Crosato
13. Guido Cupani
14. Sophie Curzon-Siggers
15. Elisa Davoglio
16. Nicola D’Altri
17. Gianluca D’Andrea
18. Emanuele Del Rosso
19. Roberta Durante
20. Alessandro De Santis
21. Andrea Donaera
22. Daniele Falcinelli
23. Pietro Federico
24. Gregor Ferretti
25. Samir Galal Mohamed
26. Vincenzo Galvagno
27. Gianluca Garrapa
28. Serena Gatti
29. Alessandro Gioia
30. Omar Ghiani
31. Francesco Iannone
32. Raimondo Iemma
33. Domenico Arturo Ingenito
34. Emanuela Lorenzi
35. Franca Mancinelli
36. Massimiliano Martines
37. Luciano Mazziotta
38. Tommaso Meozzi
39. Marco Morbidoni
40. Davide Nota
41. Maurizio Paganelli
42. Silvia Patrizio
43. Antonio Pizzol
44. Cristiano Poletti
45. Daniele Poletti
46. Federico Rossignoli
47. Marco Sandre
48. Marco Tedeschini
49. Leonardo Vilei
50. Stefano Visigalli

C) Un secondo giro di letture della durata di due mesi (novembre e dicembre 2013) ha ridotto la possibile rosa ai seguenti 20 autori:

01. Michele Bellotti
02. Maddalena Bergamin
03. Maria Borio
04. Lorenzo Carlucci
05. Diego Conticello
06. Agostino Cornali
07. Marco Corsi
08. Carlo Crosato
09. Guido Cupani
10. Gianluca D’Andrea
11. Alessandro De Santis
12. Samir Galal Mohamed
13. Omar Ghiani
14. Raimondo Iemma
15. Domenico Arturo Ingenito
16. Franca Mancinelli
17. Luciano Mazziotta
18. Marco Morbidoni
19. Cristiano Poletti
20. Federico Rossignoli

D) Un’ulteriore selezione, avvenuta nel mese di gennaio 2014, ha ridotto a 14 gli autori:

01. Maddalena Bergamin
02. Maria Borio
03. Lorenzo Carlucci
04. Diego Conticello
05. Marco Corsi
06. Gianluca D’Andrea
07. Alessandro De Santis
08. Raimondo Iemma
09. Franca Mancinelli
10. Luciano Mazziotta
11. Samir Galal Mohamed
12. Davide Nota
13. Cristiano Poletti
14. Federico Rossignoli

E) L’ultima selezione è avvenuta nel mese di febbraio 2014. In questa fase si è dovuto tenere conto anche del fatto che alcuni degli autori selezionati avessero nel frattempo pubblicato raccolte importanti con prefatori autorevoli, o addirittura l’opera omnia, rendendo in tal modo meno essenziale o addirittura superflua la loro presenza nei Quaderni. Fatte tutte queste e molte altre considerazioni, il Comitato di lettura ha infine selezionato per il XII QUADERNO DI POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA i seguenti 7 autori:

01. Maddalena Bergamin
02. Maria Borio
03. Lorenzo Carlucci
04. Diego Conticello
05. Marco Corsi
06. Alessandro De Santis
07. Samir Galal Mohamed

Milano, 25 febbraio 2014

Il coordinatore
Franco Buffoni

Scampolo d’estate

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di Luca Ricci

Quello stabilimento balneare per famiglie non era più nel pieno delle sue attività per due motivi: si avvicinava settembre ed erano le due e mezzo del pomeriggio. Chi non stava facendo un sonnellino sulla sdraio era indaffarato a fissare catatonico il mare piatto come una tavola. Rosa, una bambina di quasi otto anni, tirò un calcetto sullo stinco del nonno: «Detesto il mio nome».

Il nonno guardò la nipote e poi, poco più in là, il gioco d’ombra che il profilo degli ombrelloni disegnava sulla rena.

«Detesto il mio nome», insisté Rosa. «Lo detesto.»

Il nonno rimase con gli occhi incollati alla linea ondulata che separava il solleone dall’ombra ancora per qualche istante. Pensava che tra poco anche quell’estate sarebbe finita, i pattini sarebbero stati tirati via dalla riva e le cabine chiuse con delle assi di legno. Poi, lentamente, si girò verso la bambina.

«E perché mai lo detesti?» domandò.

«Perché è anche il nome di un colore.»

«E con questo?»

«Mi piacerebbe un nome che indicasse soltanto me,» concluse Rosa, con tutto l’astio capriccioso dei suoi quasi otto anni.

Il nonno scrollò la testa vistosamente. I capelli se n’erano andati quasi tutti tra i trenta e i quarant’anni, e quindi aveva avuto tempo a sufficienza per farsene una ragione e per superare il trauma della calvizie, cosa che altri suoi coetanei invece cominciavano ad affrontare soltanto adesso.

«Quel che è fatto è fatto,» disse sorridendo alla nipote. «Mamma e papà non possono più cambiartelo.»

Rosa rovesciò con un piede un secchiello pieno d’acqua accanto alla sdraio: quello era il modo che aveva trovato per protestare.

«E poi sai cosa ti dico?» proseguì il nonno. «Il rosa è un bellissimo colore, anzi il più bello che ci sia.»

«Vorrei qualcosa di più originale.»

«Del tipo?»

«Arancione, ad esempio.»

Il nonno pensò all’estate come a una specie di capodanno diluito nell’arco di tre mesi. Ma forse quella definizione non andava più bene per lui. Dopo una certa età che cosa restava? Qualche partita a carte, e poi le uscite in bicicletta. Lo metteva di buon umore, di tanto in tanto, osservare la durezza ancora perfettamente integra dei suoi polpacci.

«Vorresti chiamarti così? Signorina Arancione?» chiese infine alla nipote.

«Perché no?»

Il nonno provò a considerare la cosa con serietà: «E allora perché non Signorina Blu o Signorina Verde?».

Rosa sorrise, pareva elettrizzata da quelle proposte.

«Ma sono brutti nomi,» riprese il nonno. «L’originalità non è bella per forza. Non credi?»

Rosa ricacciò il breve accesso d’entusiasmo dentro uno sguardo crucciato.

«La verità è che tutti i bei nomi indicano anche un colore,» cercò di concludere il nonno. «Pensa a Viola, o Azzurra o Bianca.»

Nel frattempo all’ingresso dello stabilimento stava succedendo qualcosa. Da lì, vicino al mare, non si capiva bene. Ma era cominciato un viavai strano subito dopo le rastrelliere per le biciclette e le aiuole fiorite, un movimento anomalo considerata anche la fiacca del primo pomeriggio.

«Pensa a chi si chiama Viola, o Azzurra, o Bianca. Loro mica si lamentano come te», ribadì il nonno.

«Ma io sono io», sbuffò Rosa.

Il nonno le prese tra le dita un ciuffo di capelli: «Anche questo è vero».

«Allora mi dai ragione?»

«Te la darei,» ammise il nonno. «Ma senti un po’, vuoi sapere la verità?»

Rosa fece di sì con la testa.

«Beh, la verità è che adesso devo andarmene a sgranchirmi un po’ le gambe.»

Rosa parve molto delusa dalla verità del nonno. Guardò in direzione dell’orizzonte e poi, proprio nel momento in cui stava per voltarsi verso l’ingresso dello stabilimento, il sole la colpì dritto in faccia. Decise allora di afflosciarsi sulla sdraio per qualche istante prima di correre a perdifiato sulla riva. La sua intenzione era chiara: seminare il sole, o quantomeno giocarci ad acchiappino.

 

Il nonno invece proseguì fino all’ingresso. A quanto pareva tre nudiste s’erano intrufolate nello stabilimento approfittando del momento di torpore generale. C’era una caletta non lontano da lì, di cui solitamente le famiglie parlavano sottovoce, frequentata proprio da amanti del naturismo. Quelle tre però avevano sistemato i loro teli davanti alle cabine, in una zona in prossimità delle docce, e avevano tutta l’aria di essere un po’ brille e su di giri. Il nonno si mise a guardarle insieme a qualche altro uomo che, esattamente come lui, aveva lasciato il proprio ombrellone per andare a constatare di persona cosa mai stesse succedendo. Ridacchiavano e si davano di gomito l’un l’altra, avevano proprio l’aria di essere fuori di testa. Con ogni probabilità la sera prima avevano acceso un fuoco sulla lingua di sabbia della caletta e trascorso la notte a gozzovigliare. E in un modo o nell’altro adesso erano arrivate fin lì. Magari proprio per cercare di scandalizzare i normali, quelli che al mare ci andavano in costume, o forse soltanto un passo dopo l’altro, spinte dalla voglia d’avventura e dall’incoscienza. Non erano brutte ragazze benché quell’atteggiamento spavaldo facesse perdere loro un poco di femminilità. Ma erano pur sempre nude, totalmente nude. A un certo punto una divaricò le gambe, le spalancò completamente, quasi in segno di sfida. Non si capiva se nei confronti delle amiche o degli uomini che, nel frattempo, erano sensibilmente aumentati di numero. Il nonno riconobbe anche uno dei responsabili e un bagnino. Eppure nessuno diceva niente, nessuno impediva alle nudiste di fare quello che stavano facendo. Così lo spettacolino proseguì ancora per qualche minuto. Il nonno non capì bene chi tra gli uomini partì per primo. Non ci fu in effetti molto tempo per capirci qualcosa. In pratica le ragazze erano state attorniate e in quella maniera qualcuno si sentì sufficientemente protetto e quasi autorizzato dagli altri a sdraiarsi insieme a loro. Non ci fu una fase preliminare dalla quale qualcuno avrebbe potuto capire che la situazione sarebbe trascesa. Le ragazze se ne stavano a gambe aperte e sembravano voler dire: «Ce n’è per tutti qui». Visto quello che stava succedendo il muro degli uomini istintivamente cercò di compattarsi ancora di più. La maggior parte di quelli che non erano rientrati a casa a schiacciare un pisolino stava ancora dormendo sotto l’ombrellone, quindi in un certo senso sarebbe bastato limitare gli schiamazzi e la confusione. Quando una signora, una habitué dello stabilimento ben nota anche al nonno, si prese la briga di fare capolino molti credettero che sarebbe partita immediatamente una chiamata alla polizia. Era la classica signora di mezza età che, pur non disdegnando di riuscire ancora attraente (indossava un pareo molto elegante che le fasciava i fianchi), abbassava immediatamente gli occhi o inforcava gli occhiali da sole quando le capitava di sentirsi addosso lo sguardo di un uomo. Eppure al cospetto di quella scena non indietreggiò di un passo, e non si lasciò scappare neanche una frase di disapprovazione. L’unica cosa che riuscì a dire fu: «Schifose». Il nonno a quel punto si girò in direzione della riva. Avrebbe dovuto tenere d’occhio la nipote, in fondo gliel’avevano affidata solo per il primo pomeriggio: un compito facile da portare a termine, se non fosse successa quella cosa assurda. Rimase qualche istante incerto sul da farsi, poi trotterellò a malincuore in direzione del mare.

 

Rosa stava disegnando sulla sabbia indurita e idratata dalle onde il suo nome con un piede.

«Vedi?» disse al nonno appena lo vide. «Il mio nome non piace neanche al mare.»

«Perché?»

«Altrimenti non lo cancellerebbe.»

Il nonno guardò la nipote, ma senza farsene accorgere anche l’ingresso dello stabilimento. Cercava di fare del suo meglio per tenere disperatamente sotto controllo tutt’e due i fronti.

«Guarda laggiù,» osservò Rosa fissando l’orizzonte. «L’estate è finita.»

Effettivamente il colore del cielo in un punto ancora lontano ma già visibile, quasi a pelo d’acqua, si stava scurendo come se qualcuno avesse squarciato un tendone.

«Sai che ti dico Rosa?» fece d’improvviso il nonno.

«Cosa?»

«Che hai ragione tu. Se il tuo nome non ti piace perché dovresti tenerlo? Per quali stupide convenzioni uno non può scegliersi il nome che vuole?»

«Posso cambiarlo?»

Il nonno annuì molto velocemente con la testa. Adesso sembrava avere fretta, una fretta terribile.

«Ma tu prima avevi detto che non potevo,» osservò Rosa aggrottando le sopracciglia.

«Sbagliavo.»

«E papà e mamma non avranno nulla da ridire?»

Il nonno guardò precipitosamente in direzione dell’ingresso dello stabilimento. Era successo qualcosa? Le avevano fatte smettere, magari rivestire?

«Perché non decidi il tuo nome nuovo e poi non lo scrivi sulla sabbia?» propose alla nipote.

«Però le onde mi cancellerebbero anche quello nuovo.»

«Ok, tu intanto sceglilo, io torno subito.»

Il nonno percorse ad ampie falcate la distanza che separava la riva dall’ingresso dello stabilimento. Il capannello di persone era ancora lì, e anche le tre nudiste ormai completamente sopraffatte e forse anche incredule e spaventate rispetto a quello che avevano innescato. Il nonno ricominciò a osservarle: non ne aveva puntata nessuna in particolare, sarebbe sceso semplicemente sulla prima disponibile, la prima che si fosse liberata. Ci pensò su ancora un istante e poi si fece largo tra gli uomini. Appena inginocchiato l’avvolse subito un odore molto intenso di genitali, crema doposole e sabbia intrisa di sudore. La ragazza che aveva sotto se ne stava immobile, con gli occhi socchiusi e le labbra tremolanti. Forse sussurava qualcosa. In ogni caso parole straniere di cui non avrebbe saputo stabilire il significato. Alzò la testa giusto il tempo per rendersi conto che stava temporeggiando troppo. Per un momento ebbe il timore che quel raptus l’avesse abbandonato. Per un momento pensò anche dall’altra parte della spiaggia, con ogni probabilità, sua nipote si stava scegliendo un nome nuovo. E chissà quale mai avrebbe scelto di darsi. Ma doveva muoversi, non c’era più tempo da perdere. Fece leva sulle braccia come per prepararsi a uno scatto.

Poi sentì i polpacci da ciclista indurirsi, e ne fu fiero come quando si alzava sul sellino per una salita.

 

Questo racconto è contenuto nel libro Toscani Maledetti (Piano B Edizioni, 2013, a cura di Raoul Bruni), antologia che raccoglie alcune tra le migliori nuove voci della Toscana: Vanni Santoni, Pietro Grossi, Emiliano Gucci, Fabio Genovesi. 

Il cane di Pavlov

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di Vincenzo Frungillo

frungillo

[Fase 1.]

Il vantaggio di studiare la scienza
è vedere tutto nella sua funzione,
prepararti all’amministrazione,
lasciare la linea d’ombra dell’adolescenza.
Una cosa è importante nelle leggi:
sabotare le costanti,
metterle alla prova,
rinvenire le varianti,
ciò che resta pur se cambia.
Nelle cavie da laboratorio
si ripete il sacrificio,
l’innominato destino
di chi sorseggia il vuoto
come se fosse fonte prima.
Da lì attinge l’occhio della ragione.
Per millenni l’hanno fatto i maschi,
io sono stata la prima donna,
questo ha suscitato tanto scalpore,
sono Tatiana che distrugge il suo eroe.

Bruno non era pronto per mettersi a nudo.
Allora sono stata io a fare la prima mossa.
“Se vuoi, dopo l’aperitivo,
puoi venire a casa mia,
ti mostro le foto dei cani.”
Lui ha sorriso, ha guardato gli amici.
Aveva paura, cercava aiuto.
“Si, sarebbe bello, così capisco”.
Era proprio quello che volevo,
mostrargli ciò che dicevo.
Nel parco Bruno ha ripreso a parlare,
non si teneva, era eccitato,
e piuttosto ubriaco.
Mi ha sfiorato per due volte la mano,
credo sia stato un caso,
poi ha indicato un fiore:
“La luce che ci attraversa
illumina tanto la vita che la morte,
la loro bellezza sfiorirà tra poche ore”.
“L’hai scritta tu?”
“Non l’ha scritta nessuno.
Avessi potuto, t’avrei offerto un fiore,
spero vadano bene anche le parole”.
Mi ha indicato un altro fiore,
mi ha chiesto se conoscevo il suo nome,
gli ho risposto che erano azalee
e che nel parco poteva trovare varie piante,
oltre ai viburni e alle rose.
“Io amo la poesia,
a volte invento versi, strofe,
mi diverto, poi mi passa…”
Ho ribattuto che era meglio,
“ché niente e nessuno ne è degno”.

Gli amanti se non hanno la stessa temperatura,
sono ridicoli come i cani dopo gli amplessi.
Io e Bruno non c’eravamo ancora capiti.
E non ci saremmo mai intesi,
se io non avessi forzato il gioco.
Per questo bisogna forzare,
fare del sesso, superare le parole,
la romantica evasione,
l’ideale di una vita insieme.
Ciò che davvero conta è la carne,
e le torture, perché la carne,
come lo spirito e il piacere,
si consuma, allora bisogna affondare,
eccedere, andare oltre, provare dolore.
Io so da sempre come stanno le cose,
perché ho messo tra me e voi
l’esperienza della morte;
più volte sono morta
tra le braccia di un carnefice…
l’umiliazione ultima, prima della polvere..
Chi di voi sa di cosa sto parlando?
Siete solo buoni ad ascoltare.
Fate perizie, sindacate,
siete qui per capire come
una segretaria abbia potuto torturare, mordere!

Siamo arrivati a casa,
gli ho servito un bicchiere di vino,
lui lo sorseggiava guardandosi intorno,
gli ho chiesto di seguirmi,
gli ho preso la mano,
lui ha preso coraggio
e mi ha stretto le dita con desiderio.
L’ho portato in camera da letto.
“Ecco questo è il cane di Pavlov”.
Gi ho detto, mostrandogli la gigantografia
che ho sistemato sul mio letto.
“Uno dei suoi cani, è stato imbalsamato,
dopo l’esperimento del 1908,
alla bocca gli hanno applicato una fiala
in cui è contenuta la sua bava”.
“Non ti fa impressione,
tenerlo sul letto, come fai a dormire
con quel coso sulla testa!”
“Non dirmi che da piccolo,
a casa tua, non c’era un crocifisso?”
“Certo, ma che c’entra!?”
“C’entra un uomo, o meglio il suo cadavere,
che prima di essere stato ucciso
è stato torturato. Diciamo che il cane
è il corrispettivo di quel corpo.
Ogni epoca ha il suo dio,
e la legge per cui si muore.
Chi era il poeta che diceva
bisogna o che la scienza
annienti il cristianesimo
o che faccia tutt’uno con esso?
-lui mi ha guardata perplesso-
Ma il motivo per cui amo questa foto,
e che più m’inquieta, è che nessuno sa
se la bava contenuta nell’ampolla
sia di prima o di quarta fase,
se esista davvero l’oggetto del desiderio.
Ecco perché amo questa foto,
la tengo sul mio letto”.
“Mi sento poco bene, mi si secca la gola”.
Lui ha detto con uno strano pallore.
“Non ti preoccupare”. L’ho rassicurato.
“Tra poco tornerai a salivare”.

[Da Il cane di Pavlov (Resoconto di una perizia), Edizioni d’If, 2013, Premio Russo-Mazzacurati]

Un Borges piccolo piccolo

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Sfortunatamente sono Borges

di Mariano Terdjman

traduzione di Maria Nicola

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Mio nonno rimase cieco prima dei quarant’anni. Quando lo conobbi era un uomo altissimo, calvo, religioso e sorridente. Portava gli occhiali anche se non gli servivano. Una forma di civetteria, forse, che confondeva i bambini come me. Una volta chiesi perché portasse gli occhiali, se non ci vedeva, e nessuno seppe cosa rispondermi. Ma più che a mio nonno penso a mia nonna, che lo curò tutta la vita. Mia nonna si lamentava di tutto: aveva conosciuto un uomo, lo aveva sposato, aveva avuto due figli con quell’uomo, e quello, prima dei quarant’anni, non ci vede più. Non lavora più e si trasforma, come per incanto, in un masso pesantissimo da portare. Mia nonna non si lamentava di lui, però si lamentava di tutto.

Molto tempo dopo conobbi Borges. O meglio: i suoi racconti, il suo modo di parlare, le sue virtù, la sua cecità. E mi colpì sempre una cosa, una frase fatta, una specie di slogan che era suo: «Sfortunatamente sono Borges». Per esempio, nella prefazione al Manoscritto di Brodie: «L’avanzare dell’età mi ha insegnato la rassegnazione all’essere Borges». Per esempio, in Nuova confutazione del tempo: «Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges».

Non ho mai cercato spiegazioni nella psicologia per questo genere di cose, e odio – io che non odio quasi mai niente – quelli che lo fanno: trattare il lamento di Borges come un difetto personale, frugare nella sua vita, nella sua infanzia, nel suo rapporto con suo padre, con sua madre, con i suoi pari, con le donne, con i suoi amici; fare della psicologia applicata mi pare basso, paternalistico e fallace. Ma la frase rimane lì e mi perseguita: Sfortunatamente sono Borges.

 

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Andiamo per gradi. Borges non dice, per esempio, «sfortunatamente sono io». Non dice, per esempio: «sfortunatamente sono nato». Non dice: «Sfortunatamente sono quello che sono». Borges si rammarica di essere Borges. Primo punto. Sarebbe errato, credo, procedere nella direzione del cognome, della linea paterna e forse della cecità che eredita da Jorge, suo padre. I ciechi, come mio nonno, non si lamentano.

Borges trasforma la cecità in materia letteraria, in un elemento della sua poesia. Secondo punto. Terzo punto. Borges è un uomo di successo. Quando scrive Il manoscritto di Brodie (1970), Borges è un autore di fama internazionale: rispettato, amato, analizzato e citato. Quarto punto: Cerco lamenti di altri scrittori. Scopro questo: Raymond Carver prima di compiere i trent’anni si rende conto di non avere le capacità per scrivere un’opera voluminosa, un romanzo, e perde ogni ambizione a diventare un grande scrittore. Franz Kafka lascia annotato nel suo diario che non potrebbe «vivere di letteratura  a causa della lunga gestazione dei miei lavori e del loro carattere insolito».

Di che cosa si lamenta Borges, che non muore nell’anonimato come Kafka? Di che cosa si lamenta se non ha scritto romanzi, come Carver, ed è un’icona della letteratura universale? Qual è il suo cruccio? Di che cosa si lamenta un uomo di successo?

 

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Di questo, del successo.

Il Destino è una delle idee più potenti nella letteratura di Borges. Quel momento preciso in cui uno decide chi è. Gli esempi sono tanti. Forse Borges decide chi è quando scrive El Aleph, il racconto che s’intitola così. Neppure tutto il racconto: la descrizione dell’Aleph. «Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio resoconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio…». Quelle pagine sono le più memorabili di tutta la letteratura argentina. Di lì in poi Borges è Borges. Idolatria, sottomissione, rispetto. Di lì in poi tutti vanno da lui a chiedergli una grazia. Borges, ci parli del tempo. Borges, sia profondo. Borges, ci parli dell’universo, della complessità, del destino. Borges diventa un classico, lui che è chiarissimo quando parla dell’altro grande classico nazionale.

«Quaranta o cinquant’anni fa i ragazzi leggevano il Martín Fierro  come oggi leggono S.S. Van Dine o Emilio Salgari; a volte clandestina e sempre furtiva, quella lettura era un piacere e non l’esecuzione di un obbligo pedagogico. Oggi il Martín Fierro è un libro classico e questo attributo è inteso come sinonimo di tedio».

Il lamento di Borges non è che il tentativo, disperato, di non diventare uno scrittore di successo, un classico, una gran noia. Con quella frase Borges chiede che la sua voce venga ascoltata al di là delle definizioni che minacciano di trasformare la sua opera in un mattone, in un’icona, in una vetta.

 

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Mia nonna sopravvisse a mio nonno per quindici anni. Continuò a lamentarsi di cose minuscole e io ci misi forse troppo tempo a capire che quella era una forma d’amore. Non l’amore attuale, che è puro piacere. Un altro tipo d’amore, che era anche impegno, promessa, destino. Le cataratte di mio nonno oggi si curano con un intervento di cinque minuti. Esci dalla sala operatoria e ci vedi. E continui, come se niente fosse, la tua vita. //

 

Mariano Terdjman è nato a Buenos Aires nel 1980. Ha studiato lettere e scrive per il cinema. Collabora con diverse testate, cartacee e digitali. Nel 2012 è uscito il suo primo libro di racconti, ¿Vos estás segura de lo que vamos a hacer? (Tu sei sicura di quel che stiamo per fare?), che è stato accolto molto bene dalla critica argentina.

Ad esempio: il tempo. Sulla musica di Karlheinz Stockhausen

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di Massimiliano Viel

(due brani dell’introduzione a Karlheinz Stockhausen, Sulla musica, a cura di Robin Maconie, Postmedia Books, 2014. Vd. anche qui.)

114cover300dpi Stockhausen è stato di volta in volta additato come kitsch, elitario, intellettuale, naive, inascoltabile, troppo semplice, antiarmonico, neotonale, nazista, esterofilo, pazzo, antiespressivo. Insomma di lui e della sua musica è stato detto di tutto, ma questo è il prezzo da pagare per chi decide di smettere i panni civili per diventare non semplicemente una figura pubblica, ma un simbolo, un bersaglio in piena luce, specie se, come in questo caso, si tratta di una personalità complessa e non facilmente riducibile a un solo semplice stereotipo di massa e che è quindi perfettamente adattabile alle necessità di chiunque voglia costruire una propria identità.

Forse il punto culminante di questa “messa in crisi” di Stockhausen in quanto personaggio pubblico è stata la famigerata e controversa intervista del 16 settembre 2001 ad Amburgo in cui il compositore sembra fare affermazioni quanto meno avventate sull’attacco del 11 settembre. È un punto culminante sicuramente per l’entità culturale dell’argomento, così delicato e controverso, e anche per la diffusione a livello planetario dell’incidente, aiutata ancora di più da internet, tanto da far gridare la stampa alla fine della carriera di Stockhausen. Non è importante sapere esattamente cosa è successo: chi scrive sa che il compositore aveva l’accortezza di registrare in tutta autonomia le interviste proprio per proteggersi legalmente e moralmente dall’uso avventato e malizioso da parte della stampa di ciò che veniva detto durante le interviste. Le accuse rivolte a Stockhausen, con le conseguenti ostracizzazioni del mondo musicale e non, sono rientrate in breve tempo, una volta che la frase, secondo cui l’attentato dell’11 settembre sarebbe stato “la più grande opera d’arte mai realizzata”, è stata inserita nel giusto contesto di ciò di cui si parlava nell’intervista, e cioè della presenza di Lucifero nel mondo. Anche se l’opinione pubblica ha breve memoria, internet invece non dimentica: i filmati di accusa su youtube sono lì a dimostrarlo. E così dobbiamo concludere la nostra pars destruens, aggiornando la lista delle accuse a Stockhausen con quelle, che pur dimostrano la loro inconsistenza al primissimo approfondimento, di satanista e antiamericano.

Due azioni poetiche (& un concerto): il 27 a Firenze, il 28 a Livorno, l’1 a Pontedera

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  Giovedì 27 febbraio 2014 alle ore 18.30

La Cité, Borgo San Frediano 20r, Firenze

 

Presentazione del progetto editoriale Valigie Rosse

°

 Reading-presentazione dei libri:

Il rovescio del dolore, Italic-Pequod, 2013

di Luigi Socci

&

 Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic-Pequod, 2013

La grande anitra, Oèdipus, 2013

di Andrea Inglese

Quattro poesie

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di Matteo Fantuzzi

Da La stazione di Bologna, inedito.

strage di bologna

Questi testi sono dedicati a tutti quelli
che si trovavano a Bologna il giorno della strage.
Tutti tranne alcuni.

 

scoppia una bomba
nel cuore di Bologna.
due agosto ottanta
Se dalla Piazza ti incammini e prendi i portici
del centro e riesci a superare in un sol colpo
quella folla, i saldi, le vetrine, i tavolini delle firme,
se riesci a non fermarti davanti a quel barbone
inginocchiato a mo' di Cristo che chiede
le monete e prega tutti per i soldi, se ad un tratto
ti fai forza e inizi a correre smettendo di vedere
altrove ti troverai d'un tratto alla sinistra
il luogo steso a gambe aperte e in mezzo la ferita
che ancora accenna, che ricorda il giorno
in cui la gente stata tutta uguale per una volta,
                                                   e solo quella.
Tutti comunisti, preti. Tutti bolognesi. 

nei giorni successivi i taxi sono gratis per i parenti
delle vittime ricoverate dentro gli ospedali cittadini.

Come un padre che scava solo e a mani nude
un figlio fino a sanguinare e che non smette
se lo getta addosso e non lo lascia,
carne della carne, pure se una gamba resta
sotto le macerie e Marco non potrà più essere
mezz’ala e correre veloce sotto la tribuna,
oppure tra i distinti laterali proprio dove stanno
spesso i famigliari che applaudono comunque
qualsiasi cosa accada, perfino dopo una sconfitta:
come fa chi aspetta a casa con il fuoco caldo
sotto la minestra e che comunque resta.

L’esplosione della stazione coinvolse non solo le strutture della sala d’attesa ma anche i sovrastanti uffici amministrativi della Cigar. Euridia, Katia, Nilla, Rita, Franca e Mirella morirono nel crollo della struttura.

Crollano le travi, cadono le pietre e i calcinacci,
vola via l’età dell’innocenza ormai tradita
dalle cose, qui tutto ricordo: ogni palazzo,
strada, parco, ogni momento ha una sua storia
che preme ed urge come l’esigenza di memoria.
Di qua c’è un corpo immobile che cerca
ossigeno tra i cocci, alla sua destra
si intravede appena un piede senza scarpa,
un uomo grida e cerca la sorella, un altro
piange. Un padre copre con il corpo i figli,
li abbraccia come alla mattina si proteggono
dagli incubi, dai mostri che in fondo al sonno
vengono e devastano. È quotidiana questa strategia
della tensione, non abbandona mai davvero.

Da Bologna quella mattina buona parte dei treni sarebbero dovuti giungere in Romagna per il periodo estivo, lo stesso percorso che ho fatto anch’io definitivamente oramai da diversi anni.

Qui sarebbero arrivati
tra le zanzare mai addomesticate,
gli ombrelloni colorati, il caldo
le piadine, i padelloni
il pesce arrosto sulla griglia.
Sarebbero arrivati da queste parti
che un poco come stare dentro a una famiglia
con la zia un po’ matta, la cuginetta che si tira
su la gonna, qualche nonna
che prepara il sugo all’ombra della casa
e i padri sempre in giro a fare danni,
a bere forte, a bestemmiare gli uomini
e il governo che non apre pigli armadi
se ne resta sempre zitto come che non fosse
mai successo nulla, come se i cadaveri
ottenessero dei pesi differenti
sulla bilancia consumata della storia.

Il sole dell’avvenire, di Valerio Evangelisti

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di Andrea Sperelli

Semplificando, ci sono tre elementi principali nell’ultimo libro di Valerio Evangelisti: 1) i movimenti rivoluzionari di fine Ottocento, nati e cresciuti sull’onda lunga della Comune di Parigi e dei moti garibaldini; 2) la repressione dei governi monarchici filoliberisti (anche allora!), la violenza del potere schierato con le classi dominanti: violenza istituzionale, esercitata con leggi che vietano persino l’esibizione di una pochette rossa, o di fischiettare un motivetto “sovversivo”, e quella ottusa dei loro cani da guardia, gli “sbirri” che sparano sui disoccupati che reclamano pane e lavoro; 3) le storie romanzesche di tre personaggi portanti, le loro speranze, la loro miseria, la loro oppressione individuale e sociale.

Con tale premessa qualcuno potrebbe temere una poderosa opera ibrida, un mix didascalico di storia, saggistica e narrativa, quest’ultima posta su un piano accessorio. Di servizio per così dire, pertinenziale alla narrazione oggettiva degli eventi epocali.

Non è così. L’abilità di Evangelisti sta proprio nella fusione dei meta-argomenti nel racconto e nella scrittura. Con la nostra semplificazione potremmo suddividere l’opera in tre pesature: 15% storia/analisi dei movimenti operai, 15% rappresentazione del potere reazionario e bigotto, 70% storie romanzesche. Sono queste che “tirano”, che creano la tensione narrativa, ospitando sullo sfondo piccoli e grandi personaggi storici: Andrea Costa, i socialisti e gli anarchici romagnoli, nomi che vediamo scritti sulle targhette delle strade, Nullo Baldini, Gaetano Zirardini, Filippo Turati, Bakunin. E il racconto è avvincente, appassionante. Forse perché l’ideologia sembra assente, oppure è riscattata dalle vite semplici dei protagonisti, che sono spinti da bisogni primari, o primitivi: procurarsi un lavoro, uno qualsiasi, scarriolante, bracciante, facchino, garzone, pescatore. Il fine è il cibo, il vestiario, un tetto sulla testa. Bisogni che un potere ingordo e avido nega loro, rubando anche le briciole e gli stracci. E vietando non solo di protestare per la loro miseranda condizione, ma di esistere: vietato mendicare, discutere, chiedere il pane. Vietato cantare. Vietato riunirsi per discutere. Pena l’arresto, i pestaggi, la rovina economica, fino alla morte, coi soldati che sparano sulla folla addirittura col cannone, come avvenne a Milano nel 1898, dove ci furono più di ottanta morti e 500 feriti.

In questo scenario si dipanano le storie personali e famigliari dei tre protagonisti: il ravennate Attilio “Tiglio” Verardi, ex garibaldino che ha combattuto a Digione nel 1870, quando il generale era intervenuto coi volontari in camicia rossa in sostegno della Repubblica, contro i prussiani. Tiglio è un romagnolo purosangue, impulsivo, un po’ confusionario (o confuso), generoso. Non è escluso che sia anche un “contaballe”, perché, come ha detto lo stesso Evangelisti, se “il carattere romagnolo esiste”, la romagnolità è anche farla “grossa”, contarla da “sburoni”. Tiglio si arrangia con lavori saltuari, bracciante perlopiù, lavori che talvolta perde perché le opere pubbliche scarseggiano, o i padroni licenziano, oppure combina qualche guaio. E’ fidanzato con Rosa, che proviene da una famiglia di mezzadri, i contadini che vivono isolati nelle case coloniche, lavorando come animali per soddisfare l’esosità dei padroni. Benché sfruttati, derubati, umiliati, difendono il sistema contro i socialisti e i collettivisti, perché la mezzadria rappresenta “l’unione tra capitale e lavoro”. Oltre a Tiglio, Evangelisti crea dei grandi personaggi letterari, come il fratello di Rosa, il terribile “azdor” repubblicano antisocialista, reazionario e al contempo mangiapreti, violento quanto spaventato di fronte al padrone che lo ricatta, lo insulta; cambia persino voce, piega la schiena, perché ha paura; non tanto per sé, ma per la famiglia che deve mantenere. Tiglio e Rosa vanno a vivere in una stamberga a Ravenna, dove nasce il figlioletto Canzio (dal cognome di un generale garibaldino). Tiglio per sbarcare il lunario va a lavorare alla bonifica dell’agro romano, e qui lo perdiamo, perché il racconto ha una virata. Ora tocca a Rosa. E’ lei che riceve il testimone del racconto. E’ una donna timida, sola, spaventata. Per certi versi è irritante, perché torna a casa, nel podere a mezzadria, a vivere la sua condizione di donna che non può neanche mangiare a tavola con gli uomini (le donne mangiavano nel portico, o sulla porta). Continuano i sacrifici, le umiliazioni, la paura, con le incursioni del padrone ladro, sullo sfondo dei moti operai repressi dalla sbirraglia, i militanti arrestati, ricercati.

Come Canzio, che cresce solitario e scontroso occupandosi delle bestie, dormendo nella stalla. Canzio adora il padre, del quale mitizza il passato garibaldino, ma è costretto a seguire la madre, per una sentenza del tribunale. E’ lui ora, ragazzino appena tredicenne, già clandestino perché ha messo fuori combattimento il padrone-vampiro dalle buone maniere, a condurre la terza parte del romanzo. Cerca il padre, che nel frattempo si è ammalato nelle paludi mefitiche, si sposta da Ravenna a Bologna, protetto dalla rete dei socialisti rivoluzionari, lavorando come fattorino negli alberghi, o come tuttofare nella tenuta agricola di un possidente socialista. E’ un personaggio vitale, un ribelle adolescente, che chiude il triangolo formato dall’esuberante ma al contempo confuso Tiglio, e dalla sottomessa, ma tenace, Rosa.

Evangelisti riesce a calare il lettore nella Romagna di quegli anni terribili, anni di sfruttamento, di miseria, di sconfitte, ma anche di lotte senza quartiere, di speranze e di progetti. Non si permette mai filippiche o tirate ideologiche. I linguaggi sono semplici, anche quando si discute di strategia politica, nell’eterno conflitto anarchici-socialisti rivoluzionari. Tra le parole serpeggia l’amore per i personaggi, qua e là una sottile ironia, un’attenzione per i caratteri e i linguaggi romagnoli, che dimostra di conoscere a fondo (ha avuto la madre romagnola). E anche rabbia e indignazione, benché non si abbandoni mai a sfoghi, ma la lasci viaggiare per così dire in incognito, nella cronaca spietata delle violenze e dei saccheggi che sono costretti a subire gli ultimi degli ultimi, da parte di quei volgari ladri di polli che sono i padroni dalle belle braghe bianche e dei loro eserciti di sbirri assassini.

Valerio Evangelisti
Il sol dell’avvenire
Mondadori Strade Blu 2013, pagg. 540

Un avventuriero a Palazzo Chigi

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[Articolo apparso sul sito Dinamo-press il 19 febbraio]

di Augusto Illuminati

Ha ragione Fabrizio Barca a dire che nel programma di Renzi ci sono slogan e niente idee e che il tutto è pericolosamente avventurista, al punto da scatenare sentimenti di angoscia in un onesto riformista, di tradizione Pd(s) e liberista moderato.

Il modo in cui Renzi si sta installando al potere (vedremo a breve gli esiti) non è irrilevante ed entra in singolare contraddizione non solo con le sue promesse precedenti (vizio “normale”) ma –e più grave– con le aspettative di cui si era nutrita la sua resistibile ascesa.

Un rapporto a metà

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[Un passo tratto dal romanzo inedito Memorie di un rivoluzionario timido. Anche qui. E qui.]

di Carlo Bordini

mi ricordo quando andai al funerale della madre di Seb, era morta due giorni prima. Era estate. Ci andai con B. arrivammo in questo estremo quartiere di periferia, in mezzo al verde, dove c’erano le case che gli operai si erano costruiti con le loro stesse mani e che erano state sostituite da grandi palazzi medio-borghesi (o forse mi sbaglio, forse semplicemente la famiglia di seb si era trasferita da una casa costruita con le proprie mani in una casa medio borghese) il padre di seb faceva l’operaio del gas, ma non era neanche medio borghese, c’erano case che sembravano medio borghesi, e arrivammo e c’era una marea di gente che saliva e scendeva per quelle strette scale, sembrava qualcosa come un pic nic, tutti che salivano, e c’era quella confusione, il caldo, il padre di seb ripeteva che disgrazia che disgrazia.

Quattro frammenti

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di Davide Orecchio

La mia specialità sono i gospel iposonici. Sono tristissimi, bellissimi. Ma nessuno se ne accorge; sono gospel iposonici.

*

Overbooking: Francesco Trento

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In occasione della presentazione “torinese” del bel libro di Francesco Trento La guerra non era finita, I partigiani della Volante Rossa (Editori Laterza) ho chiesto all’autore di darci un’anticipazione per Nazione Indiana. Pubblichiamo qui di seguito le pagine dedicate ai convulsi giorni che seguirono l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. effeffe

dal capitolo La rivoluzione mancata
di
Francesco Trento

“Tornate a casa”

La notte del 15 luglio la Volante Rossa è all’Innocenti, assieme a duecento operai. Lì giungono notizie su quanto sta accadendo a Torino, a Genova e nelle altre città: “Allora”, ricorda ancora C., “ci siamo riuniti per decidere cosa dovevamo fare. Se attendere o iniziare immediatamente il movimento di trasformazione della lotta in lotta armata”
Secondo il piano predisposto il giorno precedente, il 16 luglio la Volante Rossa decide di attaccare la più importante caserma dei carabinieri della città, quella dove sono tutti i mezzi corazzati.

La Volante Rossa era quel giorno al completo, una cinquantina di uomini. Coi panzerfaust chi ci fermava? Distruggevamo mezza caserma. […] Chi poteva tenere in una lotta a Milano erano i mezzi corazzati e noi ci eravamo attrezzati per batterli. Partiti noi, sarebbero poi partiti tutti gli altri. Comunicato che partivamo, erano già partite le staffette in direzione dei diversi centri della città

L’ora X sembra dunque arrivata: un camion carico di partigiani si dirige verso la caserma dei carabinieri. Le staffette avvisano la Federazione milanese del partito: minuti di caos puro. Che fare?

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Dalla Federazione parte immediatamente una macchina, ma intanto i partigiani sono in marcia. L’auto del Pci corre, mentre il Dodge, lasciata la Casa del Popolo, supera Lambrate e arriva al Campo Giuriati. Proprio lì la vettura della Federazione riesce finalmente a intercettare l’autocarro. A bordo, secondo la testimonianza di Finardi, c’è proprio Alberganti. Dice agli uomini di Paggio che non è il momento: gli americani interverrebbero, si finirebbe come in Grecia Lo sciopero è finito, bisogna rientrare. Il dirigente comunista è inamovibile. Guarda il camion carico di armi e scuote la testa: “Ma siete pazzi a girare con tutti questi esplosivi? Potreste saltare in aria da un momento all’altro. Tornate a casa”
La Volante Rossa obbedisce, non senza rimpianti: “Se arrivava cinque minuti dopo”, ricorda C., “Milano era un fuoco solo” Certo, l’assalto alla caserma non coinvolge solo gli uomini di Paggio, ed è anzi assai plausibile ipotizzare un piano comune, concordato con altre forze armate collegate al partito, con altre “organizzazioni paramilitari”.

Anche perché, nonostante il ricordo dell’anonimo testimone di Bermani, sul camion quel giorno la Volante non è assolutamente al completo. Walter Fasoli ad esempio, non ricorda l’intenzione di attaccare i carabinieri , e nemmeno Leonardo Banfi:

No, no. Assolutamente. I carabinieri si erano rinserrati nella caserma, ma non abbiamo mai pensato di… la preoccupazione principale è stata quella di occupare le fabbriche a Lambrate. Di piazzare sulla pensilina dell’Innocenti la mitraglia, questo è vero. Infatti c’era la camionetta della polizia che girava per Lambrate per verificare cosa succedeva: fu accolta da una raffica di mitra, rientrarono in caserma e si chiusero dentro. Ma noi restammo lì. Restammo lì.

Banfi e Fasoli non sono i soli della Volante a rimanere dentro l’Innocenti occupata, quella mattina del 16 luglio. Tuttavia anche Sante Marchesi ricorda l’intervento della staffetta:

eravamo in 30 sul camion… ma eran più le armi che noi… poi è arrivato il compagno Alberganti: “basta, lo sciopero è finito, tornate a casa”…

Le parole di C. sembrano abbastanza chiare: “partiti noi, sarebbero poi partiti tutti gli altri” (le “non meno di trecento persone” e i “molti armati” di cui C. parlava in un altro passaggio). Paolo Finardi (“Pastecca”) ricorda ad esempio che quel giorno con la Volante ci sono “molti gruppi. Il più grosso era quello della Breda di San Giovanni” .
La testimonianza di Arnaldo Cambiaghi, responsabile della Commissione dei Giovani comunisti alla Pirelli, conferma le parole di Finardi:

Guarda che la miriade di gruppi ce n’erano tanti. […] Io per esempio ero armato lì alla Pirelli, durante l’attentato a Togliatti, e siamo riusciti a tenere la maggioranza dei lavoratori dentro. […] E noi abbiamo detto al partito: “assaltiamo le caserme della polizia!”. C’è stata questa proposta: andiamo là, occupiamo, prendiamo le armi e prepariamoci per, non dico l’insurrezione, ma la resistenza. Ma i dirigenti massimi han detto: no… Alla Pirelli va poi Giancarlo Pajetta, per convincere gli operai a smettere l’occupazione e tornare al lavoro

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Dal 15 luglio, in effetti, il Pci è all’opera per sedare la rivolta. Al di là delle motivazioni di facciata, legate alla fedeltà del partito alle istituzioni repubblicane e all’“impegno democratico assunto con l’approvazione della Costituzione” , la molla principale di tale scelta è rintracciabile in un sano realismo. Pietro Secchia, poco dopo l’attentato, aveva già espresso i suoi dubbi sulla riuscita di un’eventuale azione di forza: “L’America certamente interverrebbe: primo perché ha da noi le sue basi, secondo perché non le mancherebbe una giustificazione politica. Non dimenticate compagni che siamo a soli due mesi e mezzo dalle elezioni che hanno dato una maggioranza assoluta al governo” Il pomeriggio del 15, tra l’altro, ci si rende conto che lo sciopero generale sta fallendo. Dai telegrammi dei prefetti, scrive Walter Tobagi, emerge, oltre all’“Italia che sciopera”, una “seconda Italia”:

è “l’Italia che non sciopera”, vuoi per indifferenza, vuoi per convinzione politica; e sono milioni di persone, quasi intere regioni […] che non scendono in piazza, però costituiscono quel potenziale di riserva, che ha garantito alla Dc il trionfo del 18 aprile.
E questa “seconda Italia” […] è strettamente collegata ad una “terza Italia”, l’“Italia dell’ordine pubblico”, dai prefetti fino al carabiniere del più sperduto paesino di campagna. Anche questa Italia fa sentire il suo peso sociale e politico: […] è convinta di battersi per una causa che sente giusta; e perciò interviene con la stessa, durissima decisione per rimuovere un blocco stradale come per garantire la libertà di lavoro.

L’ala sindacale democristiana, inoltre, di fronte al protrarsi dello sciopero, minaccia la scissione . Non c’è più scelta: nemmeno l’obiettivo delle dimissioni del governo è più raggiungibile senza arrivare a uno scontro frontale. Secchia, nel Comitato centrale del 15 luglio, mette in guardia i compagni meno convinti: l’Italia del Sud non si è mossa, in alcune città non si è riusciti a fare nemmeno un comizio, e anche al Nord un’insurrezione avrebbe delle chance di riuscita solo nelle grandi città, mentre le campagne non sono affatto sicure: “i compagni riflettano: per ora né la polizia né l’esercito sono intervenuti, se lo faranno disporranno di cannoni e carri armati contro cui non si potrà resistere”.

Non bisogna fare grandi sforzi di immaginazione per prevedere un simile scenario: nella vicina Grecia, i partigiani sono tornati sui monti nel 1946, ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno appoggiato la monarchia, sostenendola in una feroce guerra civile. Inoltre, se anche vi fossero mai stati piani d’appoggio a una rivoluzione italiana da parte dell’Urss, ora, consumatosi nel giugno lo scisma nel blocco sovietico con l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, tali piani non sono neanche lontanamente ipotizzabili.
A fugare ogni possibile dubbio, una telefonata dell’ambasciata sovietica proibisce agli italiani ogni tentativo rivoluzionario.
Tutti i maggiori esponenti del Pci si trovano infine d’accordo sulla necessità di evitare la “prospettiva greca”. Inoltre Togliatti sta meglio: l’operazione è andata bene e il leader del Pci si sta rimettendo. La Cgil, sostenuta dal Partito comunista e da quello socialista, dichiara la fine dello sciopero per mezzogiorno del 16 luglio.

Presa la decisione, tutti i dirigenti sono mobilitati per portare la linea del partito nelle fabbriche occupate, nelle piazze incandescenti. I membri della direzione ancora a Roma vengono spediti d’urgenza nelle loro rispettive sedi nei capoluoghi di provincia. Spano corre a Genova. Negarville vola a Torino su un aereo messo a disposizione dalla Fiat, per trattare il rilascio di Valletta. È un compito non facile, quello che aspetta i dirigenti: bisogna convincere i militanti a smantellare le barricate, togliere i blocchi stradali, liberare gli ostaggi e tornare ordinatamente al lavoro. Ed è un compito ingrato: a Milano, piazza particolarmente calda, è quasi impossibile farsi ascoltare dai militanti. Ricorda Luciano Gruppi:

Dovevamo dire: “attenti, compagni, questo è uno sciopero politico, che ha come obiettivo le dimissioni del governo. Questo e niente più di questo. Attenti! Non siamo alla vigilia dell’insurrezione”. Andai nella mia sezione, quella di Porta Volta. I compagni accolsero le mie parole piuttosto freddamente.

Raffaele De Grada, di fronte agli operai infuriati che gli impediscono di portare le direttive del partito, è costretto a mettere sul tavolo la pistola e a ricorrere alla sua autorità di ex comandante partigiano. Infine, però, anche i compagni più riottosi vengono convinti: lo sciopero termina senza aver raggiunto alcun obiettivo.

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Tuttavia, nota Bocca, “privato del capo a cui si rivolge per le grandi decisioni, il partito ha perso per qualche ora l’orientamento, si è mosso in modo sentimentale, ha lasciato andare, se non allo sbaraglio, allo scoperto, la sua organizzazione paramilitare, ha dimostrato agli italiani che essa non è una invenzione propagandistica di Scelba, ma una realtà”. Anche Leo Valiani si dice certo che “l’apparato armato” del Pci “agì dopo l’attentato a Togliatti del ’48: ma evidentemente allora ricevette un contrordine e tutto rientrò”.
In quest’ottica, probabilmente l’assalto alla caserma dei carabinieri (uno dei punti strategici della città) risponde a un piano preordinato che il Pci o il suo apparato di sicurezza tengono pronto “in caso di bisogno”, e a cui infatti il partito rinuncia non appena diviene chiaro che l’attentato al suo leader non corrisponde a un tentativo di colpo di Stato.

Finita l’agitazione, in ogni caso, cominciano le speculazioni della Dc e dei suoi alleati. La stampa “indipendente”, i settimanali illustrati, la “Settimana Incom” (il cinegiornale dell’epoca) si impegnano subito a fondo nel descrivere con dovizia di particolari il “piano K” dei comunisti, la ferocia degli insorti, l’eroismo delle forze dell’ordine. Nel pomeriggio del 16 luglio, la polizia sbarca in forze ad Abbadia San Salvatore, munita di autoblindo, artiglieria e addirittura di un aereo. A coadiuvare le forze dell’ordine c’è anche un intero reggimento di fanteria, il 78° Lupi di Toscana. Avviene un vero e proprio rastrellamento, casa per casa: la popolazione è selvaggiamente picchiata, mentre la “Settimana Incom” monta un clamoroso falso documentario che mette in cattiva luce i “ribelli del Monte Amiata”.

È solo l’inizio: nei giorni seguenti una campagna serrata da parte dei mezzi di informazione crea terreno fertile per il durissimo intervento del governo. Settemila lavoratori vengono arrestati o denunciati. A Milano finisce in carcere anche il padre di Ferdinando Clerici, l’ex partigiano Edoardo (“Nan”) La repressione antioperaia degli anni a seguire è durissima: tra il luglio 1948 e la prima metà del 1950 si registrano 62 lavoratori uccisi, di cui 48 comunisti; 3.216 feriti, tra cui 2.367 comunisti; 92.169 arrestati, di cui 73.870 comunisti. Pallante, l’attentatore di Togliatti, resterà in carcere meno di sei anni: condannato a 13 anni e 3 mesi in primo grado, a 7 anni in appello, a meno di 6 anni in cassazione.

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Il tramonto del “doppio binario”

Con il no del Pci all’insurrezione, si chiudono i sogni di molti militanti. E tramonta per sempre l’idea, assai diffusa, che il partito si stia muovendo su un “doppio binario”. Il rifiuto di trasformare in rivolta armata lo spontaneo sollevamento della base rivela “alle masse e agli avversari politici la patente contraddizione tra il linguaggio massimalista usato per tenere viva la combattività delle masse e la reale volontà d’azione rivoluzionaria”
La sconfitta elettorale da una parte, e il rifiuto del metodo rivoluzionario dall’altra, precludono al Pci nel breve periodo ogni prospettiva di conquista del potere. Nella base la delusione è cocente: in molti abbandonano il partito o, senza rompere apertamente, si ritirano ai margini della vita politica. Chi ha ancora delle armi nascoste si affretta a sbarazzarsene, per amarezza, o perché vista la nuova ondata repressiva diventa troppo rischioso tenerle. Fucili, mitra, bombe a mano vengono abbandonati in aperta campagna, gettati nei fiumi o nel mare. Per evitare conseguenze giudiziarie, interi depositi sono segnalati alla polizia. Anche la Volante Rossa nasconde le armi: Paggio si reca a casa di Luigi Colnago, in campagna, e vi sotterra una cassa di fucili. Non è difficile immaginare il disappunto degli uomini di “Alvaro” di fronte alla mancata insurrezione. Il ricordo più amaro è senz’altro quello di Sante Marchesi:

“Tornate a casa”, ci ha detto la staffetta della federazione, proprio come il proclama di Alexander ai partigiani in montagna. Per me è stato un errore, però… siamo sempre dentro a ’sta politica del cavolo […]. O non si doveva uscire, allora si stava tutti calmi, oppure quando una volta uno è uscito, armato soprattutto, o vai o spacchi, eh.

Secondo “Santino”, nella Volante il disappunto è tale che qualcuno vorrebbe andare avanti ugualmente, fare la rivoluzione nonostante il divieto di Alberganti. “Ma noi cosa facciamo se tutti gli altri si tirano indietro, se dopo c’abbiamo addosso anche il partito, o tutto?” Anche il tono divertito della rievocazione di Fasoli non riesce a celare una certa amarezza:

È stato bello dopo, a venir via quando è finito tutto… venir via dall’Innocenti a piedi, alla spicciolata, con le armi dentro ai pantaloni. Sembra una stupidata, ma infilati un mitra o un fucile dentro, nei pantaloni. Ohé, mica potevi venir via con le armi in spalla. Eravamo in luglio, faceva caldo. Avevamo su i pantaloni da sci, coi giubbotti, e il fucile infilato dentro. Una mano in tasca per trattenerlo… eh, insomma… c’è stata una certa delusione. Dopo praticamente siamo tornati alla normalità, come se non fosse successo niente.

Secondo C., invece, tornare alla normalità è impossibile, perché il 16 luglio segna il crollo di tutti i sogni della Volante Rossa: “Ci siamo resi conto che la rivoluzione non era possibile, mentre noi si era pensato di essere alla vigilia della presa del potere da parte della classe operaia”

È una vera e propria “mazzata”, che “chiude un ciclo” e apre un periodo di grande crisi all’interno della formazione di Lambrate. C., deluso dalla politica del partito, giunge addirittura a chiedersi se abbia un senso continuare C’è anche chi paga duramente i due giorni di lotta: la sera del 16 luglio, Paolo Finardi torna a casa per cena e ha un litigio furibondo con i genitori: “Dove sei stato fino a adesso?”. “Eh, han sparato a Togliatti, son stato alla Casa del Popolo…”. “Bravo, allora adesso vai a mangiare là”. La discussione degenera, e “Pastecca” torna a via Conte Rosso, dove rimarrà a dormire per vari mesi. Intanto, all’Innocenti, le direttive del Pci vengono lungamente discusse da un’infuocata assemblea di tre-quattromila operai. Mario Muneghina, in questo caso portavoce della direzione del partito, sostiene che occorre rientrare e utilizzare la grande forza di cui si è data prova nelle battaglie sindacali a venire. Lo stesso Banfi, pur facendo parte del nucleo dirigente della Volante Rossa, spalleggia l’ex comandante partigiano
Alla fine, prevale la tesi di Muneghina: le armi vengono nuovamente nascoste nei cunicoli e il lavoro riprende. La lotta politica e sindacale all’interno della fabbrica riceve un nuovo slancio.

Quel giorno, tra gli operai che assistono al comizio, c’è anche il comandante della Volante Rossa, Giulio Paggio, che non si schiera. Tanto che Banfi non ricorda se fosse o meno d’accordo con la decisione di rientrare nella legalità: “Non gliel’ho mai chiesto… in realtà non si pronunciò mai”. Secondo Banfi, però, quella del Pci è una valutazione politica: non essendoci le condizioni per una rivoluzione, occorre operare una ritirata strategica, e “continuare con un’azione di massa ancora più vasta fino al momento della messianica ora X” Del resto, la Volante Rossa ha sin qui vissuto sull’equivoco del “doppio binario”, e quando scopre che il Pci ha scelto un’altra strada non tenta di portare avanti la sua attività rivoluzionaria in opposizione ad esso, né tantomeno di pungolarlo dal basso. La linea del partito è quella giusta o, comunque, quella accettata. […]

Effetto Čičiskov ovvero opinioni di un disadattato

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di Giorgio Mascitelli

 

Spesso mi capita di chiedermi, e lo so bene che è una domanda oziosa perché non ha senso chiedersi come mai non sia successa una determinata cosa, ma spesso mi capita di chiedermi come mai la nostra epoca e la nostra società non abbiano prodotto una grande e gagliarda letteratura satirica. Se penso all’assessore che ha deciso di istituzionalizzare i propri rapporti d’alcova con la segretaria con una regolare scrittura privata,  se penso a certe carriere politiche che hanno comportato più cambi di casacca di quelli di certi calciatori che cambiano squadra ogni stagione ( i pedatori di ventura li chiamava Gianni Brera); se penso a certi esperti con domicilio nei paradisi fiscali che vengono a spiegare cosa l’Italia deve o non deve fare; se penso agli economisti e ai loro sicumerosi algoritmi che hanno previsto tutto tranne la crisi; mi dico che la realtà ci presenta già grandi personaggi e grandi situazioni pronte per essere semplicemente trascritti. Infondo Čičiskov, il protagonista delle gogoliane Anime morte, è un dilettante con la sua modesta truffa, che consiste nel ricomprare dai loro signori feudali elenchi di contadini morti, a fronte di un qualsiasi esperto di aiuti umanitari e ricostruzioni post terremoto.

Il fatto è che la letteratura satirica, più di ogni altro genere, abbisogna di un pubblico solidale con le ragioni che muovono la penna o la tastiera dell’autore. E la nostra, dico la nostra di noi lettori, indignazione è sterile, non produce versi. Non è un problema di intensità o di ipocrisia, siamo autenticamente indignati ma ci mancano i parametri culturali in cui incanalare l’indignazione.

La colpa è naturalmente tutta della società: essa si comporta con noi così come Čičiskov con i suoi clienti. Egli, a differenza dei truffatori della tradizione classica italiana, non gigioneggia, non fa il mattatore, ma è rispettoso, quasi silenzioso, quasi timido e come en passant propone la transazione. La nostra società dissimula con pari timidezza le proprie gerarchie e non ci costringe a fare nulla, se non a essere liberi, quindi di fronte a lei siamo disarmati come i proprietari terrieri davanti a Čičiskov. A causa di questo effetto, che si potrebbe chiamare effetto Čičiskov, la nostra indignazione gira a vuoto perché al di là della ripulsa per i singoli colpevoli non sappiamo nemmeno intuitivamente perché le cose vanno male e dunque non può sorgere nessuno scrittore satirico a esplicitarci le ragioni di ciò.

Insomma la nostra indignazione, al pari della nostra vita sociale, è frammentata, precaria e solipsistica; essa è priva di fondamenta solide e senza di queste non può esserci nessuna solidarietà con nessuno scrittore.

Nel mondo romano il poeta satirico stabilisce un patto con il proprio pubblico attraverso l’ethos tradizionalistico del mos maiorum, la legge morale che si basa sui costumi degli antenati, in nome del quale egli castiga i vizi del presente visto come decadenza causata dal distacco dagli aurei usi dei padri. Nel mondo moderno lo scrittore satirico e il pubblico trovano il loro terreno d’intesa nell’idea di emancipazione e cambiamento della società: i comportamenti oggetto di satira sono innanzi tutto dei crimini contro le leggi del progresso sociale. Oggi, invece, il massimo che si può trovare come terreno unificatore è l’auspicio che amministratori corretti e competenti si sostituiscano a quelli corrotti e incompetenti ossia un’ovvietà retorica e vaga, simile per precisione semantica agli auguri per l’anno nuovo.

Nella Critica della ragion cinica scrive Peter Sloterdijk che “la critica filosofica all’ideologia ci appare l’erede di una grande tradizione satirica, della quale sono armi da sempre:  lo smascheramento, il pubblico ludibrio e il denudamento”. Questa considerazione, che fa parte della polemica antilluminista in nome di valori vitalistici dell’autore tedesco,  è fortemente critica nei confronti della critica filosofica all’ideologia, che rappresenterebbe un tentativo di dare una veste filosofica, e perciò imborghesita e poco vitale, a quella critica dei costumi che nella satira più autentica è condotta in nome della vita stessa. Eppure possiamo leggere questa osservazione da un’altra angolatura, partendo dall’evidenza che oggi tanto la critica dell’ideologia quanto la satira latitano e versano in uno stato di crisi.

Questa circostanza ci insegna che lo smascheramento è un’azione che presuppone un sistema di valori comuni nella comunità in cui avviene. Questo è sempre possibile nell’antichità in cui è garantito da un riferimento mitico a un passato, quello degli antenati migliori, se non perfetti; mentre nel mondo moderno esso dipende dalla storia ossia dalla possibilità che la storia offre a una società di una speranza di miglioramento o di emancipazione. Oggi che manca anche un semplice spiraglio di speranza non è possibile o meglio non è condivisibile nessuno smascheramento.

Il mondo di oggi ha sostituito a una modernità che si offriva come un ventaglio di linee e di possibilità, magari in forma conflittuale, sia di emancipazione sia di oppressione un orizzonte unidimensionale di realizzazione completa di una società di mercato. E’ in questo senso che Guy Debord scrive che il celebre verso di Rimbaud “ bisogna essere assolutamente moderni”, emblema dell’arte modernista, è diventato lo slogan del tiranno. Oggi essere assolutamente moderni significa essere assolutamente omologati a questo stato di cose e chi non lo è allora è assolutamente disadattato ( lo dico con rimpianto, senza iattanza da purista, al contrario, finchè è stato possibile, nelle faccende di arte e letteratura la posizione più feconda è sempre stata quella di avere  un piede in due scarpe).

Queste ultime considerazioni, tuttavia, aprono un problema più ampio che non è possibile trattare qui. Per tornare alla questione della satira, infondo, tutto quanto ho scritto può essere riassunto così: per godere del riso satirico sia come lettori sia come scrittori dovremmo essere uomini più liberi di quello che siamo realmente adesso.

Poesie e prose

4

di Gianluca Garrapa

da Poevisioni [Io, l’amore e altre superstizioni], inedito.

cam archer places

3

crismi e tele angolari, sì. linee e triangoli babelici, sì. babilonie di generi diversi e caos, sì. purezza di spirito senza il pandemonio, sì. cerchi e perfezione, no. cenacoli di diffrazioni acustiche, sì. foglie poche e curve obnubilanti da un vento finto_proletario senza armi, forse. sottofondo adiabatico non_reciproco, sì. gatti e gufi intrecciati di canti e santi, sì. proiezioni ancastiche precisione d’immagine apparenze sguaiate, no. falsi compromessi giochetti di strada cormorani mormoranti e stagni di lapislazzuli decisamente azzurri, sì. menefreghismo indifferenza fascismo omologazione maschilismo santa liturgia omofobia pedofilia e stato di polizia, no. godimento desiderio gioia_e_rievoluzione, forse.

589

avviene che. che in un attimo l’essere scivoli a vuoto. questo è successo. amor che a nulla servì l’averti amato. avviene che. che nell’eterno sbilanciarsi per affinare neo_simmetrie posturali. che nel passo ubriaco di stelle&fuoco indomito. che nel collasso di quelle stelle immense che eravamo. che nel conflitto erotico. avviene che. che il mondo si scrolli di dosso la polvere dei nostri sguardi ormai morti. rotolati e evaporati. fino alla quiete del riposo. cinetica azzerata. cinematica di affetti in bianco_e_nero. frusciante vino in. avviene che. e la sospensione coglie il respiro e lo precipita in alto. vino in svolazzanti scaglie di labbra. avviene che. che i nostri baci sboccino spine e rose appassite_immense. che. le rose catturino il volo ed eccoci. in solide ciminiere di metallo sfolgorante. il ricordo. oddio. di un amore, il ricordo più vivido e chiaro di un amore. quello che non è mai stato, che mai è finito, che mai più è tornato.

quello_che_continua ( 4/5 gennaio 2011)

78. lì che c’era? e poi da lì scrutavano le danze ininterrotte.
79. le plafoniere gobbe. le caruncole d’ascidie verdi.
80. l’imitazione limita l’originalità di un parto criogenico.
80. partorire un pro(dotto)_(con)gelato attraverso un condotto.
79. il neon scarificato. gli occhi hanno forme di luce.
78. ma cosa c’era lì? le danze interrotte che da lì ci scrutavano.

[21.00]

03. perché la fisica quantistica non può opporsi alla fisica qualistica.
05. due ragni tessono trame e drammaturghi in porticati scrivono.
07. epistassi da un braccio in libreria, sistemata in cataloghi di ferro.
09. lo specchio rivolto alla maschera nasconde un dialogo giornalistico.

da cui consegue che

06. qualistica e quantistica non possono imporsi l’una all’altra. Perché?
10. perché i ragni nel palco scalpicciano mossi dai drammaturghi.
14. dissanguato per scrivere ‘Marat’ sulla copertina di un libro.
18. le maschere le costruivamo alle scuole medie con fogli_di_giornali&colla.

[01.00]

04. cromatofori annichiliti contorcono sferoidi marcescenti.
06. placche sostituiscono tettoniche probabilistiche.
08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.

se e solo se

08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.
12. i vulcani pruriginano altre atmosfere di sodio.
08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.

allora

gli occhi ravvicinati e stretti trattengono il sole.
le caviglie sibilano come crotali lisergici.
pedisseque palme gongolano al deserto di lune incipienti.

[07.45]

a. lampi di afa contro le luccicanze di parassiti innocui.
b. tramortiti gliòmmeri stesi a prendere il gelo notturno.
c. cinestesi di gatti morti in mezzo alla via, come si dice.
d. colazione.
d1) banane,
d2) kiwi,
d3) spremuta d’arancia,
d4) caffè.
e. posizioni irraggiungibili da comuni immortali.

a+b+c+d+d1+d2+d3+d4+e = effemeridi tentacolari come rami, per l’appunto, di alberi affascinanti.

[09.41]

sembrava.
02, ed era proprio un sembiante.
03, mutevole l’anca del ponte sorseggiava rispecchiamenti e lucori.
05, ho lancinato l’orbita di Marte acuendo il fosforo di un cerino al mattino.
07, la ragnatela del mare sopporta gli aggravi edonistici di yacht.
11, l’ecumenico senso del decoro ha portato semi indeiscenti a partorire vipere.
13, il religioso controsenso riposto nelle cose che violentano i nomi.
17, eleganza di gruppalità abeliana in consonante vocalismo di vapore dalla bocca.
19, salmodiare.
23, dirimere. unire. liberare. coartare.
29, spedire.
31, ripetere.
37, svuotare macigni dalla gravità di Sisifo.
41, i ricami delle nuvole tessevano cuscini di turbolenze.
43, il pilota, bell’uomo, aveva occhiali a forma di girasole.
47, [10.41]
53, vedere una città dall’alto è come osservare intense ramificazione logiche di un cervello.
59, odore di frenesia sulle infiorescenze dai nasi aquilini e all’insù.
61, cerimonie.
67, querimonie.
71, monadi.
73, affitto troppo poco caro.
79, maschera dell’ossigeno.
83, tubi lunghi sottoepidermici e sotterranei.
89, omofobia.
97, diritti civili incatramati dentro bolle ipocrite e naziste come pulci invetriate di plexiglass.
101, [11.00]
103, paracetamolo o acetaminofene o N-acetil-para-amminofenolo
107, secondo la seguente equazione: 2 HO-C6H4-NO2 + 2 CH3COOH + 3 Sn → 2 C8H9NO2 + 3 SnO2.
109, acido L-ascorbico o vitamina C o (R)-3,4-diidrossi-5-((S)- 1,2-diidrossietil)furan-2(5H)-one o C6H8O6.
113, Fenilefrina o neo-sinefrina o C9H13NO2.
127, [12.37]
131, meschino e violento.
137, soldatini psicotici.
139, massa di gentaglia che vegeta.
149, marionette di stagno.
151, locuzione allibita.
157, induzione all’omologazione.
163, feticci parabolici.
167, amore. sesso. corpo_cuore. sistole_diastole.
173, intercessione di alberghi.
179, scatole piene di nulla.
181, [14.21]
191, siffatta panoplia di significanti multipli riferiti a un significato zero.
193, blandizia glottologica e parossistica nell’intorno delle 14e30.
199, succulenta porzione di cielo fraseggiata da effeminate nuvole.
211, terreni sottratti alla mafia.
223, punizioni esemplari da ripetere ogni volta che il caso necessita.
227, occorrono forbici e spago e ripieghi di gelatina gialla.
229, leggere le incrinature dell’umidità sulle lastre di metallo.
233, non fa freddo. la tanica di benzina.
239, un racconto smozzicato lascia resti interdentali.
241, la raccomandazione dei soliti geniali residui di intelligenza apatica.
251, l’arresto della profanazione tombale al casello degli immortali.
257, rumori fanno tremare i vetri di finestre interiori.
263, la televisione viaggia a velocità costantemente ignorata.
269, quindi, è l’ultimo numero primo della serie di numeri primi e

A B C D

A) rotto il vetro degli occhi.
sguardo tenuto colmo febbricitante
e lo sconosciuto sfiora il vapore
epidermico clona il buio interiore
– qui non si parla – corpo stupendo – ornamento essenziale
– l’animale segue curve cardio_sintetiche:
scimmie chimiche tamburellano sistole&diastole
creano protesi di finti battiti in gola. e poi
un elenco di passi non è amore
un indifferente prassi non è amore
un trittico di monadi non è amore
un tatuaggio di lucidi respiri non è amore

B) il peso del corpo perfetto. goduto. pensiero inetto. pagamento rateale di frasi.
rosario di ambra. di resina fossile. pentimento prematuro prima dell’accadimento attuale.
succede e accadrà spesso. compulsioni solitarie affollate di gente smorta. in certi ghetti moderni.
dove nascono e si struggono gemiti
clamore. questa nuova forma di amore è
sublime crudeltà deteriore dell’essere aff_amato
dell’essere affamato d’amore.
ma io ho predetto il futuro
e adesso sono capovolto in questo oscuro passato.

C) sul bordo d’ogni cosa senza limite s’affaccia l’aria di.
ed è semplificato adesso il gioco e la navigazione segue stelle
-marine, non lo sapevo.-
dalle scalette di un’improvvisata aria di festa scende l’abito del tuo corpo sessuale.
è in fine il piacere pornografico che inizia col moralismo d’abito che sai.
così alla fine del resto dei corpi sudati e che hanno goduto
così alla fine di ogni godimento non resta che il desiderio ultimo
quel tuo amore.

D) è bene il turgido del pene mentre vibra
l’animale recondito che detta un immorale desiderio
senza aver goduto.
lo sai? non devi far la spesa quando hai fame
e non devi parlar d’amore se il corpo non è già esploso
dilapidato sprecato e stanco
se prima non hai ammalato l’anima di bestia che sei
per voler l’angelico sentimento senza corpo che sai
non esiste. lo scandalo il sottofondo soffocato dell’ansimante contraccolpo
e poi stanchi esausti sfiniti dal porcile di sudore e liquidi
allora soltanto allora
inizieremo a darci un nome
inizieremo a spiegarci quel po’ d’amore
senza altro scopo che non sia speculare l’anima
che solo allora può darsi un dove.
credimi
è dopo aver massacrato il corpo che puoi sfiorare l’infinito.

(Foto: Cam Archer, Places.)

Notizie preliminari dall’Ucraina

19

Una lettera aperta e un articolo di Jurij Andruchovych

Kiev, 24 gennaio 2014
Cari amici e soprattutto giornalisti e cronisti stranieri,
kopyya-po-50dsc0033

Negli ultimi giorni molti di voi mi hanno chiesto di descrivere la situazione attuale a Kiev e nell’Ucraina più in generale, fornire una valutazione di quello che sta accadendo e presentare la mia visione sui prossimi sviluppi. Non avendo la possibilità di rispondervi singolarmente o per ciascuna delle vostre testate, ho deciso di preparare questo breve appello affinché ognuno di voi possa utilizzarlo a seconda delle proprie necessità.

Le cose più importanti che voglio dirvi sono le seguenti:

Meno di 4 anni dopo aver assunto l’incarico, il signor Yanukovich ha portato il paese e la popolazione ai limiti della sopportazione. Quel che è peggio, ha portato a una situazione senza via d’uscita, nella quale deve mantenere il potere a tutti i costi. Nel caso contrario lo attende una dura condanna. L’ampiezza delle frodi e delle usurpazioni supera qualunque immaginazione sull’avidità umana.

Psicogeografie

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Screenshot psicogeografia

di Gianni Biondillo

A non volerci far troppa filosofia è che non ho la patente. Quindi o mi arrangio o me la faccio a piedi. Come al solito però quello che può apparire un limite può svelarsi una opportunità. Quella di scoprire – quasi con una perseveranza tignosa, dal vago sapore antimoderno, di chi vive in un mondo governato dalla velocità -,  anzi, di riscoprire il ritmo, il passo umano. Siamo animali strani noi. Non veloci, non potenti. Ma costanti. Possiamo camminare, fin dalla notte dei tempi, per giorni. Quattro, cinque chilometri l’ora. Più o meno tutti. L’abbiamo dimenticato, ma è così, dall’alba dei tempi, che abbiamo colonizzato il mondo. A piedi. E quindi, sì, facciamola pure un po’ di filosofia: non ho la patente non perché bocciato all’esame di guida, ma per scelta. Di vita, potrei dire vagamente tronfio. Scelta che negli anni ha assunto sempre più connotati etici, politici. Abbiamo dimenticato il paesaggio che ci circonda, l’abbiamo lasciato sullo sfondo, come una cartolina, come un album di fotografie stereotipate e nel frattempo abbiamo permesso lo sciupio del territorio. Ma in un viaggio, ogni autentico viandante lo sa, quello che conta non è mai la meta, quella magari immortalata dalle Polaroid (o Instagram che sia). È il percorso. Da farsi a piedi. È solo così che si scoprono tesori inattesi.

Tutto questo, se da ragazzo lo sapevo quasi inconsapevolmente, è diventato un campo del pensiero che ho attraversato di volta in volta con vari compagni (di strada, come è ovvio). Con Gianluca Migliavacca, accompagnatore di media montagna e coordinatore di Trekking Italia, che mi ha insegnato a riscoprire i sentieri nella loro complessità, col collega scrittore Michele Monina, col quale abbiamo ragionato a lungo sul camminare come esperienza estetica. Psicogeografia, così si chiama la disciplina nata con le avanguardie francesi del secolo scorso che tratta di tutto ciò. Anche se, come è ovvio, l’uomo cammina da sempre e da sempre ragiona su questa facoltà. Questa “storia del camminare” (citando il bel libro di Rebecca Solnit), questo interpretare i paesaggi attraverso il passo dell’uomo, restituendolo attraverso varie forme di narrazione (fotografiche, filmiche, artistiche, letterarie, etc.) è diventata la mia passione. Magari fatta di esperienze “al limite”, come quando nel 2009 con Michele abbiamo fatto il giro delle tangenziali di Milano a piedi, cercando paesaggi estremi, quelli che nessuno racconta, per restituire loro dignità.

Le passioni, quando sono autentiche, si possono anche trasmettere. Ed è quello che m’è accaduto quest’anno, grazie all’Accademia di architettura di Mendrisio, dove ho potuto tenere un corso semestrale di “Elementi di psicogeografia e narrazione del territorio”. Lezioni teoriche, come un corso accademico prevede. Certo, il mio saltabeccare durante le lezioni di disciplina in disciplina, citando antropologi, filosofi, artisti, architetti, scrittori, paesaggisti all’inizio può aver terrorizzato i miei studenti. Ma questo dove vuole arrivare?, sembrava chiedessero i lori sguardi muti. Poi tutto s’è fatto chiaro quando dalla teoria s’è passati alla pratica. Quando, aiutato dal mio “braccio destro” Francesco Rizzi, ci siamo messi in cammino. In un freddo sabato novembrino, da Riva San Vitale, sul lago di Lugano, a piedi fino a Cernobbio, sul  lago di Como. Neppure un quarto d’ora in macchina, probabilmente. Un’intera giornata, fra campi, strade poco battute, affiancando ferrovie o autostrade, costeggiando canali, perdendoci nei borghi o nei centri commerciali. In una sorta di terra di nessuno, avendo come partenza e arrivo due luoghi consolidati dell’immaginario, per svelare, in questa deriva, quanto di esotico, cioè proprio di estraneo, sconosciuto e lontano dal nostro sguardo, possa esistere “sottocasa”. Si è trattato, in pratica, di imparare a guardare con occhi diversi, senza pregiudizi, territori continuamente modificati, manipolati, spesso violentati dall’uomo. Battisteri paleocristiani accostati a complessi scolastici anni Settanta, campi coltivati e superstrade, edilizia residenziale e capannoni, persistenze storiche e postmodernità. Tutto nel volgere di una giornata.

Ed ecco che i ragazzi, dapprima riottosi, hanno iniziato a capire il senso delle lezioni teoriche. A prenderci gusto. Hanno fotografato, registrato, filmato, intervistato. Ora sarebbe troppo lungo raccontare tutti i nostri incontri inaspettati. La scoperta di architetture del Novecento di grande valore (dalla villa studio a Riva San Vitale di Durisch fino alla casa Cattaneo a Cernobbio), di pievi romaniche (e la relativa sagra di San Martino a Mendrisio), di “superluoghi mondialisti” come il FoxTown, di terrazzamenti coltivati a vite o ponti dei suicidi sulle gole della Breggia. Storie. Che parlano di economia, politica, umanità, di un territorio di confine.

Confine che abbiamo attraversato in un passaggio pedonale incustodito a Maslianico, dove una delegazione di ex alpini ci ha accolto rifocillandoci con pane, salame, vino e tanta allegria. E dove ci hanno mostrato il lavoro complesso che, da volontari, stanno facendo sui percorsi di ronda dei finanzieri ormai abbandonati da decenni. Camminamenti e scalinate radenti la “ramina”, oggi ricoperti di rovi che gli alpini stanno ripristinando, per rendere onore a storie di uomini e donne, di passatori e contrabbandieri, di povertà e di emancipazione. Percorsi che sono monumenti itineranti del territorio che consiglio a chiunque di ripercorrere, anche per tenere viva la memoria della nostra storia recente.

Quello che abbiamo fatto quella mattina oggi è diventato un luogo virtuale che può essere visitato da chiunque. Assieme ai ragazzi del corso abbiamo deciso di creare con i materiali raccolti un sito web dove ogni studente, con le sue peculiarità e la propria sensibilità, ha concentrato il suo lavoro su vari punti del percorso, realizzando video, fotografie, disegni, audio. Il sito (www.psicogeografia.com) è stato messo on line dal nostro web master, Francesco Mussi, il 25 gennaio. Adesso ognuno può idealmente ripercorrere l’esperienza fatta quel sabato novembrino. Sentire lo scorrere del fiume, le campane del mezzodì, vedere i campi coltivati, le panchine, le pavimentazioni, incontrare persone e osservare i paesaggi con occhi nuovi. Come abbiamo fatto noi. E come i ragazzi hanno compreso a fine del viaggio, quando – sul battello che ci portava a Como da Cernobbio, stappata una bottiglia di spumate (regalo degli alpini) per brindare alla fine del viaggio – qualcuno m’ha detto, con una semplicità disarmante: “grazie prof, è stato bellissimo”. Il regalo più inatteso per me.

(pubblicato su L’ordine inserto della Provincia di Como, il 16 febbraio 2014)

Le “Selve d’amore” di Gianni Celati

1

di Francesca Fiorletta

celati, selve d'amore
In questi casi tu diventi un rimbambito che non vede più niente di quello che ti succede intorno: il sole che si alza e tramonta, un inquilino al terzo piano che trasloca, il signor Pigogna che è portato in manicomio dentro una camicia di forza, tuo padre che fa urli da pazzo geloso perché non vuole più tuo fratello in casa, sospettando che possa avere amori segreti con tua madre. Ma tutto questo non conta per te, perché un dio ti comanda di pensare solo a una persona: e tu non pensi ad altro, solo alla tua regina Gezzi, che mettendoti le mani addosso ti dava dei tremiti.

Siamo a pagina 22 e Gianni Celati c’ha già detto più o meno tutto quello che si può realisticamente dire sul sentimento amoroso.
Non solo è già entrato nel fulcro della vicenda, ma l’ha fatto squisitamente alla sua tipica maniera: con descrizioni brevi, fulminanti, particolareggiate e sensibili.
Descrizioni che attingono lustro e vigore dal registro più confidente della vita quotidiana, e che, con un linguaggio (apparentemente) semplice e immediato, riescono a dipingere in pochi secondi uno scenario domestico dalle tinte più cangianti, sempre in perfetto equilibrio fra il lato fosco e quello limpido dell’animo umano.
Siamo a pagina 22, dicevamo, dell’ultima raccolta di racconti di Gianni Celati, Selve d’amore, pubblicato nel 2013 da Quodlibet, Compagnia Extra.
Quattro racconti compongono il libro, ciascuno particolarmente bruciante e allegorico nella sua stringente finitezza, per ragioni che andremo ad analizzare.
Innanzi tutto, le tematiche: nel primo, da cui prende il titolo l’intero testo, si racconta la passione adolescenziale del giovane protagonista per un’amica della madre; nel secondo, Il caso Muccinelli, seguiamo le indagini misteriose di un presunto investigatore, palesemente inadeguato al suo ruolo; nel terzo, Matrimonio Bellavista, ritroviamo i drammi della famiglia Marcocesa, ancora impigliata fra tradimenti e insoddisfazioni economiche e personali; nell’ultimo, La notte, protagonista è Pucci, il povero ragazzotto chiuso in manicomio, la cui passione è guardare gli alberi e sognare il ripetersi ciclico e concentrico del volo degli uccelli.
Fulcro dell’attenzione, dunque, sono i rapporti familiari, la loro delicata costruzione, il loro precario rimodellamento. Più di tutto, emerge una debordante e ossimorica sincerità di relazione, che si scontra con la pretesa messa in scena di uno spaccato di quotidianità della famiglia borghese media, tipicamente rappresa nel circolo vizioso degli infingimenti del quieto vivere d’occasione.
Esemplare, oltretutto, la sistematica differenza evidenziata tra le figure femminili e quelle maschili: nonni e padri si esprimono con un lessico appuntito e senza particolare clemenza, («Aurelio, noi ci capiamo anche se sei un idiota, vero?», dice il nonno di Pucci, nell’ultimo racconto) arrugginiti e disarticolati sulla pagina quanto nel ruolo che dovrebbero ricoprire in famiglia e negli affetti; madri e mogli, par contre, blandiscono e ammaliano il lettore, con scarti gnomici di pura maestria, che ondeggiano fra il rigore aulico e il dispetto grottesco. (Riprendo, da Matrimonio Bellavista: Detto questo, la madre si è levata il fazzoletto che le avvolgeva il capo e Cesa ha visto che aveva capelli grigi, volto di donna attempata, guance incavate, occhi un po’ miopi, e l’aria stanca di chi dorme pochissimo. È andata via con una battuta nel suo dialetto, che diceva così: «Non si può dare un pugno in cielo».)
La dicotomia dei tratti, comunque, si rovescia nello sviluppo ultimo delle vicende, dacché le donne, pure misteriosamente e sadicamente affascinanti, spadroneggiano sì nelle Selve della scrittura di Celati, ma secondo un criterio tutt’altro che disincantato: tutte oltremodo smaniose di seduzione e di auspicabili riconoscimenti sociali, ammiccano, perniciose e sospettose, persino ai loro stessi figli, si frustrano con relazioni extraconiugali banali e prive di pathos, rigettano e s’acquietano, enfin, solo nei rapporti più sbilenchi con l’altro sesso, pure continuamente mortificato.
Gli uomini, dunque, inquadrati fin dall’inizio come macchiette apotropaiche di una vita infausta, condotta continuamente sull’orlo del fallimento, sembrano paradossalmente riscattarsi, seguendo il corso delle narrazioni, proprio nella loro pretesa intangibilità; riescono quasi a salvarsi, potremmo dire, dalla bruttura del mondo, grazie all’atavica inettitudine che li rende tanto sterili e arrendevoli, al cospetto dello spietato e perturbante corso degli eventi. (Così li troviamo, ne Il caso Muccinelli: I tre sono sagome che buttano avanti i piedi con indolenza, ma sempre più scure là in fondo, in controluce, mentre scende il crepuscolo e loro vanno verso il loro destino.)
Tra le chiavi di lettura essenziali per la comprensione di questo testo, un ruolo dominante gioca lo sviluppo diacronico della giornata: la notte, fulcro esiziale di ricordi e disvelamenti insegue in un perenne contraltare il giorno, descritto come sotto una sorta di nube oscura, un limbo ibrido che tutto camuffa e che poco o niente lascia intravedere allo spettatore disattento.
Teatrali quanto plausibilmente oggettivabili, i racconti di Gianni Celati sanno indagare benissimo le strategie più recondite del pensiero analitico che alberga fecondo nella mente di ogni autore che si rispetti; ed è proprio l’autore stesso che alla fine, seppure vestendo i panni di uno dei suoi personaggi (a questo punto non a caso, direi, quelli scomodi di una donna!) esprime e materializza quello che mi sembra il senso estremo di tutta la sua scrittura.
O forse, invece, mente con orgoglio e si contraddice ancora.

Qui io invento tutto, si capisce ma so cosa succede in questi momenti. Tu sei come al solito nella tua prigione, guardi dalle inferriate e vedi una punta di luce che viene da oriente; allora vai col pensiero verso quella luce, che non è nessuna speranza, è solo un giorno uguale a tutti gli altri che sta per cominciare. Ma questo è il buono della faccenda: tu aspetti il giorno ancora una volta, senza aspettarti niente, soltanto perché ci sei, e sei lì da buon carcerato, come se fosse il mattino della tua liberazione.