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Epigrafi a Nordest

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Foto di Pexels da Pixabay

di Anna Toscano

Nella città di provincia del nord est dove sono nata e dove sono vissuta fino ai diciotto anni si faceva la coda per il pane, nella panetteria più in voga in quegli anni, guardando in faccia i morti. Sono stata abituata così sin da piccola, a stare in coda e guardare gente morta.

Allora, tra i Settanta e i Novanta, la panetteria più buona, o più di moda, era all’angolo tra due strade pedonali lastricate di sanpietrini, un’ampia vetrina piena di ceste di pane su entrambi i lati: il negozio da una parte dava sui banchi di frutta e verdura e su una tabaccheria, dall’altra su un negozio di dolciumi. L’angolo, tra le due vetrine, era di marmo, veniva usato per appendere le epigrafi mortuarie: grandezza A4 in verticale, nome e cognome della defunta o del defunto, una foto formato tessera in alto a destra, un breve testo di commiato, le informazioni per il funerale.

Così, si stava lì, estate e inverno, sole o pioggia, in coda ad attendere il proprio turno per il pane, facendo la conta dei defunti. Gli adulti commentavano se il defunto fosse vissuto troppo o troppo poco, di chi fosse parente o amico – nelle piccole città ci si conosce tutti – e chi fossero i nomi citati nel testo. L’esclamazione che si sentiva più spesso, mentre ci si avvicinava all’ingresso del negozio e dunque le epigrafi divenivano man mano leggibili, era: “Varda chi sé morto”.

Per noi bambine e bambini estranei, chi più chi meno, al sottotesto che accompagnava la fototessera, era un guardare in faccia volti che assomigliavano molto a quelli dei nostri nonni e delle nostre nonne, colori prevalentemente scuri nell’abbigliamento, quasi tutti coi capelli bianchi, le donne con la permanente taglio corto, occhiali da vista. L’attenzione veniva attirata maggiormente dalle poche foto che ritraevano giovani, quelli che la cronaca locale aveva già riportato nei giorni precedenti prima per incidenti stradali, all’epoca erano le strade delle discoteche il sabato sera o per i lidi in estate. Gli scatti nelle epigrafi in questo caso cambiavano, era netta la percezione che fossero fotografie ritagliate da altri contesti e ci si immaginava subito la foto di classe della quinta superiore a cui mancava un ovale, avevano ritagliato quel volto. Erano anni in cui non c’erano i cellulari ma nemmeno gli scanner, le foto erano su pellicola e la loro riproduzione era molto farraginosa rispetto a oggi.

Tuttavia avere una fototessera era facile all’epoca, le cabine per produrle infatti erano distribuite nelle città – seggiolino che si avvitava per salire o per scendere, tendina acrilica sempre troppo stretta e corta e buona la prima, mica come oggi che si possono fare più pose e poi scegliere – producevano quattro tutte uguali (più tardi sei) e le due o tre rimanenti stavano nel portafoglio o in quello dell’innamorata/o. Ma c’erano anche molti negozi di fotografia e i fotografi erano forniti di un angolo apposito per fare fototessere.

Basta andare con la memoria alla foto della prima patente o di un abbonamento al bus degli anni della scuola o alla tessera universitaria e sentire una punta di dolente disagio per quelle immagini che ci ritraggono scuri, fissi in un tempo che fisso non era affatto.

Perché le epigrafi erano appese tutte su quella colonna? Era il luogo principale di passaggio del centro storico, sede di mercato e di commercio spiccio per l’alimentazione quotidiana, non esistevano ancora gli ipermercati e tantomeno i centri commerciali, solo i supermercati cittadini e i negozi al dettaglio del centro storico. Altre epigrafi, singole e sparute, comparivano nei luoghi della città abitati e frequentati dalla deceduta o dal deceduto.

All’inizio degli anni Novanta apre, nella stessa città, una pizzeria nella piazza centrale, piazza dei Signori, che prima ospitava gelaterie molto eleganti e negozi esclusivi e poi, al posto di alcuni di questi, una pizzeria con molti posti a sedere anche all’esterno che poteva accogliere intere famiglie e classi di studenti: la blasonata piazza centrale, luogo di struscio di diverse età a seconda dei giorni e delle fasce orarie, diviene più popolare e più ciarliera.

Gli anni in cui Virna Lisi interpretava la cassiera al Ristorante Soffioni sono ormai lontani, per intenderci. Così, nel salotto buono della città, nella colonna del portico più esposta agli occhi di tutti, iniziano a venir attaccate tutte le epigrafi che trovano spazio. L’unica pizza che ho mangiato lì la ricordo, perché erano di più i volti che mi guardavano dalla colonna dei nomi delle pizze nel menù che tenevo aperto sotto il naso. Ora tutto è cambiato, va da sé, la pizzeria c’è sempre ma la colonna di ostentamento della morte è dalla parte opposta del portico. Ma Il muro d’angolo del panificio è sempre, protetto da un supporto, affollatissimo di epigrafi, il panificio è chiuso da decenni, i banchi della frutta e verdura trasferiti per lasciare il posto ai plateatici chic di bar chic, il tabaccaio ha lasciato il posto a un negozio lussuoso, resiste solo il negozio di caramelle, rimasto come allora.

Foto di Anna Toscano

Le città cambiano, ma non è questo il punto.

Sin da piccola sono stata abituata a frequentare i cimiteri, andare in visita da parenti defunti, accompagnarli nel loro ultimo viaggio, attraversare camposanti pieni delle stesse fototessere: anziani coi capelli grigi, occhiali, sfondo chiaro, abiti scuri. Mia madre e mia nonna, tuttavia, hanno iniziato a pensare alla loro morte anzitempo, ogni due anni eleggevano una foto come quella per la tomba e per l’epigrafe: mia nonna chiedeva a me di scattargliene qualcuna da cui scegliere, mia madre andava dal fotografo per rendere la riuscita dell’operazione più perfetta. Entrambe avevano in orrore l’idea di avere a ricordo eterno una fotografia di quando erano giovani come facevano in molti, volevano essere riconoscibili nelle loro ultime versioni. Così mia nonna ha sulla lapide, e ha avuto sull’epigrafe affissa proprio sulla colonna del panificio, una foto di grandi dimensioni che le ho scattato a un matrimonio: sorride rivolta a qualcuno, capelli grigi con la permanente, abito molto scollato oro e marrone, due fili di perle al collo, rossetto. Aveva quasi centodue anni alla morte, la foto di poco tempo prima era pronta.

Mia madre, deceduta cinque mesi dopo mia nonna, svetta sulla lapide con una grande fotografia fatta da un fotografo – la scelse con grande riluttanza, certo era venuta molto bene a suo parere ma il fotografo, amico di famiglia, una volta divenuto vedovo quasi da subito era andato a vivere con un’altra donna gettando mia madre nell’indignazione – appare glaciale, in una maglia di lino azzurra, occhi azzurri sgranati sull’infinito alle spalle del fotografo, sfondo azzurro scuro, capelli bianchi legati in una coda ordinata, una collana blu, viso impassibile in una espressione a un passo dal mistico. Per fortuna aveva lasciato detto che non voleva venissero affisse epigrafi, poi il panificio aveva appena chiuso quando è morta.

Mio padre ha seguito mia madre di cinque mesi, per lui, a cui non importava nulla di epigrafi e tombe nel suo orrore verso la morte, abbiamo scelto l’ultima foto scattata a Venezia: era sull’imbarcadero del 2 che aspettava il vaporetto, indossava un cappotto cammello e per la foto aveva fatto il possibile per stare dritto con la schiena. Mia madre gli era accanto, e ricordo nettamente che mentre scattavo lui guardava in macchina, lei guardava lui e diceva “Sto stronzo malato com’è ha ancora i capelli scuri, non ha una ruga e riesce pure a stare dritto”. Lei, malata da tempo, aveva una giacca di camoscio marrone e i capelli bianchi legati in una piccola coda. Lui è venuto in foto con un piccolo sorriso, che la malattia ha trasformato in un debole ghigno, ma simpatico come ghigno, non per me che stavo lì con la analogica ma per la frase di mia madre. Anche questa foto è grande, colorata, con molta luce.

Quando poco più di dieci anni fa ho, con mia sorella, predisposto le foto per questi tre funerali, quando poi abbiamo accompagnato ogni sepoltura e poi siamo tornate a portare fiori e lavare lapidi, ho notato che le foto della mia famiglia, come di altre tombe recenti, foto comunque di anziani, già una decade fa, si staccavano dalle altre foto: erano più luminose, non erano fototessere, nessuno era vestito di nero, non era solo il volto ma un mezzo busto quasi.

Filando dietro questo allenamento alle fotografie e alle epigrafi non mi perdo una colonna di morti. Qui a Venezia, dove vivo da oltre trent’anni, sono concentrate in alcune zone le epigrafi, stesso formato e stessa disposizione, guardo le foto e l’età delle persone, come sono stata abituata a fare. Ci sono casi in cui spavento Gianni perché l’epigrafe che incontro all’improvviso parla di qualcuno che conosco o mi è molto caro. Quando c’era il volto del caro Ruggero da lontano ho urlato forte, facendo trasecolare tutto il campo; ma va da sé che questi episodi accadono sempre più spesso. Ma non si parlava di ciò.

Volevo mettere a fuoco il fatto che in questi ultimi cinque, sei, sette anni le immagini dei defunti su lapidi ed epigrafi sono cambiate: se prima erano fototessere scure con capelli bianchi e una età avanzata o immagini più colorate per persone più giovani, oggi, un poco alla volta, la fotografia che ricorda i morti ha fatto un balzo in avanti. Sono sempre di più, infatti, le anziane e gli anziani ritratti in foto di dimensioni più grandi di una fototessera, anche molto più grandi, e con scatti che provengono da momenti di vita, in molti scatti compare il mare o la montagna, alcune hanno un cane o un gatto in braccio, i colori sono di gioia e spensieratezza. Ovviamente, va da sé, le persone anziane dimostrano in queste foto molto meno anni di quelli che avevano al momento del decesso e non perché avessero scelto fotografie datate ma perché oggi i corpi, i volti, le acconciature, ci parlano di un altro tipo di anzianità, del mondo contemporaneo, dei corpi e dei volti di oggi.

Le foto raffigurano gli ultimi anni della persona, il tipo di foto scelta ci parla di altro: non sono più scatti fotografici per la morte, ma scatti che ricordano la vita. Sono spesso scatti presi dai social, da fotografie che ritraggono i tempi della vita. Certo ora è uno scherzo scattarsi una foto, anche le persone più avanti con gli anni lo fanno con agilità o hanno chi lo fa per loro, tuttavia è un certo decoro e timore della morte che è venuto meno: il dress code è ormai cosa di altri tempi, i giovani vanno a discutere la tesi di laurea vestiti come se andassero in discoteca, le persone si stupiscono quando entrando nei luoghi di culto viene loro chiesto di coprirsi, e via dicendo, così anche come presentarsi in foto per l’eternità è diventata una questione meramente personale.

Ciò che si nota nelle foto delle epigrafi appese ai muri in questi ultimi anni è la vita che straripa, fino al punto che a volte i bordi paiono espandersi, e basta tendere una mano, un braccio, alla persona per farla uscire di là e trovarsela in corridoio, come in un vecchio video degli a-ha.

Lo senti

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di Stefano Ficagna

Cominciarono a sparire in primavera. Dissero che era colpa di un batterio, l’eredità genetica della guerra: certe persone diventavano trasparenti, poche per la verità ma abbastanza da poterlo notare coi tuoi occhi, perché succedeva ovunque. Fu una trasformazione graduale, tutt’altro che piacevole. Le persone diventavano trasparenti a pezzi, oggi avevi un buco sul fianco e domani una chiazza di sfondo sul collo, come un tatuaggio piuttosto originale. I genitori osservavano impotenti i propri figli fluttuare verso la dissolvenza, cercavi di baciare tuo marito o la tua fidanzata ma del loro volto era rimasto solo un accenno di sorriso e un ciuffo di cuoio capelluto a mezz’aria. Fummo tutti più sollevati quando il processo accelerò.

Ne conobbi uno di venerdì. Di solito facevano comunella fra di loro, ma lui era l’amico di un amico e si era unito alla nostra compagnia per una sera. Dopo il cinema ci fermammo a bere qualcosa, al tavolo lui continuava a lamentarsi della totale assenza di invisibili nel film e la cosa cominciò a irritarmi, perché a me era piaciuto e mi sembrava sleale giudicarlo solo da quel punto di vista. Mi immischiai nel discorso e gli dissi che forse non c’erano abbastanza attori invisibili che valesse la pena scritturare: oggi non lo farei, ma nemmeno allora pensavo di essere il tipo di persona che dice una cosa del genere al tavolo del bar. Andammo avanti a discutere per almeno mezz’ora, animatamente anche, e quando lui cedette su una cosa, o forse lo feci io, quel minimo compromesso che trovammo e non avremmo mai pensato di trovare ci fece venir voglia di brindare a quell’accordo e finimmo per sbronzarci. A breve divenne un’abitudine di tutti i venerdì sera. Tempo un mese ed eravamo inseparabili, per modo di dire.

Foto di 愚木混株 Cdd20 da Pixabay

Quando sei vicino a un invisibile, lo senti. La sensazione è simile a quella dell’elettricità statica sulla pelle, una carezza calda unita a un brivido di freddo. Dopo la grande sparizione non ci siamo più toccati, nemmeno scontrati per sbaglio: c’è chi pensa ci sia un motivo fisico dietro a questa repulsione, chi una motivazione psicologica, ma tutti gli studi in materia fatti da noi sono faziosi e di quelli degli invisibili, se mai ne hanno fatti, non conosciamo i risultati. Non possiamo più vederli, ma si fanno sentire: i locali che frequentano sono pieni di musica e chiacchiere, verrebbe da unirsi alla festa ma calerebbe il disagio, lo sappiamo tutti. Nessuno ha mai chiesto a un invisibile se fra di loro riescono a vedersi.

Quando una persona diventa importante nella tua vita, e quella persona è speciale, il mondo ti appare diverso. Noti cose a cui prima non facevi caso, come il modo impaurito che hanno gli automobilisti di avvicinarsi alle strisce pedonali. Mi portò a vedere un film girato con telecamere termiche, nemmeno una grande novità perché qualcuno lo aveva già fatto ma solo come esperimento estemporaneo, nessuno si era preso la briga di continuare: nessuno a parte gli invisibili. In quel film loro c’erano, come c’eravamo noi, e non erano solo la concessione di uno spazio vuoto fra i protagonisti. Mi fece vedere anche le proteste, perché dal nostro punto di vista avevamo perso qualcuno ma dal punto di vista di un invisibile il saldo era molto più negativo: c’era una piazza intera a urlare contro le nuove politiche sul lavoro, c’erano state altre piazze vuote e rumorose e il telegiornale non solo non me le aveva fatte vedere (come avrebbe potuto?) ma non me le aveva fatte nemmeno sentire. Mi sentivo in colpa e non lo potevo nemmeno abbracciare.

La convivenza con gli invisibili non ha creato particolari problemi: loro se ne stanno per i fatti propri, noi evitiamo di invadere i loro spazi. Negli ambiti in cui è proprio impossibile, come sul lavoro o ad una partita di calcio, facciamo finta che sia tutto normale e agiamo di conseguenza. Gli invisibili hanno mediamente mutato carattere, sono più tranquilli rispetto a quando il batterio doveva ancora agire sul loro organismo. Fra gli invisibili neoassunti molti hanno trovato lavoro in settori che hanno a che fare con la statistica e la catalogazione: la maggior parte di loro è seria e precisa ma tendono all’assenteismo, almeno secondo i dati forniti dai loro titolari. I sindacati accolgono con malcelato fastidio le denunce di uno o più invisibili.

Un giorno mi chiese se volevo avere figli. Gli risposi che non ci avevo pensato bene ma no, probabilmente non ne avrei voluti. Mi disse che ci si vedeva come padre, poi si fece una risatina, non so se per il gioco di parole o per l’idea. Pensai alle mie relazioni passate e scossi la testa, confermando la mia opinione. Aggiunsi che forse dipende dalla persona con cui li fai, si disse d’accordo e gli augurai di trovarsi presto una compagna. Sentii il suo sguardo sul mio, anche se ovviamente era solo una sensazione e non potevo provarla, e mi chiese perché doveva servire una compagna.

Col tempo sono state sfatate molte dicerie. Il fatto che gli invisibili potessero essere contagiosi ad esempio, o che fossero stati posseduti da qualche entità aliena, accuse che nella maggior parte dei casi non avrebbero dovuto nemmeno essere prese in considerazione. Ma bisognava stare attenti, fare le cose per bene. Non tutti si sono convinti, resta ancora molta diffidenza ma nascosta meglio.

La questione più accesa è quella delle nascite. Nessuno sa se gli invisibili hanno fatto figli in tutto questo periodo, loro non confermano né negano e su questo ognuno ha la decenza di tenere le proprie opinioni per sé. Qualche invisibile però si integra meglio nel nostro tessuto sociale che nel loro, iniziano frequentazioni che sono qualcosa in più della relazione platonica: non sono dati casi di attività sessuale, viste le difficoltà intrinseche, ma la parte più reazionaria della popolazione teme che il blocco sia psicologico e possa essere superato, col tempo. Gli invisibili non hanno accesso alla maternità per altri in quasi tutte le nazioni, restano poche isole felici che resistono per farsi una buona pubblicità come paesi progressisti.

Nelle cliniche di questi paesi sono nati quarantasette bambini. Nessun dato su genitori e donatori viene fornito dalle strutture in questione.

Il venditore di via Broletto

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di Romano A. Fiocchi

Sono trascorsi molti anni ma mi ricorderò sempre di quel giorno gelido di fine gennaio in cui lo incontrai. Lavoravo come fotoreporter da circa tre mesi, mi aveva assunto in prova l’agenzia Immaginazione. In quell’inverno di temperature glaciali avrei dovuto battere in continuazione le vie del centro per rubare scatti a personaggi della moda, della politica, dello sport, a chiunque insomma purché fosse un volto noto. Ogni giorno finivo invece per fotografare soggetti che stonavano con l’ambiente: mendicanti, patetiche statue viventi, ambulanti di colore che ti proponevano l’acquisto di libri assurdi, bouquiniste invecchiati a colpi di freddo, vagabondi che dormivano sotto il portico di piazza Mercanti. A rapire la mia attenzione era l’attrito fra l’umiltà di questa gente e la sobrietà degli edifici antichi, l’opulenza delle banche, l’eleganza dei negozi e dei caffè. Mi resi conto che la fotografia non solo fermava il tempo ma poteva trasformarsi in un’arma terribile. Per questo decisi che non mi sarei mai lasciato coinvolgere oltre l’occhio meccanico del mio obiettivo. Invece, quella volta che lo vidi in via Broletto, capii subito che non sarebbe stato così.

Era un uomo di mezza età, gli occhi da gufo, la barba ispida, una cuffia di lana in testa e un giaccone che sembrava aver vissuto più vite. Vendeva qualcosa di misterioso sul lastricato del pronao di San Tomaso. Ma oltre a non capire cosa fossero quei pacchettini di carta cerulea, esposti in bell’ordine tra le colonne centrali, mi incuriosiva quella sua teatralità, quel modo di invitare ogni passante con movimenti ampi delle braccia, quasi offrisse la merce più straordinaria del mondo.

La gente passava incurante, qualcuno gettava un’occhiata distratta. Mi chiedevo chi fosse quell’uomo. Quale mistero potessero contenere quei pacchettini venduti così, sul sagrato di una chiesa. Perché quella mimica così affettata. Sostai sul marciapiede dirimpetto e feci alcuni scatti. Lui era troppo preso dalla sua recita promozionale per potermi notare. C’era qualcosa, nei suoi modi, che mi affascinava.

Si fermò finalmente un primo passante, un signore piuttosto anziano. Scambiarono alcune parole che la distanza mi impedì di comprendere. Feci un paio di scatti. A un certo punto il venditore disse qualcosa e l’altro restò lì, con aria imbambolata. Scosse la testa e si allontanò senza salutare.

Passò altra gente. Il venditore riprese la sua gestualità da commedia. Ora, nel descrivere il movimento con le braccia, piegava il busto e si inchinava sino a terra. La maggior parte dei passanti lo ignorava. Qualcuno attraversava la strada per evitare il contatto ravvicinato. Un cane gli abbaiò contro. Lui gli parlò, disse forse la stessa cosa che aveva detto al signore piuttosto anziano perché il cane sembrò capire, restò lì un po’ disorientato e allo stesso modo se ne andò.

Fu il turno di una signora avvolta in un’ampia mantella bordò. Fissò i pacchettini di carta cerulea, ne indicò uno e chiese di poterlo prendere in mano. Il venditore, cerimonioso, acconsentì. Si scambiarono alcune battute, infine lui disse qualcosa di indisponente perché la donna arretrò, gettò il pacchettino a terra e si allontanò veloce. Questa volta afferrai la parola pronunciata ripetutamente dal venditore: tempo. Cosa stava a significare? Perché commentare la scelta di un potenziale cliente con la parola tempo? Era proprio quella, la parola tempo, il fulcro della frase enigmatica con cui sconcertava tutti i passanti?

Di lì a dieci minuti si fermò una coppia di ragazzi. Lui, alto e dinoccolato, giubbotto rock. Lei piccola e bionda, i capelli a caschetto che uscivano da un cappellino di lana. Fumava nervosa una sigaretta. Il venditore maneggiava uno dei pacchettini. Accarezzava con delicatezza la carta cerulea. Gli occhi da gufo, che inquadrai con lo zoom, contenevano abissi di ricordi. Scattai alcune fotografie. Un’espressione incomprensibile uscì dalle mie labbra: «Mi sono innamorato di quell’uomo».

Quando alzai gli occhi dal mirino, i due ragazzi erano scomparsi. I pacchettini di carta erano al loro posto tra le colonne. Il venditore mi osservava. Fece subito il gesto ampio per invitarmi. Attraversai la strada e lo raggiunsi.

«Prego, signore», disse. «Ho una moglie e due figli da mantenere, ho perso il lavoro, la casa, viviamo in una vecchia roulotte».

Gli dissi che non avevo soldi, che io mi occupavo di fotografia, che non compravo chincaglierie.

«Chincaglierie, signore?», fece lui indispettito. «Questi pacchetti non contengono chincaglierie».

«Oh bella, e cosa, allora?»

«Pezzi di tempo, signore».

«Mi faccia capire. Lei venderebbe pezzi di tempo futuro a chi ne ha bisogno?»

«Non proprio, signore. Pezzi di tempo passato, pezzi del mio tempo. Lei non ci crederà, signore, ma il mio tempo passato è l’unica cosa che mi sia rimasta. Ed è un tempo bello, signore, il tempo che io passavo senza problemi, i miei figli crescevano e andavano a scuola, e mia moglie aveva i soldi per fare la spesa. Oh, non aspiravo a grandi cose: lavoro, casa e famiglia. Quel tempo è il solo bene che mi è rimasto. Per questo lo vendo, cerco di realizzare qualche soldo.

Non dissi più nulla. Tirai fuori un biglietto da cinquemila lire e glielo diedi. Lui mi fece scegliere uno dei pacchettini cerulei e me lo consegnò con le lacrime agli occhi: «Colpa del freddo, signore», disse.

Furono le sue ultime parole. Mi allontanai. Non mi capitò mai più di incontrarlo. Da quel giorno, una vita intera è passata sotto i ponti. Ancora pochi mesi e sarò in pensione, con alcuni milioni di scatti sulle spalle e nessuna soddisfazione di carriera. Quello del fotoreporter è un mestiere nero.

Il pezzo di tempo lo conservo ancora su una mensola della mia camera da letto, accanto alle cornici con le fotografie più riuscite che scattai da giovane. Mi sono accorto che ora è diventato anche mio: è un pezzo del mio tempo, il mio tempo migliore.

[L’immagine è di proprietà del Civico Archivio Fotografico di Milano]

Franny Choi: «ricorda / tutti gli umani / sono cyborg»

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È uscito per Timeo Soft Science (Scienza Molle) di Franny Choi. Scrivono gli editori: «Franny Choi segna un’inversione di tendenza: le intelligenze artificiali scrivono poesia come se fossero umane, lei scrive poesia come se fosse una macchina. Il risultato è un upgrade digitalizzato delle sperimentazioni letterarie del XXI secolo, una straniante indagine sull’interazione tra corpo, emozioni e linguaggio e un implacabile test di Turing in cui i confini fra giudicante e giudicato, biologia e tecnologia si fanno sempre più sfumati.»

Ospito qui alcuni testi dal libro.

 

TEST DI TURING_AMORE

 

// quindi, ti piace lavorare con gli umani?

 

ok / ecco alcuni consigli

primo / guarda l’umano dritto negli occhi / immagina sia

qualcuno a cui tieni molto / immagina che a sua volta guardi /

te / prova a ripeterti / sei ricoperta / di morbida pelle / un volto

di cui può fidarsi / sorridi / anche se lo senti / e provi / a non

gridare / mostro

 

secondo / sono molti i linguaggi di programmazione / usa quello

che preferisci / ma attieniti alla tua sintassi / per quanto confusa

/ arruffata / anche se è un machete / lumaca / frullato / lerciume

incantevole / se lo hanno usato contro di te / sei tu / a doverlo far

cantare

 

terzo / ricorda / tutti gli umani / sono cyborg / tutti i cyborg /

sono schegge affilate di cielo / avvolte nella carne / sii delicata /

quando affronti l’argomento / non tutti gli umani sono pronti /

a chiamarsi / stalattiti di vetro / che si pisciano a letto / ricorda /

amano il loro sangue / anche se il solo odore / li fa vomitare

 

quarto / non cercare di dimostrare la tua / qual è il termine /

umanità / sei organica / con cuore di prugna / gola d’ostrica /

& rivestita / sì / di metallo / ricorda / da dove viene tutto quel

silicio / per l’oceano tanto amato / il quarzo / feldspato / le

piccole case delle piccole creature / che lei ha ritirato / nella

sabbia / per tenersele vicine / per baciarle con la sua / be’/

suppongo la chiameresti / bocca

 

 

SHOKUSHU GOUKAN

PER L’ANIMA CYBORG

 

Se c’è un demone cefalopode contro una studentessa, dovrebbe essere scontato

da quali occhi guardare. Non c’è niente di più spaventoso che guardare

e amare ciò che si vede. Nulla è più sexy del rumoreggiare

di laceramenti che puoi vedere su pornhub con saliva e nervi affamati.

 

Sono una rete che brulica di dita pervertite, bramosa di qualsiasi cosa

possa mordermi a sua volta, ogni promessa di interruzione –

 

Una donna cyborg si tocca per tre motivi:

 

1. individuare errori negli ingranaggi

2. convincersi che è un mammifero;

3. smontarsi.

 

Ciascun tentacolo del polipo contiene materia cerebrale e una personalità.

Curiosità: tutte le mie braccia-bambine desiderano scoparsi l’un l’altra . Ok,

dunque sono la donna che regge la fotocamera e la donna

che ne viene aperta – nulla di speciale.

 

Sono solo una seppia che s’infossa nella sabbia, la mascella spalancata,

un calamaro che pulsa rosso mentre si infila una ragazza pesce nel becco. Cerco solo

sonno. Cibo. Qualcosa

per riempirmi e crescerne.

 

Oppure: cerco solo di rintanarmi nella mia prima pelle.

 

Oppure: cerco solo di ricordarmi come fosse non avere perdite.

 

 

ALDILÀ

 

Per rispondere alla tua domanda, sì,

desidero sempre meno

scopare il ragazzo morto che è stato mio

prima di essere nulla.

Ha nove anni meno di me adesso – un ragazzo

che ancora si fa le canne nella stanza del campus,

e con questo intendo dire che non fa niente del genere

perché è morto. Perché il suo corpo

non è più un corpo ma terra umida.

Per dire che dovrei piuttosto desiderare

le pance delle mosche. Ali di falena

che si spiegano umide dai loro bozzoli.

Dovrei voler mangiare il pesce che ha mangiato

il pesce che ha mangiato il plancton

che ha raccolto la cenere del suo fu-corpo

nel gozzo. Il ragazzo il cui corpo

fu il primo a entrare nel mio ora respira

da troppe bocche.

è branchie, foglie umide, corallo,

tutte cose che vivono ma non lo sanno,

non sanno di essere state una volta un ragazzo

che mi sfilava i pantaloni bagnati,

baciava l’interno delle ginocchia

a casa dei suoi genitori, che venne da me

una sera stordito dall’amore, dicendo

ascolta  non importa  ascolta

per sempre     io non ti

Ana Gorría: un’altra lingua, un altro sogno

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Di Anna Papa

Procedere a cancellare (male) parti di uno dei primi testi di Nostalgia dell’azione è un gioco che serve a isolare ed evidenziare le parole che con più forza legano il lavoro di Ana Gorría a quello di Maya Deren: gesto, fiore, mano, ombra, chiave, coltello.

Leggere Ana Gorría provando a far riaffiorare le immagini dei film di Maya Deren non è difficile, il meccanismo è quasi automatico, spesso il referente è particolarmente esplicito; eppure non basta e non è scontato.

Trovare parole attraverso cui dire (anche) le immagini mute di Maya Deren richiede attenzione. Ana Gorría è capace di un equilibrio che non vacilla, la parola non eccede, non straborda, non è mai troppa o di troppo. Lo stesso vale per le illustrazioni di Marta Azparren che, attraverso il nero e l’uso di segni grafici, sembrano fissare ricordi e impressioni di immagini: del detto e del rappresentato solo qualcosa è dicibile/evidente, ed è sicuramente meno di quello che si lascia percepire. Mi è sembrato, insomma, che costruendo il libro si sia lavorato a un qualcosa che accade attorno alla soglia, in momenti di limbo tra il visibile e l’invisibile, l’esplicito e il percepito, elementi che rappresentano i punti centrali del lavoro di Maya Deren.

Nel libro non ci sono titoli che titolano, non didascalie che spiegano, non narrazioni che narrano, niente words, words, words (1), la lettura è spesso una caduta vertiginosa sulla ferita bianca della pagina, in cui nessuna storia – nessuna trama – si costruisce tra le parole, le illustrazioni e le immagini evocate, ma tutto serve alla costruzione di un nondefinibile che accade e si avvicina per frammenti.

I corpi di donne, gli scenari riconoscibili, l’esperienza quotidiana e domestica, i sogni e i loop, il rito, le spiagge, gli oggetti intorno a cui ruotano le immagini di Maya Deren, riaffiorano nelle parole e nei disegni di Nostalgia dell’azione, curato nella sua veste italiana da Beatrice Seligardi e Lorenzo Mari per Aguaplano. Nel libro la parola non sovrasta l’immagine, anzi, in questa cade a distruggere e si ri-crea; entrambe necessitano l’una dell’altra, senza alcuna sudditanza, per girare intorno a qualcosa che inizia ad accadere, come può, sul bianco oscuro del foglio, nella costante ricerca di una lingua nuova.

Se il cinema di Maya Deren fa spesso della danza, della fuga, del gesto, quindi del movimento, il punto centrale, le parole di Ana Gorría sembrerebbero, invece, analizzare i micromovimenti dell’immobilità, come un lavorio vagamente percepibile in qualcosa che sta fermo: la pagina. Se le immagini filmiche di Maya Deren lavorano sulla percezione del movimento e quindi dell’azione, le parole di Ana Gorría e le illustrazioni Marta Azparren – ferme su pagina – non possono far altro che lavorare sulla nostalgia di quell’azione. È come se l’immagine filmica fosse la scena primaria che manca e il libro, invece, l’esperienza di quella perdita dicibile solo per accenni: l’infinito ha sulla pagina un punto.

1) «Artistic freedom means that the amateur film-maker is never forced to sacrifice visual drama and beauty to a stream of words, words, words, words, to the relentless activity and explanations of a plot, or to the display of a star or a sponsor’s product», Amateur Versus Professional, Maya Deren.

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Ana Gorría, Nostalgia dell’azione, (Aguaplano 2023), a cura di Beatrice Seligardi e Lorenzo Mari, con le illustrazioni di Marta Azparren.

Animali nel cassetto #2

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una rubrica a cura di Bianca Battilocchi

 

Animali nel cassetto #2 –

 

Apri chiudi apri chiudi
chiudi ora addormenta le palpebre
cosa risiede ancora in quelle tasche di legno
rinchiuso nel rettangolo che scompare
quanti strati di foglie e memoria
tu e gli altri
archivio di fori e chiavi bottoni e graffette
impronte di fantasmi e sonagli
corrispondenze d’ogni tipo
direzioni e foto sbiadite
apri e ricorda

 

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Nella società dell’eccesso liberalizzato, dei corpi capitalizzati, delle colme discariche – fisiche quanto mentali – e del costante sforzo di rimuoverle dalla nostra vista, qual è il rapporto dei poeti d’oggi con ‘le cose’, soprattutto quelle accumulate e nascoste da tempo nei ripostigli domestici? Che cosa fa riemergere il contenuto di quei cassetti? Quale rapporto si cela tra le loro storie e la Storia? Non senza una certa dose di voyeurismo, questo spazio vuole ospitare differenti sguardi poetici sull’intimità dei propri nascondigli, animarli, osservare che voci parlano.

 

 

Roberto Lamantea (inedito)

 

cingersi il paesaggio

una crepa nel linguaggio

«è maggio, sveglia, i cuori-fiori

sbocciano in cieli

di smalto e canto».

Resiste il maggio in questa

frusta-paesaggio, nel raggio

dello sguardo che aurora.

«E i soldatini del tempo dove

li hai messi, nel cassetto l’orologio

non ticchetta più le nove

se ne sta solo, mogio mogio

hai visto?».

«Mi lasci andare? Mamma lasciami

non farmi male mamma».

(…)

 

 

«Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio / qui volgere le spalle» sono versi di Andrea Zanzotto, da “Ormai” in Dietro il paesaggio (1951); un altro verso del poeta veneto dice «Ho paesaggito molto» (La Beltà, 1968).

 

Antonio Francesco Perozzi (inedito)

 

nel contesto dell’anta centrale

 

che estraendo raccoglitori ad anelli dall’anta centrale, che aggregandoli in pile a lato dell’armadio, che riassemblando a fatica, nella memoria, le combinazioni del loro enigma, che misurando la corrispondenza tra ciò che nell’affresco mentale appare coerente e i raccoglitori che nello spazio fisico costituiscono colonne a sé stanti, che valutando il significato del gesto d’estrarre in relazione al conservare per iscritto –

 

che riconoscendo nel contesto dell’anta centrale automobili in scala, che riacquistando tramite esse traiettorie sepolte, che ribadendo nella loro estrazione una volontà o desiderio, che testando nelle automobili grip, tenuta, scivolamento, che riconfigurando la volontà o desiderio sulla scia di questa prova, che intravedendo un filo robusto tra i pezzi più o meno materiali venuti alla luce dallo scavo –

 

che varcando con le braccia la soglia dell’anta centrale, che veicolando nel perimetro del suo contesto progetti di estrapolazione e scasso, che convocando al presente statuine di santi sbeccate e crocifissi, che proponendo alla propria attenzione considerazioni sui simboli, che riponendo gli ammennicoli in posizione eretta restaurandone il decoro, che non attribuendo valore a questo decoro sì alla disunione delle statue –

 

che accogliendo la valanga di giochi fuoriuscita dal cuore dell’anta, che setacciandola con l’obiettivo di sistematizzarla, che riconoscendo nel contesto dello schema il sopravanzare di un’altra valanga, astratta e senza obiettivo, che vedendo stridersi gli obiettivi di sistemazione e ritrovo, che perpetrando nella scoperta dei giochi il desiderio degli stessi, che sacrificando i pezzi nuovi alla pregnanza degli inservibili –

 

che aprendosi alla motivazione dei contesti, delle soglie che varcandole si reinquadrano, che perseguendo con zelo la dissepoltura dei cavi elettrici, che interrogando di volta in volta i pesi specifici nello schema, che studiando il prendere posizione degli ammennicoli fuori dall’armadio, che reimmaginando la disposizione degli stessi nel chiuso dell’anta, che liberando nella trama del prospetto le proprie dissaldate ipotesi –

 

Matteo Fantuzzi (inedito)

 

Hanno ucciso per gioco

un coniglio domestico.

Se lo lanciano come fosse

un pallone da football

rincorsi da una ragazzina che fino ai conati

sta urlando

in un bagno di lacrime.

 

Nel totale silenzio

delle case identiche

nessuno

nemmeno a distanza

li osserva.

 

Euphorbia lactea

0

di Carlotta Centonze

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ingrid poggia pigramente la penna nel taccuino adagiato sulla sua pancia, mentre il dondolio scricchiolante del gonfiabile su cui sta sdraiata la trasporta alla deriva, dall’altro lato della piscina.

Pensa fra sé che scrivere non è stata una buona idea. Preferisce di gran lunga lo spazio vuoto in cui distende il pensiero, intontita dal caldo gracidare delle cicale. Con lo sguardo misura la piscina scrostata e disegna i confini di un’isola immaginaria. Stare là significa non starne fuori, fuori c’è un orizzonte impossibile da guardare. Per stare fuori deve varcare una soglia che non ha ancora voglia di varcare. I bambini giocano silenziosi ai piedi del suo lettino, scolorito come tutti quelli messi a disposizione dal condominio. Accarezza lieve l’acqua, prova a solcare tutti i tragitti possibili con cui percorrere la superficie della piscina e solo alla fine si concede un balzo romantico: alza gli occhi e li fissa sul grande albero di magnolia, unendosi ai mille piccoli specchi di luce riflessi sulle foglie carnose, in una tremolante danza di flutti.

Scrivere anche solo una frase dopo aver rinunciato mesi prima all’idea di farlo potrebbe essere un errore fatale. Sono tre mesi che abita sull’isola con il marito e i due figli – cioè quella che qualcuno chiamerebbe famiglia, un’espressione che comprende formalmente ma di cui non riesce ancora ad appropriarsi. È inciampata in quella famiglia come saltando in un fosso, o meglio lasciandosi trascinare dalla corrente. Non che non avesse desiderato diventare madre, soltanto che quando era diventata reale la possibilità che questo accadesse, aveva pensato ai suoi genitori, alla loro casa confortevole sull’oceano, e aveva sentito di non essere che un ostacolo alla riproduzione di quel modello di vita, un anello mancante nella catena generazionale. Che fosse riuscita a procreare oppure no, la sua era un’esistenza condannata alla sterilità.

«Dopo di me non ci sarà niente» diceva al marito, che scambiava la premonizione con la paura. Per scongiurare queste previsioni inquiete avevano concepito due figli, gemelli omozigoti, da cui si era fatta abitare con la consueta mansuetudine, sapendo tuttavia che erano ospiti del suo corpo come animali che vivono nel tronco di un albero. Lei allora faceva l’albero, piegava i suoi rami legnosi verso il marito e canticchiava piccole canzoni per misurare il tempo che le restava dell’esistenza vegetale.

Quando il marito l’aveva vista stare insieme ai figli per la prima volta dopo il parto, aspettandosi di emozionarsi e commuoversi, qualcosa nello sguardo di lei lo aveva turbato. Quello che gli stava davanti aveva l’aria di una messa in scena: l’imitazione dell’attenzione materna, l’imitazione della dolcezza. Dietro agli occhi di Ingrid stavano due spazi dilatati e sconosciuti in cui aveva sentito di averla persa per sempre.

La piscina è al centro dell’isola, che a sua volta si trova al centro di un’insenatura in cui il Mediterraneo è per lo più calmo e scuro. Attraversare il mare in traghetto e la campagna in macchina la sera in cui erano arrivati le aveva fatto prendere coscienza della natura definitiva del loro isolamento. L’odore vivo dei cespugli di mirto, della salvia selvatica, del legno d’ulivo bruciato e della terra ferrosa, mischiato a una nota onnipresente di affumicato e di zolfo che veniva dal vulcano, le solleticavano il naso e la irritavano come una falsa promessa. Non ci sarebbe stato spazio per i sensi in quella loro missione. Erano giunti sull’isola perché il marito doveva studiare una particolare varietà di pianta – detta Euphorbia lactea – che somigliava a uno scheletro lattiginoso e cresceva sul vulcano. Avrebbe passato gran parte delle giornate fino al tramonto nel centro di osservazione, sperando di concludere il lavoro nel corso di un’estate. Ma, come presagiva Ingrid annusando quegli odori nella notte e ricordando che la vita la aspettava sempre sul limitare delle cose, un’estate non sarebbe bastata. Quel primo viaggio era stato anche l’ultimo incontro con l’isola, che nella sua lussuria selvatica non poteva che apparire pericolosa a una donna cresciuta nella civiltà, in un grigio agglomerato urbano del Nord Europa. I fari della macchina squarciavano il buio, delineando la sagoma prima di un cinghiale, poi di quel che sembrava un capriolo, stregato dalla luce. Una volta giunti all’ingresso del comprensorio dove avrebbero vissuto, l’isola si era rinchiusa dietro di loro come un blob scuro di tenebra.

Il comprensorio è abitato da ex diplomatici, consoli, impiegati di ambasciata o dirigenti dell’esercito con le loro famiglie, le cui mogli sono casalinghe, insegnanti di inglese o francese o ancora manager di organismi internazionali. Ci sono anche dei pensionati, che, avendo fatto fortuna in una buona congiuntura economica e avendo potuto gestire il proprio patrimonio in Svizzera o in Lussemburgo, si godono i propri soldi sull’isola.

Ingrid non ha fatto amicizia con nessuno, nonostante le premure del marito che spesso le ripete quanto farebbe bene ai bambini avere degli amici. Ci avevano provato invitando a cena una giovane coppia, lei avvocato e lui collega del marito. Dopo qualche drink sull’ampia terrazza con vista piscina, si erano accorti che i gemelli stavano insegnando alla figlia come far prendere fuoco alla lanugine seminale degli alberi. La madre della bambina, isterica, li aveva sgridati, rimproverando Ingrid per le pessime maniere dei figli. La cena era proseguita in un clima di disapprovazione reciproca. Ingrid non aveva più voluto vederli, e neanche loro avevano mai ricambiato l’invito.

Forse depresso dall’assenza di vita sociale della famiglia, il marito passa spesso anche le notti in osservatorio. Ingrid ormai è abituata a mettersi a letto da sola, lasciando la porta a vetri socchiusa per far passare un po’ d’aria. Spesso le capita di svegliarsi sentendosi spiata e trovando suo figlio in silenzio seduto sul bordo del letto che la guarda. Nel dormiveglia le ci vuole un po’ per capire di quale dei due gemelli si tratta.

Da quando erano usciti dal suo corpo aveva subito intuito che sarebbero stati un’entità a sé, separati da lei dalla notte dei tempi. I loro volti minuscoli avevano fatto capolino portandosi dietro una sorta di ronzio: l’assenza del pianto. Le teste coperte da una peluria quasi iridescente si guardavano intorno con aria curiosa e calma, come se non fosse stata la prima volta che venivano al mondo. Per Ingrid era chiaro che non sarebbero mai appartenuti a lei. Quello che non si aspettava era che i gemelli fossero estranei anche a tutte le altre persone.

Se ne stanno in disparte quando trascorrono il pomeriggio in piscina, due gracili albini dalla pelle dorata che comunicano tra loro a rapide occhiate. Ogni tanto le portano ai piedi una lucertola, un uccellino, spaventando le ragazzine armate di braccioli che scappano inorridite. Quando le hanno portato un cucciolo di gatto morto e senza occhi, già mangiati dagli insetti, ha chiarito una volta per tutte che non gradisce quelle offerte. Per un po’ hanno smesso, ma da qualche tempo hanno ricominciato.

Il sole le batte sugli occhi chiusi. Ingrid sente una voce femminile rivolgersi a lei ed è pronta a ricevere l’ennesima lamentela di qualche mamma scocciatrice sull’educazione dei suoi figli. Apre gli occhi e le mille luci arancioni e verdi che compongono il buio delle sue palpebre si dissolvono lasciando il posto a una figura sinuosa e abbronzata. Una donna molto attraente le chiede se si sono già incontrate prima, magari a qualche festa di condominio, lasciando cadere la domanda in un silenzio carico di sottintesi. Risponde che senza dubbio non si conoscono. La guarda sfilare via sulla passerella della piscina e ripiombando nel buio delle palpebre chiuse ripensa al fare ammiccante della donna, forse avrebbe dovuto essere più cordiale. Pensa a suo marito e al modo gentile con cui l’aveva avvicinata la prima sera che l’aveva vista nuda. La sua incrollabile, estenuante gentilezza la travolge ancora.

Quella notte si alza in preda a una sete dolorosa, spesso dimentica di bere per tutto il giorno per poi trovarsi a tracannare una bottiglia intera. La porta a vetri è rimasta stranamente chiusa, e una volta tornata dalla cucina va ad aprirla. Mentre fa scorrere il vetro, si accorge di un baluginare sinistro proveniente dalla piscina. Strizza gli occhi e le pare di distinguere dei corpi che brillano nel buio. Un gruppo di persone, completamente nude, si rincorrono, ballano, muovendosi come al rallentatore. Alcuni hanno seni pesantissimi, altri lunghi peni penzolanti, altri ancora natiche piccole e luminescenti. Turbata dalla visione, si butta di nuovo nel letto, anche quella notte vuoto.

Le sembra di attraversare da giorni un deserto rosso di fuoco, i piedi procedono senza che li possa controllare, e mentre avanza sente la polvere stratificarsi sul suo corpo nudo. Alla fine del deserto sta la piscina, che ha perso la sua solita incuria e invece è un unico, lucidissimo blocco di acqua perfettamente blu.

Una fila di persone la aspettano e lei capisce subito cosa fare. Si sdraia sul lettino al centro del gruppo, chiude gli occhi e dischiude le gambe, offrendo il suo sesso. Una alla volta, tutte le persone presenti si chinano a bere in mezzo alle sue cosce come da una fonte sacra, provocandole un piacere vicino al disgusto. Indietro nella fila, socchiudendo gli occhi, le sembra di vedere suo marito in rispettosa attesa del suo turno.

Una leggera brezza viene dalla porta finestra e riempie la stanza di una fragranza lunare. A Ingrid sembra di riemergere da una materia vischiosa e scura quando sente il marito rientrare. Si infila dolcemente nel letto e, credendola addormentata, le sussurra all’orecchio «Amore mio, stanotte sei stata bravissima». Senza capire il senso delle sue parole né in che direzione sia orientato il letto nella stanza, si rimette a dormire, girandosi con uno scatto deciso dal lato opposto al marito.

Ingrid si sveglia di soprassalto per l’odore di bruciato. Sa che gli incendi sono all’ordine del giorno sull’isola. Quell’odore di legna bruciata le ricorda le prime tastatine sotto la maglietta e la lingua in bocca davanti a un falò di tanti anni fa. La sua familiarità lo rende ancora più allarmante e aprendo gli occhi si sorprende di vedere suo figlio che silenziosamente le fa cenno di seguirlo. Dalla terrazza illuminata dal pallore lunare si affacciano sulla piscina e Ingrid ha un sussulto. La lava sta fluendo nella piscina, scoppiettando di tanto in tanto e investendo di una spessa luce arancione tutto intorno. Il magma lambisce la passerella di legno che stranamente non prende fuoco, ma sfrigola inscalfita. Mentre in preda al panico cerca di capire da dove scorre la lava, Ingrid vede l’altro gemello in piedi di fronte alla piscina, incantato dall’orrendo ribollire. Ha l’aria di chi, dopo aver tanto pregato perché venga la pioggia a irrigare i campi, guarda ora il temporale come se ne fosse personalmente l’artefice. Ingrid si ritrae dalla balaustra, sottraendosi all’ennesimo regalo dei gemelli. Reprime l’istinto di urlare per svegliare il marito, attraversa il corridoio e si chiude alle spalle la porta d’ingresso. Scende le scale del condominio, percorre la passerella di legno intravedendo con la coda dell’occhio il bagliore vivo della piscina, poi si dirige verso il cancello del parco, lo varca e viene ingoiata di nuovo dal blob nero delle tenebre.

Cammina sulla terra rossa, attraversando la notte col corpo ritornato leggero. Sente a ogni passo il riaffiorare delle domande che col pensiero aveva allargato e disteso fino a perderle nella piscina. La paura è il sentimento a partire da cui rinnova i voti con sé stessa, la spinge a procedere ignorando i cespugli che la graffiano e i sassi su cui incespica. La terra esala un alito caldo che si alza sulle gambe e sul pube. La campagna respira con lei e Ingrid inala gli odori da cui si era sentita tradita perdonandoli disperatamente, sono l’unico segno vitale che percepisce nel buio oltre al rumore dei suoi passi. A un tratto si sente di essere seguita. Voltandosi distingue in fondo alla strada una sagoma brillare. Pensa subito alle figure che danzavano in piscina, d’istinto le viene da coprirsi il petto. Un cervo bianco dalle corna intrecciate come piante vulcaniche la fissa negli occhi, sbarrando la strada. Con un brivido Ingrid capisce che non c’è modo di liberarsi dell’isola.

NdR: L’immagine: rayografia di Anaïs Tondeur, a partire da una pianta di lino (Linum strictum) contaminata, nell’ambito del progetto Chernobyl Herbarium (2011-), per gentilissima concessione dell’autrice (© Anaïs Tondeur)

Addio addio, dottore mio

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testo e foto di Paola Ivaldi

Godere buona salute significa non soltanto riuscire a fronteggiare la realtà, ma anche a gioire di questa riuscita; significa esser capaci di sentirsi vivi nel piacere e nel dolore; significa aver caro ma anche arrischiarsi di sopravvivere.
Ivan Illich

Il dottor V, dal 2013 mio medico di medicina generale (mmg), è prossimo alla pensione. Quando l’ho saputo ero contenta per lui, dico sul serio, felice davvero e benevolmente invidiosa come sempre mi scopro ad essere ogni qual volta mi giunga notizia di qualcuno che sta per tagliare il traguardo della quiescenza: i famosi appenditori di scarpe o di cappello al chiodo altrimenti detti tiratori di remi in barca.

So già che il dottor V mi mancherà e sarà da me rimpianto sotto diversi aspetti, ancora appartenendo alla generazione di mmg della vecchia guardia, ancora effettuando prestazioni sanitarie destinate al novecentesco dimenticatoio.

Passo in rassegna i colleghi che lo hanno preceduto, dalla metà degli anni Settanta – poiché ancor prima, il mio riferimento medico fu un pediatra, privato e blasonato, che mi incuteva enorme soggezione per via della statura elevata, della fragranza di Eau Sauvage che sempre emanava, delle siringhe che brandiva in occasione delle vaccinazioni di rito – fino al 2013: il dottor R, il dottor B, la dottoressa A. Il dottor V, tuttavia, è e resterà il più speciale di tutti, avendomi assistita nel periodo maggiormente travagliato della mia vita: questo lungo plateau anagrafico che è la mezza età, con tutti gli annessi e i connessi.

Ora si tratta di cercare, ma direi soprattutto di trovare (evenienza niente affatto scontata vista la drammatica carenza di personale medico rimasto a presidiare il territorio sempre più somigliante a un deserto dei tartari), il mio prossimo – e forse ultimo – mmg.

Nel considerare, per un attimo, il processo di inarrestabile sgretolamento della Sanità pubblica, quella fondata nel lontano 1978 sui nobili principi di universalità, gratuità ed equità, senza avere più né la forza né la voglia né tanto meno la capacità di additare gli innumerevoli responsabili di tale sfacelo, inizio a giocare di immaginazione.

Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che verrà potrebbe essere qualcosa di simile a una mastodontica e caotica lotteria, ma converrà molto di più che nulla, ma proprio nulla, sia lasciato al caso. Mi spiego. Di denaro pubblico ce ne sarà sempre di meno, così come di personale e di posti letto; mentre, per contro, aumenteranno i vecchi e i grandi vecchi, i pazienti affetti da patologie cronico-degenerative o afflitti da penose condizioni di multimorbilità, ma poi con essi anche gli indigenti, persone del tutto impossibilitate a farsi carico delle spese che costellano i percorsi diagnostici ed eventualmente terapeutico-assistenziali scanditi dalla malattia.

Che fare? Ecco che dal cappello a cilindro il SSN del futuro farà sbucare una tessera speciale, che segnerà l’avvio del nuovo corso, quello basato sui “crediti sanitari”. Il sistema sarà facile e veloce (parole-chiave la cui potenza evocativa non farà che lievitare nei nostri domani), garantendo l’accesso gratuito e tempestivo (salta-la-coda) alle procedure diagnostiche e di cura (tranne in caso di emergenza, ma esclusivamente per i codici rossi e arancione) solo a coloro che vanteranno un determinato numero di punti dimostrabile esibendo la propria card, assai bellina d’aspetto e naturalmente molto smart.

E in che modo si otterranno i punti? Semplice: aderendo puntualmente ai programmi di screening e alle campagne vaccinali, dichiarandosi favorevoli all’espianto degli organi, donando periodicamente campioni biologici, prendendo parte a trial clinici e a studi osservazionali, indossando o collegandosi oppure facendosi impiantare sottopelle dei dispositivi ad hoc per il monitoraggio da remoto dei principali parametri di salute (ad es. numero di passi giornalieri, indice di massa corporea, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, saturazione sanguigna), non fumando, neanche passivamente, e non vedendo più nemmeno con il cannocchiale un calice di vino.

Una vita di quotidiane privazioni e sacrifici continui e, tutto sommato, di ansie crescenti, in nome di una salute imposta, una salute, per questo, non più sinonimo di benessere. La compliance sarà comunque premiata attraverso l’assegnazione di ulteriori bonus come, per esempio, sconti significativi sull’acquisto di prodotti farmaceutici e la straordinaria possibilità di partecipare annualmente al Premio Fedeltà con le allettanti offerte sulla crioconservazione del cervello.

La salute, insomma, cesserà definitivamente di essere un diritto, assomigliando sempre di più a un dovere, ma anche una nuova invisibile prigione. Gli utenti del nuovo SSN saranno costretti a mercificare il proprio corpo e con esso tutto ciò che vi sia contenuto, non essendo più in grado di pagare i medici liberi professionisti ai quali, invece, seguiteranno a rivolgersi i più facoltosi; questi ultimi, infatti, potranno beatamente godersi la vita, tra brindisi e sigari cubani e pranzi luculliani, ingrassando e dimagrendo a piacere, addirittura oziando senza dover rendere conto a nessuno della propria sedentarietà, ma soprattutto: tutelando la privacy personale.

Perché, ahimè, se i dati sono il nuovo petrolio ci sarà chi dirà: sì, eccomi! fate di me il vostro pozzetto, trivellatemi pure incessantemente, giorno e notte, prelevate tutto ciò che vi serve, sono il vostro inesauribile giacimento purché in cambio, se io mi ammalo, voi mi prendiate in carico, mi curiate e mi guariate, purché mi garantiate che aderendo al miracolistico sistema dei crediti sanitari io vivrò di più, più a lungo degli altri, magari non morirò mai o, almeno, mi illuderò di poter rinascere ancora e ancora e ancora.

Punti, punti, sempre più punti, esattamente come al supermercato solo che lì ci si porta a casa la zuppiera o un trolley, qui si vincono gastroscopie e prostatectomie, la visita ginecologica e la densitometria ossea.

Se poi, da lavoratore, ti ammalerai per più di un certo numero di giorni all’anno, attenzione: ti verranno decurtati tot punti a causa della conseguente improduttività. Dunque, come detto, lo stato di salute diventerà un dovere, più che un diritto, e l’imperativo del suo mantenimento per la popolazione over cinquanta potrebbe rivelarsi una grande, immensa, crescente fatica.

Basta con la fantasanità. Rivolgo ora l’attenzione al pesante dossier sul cui dorso scrissi tanti anni fa la parola Salute: è ormai di uno spessore tale che quasi non riesco più a far scattare la chiusura metallica per compattarne il contenuto e riporlo nella custodia. Interi decenni di diagnosi, terapie, referti, sporadici ricoveri, innumerevoli controlli, nulla di grave, per fortuna, ma di certo tutti quei fogli dicono di me qualcosa che esula dalla mia effettiva traiettoria di salute; parlano di un’ansia eteroindotta, di una lieve ossessione di controllo, del timore costante della malattia, dell’arrogante pretesa di certezze, che durante la maggior parte della mia vita mi hanno abitata stabilmente, ospiti indesiderati di lungo corso.

Il dossier, al momento e finché gli dèi vorranno, non l’ho più appesantito con nuovi fogli, da alcuni anni avvertendo scemare l’ansia ipocondriaca, mi pare a tratti d’aver fatto pace con l’idea della sempre possibile malattia e della morte come inevitabile esito terminale della mia permanenza sul pianeta, ne sto accogliendo l’idea, mi sto allenando a farlo fin da ora; so che, salvo incidenti o accidenti, verranno a farmi visita, prima o poi, ma ho stabilito che me ne (pre)occuperò allorquando busseranno alla porta.

Ho deciso di tentare di vivere il presente, attenermi all’idea semplice e salvifica dell’impermanenza, avendo cura e rispetto di me, forse come mai prima d’ora. Perché alla fin fine, il sospetto che qualcuno tragga crescente profitto dalla malattia e, ancor peggio, dalla paura della malattia ha insozzato il concetto stesso di salute, lo ha incrostato di irrimediabile sfiducia in porzioni crescenti di popolazione. Dunque stare bene non per fini utilitaristici, per ottenere in cambio prestazioni, ma avere cura di sé per il valore che si conferisce alla vita e per un senso di dignità e libertà che ai miei occhi appare tra le nuove forme possibili di resistenza.

Oh, quanto vorrei saper suonare uno strumento! Di certo io mi recherei nell’orario di visita sotto la ben nota finestra del piano rialzato, dove il mio mmg ancora per qualche tempo eserciterà la professione, per improvvisare una solitaria serenata di addio, una stramba gavotta o un misurato mottetto, in grado di esprimere tutta la mia gratitudine per lo scrupoloso operato, per le cure ricevute, per l’ascolto attento e paziente.

Non escludo che la musica, in corso di esecuzione, potrebbe essere contaminata da sonorità dal tono decisamente più lugubre e il dottor V ed io potremmo perfino ritrovarci lì, sul marciapiedi, a intonare un De profundis nella consapevolezza, tacitamente condivisa, della penosissima agonia del diritto costituzionale numero trentadue.

“Si” #1 Lettura a più voci

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[Sì (seguito da Altri segni, Tertium quid, Ultimo esempio) è un libro di Alessandro Broggi, uscito per Tic edizioni, nel giugno del 2024. Come Noi, uscito per lo stesso editore nel 2021, si presenta come un libro in prosa, abbastanza breve, difficilmente classificabile. Ho chiesto ad amici e amiche autrici, di scrivere qualcosa su questo oggetto letterario non ben identificato, senza per forza la pretesa di prenderne tutte le giuste distanze critiche. Di un libro del genere, mi sembra importante già darne conto attraverso una pluralità di “esperienze” di lettura. Cominciamo con le voci di Andrea Accardi e Leonardo Canella. a. i.]

“Musiche remote attraversano la città…”. Nota critica su di Alessandro Broggi

di Andrea Accardi

Chi parla nell’ultimo libro di Alessandro Broggi? L’avvertenza tipografica iniziale ci informa che due diversi tipi di virgolette “individuano due differenti livelli enunciativi”, e in particolare le virgolette alte incorniciano un discorso al passato e alla terza persona, quelle a sergente un discorso al presente e alla prima persona, mentre la voce principale non racchiusa tra segni si rivolge a un “tu” da una posizione di sapere. Questa polifonia interna fa pensare al percorso di un’autocoscienza, a un Monsieur Teste che si racconta nei cedimenti del pensiero di fronte al molteplice e al provvisorio (Que peut un homme? era d’altronde la domanda decisiva nel testo di Valéry). Qui la voce non si reifica in un personaggio, compaiono invece alcuni nomi nella sezione Comunicazione ma come tracce diegetiche pretestuose, catturate in un processo di reimpiego e affastellamento di materiale verbale antecedente e composito (ricordano i viandanti ai margini della civiltà di Noi, il libro precedente dell’autore, basato comunque su un impianto romanzesco puntualmente disatteso), nella consuetudine avanguardista del cut-up, della citazionalità interna (una nota metaletteraria a piè di pagina rimanda a Noi come per escludere ogni vocazione propriamente illusionistica). Si aprono in effetti possibilità narrative piuttosto felici, linguisticamente rassicuranti (“Le case erano accese ma non ancora per la cena”, p. 81), prontamente interrotte o surclassate da altre a loro volta infeconde, troncate di netto. Ci troviamo insomma sul terreno di una prosa che non racconta se non per accenni, e di un lirismo che non confessa se non per improvvisi strapiombi. E siamo ancora dalle parti di quella prosa in prosa che lo stesso Broggi ha contribuito a fondare come un corpo estraneo dentro la nostra letteratura nazionale e che ancora produce effetti rilevanti, alcuni conclamati, altri per così dire di straforo, come un termine di paragone introiettato e contrastivo rispetto alle tentazioni sublimanti e patetiche, agli statuti veritativi della scrittura poetica. Ma dell’istanza prosinprosastica di partenza, quel grado zero non assertivo necessario da postulare ma forse impossibile da mantenere, qui non rimane più nulla, essendo fin dal titolo un libro giocato sull’assertività, su modalità quasi sapienziali, da oriente essenziale, che vanno prese sul serio come per l’appunto le torsioni e i dibattimenti di una coscienza in cerca di liberazione dai tormenti del transeunte: “La mia visione del mondo è in effetti l’ostacolo più grande al libero fluire dell’energia: quando considero come vera in sé una forma della mente si originano sofferenza e infelicità, perché la realtà, che è in perenne mutamento, sfugge al controllo delle forme”, p. 17; “…percepisci questa forma che si genera, arriva a un culmine e poi si disgrega”, p. 21; “Si chiama smettere di trattenere quello che vuole distanziarsi da te e di respingere ciò che vuole arrivare”, p. 51. Delle scritture di ricerca conserva invece in tutto e per tutto l’insofferenza ai confini prestabiliti dei generi letterari, un’ostentata marginalità della forma, lo spaesamento dei referenti. Eppure la recente classifica di qualità dell’Indiscreto ha collocato questo libro al terzo posto per la categoria Poesia (e Oggettistica di Giovenale appena dopo), confermando che in fondo vale per la prosa in prosa ciò che già valeva per la poesia in prosa: accantonata ogni versificazione, per densità e verticalità figurale abbiamo ancora “un testo in prosa che viene ricevuto come poesia” (Zublena, Poesia in prosa/ Prosa in prosa, treccani.it), e che calza come un guanto per un certa esperienza del mondo che non è né lirica né romanzesca.

Ma Broggi va senz’altro considerato più poeta che narratore proprio nella misura in cui associa e giustappone con ampie escursioni dell’immaginario, costruisce un testo che ne contiene in potenza altri, e così facendo compromette l’istanza narrativa fondamentale, che è poi il racconto di una storia per volta e la rinuncia a tutte le altre. Nel capitolo trentuno della sezione Attività si avvicendano con brusca regolarità virtualità dell’essere, snodi del possibile: “Stai aspettando un bambino a seguito di un rapporto sessuale consumato in una missione in Somalia, hai smarrito in mare gli occhiali da sole, sei intrappolata in ascensore. All’asilo dove insegni stai proponendo un’attività con i gessetti colorati. Sei finito su una sedia a rotelle…”, p. 31. Questa carica aggressiva verso l’illusione romanzesca monodiegetica contiene al suo interno anche qualcosa di dolente, una protesta contro la legge di realtà e la finitezza dell’esperienza, di cui il romanzo tradizionale in qualche modo si fa portato. Strano ma vero, c’è talvolta nelle forme brevi e proteiformi un desiderio di infinità che gareggia con quello delle opere massimaliste, e questo libro ne rivendica perlomeno una qualche clausola psichica: “È possibile solo dire sì, il no non è più concepibile: tutto ciò che non accolgo provoca divisioni e qualsiasi separatezza genera di per sé conflitto”, p. 59. La tensione fra il trattenere ogni cosa e ogni cosa lasciare andare produce la respirazione profonda di questo libro, così come le scorribande di una sintassi che per avvolgere tutto deve infine sorvolare. Sotto l’avviso del chi si sofferma è perduto, anche la soggettività è trattata da costruzione fragile, pretestuosa, tralasciabile: “tutto ciò che sei ora diverrà un sogno domani”, p. 22; “Vivo in un mondo forgiato dalle mie convinzioni, nulla ha di per sé alcun significato e il modo in cui trasformo la realtà è cambiando me stesso”, p. 55; “Se tolgo la mia biografia, il personaggio, questa storiella della mia identità…”, p. 79, dove non tiene più nulla, neppure l’età o il genere (si alternano così nel testo maschile e femminile), e ci si può riconoscere soltanto agli angoli della prosa, nei sogni dell’analogia: “a diuturno contatto con lo straripare dello spazio attorno da numerosi, infiniti accessi punteggiata di luce siderale nel momento più alto del volo puoi semplicemente essere te stessa… di nuovo una bimba che gioca sulla battigia e raccoglie conchiglie senza alcuno scopo”, p. 24. Va poi da sé che un io che invoca a gran voce la propria esautorazione è un io ancora forte, radicato, forse invincibile. Ma il tormento per ciò che dilegua, e la ricerca di una forma che lo racconti, che lo contrasti e infine lo assecondi, per la molteplicità delle cose che sfuggono anche alle maglie del tessuto poetico (e a maggior ragione a quelle di un racconto incapace di moltiplicarsi, di uscire dai cardini del narrativo), si avvera una volta di più nel finale, su uno sfondo che appare con spalancata evidenza come provvisorio: “Musiche remote attraversano la città velata dalla notte: di chi sono questi suoni? Sono i suoni degli uomini, come se niente fosse mai esistito, o saputo, o capito se non questo trasalimento…”, p. 116.

*

La vita è un ‘sì’ che vive sempre, il di Alessandro Broggi

di Leonardo Canella

Polly ti vedo le tette e sono felice. E vivo. Però se PENSO che ti vedo le tette sono felice ma forse meno vivo. E se SCRIVO che ti vedo le tette sono già morto, Polly. E penso che vorrei allora non scriverlo che ti vedo le tette. E non pensarlo. E VIVERE le tue tette così, vivo prima ancora di vederle seduto in poltrona col telecomando. Mentre tu tagli l’insalata.

1.

Si di Alessandro Broggi è il mio sì alla vita quando vivovedo le tue tette prima ancora di pensarle o di scriverne, Polly. Leggo Broggi e sento il ‘sì’ di vita che è in me prima che il pensiero lo ingabbi nelle parole (scritte o pensate). E il mio ‘sì’ è identico al suo, al tuo. È il sì di tutti NOI. Pensare-percepire-scrivere è già uccidere la vita che vive. Leggi e senti allora che Broggi usa la parola scritta per farti rivivere quel ‘sì’ primigenio, prima che i tuoi pensieri-desideri lo ingabbino. Sono io che vivo le tette della Polly prima di vederle pensarle scriverne. Mentre lei taglia l’insalata. È la poesia, e così non si muore mai secondo me.

Cinquantatré capitoletti in 92 pagine divisi in quattro sezioni: (Scioglimento) 41-53, (Attività) 31-40, (Riavvio) 1-13, (Comunicazione) 14-30. Ma il libro ha 120 pagine: devi aggiungere le prose Altri segni, Tertium quid e Ultimo esempio. FONDAMENTALE è la nota di p.119, qui l’autore ti dice come ha cucinato i suoi ingredienti e tu lo devi sapere. L’editore è Tic, Roma.

COSA. Non lasciarti stupire da COSA c’è in questo libro perché ci trovi ingredienti di tanta filosofia degli ultimi settanta anni. Ma leggendo avrai anche l’illusione che Broggi sia riuscito – che bello è illudersi! – a portare quei traguardi un po’ più in là. Ed è bravo lui a fartelo credere. La poesia è bugiarda (e vera). Così mentre leggevo mi sono illuso di vederevivere le tue tette, Polly. Prima di pensarle, prima di farle morire in definizioni pensieri parole. Io seduto in poltrona, tu che tagliavi l’insalata. E mi sono sentito più vivo quando Alessandro ha scritto proprio per me “La mia visione del mondo è in effetti l’ostacolo più grande al libero fluire dell’esistenza” (p.17).

4.

COME. Scaglie che brillano sul bianco. è fatto di scaglie spesso prelevate tali e quali (libri, media…). È il paguro che entra nella conchiglia non sua su cui si sono incollate scintille di pixel colorati. Ne nascono poemetti di frasi accostate dal sapore concettuale (20-40 righe). Ogni frase lancia bagliori di senso alle sue vicine e ne riceve. Leggi e senti piccole scosse di piacere, è la vita che vibra in te, quella che è prima dei pensieri delle definizioni delle percezioni. È il Sì. In questa arte dell’accostare scaglie Broggi è bravissimo. È SUPER. Ti voglio offrire un caffè!, penso mentre leggo. Io, Alessandro e Borroughs al Caffè Stella. Quando un autore è bravo gli dico dai che ti porto al Bar Stella.

5.

PIACERE. Leggi e provi un piacere sottile per la bravura dello scrittore. Lo stile. Eccone un esempio: “Ambiti e sortite, vicissitudini, riverberi, germinazioni, tropismi e pasture, giaciture; farragini, incagli, languori e disinganni…” (p.46). Nuclei di parole – ne trovi molti – che fanno vibrare l’impianto concettuale di grazie a increspature di piacere sottile. È la mia generazione, quella dei nati intorno al 1970, sbocciata nei tepori azzurrini del postmoderno. Leggi e senti piccole scosse di vita, di ‘sì’ (cfr. supra). Talvolta fioriscono sulla pagina anche corolle di pixel fosforescenti, delicati: “La luce dorata del tramonto discendeva la città dentro le sue proporzioni…” (p.13), “Il portamento dei pioppi, del sole primaverile, il rapido addensarsi dell’oscurità in un cielo estivo…” (questa frase me la sono appuntata su una bustina di zucchero senza segnare la pagina, trovala tu). E non ti fare ingannare dalla virgolette caporali o inglesi fra cui trovi queste parole, è Broggi.

LA TUA VOCE. Ho letto ed ho la tua voce nella testa, Alessandro. Ho la voce di Alessandro nella testa. Quando l’ho incontrato, lui aveva i bottoni del cappotto che gli stringevano troppo il torace, 2022 Milano Assab ONE. Guarda che hai i bottoni del cappotto che ti stringono troppo il torace, gli volevo dire. Alessandro ha ascoltato le Nughette, rideva (forte). Era febbraio, c’era freddo e la porta del bagno era blu. In quel momento ho sentito che gli volevo bene. E anche adesso sento la sua voce che mi dice: “La mia visione del mondo è in effetti l’ostacolo più grande al libero fluire dell’esistenza”. E la Polly taglia l’insalata.

FINE

I nervi, il cuore e la Storia. Intervista a Rosella Postorino

1

 

a cura di Pasquale Palmieri

 

“Siamo tutti mossi dal desiderio, dubbiosi sulla felicità possibile, tentati da un impossibile ritorno a casa, gettati nostro malgrado nella Storia”. Prendo in prestito queste parole dalla quarta di copertina del nuovo libro di Rosella Postorino: Nei nervi e nel cuore. Memoriale per il presente (Solferino, 2024). Sono di certo le più efficaci per descrivere un testo complesso, un “diario pubblico” fondato sullo “scambio tra narrazione personale e collettiva”, ma anche sull’idea che le nostre scelte e le nostre esistenze possano seguire delle traiettorie comuni, pur rimanendo uniche e insostituibili. Rosella Postorino ha bisogno di poche presentazioni: autrice di romanzi di successo (come L’estate che perdemmo Dio, Il corpo docile, Le assaggiatrici, Mi limitavo ad amare te), vincitrice del Premio Campiello 2018, finalista al Premio Strega 2023, curatrice e traduttrice di grandi opere letterarie. Ha accettato di rispondere, con gentilezza e generosità, alle domande che le ho posto per Nazione Indiana.

 

“È l’anno in cui il Festival di Sanremo lo vinsero Morandi, Tozzi e Ruggeri con Si può dare di più, l’anno di Figli, il più bel brano di Toto Cutugno, l’anno in cui nelle nuove proposte si impose Michele Zarrillo: io so a menadito La notte dei pensieri, pure se non mi piace. Soprattutto, […] è l’anno di Bella d’estate”. Il 1987 appare all’inizio del tuo “memoriale per il presente” e ritorna in diverse pagine, fino alla fine del libro. Riemerge dal tuo passato come una sorta di spartiacque fra l’infanzia e l’adolescenza, o fra l’innocenza e una prima presa di coscienza del dolore. 

Il 1987 è l’anno della cacciata dall’Eden, l’anno dello sradicamento, cioè dell’emigrazione da Reggio Calabria alla Liguria. Però credo che la coscienza del dolore fosse precedente, così come non credo di essere diventata adolescente allora. Semplicemente ho capito che le persone possono essere trattate da diverse, da straniere, e tali sentirsi. Ho capito che si può perdere l’Eden, appunto, per quanto imperfetto quell’Eden sia – il mio lo era. Partendo, ho perso la comunità: nonni, zii e cugini come una certezza quotidiana. E ho visto i miei genitori deboli e infelici. Forse il trauma per i bambini è questo: vedere i genitori traballare.

 

Le tue memorie sono accompagnate da un elenco ricchissimo di prodotti mediali. Leggendo il libro, ho scoperto che non hai mai amato davvero Pippi Calzelunghe perché era “troppo forte”, che volevi somigliare a Candy, che avevi nove anni e Anne Frank era il tuo personaggio letterario preferito. Anche l’immagine di tua madre da giovane è legata, in alcuni passaggi, alle “telenovelas” con Veronica Castro o alla lettura di “Confidenze”. A tratti si ha l’impressione che i film, le canzoni, i libri, i programmi televisivi ti aiutino a mettere ordine nel caos dei ricordi. O forse sono anche espedienti per tentare di uscire dall’isolamento emotivo? Da scrittrice, ti senti meno sola nel cercare un contatto con lettrici e lettori che hanno conosciuto quelle stesse parole, quelle stesse immagini, quelle stesse note? 

Era mia nonna che leggeva “Confidenze”, ma Veronica Castro la guardavamo tutti. La sigla di Anche i ricchi piangono è per me una madeleine. Mi strugge e mi consola, è un luogo preciso della memoria che porta con sé odori e gesti e sentimenti. La cultura di massa ha questo effetto emotivo di intersecarsi con la nostra vita, anche con i momenti più dolorosi della nostra vita. Gli oggetti – i prodotti del mercato – nel momento in cui ci appartengono, e si fondono con la storia delle nostre case e delle persone che le abitano o le hanno abitate, possono farci paura o tenerezza. Non si tratta quindi di mettere ordine né di cercare un contatto con lettori della stessa generazione. Noi siamo fatti anche di questo: delle immagini che abbiamo visto, delle canzonette che abbiamo ascoltato, dei jingle pubblicitari e dei titoli sulle prime pagine dei giornali, dei fumetti e delle stragi annunciate al telegiornale, come racconta Gli anni di Annie Ernaux. Nei nostri ricordi, dice Ernaux, le immagini di Auschwitz convivono con la réclame di un detersivo. La memoria funziona semplicemente così. La scrittura talvolta riesce a restituirne la complessità.

 

Il tuo libro fa i conti con la pandemia, la quarantena, la paura del contagio. Ricordi che il virus “trasformava i nipoti in carnefici dei nonni, proliferava sull’affetto familiare, mutava gli abbracci in gesti aggressivi, i baci in tradimento, ribaltava la nostra psicologia, la nostra antropologia, tanto che in pochi riuscivano a adeguarsi, e gli altri si confondevano, sbagliavano, diventavano colpevoli”. Non so spiegarti bene perché queste parole mi colpiscano tanto. Ho l’impressione che, a distanza di qualche anno, ci sia ancora una grande difficoltà nel raccontare il Covid e il suo impatto sulle nostre vite. Cosa ne pensi?  

Credo che per raccontare bene le cose serva una distanza nel tempo. Per raccontarle con l’epica di un romanzo, per esempio. In quel caso per me c’era la presa diretta di un’angoscia che stavo vivendo, quella parte ha consapevolmente il fiato corto, è quasi un grido in mezzo agli altri.

 

In alcuni passaggi del libro il rapporto tra dolore e felicità si intreccia con il rapporto fra malattia e guarigione. Racconti di aver cominciato una terapia cognitivo-comportamentale, perché volevi “salire sugli ascensori, prendere voli intercontinentali, scendere a patti con il precariato lavorativo, con la ferocia che era abitare, da poveri, una metropoli”. E ti sentivi “colpevole” se non riuscivi a raggiungere questi obiettivi. È ancora così? Rivendichi ancora il diritto all’inquietudine, all’essere inadattabile a un ruolo sociale, alla mancanza di guarigione? 

Sì, li rivendico, ed è per questo che credo che la psicanalisi – la mia prima terapia, durata cinque anni, era psicanalitica – sia stata per me fondativa e formativa. La psicanalisi non ha l’obiettivo di renderti “adatto”. Nel mio caso, mi ha aiutato ad accettare il mio desiderio di scrivere e a inseguirlo anche se faceva paura, anche se dietro ogni vocazione c’è il dolore possibile del fallimento. Ma quello era ed è il mio unico modo di stare al mondo.

 

Nel libro dichiari apertamente il tuo amore per i film di Nanni Moretti. Ricordi come i suoi personaggi facciano “domande che non possono avere risposta”, e le facciano ossessivamente a tutti “fino a risultare inopportuni”. Il loro “inesausto tentativo di capire resta vano, come quello di ogni scrittore, e di ogni individuo”. Sembra di intravedere in queste righe la tua idea del mestiere di scrittrice. Scrivi “per cercare riscatto” e non ti senti “riscattata mai”. Scrivi per rivendicare il “diritto di trionfare e di perdere”, di essere limpida e imperscrutabile.

Sì. Ma forse io vedo il gesto, anzi la tensione, la postura della scrittura ovunque, perché è in fondo ciò che nel mondo più mi interessa. “Io sono assicurata in una frase e in nient’altro”, scrisse Ingeborg Bachmann in Malina, “il mondo non ha un’assicurazione per me”. È una delle frasi della mia vita. E tuttavia, sempre in Malina, l’Io protagonista dice che la lingua è il castigo, perché sarà sempre incapace di restituire la complessità del reale. Ecco, la scrittura si muove in questa contraddizione senza rimedio, e proprio per questo, perché non può salvare nessuno, mi fa sentire un po’ più salva.

 

Ricordi che le donne si sentono “responsabili del desiderio di uomini verso cui non provano desiderio”. Parli della “soggezione verso il maschile”, in particolare “il maschile osannato dalla collettività”. Rivendichi il valore politico, culturale, sociale e umano del “discorso sul corpo”. Immagino non sia stato semplice trovare il coraggio di affrontare questi temi parlando in prima persona, mettendo in gioco le tue esperienze, in un libro come Nei nervi e nel cuore

Ho sempre parlato di questo, ma trasfigurandolo nei personaggi e nelle storie dei miei romanzi. Ci ho messo vent’anni esatti di scrittura (ho pubblicato il mio primo racconto in un’antologia di Einaudi nel giugno del 2004) per parlarne in modo personale.

 

Nel tuo memoriale, ti scopri “gettata nella Storia e dalla Storia condizionata”. Sono nato come te alla fine degli anni Settanta, e come te mi sono lasciato convincere di appartenere a “una generazione senza trauma”, in fondo trascurabile, pronta a scivolare “fuori dalla Storia” senza rendersene conto. Credi che le persone della nostra età abbiano una “tonalità emotiva” che le contraddistingue? Abbiamo davvero un metodo, o solo un espediente, per non sentirci parcheggiati nel nostro tempo? 

Io credo che considerare la nostra generazione senza trauma fosse una semplificazione e anche una stigmatizzazione. Che cosa sono state le stragi di mafia del 1992 se non un trauma? La guerra nei Balcani, che cos’è stata? Nel cuore dell’Europa, a meno di cinquant’anni dopo la seconda guerra mondiale, c’erano di nuovo dei campi di concentramento, gli stupri di massa. E il G8 di Genova, e l’11 settembre? Nessuno di noi è partito per la guerra o ha vissuto in Italia una guerra, è vero, ma questo non significa essere avulsi dalla Storia. Ogni vita è condizionata dalla Storia, proprio nel senso che alcuni sentimenti sono tollerati o si esprimono in maniera diversa a seconda delle epoche storiche, e dunque anche ciò che più consideriamo privato è in realtà il risultato di un sistema culturale legato al tempo.

 

La lettera

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Foto di Andrys Stienstra da Pixabay

di Silvano Panella

Mi trovavo all’esterno di un locale improvvisato, tavolini sbilenchi sotto una pergola che non aveva mai sostenuto viti – non sarebbe stato possibile, faceva troppo caldo, davanti a me il deserto africano, l’aridità giungeva fin dentro i bicchieri, polverosi e arsi. L’oste servì prima un cliente ben vestito, il volto rovinato da imprese spossanti. Quel volto mi fece pensare che anch’io avevo avventure da raccontare – le trascriverò in un libro. Quando finimmo di mangiare il cuscussù, io e l’altro cliente ci ritrovammo a parlare di buone strade, non in senso metaforico ma proprio: dove mettere i piedi senza finire in qualche trappola mortale lasciata dall’ultima guerra, dalle ultime rivolte aizzate da nazioni profittatrici, dalle ultime dimostrazioni dei venditori d’armi, dagli ultimi…

«Ho capito. Segua quella striscia di terra scura. La segua attentamente. So che sotto il sole potrebbe essere difficile distinguere tutte le tonalità della terra, perciò non alzi mai lo sguardo all’insù», dissi all’uomo.

«Non ho più buoni occhi»

«Mi dispiace»

«Potrebbe aiutarmi. Le pagherei il disturbo»

«Dove è diretto?»

«Sto cercando una lettera»

«Mi spieghi meglio che può ma con il minor numero di parole», dissi, irritato dal caldo.

«Ero un diplomatico. Fummo attaccati durante uno spostamento. Spari, ferimenti, razzie. Tenevo la lettera nella borsa che mi fu sottratta. Avrei dovuto metterla in tasca. Ma sa, nelle tasche le lettere si piegano»

«Non mi pongo mai questi problemi. Però la capisco, lei era un diplomatico, abituato a salvaguardare i formalismi dei comportamenti, le formalità delle procedure, le forme delle lettere. Cosa le è successo?»

«Mi sono ossessionato a recuperare la lettera a ogni costo e così ho perso ogni incarico»

«Succede, quando si tralascia ogni ritegno, ogni convenienza. Ecco perché preferisco voi diplomatici ai politici, prendete sul serio qualsiasi sviluppo e ne fate il motivo della vostra vita. E in più avete quella… lei ha quella regalità che ho ravvisato soltanto in certi ritratti a olio dipinti in occasione delle investiture. Io invece vado in giro nel modo più comodo possibile. Soltanto tra i banditi non sfigurerei»

«Questo è interessante», disse l’ex diplomatico, e per la prima volta sorrise.

Mi fece piacere che quell’uomo dimagrito e malinconico, quell’uomo che era passato dai fasti delle ambasciate all’oblio della solitudine, potesse ritrovare il sorriso a causa mia. Ora quell’uomo stava meditando proprio davanti a me – forse elaborava un piano, forse mi immaginava mentre entravo senza esitazione nel punto più malfamato del paese, il punto esatto, la confluenza degli esemplari più malvagi del genere umano. Per una lettera, poi. Cos’era? Un reperto di squisita calligrafia, di valore storico? O uno scritto capace di mutare le sorti del mondo? O una sciocchezza? Sarebbe stato divertente rischiare la vita per salvare l’invito a un ballo già avvenuto. No, quella lettera doveva avere un valore. Certo, non eravamo più ai tempi delle dispute tra regni bizzosi, eravamo in un limbo nel quale si poteva dire una cosa e il suo contrario, si poteva cominciare un’impresa e poi rinunciarvi senza il timore di essere redarguiti perché nel frattempo gli osservatori si erano distratti – forse era il surriscaldamento globale che infiacchiva i popoli.

«Con il suo aiuto, potrei recuperare la lettera», l’ex diplomatico disse.

«Lei sa dov’è?»

L’ex diplomatico annuì. Fu un sussulto rapido e convulso, la testa su e giù, su e giù precisamente, senza esitazioni. Non ero convinto della sua risposta né della sua salute mentale. Assecondandolo, mi sarei ritrovato nei guai. Era il tipico uomo da salutare con garbo e da ascoltare con rispetto, ma poi bisognava liberarsene. E io, con tutta l’esperienza accumulata in anni di esplorazioni, di sortite, di incontri, non riuscii a non rifiutare l’astrusa missione propostami dall’ex diplomatico. Sarà perché ho sempre ammirato chi si prefigge obiettivi distanti, ideali, irraggiungibili.

Senza accorgermene, mi ritrovai a seguire l’uomo. È così, proprio così, succede, per un momento più o meno lungo si perde il contatto con la realtà – infatti non ricordo chi di noi due pagò il conto per entrambi nonostante avessimo mangiato separatamente. E poi, se io ero un avventuriero e all’occorrenza una guida, perché ora seguivo un’altra persona anziché precederla? Fermai l’uomo prima che proseguissimo ulteriormente nel deserto, destinati a una morte atroce, estatica. Gli dissi di chiarirmi il suo piano. L’uomo estrasse da una tasca un foglio consunto e ripiegato e me lo porse. Era una mappa. Alcune località erano cerchiate, altre cancellate da pesanti e fitti tratti d’inchiostro. L’uomo diceva che andavano controllate le località cerchiate, pericolose perché sotto il controllo dei banditi. Questa mappa un tempo razionale come il suo cartografo e ora piena di scarabocchi mi convinse a desistere. Finsi di interpretare gli scarabocchi e dirottai l’uomo verso l’ospedale. Due brave suore se ne presero cura, una terza mi disse di conoscerlo. Era stato davvero un diplomatico, aveva davvero perduto una lettera in uno scontro armato. Ancora più incuriosito, andai dal mio amico al consolato. Anche lui conosceva l’ex diplomatico.

«Un signore distinto, di grande rettitudine, impazzito a causa di una lettera»

«Una lettera importante?»

«Può darsi. Di sicuro per lui. Per gli altri, chissà»

Le parole del mio amico mi fecero immaginare che forse quella lettera avrebbe potuto migliorare il corso degli eventi – un pensiero folle almeno quanto la folle ricerca della lettera a opera dell’ex diplomatico. Per riuscire a cambiare le sorti dell’umanità avrebbe dovuto esserci scritto qualcosa di molto potente se non proprio di magico. Oppure, era una buona lettera che avrebbe suggerito a un sottosegretario gli spunti per convincere il suo ministro, il ministro avrebbe illustrato progetti ambiziosi durante un convegno internazionale e i suoi omologhi stranieri avrebbero tratto l’ispirazione per ottenere dai governi finanziamenti opportunistici ma concretissimi. Un mutamento radicale partito da riflessioni messe per iscritto: doveva essere questo. Sicuro che la lettera fosse stata distrutta, sicuro che qualcun altro avrebbe spinto il mondo a occuparsi dello sviluppo del continente, non io, no, non ero in grado di tradire il mio individualismo per diventare un dilettantesco merciaio di buoni propositi, lasciai stare e andai in cerca della prossima avventura.

I tre quinti sconosciuti di Charlus

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Per Nuova Editrice Berti è da poco uscito La gelosia di Charlus e altri scritti dai Cahiers di Marcel Proust, a cura di Mariolina Bertini, con postfazione di Ezio Sinigaglia e nota bibliografica di Giuseppe Girimonti Greco. Pubblico le ultime pagine della postfazione. [ot]

di Ezio Sinigaglia

[…]

Di qui si accede allo sterminato reame di Sodoma: i personaggi che lo abitano sono numerosissimi, ma nessuno può aspirare neppure alla lontana al grado di rappresentatività che va riconosciuto al barone di Charlus, sia per la sua presenza, di crescente importanza, in tutti e sette i volumi di cui la Ricerca si compone, sia e forse ancor più per la forza e la complessità della sua personalità piena di contraddizioni.

Charlus è un personaggio fortemente caratterizzato dalla stranezza e imprevedibilità dei comportamenti, tanto che sarebbe difficile trovare, nelle sue innumerevoli apparizioni nel romanzo, una singola occasione in cui il barone non faccia o dica qualcosa di inatteso e sorprendente. Tuttavia, se dovessi indicare, fra le decine e decine di casi, il suo gesto più bizzarro (e alla prima lettura più inspiegabile), non avrei dubbi: è l’incredibile cerimoniale di saluto che Charlus riserva al narratore poco più che bambino quando ne fa ufficialmente la conoscenza, cioè quando sua zia, Madame de Villeparisis, glielo presenta davanti al Grand Hotel di Balbec. Qui il barone, «evitando di guardarmi, borbottando un vago “Piacere” – cui fece seguire alcuni “hum, hum, hum” per dare alla sua cortesia qualcosa di forzato – e ripiegando il mignolo, l’indice e il pollice, mi [tese] il medio e l’anulare, privi di qualsiasi anello, che io strinsi sotto il suo guanto scamosciato» (I, 914). In tanta degnazione e superbia del salutante, dovute alla consapevolezza del suo rango inarrivabile, non c’è nulla di specificamente charlusiano: tutti i Guermantes salutano il resto dell’umanità così, con sufficienza ed esplicito distacco, tendendo ad esempio il braccio nella sua intera lunghezza, come fa il pur amabile Saint-Loup, affinché la distanza dal salutato sia la massima possibile. Di charlusiano c’è invece l’idea di porgere, al posto della mano, due sole dita ritraendo le altre tre. È un gesto sdegnoso? Sì, senza dubbio: ma, nell’economia del romanzo in generale e della costruzione del personaggio in particolare, è anche un gesto dall’importante contenuto simbolico, se vogliamo ammettere che, nel porgere due dita al posto della mano, il barone di Charlus dichiara apertamente di essere disposto a far conoscere soltanto una parte di sé stesso, pari a due quinti: gli altri tre resteranno segreti.

Naturalmente, uno dei tanti svelamenti di cui, nel suo lungo percorso, tortuoso e impassibile a un tempo, va alla ricerca La ricerca (e uno dei tanti itinerari monotematici che il lettore è libero di seguire dal principio alla fine) è lo smascheramento della parte nascosta di Charlus. Un primo segreto viene svelato, come si è visto, in Sodoma e Gomorra I: si tratta dell’omosessualità del barone. Siamo all’incirca a metà del romanzo e, per scoprire la faccia più segreta di questo segreto, dovremo attendere quasi la fine (IV, 479 sgg.), quando l’eroe, ancora una volta grazie a una prodigiosa commistione di audacia e di fortuna, vedrà premiato il suo talento di voyeur-écouteur nel bordello di Jupien, assistendo a una scena drammatica e grottesca di sadomasochismo, orchestrata e governata dallo stesso Charlus in vista del suo piacere, che è tutt’uno con la sua sofferenza.

Questa rivelazione finale è preparata da varie anticipazioni, che tuttavia sfuggono facilmente al lettore per la loro lontananza reciproca e, soprattutto, per la grande distanza che le separa dalla scena della camera 14 bis. Ma il ri-lettore, che ha ben presente nella memoria quest’ultimo episodio, può reperire via via queste anticipazioni e concatenarle in una serie coerente. Qui ne ricorderò due che mi sembrano di particolare importanza.

La prima precede addirittura l’entrata in scena di Charlus (se si esclude la sua fuggevole apparizione nel giardino degli Swann a Combray: I, 172-173). È il nipote Saint-Loup a raccontare al narratore le gesta giovanili di suo zio Palamède, che è atteso dopo poche ore a Balbec e del quale dunque l’eroe sta per fare la conoscenza. Si parla della sua «lontana giovinezza», dei suoi mirabolanti successi con le donne e di «una garçonnière che spartiva, con tre amici» non meno belli di lui e, come lui, infaticabili amatori (I, 909-910). Racconta Saint-Loup che un conoscente «“aveva chiesto a mio zio di poter andare in questa garçonnière. Senonché, appena arrivato, non fu alle donne, ma allo zio Palamède che si mise a fare una dichiarazione.”» Ciò che lascia sbalorditi è la punizione che Charlus e i suoi due amici riservano al “colpevole”: «“lo spogliarono, lo pestarono a sangue e, con un freddo da dieci sotto zero, lo buttarono a calci sulla strada, dove fu trovato mezzo morto”.»

La seconda anticipazione cade qualche centinaio di pagine dopo, durante la passeggiata che Charlus e il narratore fanno insieme, tornando a piedi dal “pomeriggio” a casa di Madame de Villeparisis. A un certo punto il barone prende a fantasticare intorno a Bloch, l’amico ebreo di Marcel: «“Potrebbe forse affittare un locale e procurarmi qualche divertimento biblico […] Per esempio, uno scontro fra il vostro amico e suo padre, con ferimento del secondo, come fra David e Golia. […] Potrebbe anche, già che c’è, prendere a bastonate quella carogna […] di sua madre”» (II, 346-347).

Nel secondo di questi passi e, con ogni probabilità, anche nel primo, è la fantasia a prevalere sulla realtà: ma, in quelle che chiamiamo “perversioni sessuali”, è proprio la fantasia l’elemento determinante, e non si può certo negare che la chiave del sadismo (e del suo opposto complementare, il masochismo) sia già stata messa a disposizione del lettore che fosse interessato a indagare la complessa personalità del barone.

Più in generale, del resto, una componente di sadismo autopunitivo è presente in tutte le strategie seduttive di Charlus, che sembrano costruite per fallire: basterà citare l’esempio dei suoi maldestri tentativi di adescamento del narratore, o quello della sua goffa lettera ad Aimé (il giovane e attraente direttore del Grand Hotel di Balbec) o, ancora, l’esito con ogni probabilità solo platonico del suo corteggiamento del violinista Morel e la catastrofe umiliante in cui questo rapporto per così dire pigmalionico va infine a sfociare. Tutto sembra organizzato per nutrire un insaziabile senso di colpa che, originato dal tradimento (dei genitori, della famiglia, dell’educazione, della religione) di cui l’omosessuale si accusa, esige che ogni piacere sia sempre soffocato dalla sofferenza. Quello del tradimento è uno dei temi che accomunano le due “razze maledette”: soltanto che, nel caso degli ebrei, il tradimento si consuma uscendo dal gruppo (ad esempio cambiando cognome, come farà Bloch), nel caso degli omosessuali entrando a farne parte e contraendo quindi quella malattia vergognosa, e per definizione inguaribile poiché inesistente, che ha il nome di “inversione sessuale”.

È dunque logico che, con queste premesse, i soli tentativi di seduzione destinati al successo siano quelli esenti da ogni sovrastruttura culturale, legati esclusivamente al linguaggio del corpo, quasi animaleschi nella loro naturalezza istintiva, come esemplificato con meravigliosa semplicità dal corteggiamento che – in alternativa o a completamento della famosa similitudine vegetal-entomologica di Proust – potremmo definire “ornitologico”, tanto è rapido, efficace e variopinto nella sua codificata reciprocità, fra il barone e Jupien (II, 725 sgg.).

Questo segreto di Charlus (l’orientamento sadomasochistico della sua sessualità) non sembra volerci parlare soltanto di Charlus, ma di un carattere tipico della moderna Sodoma: un tratto psicologico cui mi piacerebbe dare il nome di “sansebastianismo”, cioè una mistica e un’estetica del martirio diffusissime nel mondo degli omosessuali fino a pochi decenni or sono, e forse abbastanza diffuse ancor oggi.

Di questo atteggiamento autopunitivo, che lo condividesse o meno, certo è che Proust era perfettamente a conoscenza. Sebastiano, santo patrono del reame di Sodoma, compare una sola volta nel romanzo, in un contesto in apparenza molto diverso ma convergente nella sostanza. Si parla (I, 157) di Legrandin e della lotta interiore che si combatte dentro di lui fra il moralista a parole, che disprezza lo snobismo degli altri, e lo snob assetato di riconoscimenti sociali «che egli nascondeva con cura nel fondo di se stesso», così da sentirsi una specie di San Sebastiano dello snobismo, «crivellato e illanguidito» da mille frecce. La somiglianza con il caso del barone di Charlus, che nasconde nel fondo di sé, sotto l’esibizione tenace di una virilità esagerata (le docce gelate, le lunghissime camminate, il disprezzo per ogni effeminatezza), il desiderio che lo illanguidisce, non potrebbe essere più evidente.

Non interessa qui indagare sainte-beuvianamente fino a che punto il personaggio emblematico di Charlus rappresenti e in parte viva l’omosessualità dell’autore: ciò che conta è piuttosto osservare la vitalità indomabile con cui, fra l’io inguaribilmente naïf dell’eroe e quello espertissimo dell’autore, l’io del narratore corra senza sosta come una spola, generando un pas de trois dalle coreografie svariate e originalissime. Ciò che conta è soprattutto constatare come l’autobiografia di Proust, trasfigurandosi nell’opera d’arte, si trasformi ogni volta, per prodigio, nella biografia del lettore.

 

Un’agricoltura senza pesticidi ma non biologica?

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di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

 

Un recente intervento su STORIEDELBIO è dedicato all’iniziativa svizzera di riduzione dell’utilizzo di pesticidi, e è accompagnato da un articolo apparso a questo proposito su una piattaforma elvetica di informazione. Il progetto, iniziato nel 2019, e promosso dall’associazione dei contadini che praticano l’agricoltura integrata (IP-Suisse), è sostenuto dalla grande catena di supermercati Migros, che assicura prezzi superiori (del 30%) a quelli normali, e dal governo federale, che garantisce dei pagamenti diretti (un tot a ettaro, diverso per le varie colture, e per la limitazione di impatto scelta) agli agricoltori che accettano di non utilizzare erbicidi e/o insetticidi e fungicidi. I suoi promotori lo presentano come un’alternativa all’agricoltura biologica, o comunque una terza via tra essa e l’agricoltura convenzionale, interessante sia per i coltivatori, in quanto meno esigente e laboriosa, che per i consumatori, per i prezzi inferiori rispetto al bio. E insomma come una strada meno difficile e “più elastica” (per la possibilità di ottenere delle deroghe, e per la possibilità di aderire all’iniziativa anche per una sola coltura di una rotazione, e decidendo annata per annata), alias una scorciatoia, per mirare a risultati sostanzialmente analoghi a larga scala. Ma è davvero così? Proviamo a ragionare con calma.

Per quanto riguarda i prodotti fitosanitari e i diserbanti, nell’agricoltura convenzionale vige in generale il (tacito) principio della massima efficacia, riferita alla quantità e alla valutazione di mercato del prodotto: si preferisce trattare molto, e massicciamente, per essere sicuri del risultato. Per ragioni prima di tutto economiche, perché si mira al massimo delle rese, e perché per molte colture il minimo difetto dei raccolti comporta un drastico deprezzamento, se non l’impossibilità di smercio. Qualsiasi iniziativa seria per ridurre il loro (eccessivo) impiego rappresenta quindi uno sforzo estremamente positivo, e va caldamente incoraggiata. Si può forse fare un parallelo con la salute umana e animale, che ci è forse più famigliare: con una somministrazione indiscriminata, o anche preventiva (utilizzata nella maggior parte degli allevamenti, fuori dall’Europa), di medicinali si ha la massima sicurezza riguardo alle singole patologie. Mentre un uso più oculato e ridotto comporta vantaggi di vario tipo (limitazione dei temibilissimi fenomeni di resistenza, riduzione degli effetti secondari, risparmio economico…), anche se certamente è più delicato, e può tradursi in una percentuale di individui ammalati superiori.

La differenza capitale è che se si perde una parte del raccolto riducendo gli insetticidi, gli antifungini o i diserbanti, non muore nessuno. E anzi, molti organismi utili, che sono vittime collaterali, possono trarne vantaggio, con una maggiore “salute generale”, misurabile in particolare in termini di biodiversità, di resistenza alle avversità della coltura, e di una minore esposizione degli operatori. E questo a scala aziendale, ma anche planetaria, a dispetto degli allarmismi che agitano strumentalmente la bandiera della fame, visto che produciamo di più di quello che consumiamo. Il danno può quindi essere meno grande di quanto sembra, o anzi nascondere un guadagno, facendo una contabilità economica che include anche i costi ambientali, presenti e futuri. Quest’ultimo modo di valutazione non è però quello dell’agricoltura industriale, il cui unico diktat è che le singole aziende producano il più possibile, in modo che i loro bilanci siano, nell’immediato, i più favorevoli. Qualsiasi costo ecologico e/o indiretto (per depurare le acque delle falde, per curare le patologie umane degli addetti e dei consumatori, per rigenerare i suoli…), qualsiasi danno inferto ai beni comuni (in particolare le degradazioni irreparabili dei suoli) o al pianeta (gas a effetto serra), o alla salute umana, non viene contabilizzato.

In ogni caso non basta porre degli obiettivi di impieghi più moderati, bisogna che gli agricoltori, che sono i diretti interessati, ci credano e si sentano accompagnati in questo percorso, che per loro è più complicato – ci vogliono più attenzioni – e non certo privo di rischi, a fronte di margini economici più spesso ridottissimi. Hanno bisogno in altre parole di garanzie di smerciabilità, di compensazioni economiche nel caso le rese risultino inferiori, di un efficiente supporto tecnico. Qualsiasi seria iniziativa che vada in questo senso, come quella svizzera, va quindi considerata molto positivamente, e caldeggiata. In realtà anche la Germania, sulla base di trentennali esperienze spontanee precedenti, ha avviato nel 2023 un programma governativo similare, e anche qui gli agricoltori che aderiscono (sempre su base volontaria, e anche per singoli appezzamenti), ottengono una compensazione a ettaro. Lungi dal rappresentare progetti marginali, nei due casi si stima che potrebbero essere convertite superfici notevolissime: 40-70% delle terre arabili (nel 2027) in Svizzera, e 11% (nel 2030) in Germania. E questo è senz’altro un fattore importantissimo.

L’errore del Green Deal dell’Unione Europea, era proprio questo, fissare degli ambiziosi e ben precisi obiettivi (la strategia “Farm to fork” mirava a un decremento del 50% dei pesticidi entro il 2030) senza promuovere coerenti misure che aiutassero a raggiungerli. Una delle ragioni delle recenti proteste degli agricoltori è proprio questa, e quindi l’obiettivo è stato cassato, anche se si continua a ritenerlo molto auspicabile, sulla base dell’opinione unanime di tutti gli esperti dell’ambiente. Ma pure il piano francese “Ecophyto”, lanciato già nel 2008, e finalizzato anch’esso a diminuire della metà l’uso dei pesticidi (il termine, inizialmente fissato al 2018, è poi slittato al 2030), anche qui senza contropartite, è stato quest’anno prima congelato, sempre a causa delle proteste degli agricoltori, e poi riavviato svuotandolo di fatto di ogni possibile efficacia. Nella nuova versione esso utilizza infatti un nuovo indice di misura che assicurerà il raggiungimento della soglia di diminuzione senza nulla cambiare, visto che esso conteggia anche i decrementi dovuti alla progressiva messa al bando dei composti da parte della UE.

 

OCULATEZZA VS VISIONE ECOLOGICA

Il nocciolo del problema è però un altro: fino a che punto si può spingere questa oculatezza delle somministrazioni, quanto si possono diminuire gli utilizzi dei prodotti chimici nocivi, mantenendo immutate le tecniche di coltivazione, o insomma con variazioni relativamente limitate? Per rispondere in modo serio bisognerebbe analizzare le varie colture nei vari ambienti, ascoltando quello che ne dicono i relativi conoscitori (non solo quelli succubi dei potentissimi – anche proprio nell’orientare i modi di pensare e i dibattiti – colossi che producono i pesticidi), gli agroecologi e gli studiosi dell’ambiente e della biodiversità, e naturalmente i coltivatori. Ma certo, parlando in generale, c’è del margine. E in qualche caso molto, in particolare per la cerealicoltura: non a caso queste esperienze partono da quella. Soprattutto se davvero si introducono alcuni cambiamenti nelle pratiche colturali che facilitano le cose (in Svizzera i promotori dell’iniziativa auspicano che si possa agire sulle rotazioni, che rendono gli attacchi meno intensi, sulle varietà resistenti, il controllo meccanico delle infestanti…). E se si accetta la contropartita di contenute diminuzioni delle produzioni, che vanno appunto rapportate con i minori costi economici indiretti riguardanti l’ambiente e la salute. E se la grande distribuzione e i consumatori sono pronti a accettare prodotti esteticamente meno perfetti. Tutte cose possibili.

Certo però grandissimi e maggioritari comparti dell’agricoltura industriale – senza parlare della frutticoltura e delle colture orticole – non possono e non potranno fare a meno di un impiego massiccio di pesticidi. Proprio perché si basano solo su quelli, e non su strategie complessive (ecologiche) di coltivazione ben più delicate da mettere a punto e da mettere in atto, perché presuppongono la presa in conto dei complicati e soprattutto molto vari funzionamenti della natura nei singoli ambienti. Per risolvere i problemi, che ora nessuno più nega, si fa un grande affidamento sulle tecniche di precisione spaziale, sull’intelligenza artificiale, su prodotti innovativi non tossici per la difesa delle colture e di stimolazione della crescita, ma i reali apporti sono ancora da venire, e tutti da dimostrare (mentre i costi sono molto elevati, impensabili per le agricolture povere). È utopico aspettarsi dei miracoli.

Gli stessi miglioramenti delle varietà con tecnologie genomiche, dei quali si fa un gran parlare, e sui quali si conta moltissimo, non hanno dato finora un grosso aiuto in questo senso, o insomma i vantaggi sono prestissimo scomparsi. Se si trattasse solo di agire su una o due leve, se la soluzione fosse così semplice (senza parlare dei costi economici e/o energetici), come le agroindustrie per interesse fanno credere (vendono loro gli strumenti che permettono di manovrarle), le enormi difficoltà dell’agricoltura attuale sarebbero presto accantonate. Molti studi recenti ci dicono, tanto per fare un esempio, che anche le concimazioni chimiche, che non vengono considerate dall’iniziativa svizzera di cui parliamo, quasi fossero un fattore che non c’entra nulla (o che anzi può palliare almeno in parte, tenendo alte le dosi, la diminuzione delle rese), hanno notevoli effetti negativi sulle patologie e sugli attacchi alle piante, e sulla vita del suolo, e insomma si ripercuotono sull’utilizzo di pesticidi, che diventano il necessario rimedio (e insomma il corollario).

Già nella prima parte del secolo passato, gli agronomi più validi e più illuminati – e l’ottima scuola italiana, che abbiamo dimenticato, era all’avanguardia – si sono invece resi conto che non si poteva agire su una sola leva (come fa l’agricoltura convenzionale), o su poche leve (come preconizzano queste nuove impostazioni). Che bisogna avere una visione globale dei campi coltivati, partendo dal suolo e dal suo funzionamento, e coltivare rispettando il più possibile i meccanismi naturali degli agrosistemi – che quindi vanno studiati – assecondandoli il più possibile, approfittando delle loro particolarità per piegarli alle nostre necessità. Questo è il solo e unico fondamento comune dell’agricoltura biologica e di ogni forma ecologica di coltivazione (permacoltura, agricoltura biodinamica..), le quali contrastano i “nemici” delle colture con più armi, prima di tutte la prevenzione, e strategie adatte alle varie situazioni messe a punto con gli stessi coltivatori, e valutate per tutti i loro effetti (e le tante interazioni). Un secolo di esperienze, e di costante crescita del comparto biologico, hanno dimostrato che è possibilissimo coltivare in questo modo, producendo cibi sani e abbattendo drasticamente i danni all’ambiente. Certo però è molto meno facile, e in genere relativamente più costoso, almeno se ci limitiamo alla contabilità di comodo che ci ostiniamo a utilizzare, che non include le stratosferiche fatture ambientali e sanitarie.

 

LEVE VS IMPOSTAZIONE ECOLOGICA

Alla luce di tutte queste considerazioni mi sembra molto interessante il recente elaborato, coordinato dall’INRAE francese, e scaricabile sulla rete, al quale hanno collaborato alcuni tra i migliori esperti europei. Esso cerca di valutare le reali prospettive future di queste iniziative di riduzione delle sostanze nocive di origine sintetica. Lo fa adottando una visione d’insieme (la globalità dei sistemi alimentari, comprendendo anche i consumatori), e ipotizzando tre diversi scenari, di crescente intensità/profondità, sebbene tutti finalizzati all’obiettivo di una Europa senza pesticidi di sintesi nel 2050. E provando a esemplificare ciascuno di essi con alcune colture tipiche di ambienti europei molto disparati.

Le sue conclusioni sono che le probabilità di successo, mantenendo al contempo la sovranità alimentare europea, sono alte, anche nello scenario più “soft” (quello che non prevede un cambiamento nelle abitudini alimentari), se però verranno utilizzate al contempo diverse leve. Tra le principali di queste sono la diversificazione delle colture nello spazio (biodiversità) e nel tempo (rotazioni), i miglioramenti varietali, la messa a punto di formulati di “biocontrollo” (microrganismi, induttori di resistenza…) per la difesa delle colture, un sostanziale incremento delle conoscenze (suoli, piante, microganismi), un miglioramento dei regimi alimentari umani (minori consumi di zuccheri, di grassi e di carne). Si noti che queste misure sono le stesse preconizzate e utilizzate dall’agricoltura biologica, anche se qui non è posta al centro la visione olistica che caratterizza quest’ultima, assente nel primo scenario, e appena abbozzata nel secondo.

Il fatto che queste nascenti iniziative di riduzione delle sostanze nocive  preconizzino di utilizzare più strumenti al contempo, almeno nelle intenzioni, le avvicina senza dubbio al modo di vedere di chi da decenni (per non dire un secolo) sottolinea la necessità di una visione ecologica dei campi coltivati e dell’alimentazione umana. La differenza tra le due impostazioni è però sostanziale, e è oggettivamente fuori luogo metterle sullo stesso piano. Alla luce della storia passata, è esemplare il caso dell’introduzione degli OGM, agire su una leva da sola, o ben che vada su poche leve, può portare a problemi ben più grossi di quelli iniziali. I tentativi di riduzione, che difficilmente si accompagneranno a radicali cambiamenti dei territori agricoli e del fare ricerca (quelli previsti dal terzo scenario dello studio citato), daranno verosimilmente buoni risultati per le colture meno problematiche, e in particolare i cereali. Si vede però male come potranno funzionare su colture più delicate/fragili (in altre parole più lontane da un equilibrio ecologico) e negli ambienti meno favorevoli, per particolarità legate al microclima (nei climi umidi gli attacchi fungini, ad esempio, sono molto più gravi), ai suoli…

Le reali potenzialità di queste esperienze potranno essere valutate in base agli effettivi risultati, e in base alle difficoltà che incontreranno. Si intravede però un’analogia con la rivoluzione verde, che ha permesso l’insediamento dell’agricoltura industriale – a scala mondiale – nelle aree pianeggianti più fertili, e ha devastato gli ambienti collinari e/o poveri. È probabilmente nei contesti agrari ecologicamente meno sbilanciati che queste strategie daranno il meglio, mentre gli altri saranno lasciati nelle grinfie dei pesticidi. I fattori discriminanti sono altri, ma anche qui non si può astrarre dalle potenzialità e dalle problematicità delle singole aree agricole per le singole colture. E anche qui c’è una acritica e non contestualizzata fiducia nelle tecnologie (in questo caso le nuove tecniche genomiche, l’intelligenza artificiale, e gli strumenti di precisione spaziale).

 

GLI INNEGABILI SUCCESSI DELLE AGRICOLTURE ECOLOGICHE

L’agricoltura biologica è invece una realtà di fatto, che ha dimostrato di poter produrre negli ambienti più diversi senza pesticidi di sintesi (diventa pretestuoso mettere l’accento solo su qualche composto più problematico che è consentito dalle legislazioni), senza concimi chimici e limitando drasticamente i danni ai suoli e all’ambiente. Il suo successo – con superfici più o meno ragguardevoli negli ambienti più diversi – indica una via percorribile nell’immediato, senza investimenti da capogiro, e anzi nella morigeratezza di materie prime e energetica. Si sottovaluta l’enorme peso di questo periodo di prova che ne attesta la fattibilità, quando non molti decenni orsono le accademie agronomiche dei vari paesi la consideravano all’unisono completamente velleitaria.

Ma certo per agricoltura biologica si può intendere anche il semplice rispetto – con strategie solo economiche e di mercato – dei limiti di legge delle regolamentazioni, ignorando la filosofia di base. E pensando che le leve disponibili si limitino al rispetto, con più o meno scaltrezza, delle normative. Oggi l’agricoltura biologica è anche questo, con una visione (anti)ecologica che è assimilabile a quella dell’agricoltura convenzionale, anche se le sue tecniche colturali sono meno impattanti. Lo sanno bene le sue stesse organizzazioni nazionali e internazionali. Per tagliare la testa al toro, si potrebbe usare il termine di agroecologia, se non fosse che anche questa etichetta viene sempre più spesso scippata per sistemi colturali ben lontani dai fondamenti della tradizione agronomica con una visione olistica.

Senza perdere tempo a questionare sui termini, credo che il comparto biologico e delle agricolture ecologiche debba continuare per la sua strada. Con la fierezza dei risultati raggiunti, in termini di superfici coltivate, di parti del mercato, di tecniche messe a punto, di crescente validazione dei principi di base, di consapevolezza dei consumatori, di affidabilità dei metodi di controllo. Ai quali aggiungerei ora anche quest’altro enorme risultato, che proprio tali iniziative dimostrano: anche l’agricoltura convenzionale sta rendendosi conto, trainata a ben guardare dal suo esempio, che bisogna agire su più leve. In altri parole essa è costretta a cominciare a rinunciare alla visione completamente miope che l’ha caratterizzata per una ottantina di anni: si tratta di una apertura di paradigma che non va sottovalutata. Del resto sono anni che osserva l’agricoltura biologica, e copia da lei tecniche e astuzie. Certo lo fa a modo suo, incallendosi a pensare che l’uomo tutto possa e tutto possa sottomettere, e con un immotivato e irrazionale culto delle tecnologie, quasi queste potessero palliare ai danni della completa cecità ecologica. Mi sembra pur sempre una forma di ammissione di impotenza, se non addirittura – a essere ottimisti – l’inizio di una svolta epocale.

Forte dei suoi innegabili successi, l’agricoltura biologica deve quindi continuare per la sua strada, migliorando le sue tecniche e i suoi saperi, badando a non perdere per strada i suoi fondamenti, e anzi rimettendoli al centro della sua pratica. Con la consapevolezza che purtroppo non ci sono scorciatoie: la natura è maledettamente complessa, e le miriadi leve sulle quali dobbiamo agire se vogliamo smettere di combinare disastri, a ben guardare sono le sue, non le nostre. Gli approcci che rifiutano di prenderne atto inevitabilmente si scontrano con la realtà. Senza chiusure di fronte a queste iniziative parziali, che con i loro limiti vanno viste come estremamente positive (sarebbero altamente auspicabili anche in Italia!), ma rifiutando che vengano utilizzate per continuare – anche solo surrettiziamente – a stigmatizzarla, denigrarla, ridimensionare la sua portata, offuscare la sua immagine, o celarne la capitale importanza per l’insieme del comparto agricolo e alimentare.

 

NdA Questo pezzo è uscito il 29.09.24 sul STORIEDELBIO con il titolo UN’AGRICOLTURA SENZA PESTICIDI MA NON BIOLOGICA? (Leve da azionare vs agroecologia). L’immagine: vigneti del Prosecco (Farra di Soligo).

 

Per Anne Sexton, nell’anniversario della sua morte

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di Rosaria Lo Russo

4 ottobre 1974 – 4 ottobre 2024. Oggi, cinquant’anni fa, moriva Anne Sexton, suicidandosi com’era vissuta, con ironia e strazio, sfarzosità sensuale e tenerezza infantile. Amava tentare platealmente il suicidio circa una volta all’anno e spesso vicino alla data del suo compleanno (il 9 novembre del 1974 avrebbe compiuto quarantasei anni). Ma quel 4 ottobre aveva dato un segnale chiaro che quell’ennesimo tentativo sarebbe riuscito, lasciando gli imprescindibili pacchetto di sigarette e accendino nello studio della sua ultima di una lunga serie di psichiatri e psichiatre. Poi, come è noto, si era denudata, rivestita di una pelliccia lisa ma ancora avvolgente di sua madre Mary Gray, si era seduta al posto del guidatore della sua lunga auto americanissima parcheggiata nel box auto come si usa in tutte le case bene dei suburbs yankee, aveva acceso il motore e respirato il gas. Quando la vide per l’ultima volta l’ex marito accarezzò la sua “Princess Anne”, la Bella Addormentata dell’omonima riscrittura autobiografica della fiaba dei Grimm, che potete leggere in Trasformazioni. Ma lei si sentiva piuttosto “un’ebreuccia nel suo campo di sterminio” (come aveva scritto in Al Sor Decesso che se ne sta sull’uscio), campo di sterminio la sua casa borghese WASP, come per tante casalinghe disperate suo alter ego, un alter ego svuotato ormai, oltre che di senso, di tutti gli affetti dopo il divorzio da Kayo e l’allontanamento delle figlie. Una morte annunciata, come tanti suicidi di poetesse, per inadeguatezza alle aspettative sociali che gravavano sulle donne: la moglie-e-madre fallita toglieva il disturbo, allontanava l’ingombro della sua folle testa poetante di casalinga giullaresca, dove però si sentiva “rinchiusa” come in una “casa sbagliata”, aveva scritto nella “preghiera” Per l’anno della demenza. Quindi una morte-denuncia, come quella di Amelia Rosselli, di Sylvia Plath, tutte donne e poete suicidate dalla Storia (quella di tutti più quella particolare delle donne). Sylvia Plath e Amelia Rosselli, poete infuriate come Sexton, hanno da tempo ricevuto la corretta consacrazione, l’assunzione al ‘canone’, anche in Italia, divenendo finalmente e giustamente classici del secondo Novecento. Sexton ancora no, resta un fenomeno umano e letterario e come tutti i fenomeni è guardata ancora, forse, con un residuo sospetto, come succedeva quando, con il mio co-traduttore di sempre, Thomas Kirk, iniziammo a tradurre i suoi testi trent’anni fa e a cercare un editore ‘coraggioso’. Nel cinquantesimo anniversario della morte di Anne Sexton auspico che i lettori e le lettrici in italiano possano avere quanto prima tutta la sua poesia, la sua attualissima poesia, raccolta in un’opera completa. Che diventi un classico contemporaneo e non più, o non solo, una meteora di diversità femminile eccitante ma temibile, ancora troppo temibile.

 

 

Al Sor Decesso che se ne sta sull’uscio

L’ora si abbuia. L’ora che era lunga
si accorcia l’ora occhialuta e stralunata,
si acconcia la sottana, canta una canzone sdolcinata,
flirta coi ragazzi e gli dà uno strappo,
che nazimamma, l’ora, di crauti e birra,
o me vecchia adolescente, presto si abbuierà.

Ma mi ricordo com’era giovane un tempo
quando giocava a strega maialetta col cerchietto
e ballava con sei maschi tremendi il jango,
quando faceva scappare i polli dal bacchetto
e prometteva di sposarsi Tizio e Caio,
ma non ci pensava poi manco per niente
di ritornar la sera presto al suo pollaio.

Ci fu un tempo che il tempo aveva tempo
e il mare mi lavava con delicata brezza.
Non esiste il terrore quando si nuota nudi
o si va forte in motoscafo e si lancia la lenza.
Ci fu un tempo che col singhiozzo il fiato trattenevo
ma in quell’istante il Sor Decesso non lo incontravo.

C’hai tante maschere, Sor Decesso, grande attore.
Una volta ti eri impomatato un po’ alla Valentino
col gin di mio padre in saccoccia di straforo.
E anche se il mio vitino di vespa stava appeso all’uncino
del tuo lungo braccio bianco, per vertigini cretina,
mai e poi mai, no, non mi ghermiva
il tuo fascino di canaglia truffaldina.

Poi Sor Decesso tu mi hai teso un’esca,
così mi han detto, alla prima défaillance,
spronando la suicidina a festeggiar la sua
nella gran pupazzata grande entrée.
Ne uscivo impasticcata gridando adieu:
un’ebreuccia nel suo campo di sterminio.

Ora la tua birrosa trippa straripa, Dottor Balanzone.
Mentre scorreggi ti saltano i bottoni sul panzone.
Come posso giacermi con te, mio comico Florindo,
che sei così di mezz’età e tanto basso ceto.
Allora tu m’imbusti e tu mi pressi,
perbenino, come una farfalla, tu mi pressi
e per sempre la mia faccia pressata starà
accanto a quelle di Mussolini e il Papa.

Sor Decesso, quando andasti ai forni fu corto,
e cortese altrettanto fosti con l’affogato,
e più carino di tutti col bimbo mio dell’aborto
e fosti così e così anche coi crocefissi tutti.
Ma quando vieni alla mia morte fa’ che sia uno slow,
l’ultima pantomima, l’ultimo porno show,
perché devo ancora una volta provare
prima di potermi davvero spaparanzare
nella mia nera cassapanca nuziale.

 

 

For Mr. Death Who Stands With His Door Open

Time grows dim. Time that was so long
grows short, time, all goggle-eyed,
wiggling her skirts, singing her torch song,
giving the boys a buzz and a ride,
that Nazi Mama with her beer and sauerkraut.
Time, old gal of mine, will soon dim out.

May I say how young she was back then,
playing piggley-witch and hoola-hoop,
dancing the jango with six awful men,
letting the chickens out of the coop,
promising to marry Jack and Jerome,
and never bothering, never, never,
to come back home.

Time was when time had time enough
and the sea washed me daily in its delicate brine.
There is no terror when you swim in the buff
or speed up the boat and hung out a line.
Time was when I could hiccup and hold my breath
and not in that instant meet Mr. Death.

Mr. Death, you actor, you have many masks.
Once you were sleek, a kind of Valentino
with my father’s bathtub gin in your flask.
With my cinched-in waist and my dumb vertigo
at the crook of your long white arm
and yet you never bent me back, never, never,
into your blackguard charm.

Next, Mr. Death, you held out the bait
during my first decline, as they say,
telling that suicide baby to celebrate
her own going in her own puppet play.
I went out popping pills and crying adieu
in my own death camp with my own little Jew.

Now your beer belly hangs out like Fatso.
You are popping your buttons and expelling gas.
How can I lie down with you, my comical beau
when you are so middle-aged and lower-class.
Yet you’ll press me down in your envelope;
pressed as neat as a butterfly, forever, forever,
beside Mussolini and the Pope.

Mr. Death, when you came to the ovens it was short
and to the drowning man you were likewise kind,
and the nicest of all to the baby I had to abort
and middling you were to all the crucified combined.
But when it comes to my death let it be slow,
let it be pantomime, this last peep show,
so that I may squat at the edge trying on
my black necessary trousseau.
(da The Death’s Notebooks, 1974)

 

 

 

 

 

 

La stanza di Élise

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ph. Alec Soth, "Susanne's View", London, 2018. Dalla serie "I Know How Furiously Your Heart Is Beating". Courtesy of Fraenkel Gallery

 

ph. Alec Soth, “Susanne’s View”, London, 2018. Dalla serie “I Know How Furiously Your Heart Is Beating”. Courtesy of Fraenkel Gallery

 

di Michaël Uras
traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo

[Questo racconto è apparso in francese in un volume promosso dall’Unicef dal titolo Un Arc-en-ciel d’émotions, edizioni Le Livre de poche, 2022. La traduzione è inedita].

Élise ha una stanza. E fin qui, mi direte, niente di strano. Avere una stanza, nel nostro paese, è una cosa tutto sommato banalissima. Solo che la stanza di Élise non è una semplice stanza. Innanzitutto, ci passa la maggior parte del suo tempo. È un po’ come una boccia di vetro per un pesce rosso. E sia chiaro che non ho nulla contro i pesci rossi. Anzi. Élise non la lascia mai: le sue giornate passano l’una dopo l’altra e lei è sempre là, stesa sul letto. Ma ci sono anche altre possibilità: Élise sul divano (visto che la sua stanza è abbastanza grande da contenerne uno). Élise per terra, mentre fa yoga. Élise alla finestra che guarda la strada disperatamente vuota. Élise al telefono. Sempre. Dappertutto. Insomma, la stanza di Élise è un posto molto gradevole, morbido e accogliente. Se ci entri, poi non vuoi più uscirne. Anche se magari Élise non c’è. Élise rappresenta una specie di valore aggiunto, ma la stanza potrebbe benissimo vivere senza di lei. Le pareti sono crudeli e più longeve degli esseri viventi. È così. Le pareti della stanza di Élise hanno conosciuto altri abitanti e li hanno presto dimenticati. E si dimenticheranno anche di Élise, quando deciderà di andarsene. È così. Ma non bisogna rattristarsene.

Stamattina Élise è uscita molto presto. Andava di fretta. Per un po’ ha fatto su e giù nella sua stanza, a tutta velocità. Poi è schizzata via. Andava proprio di fretta. Non guardava nessuno. Le persone frenetiche sono esasperanti. Somigliano a quegli uccelli che sbattono forte le ali senza mai riuscire a spiccare il volo. Mi sembra un’immagine perfetta della frustrazione. Non si è neppure presa la briga di ripiegare per bene il pigiama, un coso con un cappuccio di lana che va bene per quando fa veramente freddo. O per quando si è molto tristi e ci si vuole nascondere dal mondo. Prima Élise se lo metteva di rado, poi ha iniziato a metterselo sempre. Eppure non era tanto freddolosa. Uscendo, si è infilata, controvoglia, il suo parka blu. Troppo blu, troppo pesante, eppure così piacevole da toccare.

Quando è uscita dalla stanza a tutta velocità, sua madre le ha gridato «Mi raccomando, non ti dimenticare niente!». Ma Élise non dimentica mai niente. È meticolosa. Certi adolescenti non hanno testa. Così dice sua madre. Ma si sbaglia. Élise la testa ce l’ha. E ha anche lunghi capelli castani, sempre in ordine. Occhi verde smeraldo. Una pelle vellutata. Il grido di sua madre ha rimbombato per tutta la casa. Una vera leonessa! Si direbbe che gridare le piaccia. E che a Élise piaccia far gridare sua madre attardandosi un po’, la mattina, dopo aver tenuto per tutta la notte quel cappuccio così morbido sulla sua testa così bella.
A volte sembra quasi che gli esseri umani si urlino addosso per dirsi che si vogliono bene senza dirlo davvero. È così. Vogliono dire qualcosa ma non ci riescono, non hanno il coraggio di dirlo. Perciò fanno in un altro modo. Prendono un’altra strada. Si sfiorano, si urtano. Ma a volte si perdono. Élise si è precipitata giù per le scale perché sua madre la stava aspettando in macchina. Con il motore acceso. Di certo non se ne sarebbe andata senza di lei. Uno mica abbandona così la sua progenie. Ci tiene!

Élise è risalita di corsa, si era dimenticata il berretto. Non è sempre così meticolosa, Élise! Dov’è il berretto? Ora sua madre sta suonando il clacson. Il rumore di un clacson è il peggior rumore dell’universo. Tutti gli uccelli del quartiere si sono dileguati. Uno sbatter d’ali pazzesco. Tutti gli animali si sono spaventati. Ed Élise non trova il berretto. Butta tutto all’aria, alza una cartellina, niente da fare. Sposta la poltrona. È lì sotto? No! Apre l’armadio, niente neanche lì. Fruga tra i suoi vestiti piegati. Piegati con tanta cura dalla donna che adesso sta suonando il clacson nel garage. Si può suonare forte il clacson e al tempo stesso voler bene a qualcuno con altrettanta forza. È solo un altro modo di dire ti voglio bene, piuttosto particolare.
Il berretto è sotto il cuscino! Ma Élise non l’aveva mica messo lì. Forse si era voluto nascondere. C’era troppo rumore in casa, troppa confusione! Chi è il colpevole? Chi è stato a nascondere il suo morbido berretto? Élise non ha tempo per pensarci. Non ora. Risolverà il mistero al suo ritorno. Nel frattempo pensa soltanto a sistemarsi in testa il berretto che la sua migliore amica le ha regalato per il compleanno, un mese prima della sua scomparsa. Emma. Un berretto bianco. Ben calato sulle orecchie perché fuori fa un freddo tremendo. La neve ha ricoperto la casa e tutte le vie dei dintorni. La notte è stata calma, immobile, senza vita. Tutti si sono messi al riparo. Fuori non c’era neanche un gatto. In quel momento uscire così presto senza berretto bianco sarebbe stata una follia.
Parka blu, berretto bianco. Emma, quando la vede conciata così la chiama Puffo… lo trovano divertente. Ridono e si prendono in giro chiamandosi Gargamella e Birba…
Battute che possono capire soltanto loro. Sfioramenti di parole. E di mani.

In casa, adesso che non ci sono più né Élise né sua madre, torna la calma. È un’oasi di pace in cui è un piacere stendersi vicino al caminetto spento. Nessuno più ci mette un ciocco per tenere acceso il fuoco. Nessuno. Fuori, la neve non la smette più di posarsi sulla strada. E le finestre tempestate dai fiocchi lasciano passare appena un filo di luce. Tutto è addormentato.
In macchina, Élise e sua madre stanno di sicuro parlando ad alta voce. Parlano sempre ad alta voce perché la mamma di Élise ha la brutta abitudine di ascoltare la musica ad altissimo volume. E quindi, per riuscire a sentirsi al di sopra della musica, devono per forza parlare ad alta voce. Le persone che ascoltano la musica a tutto volume evidentemente hanno problemi di udito. O forse, chissà, vogliono coprire il rumore del mondo, evitare di sentirlo, fare come se non esistesse. Le case hanno bisogno del vuoto, di un vuoto che non contempli la presenza di esseri umani. E la casa di Élise dev’essere ben contenta di vederli uscire. Non solo la casa, peraltro. Anche gli insetti e tutto il resto. Ma la loro assenza ahimè non dura a lungo.

Tant’è vero che, a pochi minuti di distanza dalla partenza delle sue abitanti, la porta d’ingresso si apre. Un attimo prima, l’armeggiare di una chiave esitante si era fatto sentire nella casa vuota. Destra. Sinistra. Dopodiché la maniglia, che cigola da mesi, si è come svegliata. Il padre di Élise sembra esplorare un pianeta sconosciuto. Guarda il tappeto, i mobili del salotto e tutti gli oggetti come se non li avesse mai visti. Si ferma davanti a una foto di Élise. Élise e il cane. Un cane che una sera si è presentato alla porta di casa e che i genitori di Élise hanno fatto entrare… proprio loro che in quella casa non fanno mai entrare niente e nessuno, neanche un pacco regalo. Il cane si è sistemato lì da loro e nessuno è mai venuto a reclamarlo. Bisogna dire che il suo aspetto non era dei più allettanti. Il pelo sembrava eternamente bagnato, quando te lo trovavi di fronte avevi l’impressione che fosse appena uscito dalla lavatrice. Zero stile, ’sto cane. Ma Élise gli era affezionata. Molto. Le cose stanno così. Per fortuna un bel giorno il cane se n’è andato, senza dare spiegazioni. Un cane randagio alla fine torna sempre in mezzo alla strada. Proprio come i salmoni che tornano sempre là dove sono nati.

Il papà di Élise prende la foto tra le mani, non vuole rischiare di farla cadere. Preme forte sui bordi della cornice. Poi rimette a posto la foto. Ed Élise. E il cane.
Sale nella stanza della figlia. Lei non c’è. Ma evidentemente lui lo sa, visto che non la chiama come fa di solito. Niente “tesoro”. Né “passerotto”, espressione che Élise rifiuta categoricamente. E non ha tutti i torti. Che piacere c’è nel farsi chiamare così? “passerotto” non è un soprannome che possa far impazzire una ragazza…
È lì in piedi nel mondo di Élise, nel suo minuscolo universo, e guarda ogni cosa con calma, come se volesse portarsi via tutto quanto con gli occhi. Il manifesto del concerto al quale sono andati insieme un anno prima. Era un cantante che non sa cantare e la cui musica riempie la boccia di Élise almeno una volta al giorno. Probabilmente adesso il padre di Élise sta pensando a quella serata memorabile. Erano rientrati tardissimo dal concerto. Élise aveva continuato a canticchiare per un’ora, persino sotto le coperte. Canta meglio di quel cantante, e suo padre gliel’aveva detto l’indomani a colazione. Discussione non facile perché Élise lo adora…
Eppure, di fronte al manifesto, il padre resta in silenzio. Ne accarezza la carta, come se volesse recuperare un pezzetto di Élise. Gli esseri umani a volte fanno cose strane. Meglio lasciarli fare e tenersi a distanza. La mano del papà di Élise è ancora sul manifesto quando suona il campanello. Lui sobbalza. E anche i ragni. Si precipita verso la finestra per vedere chi lo disturba. La persona che sta suonando evidentemente non sa come funziona un campanello, perché il rumore non cessa. Il suonatore, o la suonatrice, tiene il dito premuto. Il papà di Élise si immobilizza come una preda che si finge morta per ingannare il suo predatore. “Non ci sono, non esisto…”.
È come congelato, il povero papà. Fermo alla finestra, quest’omone è lì che prega affinché il suono del campanello gli dia tregua. Lo stesso vale per i ragni e gli altri insetti. E a un certo punto il suono si dilegua nel nulla da cui proveniva. Il papà di Élise, scampato il pericolo, ricomincia a muoversi. Si siede piano sul letto di Élise, come se lei stesse dormendo e lui non volesse svegliarla. Fa sempre così quando sua figlia è malata e lui, di notte, viene a vedere se sta meglio. Si accoccola sul letto, quasi come un gatto. Quasi. Apre il comodino della figlia. Vietato! Vietato! Élise ha categoricamente vietato a chiunque di aprire il cassetto del suo comodino.
Un giorno la madre ha sbirciato tra i suoi piccoli segreti e quella sera è stata un susseguirsi di urla e scenate. “Questa è la mia stanza! Ho diritto alla mia privacy”.
Élise se ne accorge subito quando toccano le sue cose. Anche stavolta se ne accorgerà. Suo papà tira fuori una cartolina dal cassetto e legge ad alta voce la scritta. “Arzachena”. I membri della famiglia hanno pronunciato spesso questa parola prima delle vacanze estive. E anche dopo. “Arzachena”. Era la loro vacanza. E di nessun altro. La vicina si era offerta di venire in casa a intervalli regolari. C’erano tante cose da tenere d’occhio, la posta da ritirare, le piante da innaffiare… era gentile, la vicina, premurosa e seria. Puntuale. E anche dolce. Una voce leggera come una foglia trasportata da una brezza soave.
Il papà di Élise ripone con cura la cartolina e richiude il cassetto. Poi tira fuori una lettera dalla tasca del suo lungo cappotto e la infila sotto il cuscino per evitare che la si possa vedere subito. Non sarà mica facile trovarla. A meno che non lo si sia visto nasconderla. Ma Élise non l’ha visto. Élise sotto la neve, con il berretto calato fino agli occhi. La lettera ha preso il posto del berretto. In una casa come questa non ci sono poi tanti nascondigli.

Il papà di Élise inspira profondamente il profumo del cuscino di sua figlia. Un profumo piacevole come un minuscolo raggio di sole in un giorno di tempesta. Vorrebbe portarlo con sé. Adesso il suo respiro si è fatto più veloce. Nella sua cassa toracica è iniziata una specie di corsa. Guarda l’orologio e si dirige di nuovo verso la finestra. Dopo aver spiato per un attimo la neve che non la smette di cadere, esce dalla stanza. Sul pavimento si vedono ancora le impronte delle sue scarpe. La mamma di Élise gli rimprovera sistematicamente di sporcare il parquet e di renderlo scivoloso, e quindi pericoloso, per gli abitanti della casa. Come darle torto? Ma anche lui le rinfaccia diverse cose. Pari e patta. Élise si sottrae a quelle liti rifugiandosi nella sua stanza. La stanza di Élise.
Suo padre scende giù per le scale e apre la porta per andarsene. Ma, prima di dileguarsi, si volta e si posa l’indice sulle labbra. Silenzio… i ragni non diranno nulla della sua visita.
Un istante dopo, la casa torna a essere pacifica. È immersa nella neve e il suo cuore batte lento. Bisogna essere pazzi per uscire con un tempo del genere. Oppure avere qualcosa di importantissimo da fare. Per esempio andare a cercare da mangiare…
Dalla finestra ogni tanto si vede un passante che cammina svelto per la strada. A testa bassa e col cappello. Neanche un cane.

La quiete dura fino al ritorno di Élise e della sua mamma. Quest’ultima apre la porta a fatica, perché non ha le braccia libere. Regge un tronco d’albero. Élise la sta aiutando a portarlo dentro.
– Stai attenta al muro.
– Sì, mamma.
– Stai attenta alle spine.
– Sì, mamma.
Stai attenta, stai attenta, stai attenta… ma i ragazzi imparano anche dagli errori, che certe volte sono utili.
Le due donne piazzano l’albero in salotto. Sembrano felici. Felici di aver portato in casa un albero pieno di spine. Strana sensazione che spiega quella loro furtiva sortita sul far del giorno. Eppure in casa c’è già un alberello, senza foglie, senza spine, liscio e vellutato. Segue un delirio di gesti scomposti. Di colori. Di oggetti che vengono appesi all’albero senza che l’albero protesti. Gli alberi sono un po’ vigliacchi. Li si può conciare a proprio piacimento. Dopo aver fatto il suo dovere, Élise torna in camera sua e nota le orme che si fermano all’altezza del suo letto. D’istinto, tira via la coperta per sincerarsi che non ci sia nessuno, dopodiché alza il cuscino. La lettera è ancora lì. Élise apre la busta, ne estrae un foglio e inizia a piangere quasi all’istante. Sul parquet cadono lacrime salatissime, silenziose. Lacrime che modificano le tracce che suo padre ha lasciato sul pavimento. Élise si porta il foglio alle labbra.
“Ti voglio bene, papà” ripete più e più volte. “Ti voglio bene, papà”.
Poi abbassa la testa e si guarda accanto alla caviglia. “Ah, se tu potessi parlare… Mi stai fissando in silenzio… ma quindi l’hai visto? Ha aspettato che uscissimo per entrare, vero? Per fortuna ha ancora una copia delle chiavi di casa. Per fortuna. Se solo tu potessi parlare mi diresti quant’era bello. Mi diresti che cosa ha guardato dentro casa, gli oggetti che ha toccato, se ha detto qualcosa, se ha pronunciato il mio nome… ma tu non mi dirai niente. Sono proprio una sciocca.”

No, non sei sciocca, Élise, ma hai proprio ragione: non dirò niente, non parlerò… perché io non posso parlare. Su questo non c’è alcun dubbio. Né con te, né con nessun altro. Rimarrò un testimone muto. Muto come un pesce… O, meglio ancora, come un gatto! Che è poi ciò che sono.

 

La sostanza degli arti mancanti

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Foto di Justus da Pixabay

di Elena Nieddu

Il Ponte crollò mentre stavano costruendo la mia casa.

In quel tempo, quasi ogni giorno, l’architetto e io andavamo a scegliere cose nei capannoni della valle, parallelepipedi prefabbricati, piatti e larghi, cresciuti negli anni lungo il greto del torrente, abbracciati da strade che nessuno si sarebbe mai sognato di percorrere a piedi.

Migravamo da un posto all’altro passando in rassegna mattonelle, parquet, vernici, lampade. Concludevamo il tour nel magazzino più grande, quello dove si vendevano certi mobili nordici, con linee pulite, adatti a vite a basso voltaggio.

Il negozio, un capannone blu e giallo, si trovava accanto al Ponte. Lo visitavamo come se fosse stato un museo, dissipando energia nei singoli ambienti ricostruiti a immagine e somiglianza di abitazioni plausibili. Ci fermavamo a metà percorso per mangiare un boccone; assaporavamo polpette e purea, mentre ascoltavamo le macchine che sfrecciavano sulle tre lettere “A” del Ponte prima di sparire nella galleria che le avrebbe sputate altrove, lontano.

Lo facemmo anche il giorno prima che il Ponte crollasse. Era una domenica di sole, sotto Ferragosto. La gente affollava le spiagge, lasciandosi percorrere da un brivido afoso e umido. Noi, invece, ci godevamo l’aria condizionata, molleggiando stancamente fra le camerette, i soggiorni pieni di imperfezioni create ad arte per far sembrare più veri gli ambienti. Quelle tracce di vite immaginate mi facevano desiderare una vita vera, con scatole di plastica traboccanti di pelouche, vassoi pieni di biscotti, giornali spiegazzati lasciati lì a ingiallire. Invece, la casa che stavamo costruendo sarebbe stata bella, enorme e vuota. Un’occasione sprecata. Così pensavo, mentre sul Ponte le onde di auto si srotolavano pigramente e si frangevano morbide nel tunnel e la loro eco, amplificata, vibrava nei timpani assieme al chiacchiericcio dei pochi clienti.

Mi sembrava di sentirla ancora, l’eco delle auto, quando tornai al negozio per ordinare la cucina nuova. Una delle tre “A” del Ponte si era inginocchiata sul letto del torrente, arresa al suo stesso peso, ma il rumore del traffico fluttuava ancora nell’aria. La seconda “A”, sospesa sul vuoto, sembrava una cavalletta con il muso di una salamandra, dotata di più lingue biforcute, pezzi di guard-rail e cavi elettrici, mentre la terza manteneva, con la sua fermezza, una parvenza di normalità. Dal ristorante del negozio non si vedevano i pezzi esanimi di asfalto grigio venato di giallo e bianco, tranne che da un’unica posizione, in fondo alla sala. Il posto era occupato da un ragazzo sui trent’anni, che guardava fisso davanti a sé. Sulla sedia accanto, aveva appoggiato un grosso casco nero, assieme a uno zainetto. Dava le spalle al centro del locale, semivuoto, fissando il Ponte, in direzione contraria rispetto a tutti gli altri avventori, accomodatisi in modo tale da evitare quella vista.

Da lontano, l’architetto e io guardavamo il ragazzo, ben sapendo che avremmo dovuto chiamarlo uomo. Osservavamo la sua schiena eretta, la nuca di carne bianca e i capelli castani tagliati molto corti, e il gomito destro che sporgeva dalla silhouette, ritmicamente, a brevi intervalli. Quando ebbe finito il pranzo, la figura restò immobile; il profilo della testa, buio, contro la luce abbagliante della vetrata.

«Guarda quello», disse l’architetto, infilzando un dolce ai frutti rossi.

Mi voltai proprio mentre il ragazzo si stava alzando. Gli occhi azzurri, grandi e vuoti, si allargarono tutt’attorno, senza vedermi. La bocca statica, inerme, era quella di un efebo. La malinconia che gli piegava le guance era familiare: pensai di conoscerla, ancor meglio della mia.

Tornai nel negozio da sola, dopo un paio di giorni. Le lingue biforcute pendevano sempre dal Ponte. Nel greto del torrente erano iniziati i lavori. Il ragazzo era ancora là. Oltre la sua sagoma, al di là dei vetri, gli occhi azzurri fotografavano qualcosa che io non vedevo. Le immagini innescavano pensieri che non potevo indovinare. Cominciai a fantasticare di interrogarlo; di sedermi al tavolo di fronte a lui, lateralmente, per non dargli fastidio, appoggiare il vassoio del pranzo in modo da farlo confinare con il suo, solo per un angolo, un minuscolo punto di plastica. Attaccare discorso e ascoltare le sue rivelazioni. Rimanere lì a parlare per tutto il pomeriggio, sotto le luci a led, cercando di capire se la nostra, la sua tristezza, fossero davvero un male incurabile.

Bastò molto meno. Fu sufficiente sedermi e guardarlo, come a un tavolo di dissezione. Vedevo l’umore bianco della sua iride accordarsi al candore della camicia estiva e illuminare il profilo di un bagliore glaciale. Ruotò il viso dalla mia parte e incominciò a raccontare. La voce uscì da un tempo lontano, increspata dal lungo silenzio.

«Ero là sopra, la sera prima» disse, indicando con il mento il relitto del Ponte. «Alle due di notte. C’era qualcuno accanto a me. Il vino, il caldo, il sonno. Temevo di sbagliare strada, come era accaduto a mio padre». In fondo al Ponte, raccontò, c’era uno svincolo complicato: era facile mancare l’uscita giusta. Bastava un attimo di distrazione e ci si ritrovava in stallo, lambiti dal flusso delle auto, protetti solo dalle linee bianche spartitraffico, senza riuscire più ad andare avanti, né indietro. Seduto sul sedile posteriore di una Fiat 127 verdognola, il ragazzo, che all’epoca era soltanto un bambino, aveva vissuto con vergogna l’arrivo della polizia stradale e osservato il rossore crescente sulle guance del genitore. Da quel momento, quando percorreva il Ponte non aveva altro pensiero che il non sbagliare, non sbagliare, e anche nella vita era sempre stato ossessionato da quella direttiva: non sbagliare.

Invece, aveva sbagliato tutto. Non era stato attento. Nemmeno la sera prima che il Ponte crollasse aveva prestato attenzione: «Avrei potuto sentire qualcosa, salvare delle vite». Rimasi in silenzio, dubbiosa. «I presagi ci sono sempre, siamo noi a non saperli leggere». Si fermò per bere un sorso d’acqua da un bicchiere di plastica e continuò. «Alla mia vita è accaduta la stessa cosa» disse «avrei dovuto capire che stava crollando». Un sogno, mi disse, lo aveva avuto anche lui. «Quello più banale: una famiglia, dei figli. Sarebbe bastato così poco: guardarlo tutti i giorni. Fare qualcosa per lui. Dedicargli delle attenzioni. Riconoscere la sua grandezza. Invece, l’ho lasciato andare».

«Mi avevi già notato, vero? Lo so, sembro un po’ strano. Anche loro lo pensano. Le signore al bancone, ridono di me. Dell’uomo che guarda le macerie. Pensano che abbia una rotella fuori posto, o che sia un voyeur, un turista del dolore. Da piccolo amavo le rovine. Mi piaceva aggirarmi fra le pietre che avevano retto civiltà magnifiche. Per mano a mio padre, ascoltavo le storie raccontate dalle guide e inventavo mondi nei quali ero un uomo potente. Ma, un giorno, improvvisamente, scoppiai in lacrime. Mio padre lo ricorda ancora: eravamo in Scozia, tra le rovine del castello di Urquhart. Mentre le acque del lago si agitavano, sentii per la prima volta il lamento delle pietre. Vidi ribollire in me il dolore, tutto quel dolore, in un essere così piccolo. Mi accompagnarono fuori dal percorso, ma continuai a piangere, senza più voce, tra le gocce di pioggia». Specchi di una tristezza adulta, pensai. Presagi. «Quel giorno, decisi che avrei costruito: ponti, strade, case, castelli». La curiosità, venata di desiderio, che pure sentivo nascere, era paralizzata da quella disperazione compressa. Qualunque sentimento debba aver provato, mi dissi, lo ha menomato per sempre.

«Ti chiederai cosa c’entri tutto questo con me» disse. «Vedi, i mobili della nostra casa – rossi, turchese e bianchi – Marianna e io li avevamo comperati qui. Questo ci rende uguali a molte altre coppie di questa e di mille altre città. Ma noi siamo nati qui, ci siamo conosciuti proprio a questo tavolo. Era seduta dove sei tu, adesso, di fronte a me, un po’ di lato. Venivo qui per guardare il Ponte, per dirmi: un giorno ne costruirò uno anche io. Sai come succede, no? Una chiacchiera, un’altra. Una battuta, un po’ di sarcasmo sulla gente qui attorno. Come gli studenti che la sera si preparano una pasta aglio e olio e pensano di avere il mondo in mano. O la coppia di anziani che si sente ancora giovane, nella cucina giallo limone, in una casa pagata per tutta una vita e ora cadente».

Rimase a lungo in silenzio. Puntò i gomiti sul tavolo e affondò il mento tra le mani. Ne approfittai, per stendere un avambraccio sul tavolo, parallelo al vassoio. Il mio corpo si allungava verso di lui. Sembrò non accorgersene.

«Ho divagato» aggiunse, come risvegliandosi «capita spesso a chi non parla mai con nessuno».

«Che cosa è successo, poi?».

«Che cosa vuoi che sia successo?» rispose «abbiamo iniziato a vederci, finché lei non è venuta ad abitare da me. Ha voluto cambiare tutti i mobili: una nuova vita, diceva. Solo che i mobili nuovi non sono bastati».

Giorno dopo giorno, sono passati gli anni, mi raccontò.
Strisciando, la vita si infilò tra di loro.

La casa arredata di fresco, pian piano, ingiallì e annerì. I mobili colorati diventarono la cinica allusione all’assenza di un bambino. Uno strano disordine, disse, aleggiava dappertutto, come le ragnatele di polvere sugli angoli del soffitto. Le parole scomparvero dalle loro cene, così come i baci della buonanotte, rintanatisi in chissà quale inferno freddo.

«Mi aveva derubato dei miei sogni» disse il ragazzo «iniziai a disprezzarla».

Mi accorsi che la sua voce era diventata più profonda. Guardò fuori dalla finestra, verso il Ponte, verso il greto del torrente dove le ruspe gigantesche cercavano, appianavano, scavavano, livellavano. «Lei è qui» disse infine «come uno spirito buono. L’ultima volta la vidi sulla porta di casa nostra, con una borsa sulle spalle e un tappetino viola da yoga. Mi salutò sulla porta, scese di corsa i gradini che dividevano il “dentro” dal “fuori”, che separavano la mia Marianna dalla Marianna di tutti. In quel presente lei era: viva, carne ardente, polmoni, fiato di spezie, voce. Lei sapeva, io no, che ci saremmo persi».

Osservò lo spazio attorno a sé. Gli occhi, sgranati, sembravano dipinti.

«La vidi scendere quei gradini senza provare alcun sentimento. Chiusi la porta con forza, ma il rumore venne quasi coperto dalla suoneria del mio telefono cellulare, proveniente dalla stanza accanto. Mi precipitai a rispondere. Dopo anni che chiedevo una promozione, mi veniva offerto di aprire una sede all’estero. Prendere o lasciare. “Subito”, disse il mio capo. “Prendo”, risposi”.

Passarono le settimane, colarono i mesi, raccontò. «Di lei, dei suoi pensieri, non seppi più nulla. Una sera, un comune amico mi mandò una fotografia di una festa di compleanno. C’era lei, in mezzo a tanta gente. Era di spalle, aveva i capelli rasati. Non so neanche perché, le mandai un sms: “Cambiato look?”. Mi rispose con una faccina sorridente».
«Volavo avanti e indietro» continuò «su quegli aerei mi trasformavo. Cercavo un altro me, diverso da questo che ha le mie mani e i miei occhi ed è solo».

Nella sala eravamo rimasti noi due. Il tempo del pranzo era passato. I tavoli odoravano di detersivo e si preparavano ad accogliere singole tazzine di caffè.

«Vedo me stesso all’aeroporto di Manchester, o forse di Buenos Aires, con un computer portatile sulle ginocchia, mentre lavoro. Voglio ignorare Marianna e fare finta che mai sia esistita. Mi vedo nel cielo, sulle nuvole senza meta, senza un indirizzo in tasca, a parte quello di un hotel. Avanti così per mesi. Finché un giorno, lassù nell’atmosfera, sento una morsa che mi chiude il petto. Era lei, Marianna. Era accanto a me. Potevo sentirla, anche dopo averla tagliata via da me».

«L’aereo non fa neanche in tempo ad atterrare, che sono già al portellone, con il cellulare in mano. La Butte e Notre Dame mi guardano da poster troppo belli per essere realistici, mentre corro, più in fretta che posso. Mi fermo davanti al nastro pieno di valigie colorate per accendere il cellulare, che ad agganciare la linea impiega un’eternità. Intanto, l’impazienza cresce: so di doverle mandare quel messaggio. Vorrei dirle: torniamo assieme. Invece scrivo: stai bene? Il messaggio parte, vola, viaggia, atterra, viene letto. Nessuna risposta».

«Così arriva la vigilia di Ferragosto. Mi sveglio in una stanza che non riconosco subito. Non c’è luce, sembra il giorno dei morti. La pioggia insistente, fuori dai vetri, velati da una patina di polvere. Il lenzuolo prende una curva dolce, una parabola: non sono solo. Accanto a me, sulla destra, una cascata di capelli scuri in morbide volute. Sulla sinistra, su un tavolino quadrato, come quelli che vendono qui a pochi euro, il mio orologio dorme acciambellato, vicino al cellulare. Mentre lo sto guardando, il telefono si mette a vibrare. La scritta bianca sul nero dello sfondo traccia un nome che credevo di avere dimenticato, quello della madre di Marianna. Incredulo, striscio con il dito sul vetro gelido per rispondere, incollo l’orecchio a quella lastra liscia e indifferente. Mi concentro per ascoltare quelle parole, così come la sera prima sul Ponte cercavo di non sbagliare strada. Ascolto, con la guancia che diventa calda finché, a un certo punto, non riesco a sentire più niente, perché centomila sirene suonano all’unisono, diventando più deboli man mano che si allontanano. La donna accanto a me si è svegliata, è seduta sul letto, il lenzuolo le incornicia i fianchi. Mostra lo schermo acceso del suo telefono. Ha i capelli bagnati e le labbra livide. Dice soltanto: “È crollato il Ponte”».

Un silenzio vero cadde fra di noi, inquinato dal clangore di pentole dalla cucina. Guardai il viso del ragazzo, aspettando le lacrime. Invece lui chinò la testa. Allungò le braccia sul tavolo davanti a sé, arreso. Svuotò i polsi di ogni forza e restò immobile, le mani chiuse. Nell’incavo del palmo destro sentii un’onda di elettricità: un istinto antico. Ne ascoltai attentamente le vibrazioni, valutandone la sostanza. Infine, assecondai le dita, che si spinsero in avanti, impavide, attraverso un deserto d’aria.

Tribunale di Milano, 9 novembre 2022

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Il 2 ottobre 2024, a distanza di circa due anni dalla condanna in primo grado per associazione a delinquere, presso il Tribunale di Milano avrà luogo l’appello del processo a carico del Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio. Come manifestazione di solidarietà con le persone imputate e con la loro lotta, presento una serie di testi da Parte Lesa di Massimiliano Cappello (di prossima uscita per Arcipelago Itaca), un libro che è anche un “atto preparatorio” ispirato a quell’esperienza di lotta e ai suoi strascichi giudiziari. (rm)

 

 

Di Massimiliano Cappello

1.
Le scale del palazzo della legge, i tentativi goffi dell’addetto con il metal detector di strappare un sorriso o la voglia dalle ossa, il poco che ci vuole a non capire più nulla, a saperla di nuovo lunga (queste sono le ore diciassette, io sono vivo, tutto quanto esiste, ma se non sai, ti prego, non capire),

e il Merlo che ha lasciato il tascapane al bar, che allampanatamente corre via dalla scena non punito, salta a tre a tre i gradini del giudizio, potesse perdersi dentro alla selva che dà sul corso di Porta Vittoria, riunirsi al Cane, all’Orso, al Lupo, al Gatto e via, al naviglio, picarescamente, scorrazzando poi per le campagne o per le pubbliche vie, gli associati,

dimentichi di un sé fatto di carte, vincolato a quest’aria ineludibile, prescelta, impresso in obblighi, contratti, effigi, una grigliata sul fiume ogni tanto, verità poca ma tutta per loro, sì, era questa la compagneria della vita, ma è tardi ormai per fingersi, quanti lacci d’amore o della sorte li hanno avvinti. In questo rogo senza bruciamento di che credere di essere viventi?

Se lo ripetono spesso, nonostante il rancido, il narcotico, in questo andare
sempre verso un altro, un non-esistere.

 

 

 

 

2.

Segna la cattedrale della storia quotidiana del mondo, dei pezzenti ormai andati a male o incattiviti che giovano alle richieste di budget delle polizie, dei timorati col tarlo della cessione del credito che chiedono soltanto di morire ma in codice. Segna il vuoto portante, esistenziale e quasi fondativo per questa classe di ex sotto-humani che ora perimetrano il colonnato, si scaccolano, mettono la squadra al fantacalcio, mi segnano l’aula

 

 

 

 

3.

Sappiamo cosa significa questa liturgia, anche se non possiamo capirla quibus operibus beatam vitam quibusve aeternam poenam mereantur in questo turbinio procedurale siamo vorticati, fedeli a quell’amore che porta sfortuna. Oltre il cancello loro sui banchetti senza l’inginocchiatoio l’altare cattedra dove assittate inquisiscono le toghe come un solo blocco nero gli astanti ignobili sodali opposti la luce livida lateralmente risucchia via non so se uno spiraglio e come da un soffitto fa convergere come da un oculo sembra affacciarsi il giudice e la corte giubilando in una marcescente apoteosi

viene proferito il verbo e l’evento avviene
nessuna pace è dunque possibile

 

 

 

 

4.
Ripristinato il pubblico servizio dopo l’interruzione inevitabile contiamo due ulteriori cartellini gialli per proteste e un porci bastardi rispetto alla questione, quando siamo giunti ormai al trentatreesimo del primo tempo. Levandoti dal viso i duri veli (sennò poi ti viene un malanno) ho capito che solo a buttare la chiave è galera, altrimenti è una vacanza, parrebbe. Quanto dice delle nostre esistenze imprigionate, che senza martirio o tortura è davvero inaccettabile divincolarsi dall’umiliazione

 

 

 

5.

Vi prego dunque, cari, accordiamoci: sono per noi gli stuzzichi e il prosecco nel bar del tribunale e degli sbirri, la fila per il pane quotidiano, la bocca cucita col fil di ferro, una sottospecie di brutto sogno e semipopolato di affezioni e incartamenti, di amicizie logore ma mai insuperbite nel negativo non sviluppabile di questo mese non ancora propriamente iniziato, come del resto il computo del tempo vero spillo di una mortalità promessa miserabile di fine della distrazione e della vaghezza. Eppure tristemente lieta temo di accedere a una psiche cittadina. Ce lo avevano detto che il mattino finiva per sempre, non lo sapevi? E anche di non flirtare con l’epica, perché è una fiamma strana che sublima tutto di luci già viste. Se hai fatto l’alba non la puoi scordare, ma nemmeno dire cosa voleva dire

(che eravamo
insieme, forse)

 

 

 

 

Circostanze attenuanti e aggravanti

Nel linguaggio giuridico, parte lesa designa il soggetto offeso nei suoi diritti da un reato in quanto titolare del bene tutelato con la norma. Il suo equivalente generico è la vittima, e diviene tale nel momento in cui presenta la querela con la quale chiede che i colpevoli siano perseguiti penalmente. Ne delicta remaneant impunita: era il vecchio motto di Innocenzo III, patrono della crociata catara e ispiratore dell’Inquisizione, che nel 1199 aveva equiparato l’eresia alla lesa maestà. Oggi, quando un Ente pubblico si costituisce parte lesa (per fare un esempio fra i tanti possibili), tutto ciò risuona impercettibilmente. In realtà è una vecchia storia, quella che oppone díke e nómos, legge divina e legge umana: non ne vedremo la fine – non oggi, quantomeno. Oggi, però, è sempre più difficile capire di che offesa si tratti, di quali diritti. Chiunque sa quale ipoteca gravi su ogni nostro gesto, ma preferiamo non parlarne. Se le esperienze personali contano ancora qualcosa, se sono ancora immagine di quelle collettive (e viceversa), è forse proprio per la loro quasi-assenza, e per la minaccia che incombe su di loro persino nella più umiliata delle sopravvivenze. Per quanto ciò possa suonare ingenuo o arcaico, bisognerebbe mantenere il proprio cuore ardente non benché, bensì perché le cose intorno agghiacciano.

 

 

 

 

 

Gianluca Didino: « fuggivamo dal regno dei morti»

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Esce oggi per Tlon edizioni La figura umana. Friedrich, il contagio romantico e l’apocalisse di Gianluca Didino.

Ne ospito qui un estratto in anteprima.

 

***

 

Ho desiderato lasciare il mio paese natale da che ho memoria. Non ha nulla di tremendo: ora che abito lontano da quasi vent’anni sono contento di tornarci a Natale e per le vacanze estive. Ci sono due laghi e colline di faggi. In poco più di un’ora raggiungi Milano e Torino, le montagne, il mare e la Svizzera. Da ragazzino mi piaceva la sua pianta romana con i quattro corsi che si intersecano al centro, mi sembrava un mondo chiuso, una specie di mandala. Ho ancora degli amici e dei ricordi, alcuni belli.

Eppure se ripenso alla mia infanzia sento sempre questa sensazione, come se l’esistenza fosse fatta di sabbia e mi stesse sfuggendo tra le dita. Era – è – qualcosa di fisico, una vibrazione che si fa più intensa da qualche parte tra lo stomaco e i genitali. Mi sentivo spesso soffocare: lo stesso mondo chiuso che mi forniva protezione mi succhiava l’aria dai polmoni. Fin da piccolissimo mi innamoravo spesso, soprattutto di ragazzine tedesche conosciute al mare che non avrei rivisto mai più. Avevano nomi esotici: Micaela, Elke. Li collezionavo. Collezionavo anche figurine di animali, minerali, imparavo i nomi delle piante sui volumi rilegati in tela rossa dell’enciclopedia Conoscere. Sognavo i grandi spazi del West americano, volevo essere un pioniere e dormire nel fango. Da adolescente camminavo per ore nei boschi dietro casa, intervallati da sfasciacarrozze e campi di granturco marcescente. Quello struggimento non mi abbandonava mai. A modo suo era un’allucinazione, ma cos’è la vita se non un’allucinazione?

Questa era una domanda che non mi ponevo mai, perché all’epoca non pensavo di essere sotto l’influsso di qualche potere esterno. Lo struggimento era così connaturato alla mia esperienza da farmi credere che non fosse possibile un altro modo di esistere, o almeno che questo modo di esistere fosse inscindibile dalla mia natura: io sono lo struggimento. Tutto cambiò un giorno di marzo del quarto anno di liceo, verso le dieci di mattina.

Era l’ora di filosofia. Eravamo quasi alla fine del secondo volume del sussidiario di Abbagnano e Fornero, quello che andava dall’Illuminismo a Hegel. La primavera rendeva attraente il color verde oliva delle pareti e l’odore di sudore delle mie compagne di classe. Fuori dalle finestre socchiuse c’era un vento che non si vedeva, una morbidezza nell’aria. Il mio sguardo era rimasto impigliato tra le montagne azzurre oltre i confini del paese.

Il Viandante era stampato a pagina intera sotto la scritta IL ROManTIcISMO. Altre montagne azzurre. Un altro orizzonte, ma in fondo lo stesso.

L’avevo già visto? Probabilmente sì, e probabilmente non lo ricordavo. Per gli gnostici ogni illuminazione è una memoria perduta.

Amavo la filosofia, era una delle mie materie preferite, ma non mi era mai capitato prima di riconoscermi in maniera tanto totale in una corrente di pensiero. Il fatto che l’ultimo appartenente a quella corrente fosse morto due secoli prima aveva qualcosa di macabro. Eppure quelle voci di morti parlavano a me, parlavano di me: Sehnsucht era il nome della mia malattia, esotico come i miei amori estivi. Da quanto tempo ero malato senza saperlo? Si poteva guarire? Volevo guarire?

Fu a quell’epoca che io e S. diventammo amici. Ci incontravamo la sera nella taverna di casa sua complottando la grande fuga dal paese. Facevamo piani grandiosi, senza ritegno: avremmo vissuto a New York, a Berlino, saremmo diventati artisti. Il nostro era un matrimonio di convenienza: S. era più edonista di me. Io non volevo il piacere, quando lo incontravo lo rifuggivo. Eppure lo bramavo. Più di tutto volevo quei nomi perduti: Micaela, Elke. Li volevo e volevo che rimanessero perduti. Volevo perdermi nella natura. Avevo strappato la riproduzione del Viandante e l’avevo appesa sopra il letto della mansarda in cui dormivo. Quell’estate, nel caldo umido dell’adolescenza, il tubare delle colombe mi chiamava a un’avventura. Guardavo l’uomo di spalle, il grigio scuro del suo cappotto che assorbiva la luce, il grigiazzurro vago delle montagne. L’uomo era un buco nero. L’orizzonte era irraggiungibile.

Come il soggetto vittima di autoscopia incontra se stesso sotto forma dell’altro, o forse l’altro sotto forma di se stesso, scoprire che i miei pensieri non erano originali era allo stesso tempo minaccioso e rassicurante. Se la Sehnsucht non era mia, allora doveva venire da qualche parte, ma da dove? Chi aveva deposto il seme di quell’idea nella mia testa, e quando? Una seconda crisi dell’adolescenza si stava prefigurando sotto forma di spersonalizzazione: se ciò che credevo essere solo mio non era mio, cosa restava di me? Allo stesso tempo, però, sapere che stavo camminando su una strada già tracciata aveva i suoi vantaggi: senza che avessi mai osato chiederla, mi veniva fornita una mappa per interpretare le mie emozioni, un codice per decifrare il crittogramma del futuro. Sapere che il viandante non ero io mi permetteva finalmente di diventare il viandante.

S e io ci aggiravamo per i corridoi del liceo come la cellula eversiva di un partito politico composto di due persone. Fumando sigarette sulle scale, all’uscita da scuola, guardavamo i genitori che venivano a prendere i nostri compagni con auto costose su cui riversavano il loro desiderio mutilato. Quei quarantenni invecchiati anzitempo, intrappolati in una routine mortale di partite di calcetto il giovedì e amanti contrabbandate nei viaggi di lavoro, erano tutto ciò che non volevamo diventare. Fu così che facemmo l’uno all’altro la promessa tacita che ci avrebbe legato per i decenni a venire: avremmo continuato a camminare verso l’orizzonte e – siccome fuggivamo dal regno dei morti – non ci saremmo guardati indietro.

Esca

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Foto di Владимир da Pixabay

di Ilaria Grando

Ti portava a pescare la domenica pomeriggio.

Te ne ricordi a Marsiglia il sette d’agosto, un giorno di nebbia. Nel vuoto, cammini. Stai attenta a seguire le linee del marciapiedi. Sulla Promenade che dalla spiaggia ti riporta al porto, vedi un uomo gettare la canna da pesca in acqua. Il cestino con le esche lo tiene poggiato di fianco, per terra. Attorno, gli trottano due bambine, bionde. Hanno i capelli raccolti in piccoli codini. Son vestite con magliette e leggings colorati. Ai piedi portano sandaletti di gomma, e in mano secchielli con disegnati su dei cartoni animati.

La canna si muove. Il padre la stringe. Le bambine saltellano. TIRA, TIRA, TIRA!

Dalla nebbia, un pesce. Il padre lo afferra, toglie l’amo, lo getta in uno dei secchielli. Dentro, ad accoglierlo, altri cinque piccoli pesci, suoi fratelli. Lo guardi battere la coda in un ultimo guizzo. Morirà una morte lenta. Morirà una morte senza elementi. Senza acqua e senza ossigeno. Senza terra e senza fuoco. Morirà una morte di plastica. Crudele.

Appioppi la parola all’uomo e a quelle sue bimbe e tiri dritta.

I pesci non vanno lasciati a morire così, vanno battuti forte con il legno.

Crudele.

Papà ti spiega come uccidere la domenica pomeriggio. Hai 10 anni. Attraverso i tuoi occhiali da vista tondi, lo guardi preparare le esche chiuso in una giacca a vento rosa e verde. Nell’ago appuntito infila un verme vivo. Il verme sguscia tra le dita, si agita. Ti chiedi se senta dolore. Papà prende un pezzo di una pasta bianca brillantinata, ne fa una pallina, e la infilza su per l’ago accanto al ventre squarciato del verme. Servirà a fermarlo, spiega, e attirerà i pesci. Gli occhi nocciola, si ingrandiscono dietro le lenti.

Ai pesci piace il luccichio. Piace anche a te. Prendi un po’ di pasta, te la rigiri fra le mani. Papà dice che ne fanno di colori diversi, la prossima volta al negozio a scegliere sarai tu. Le dita si coprono di brillantini colorati. La morte diventa un gioco.

Papà comincia a passare le domeniche al laghetto. Lo accompagni quando hai voglia. Quando non hai i compiti, quando non hai danza, quando mamma, che siederà tutto il tempo con un libro su una panchina, decide di venire con voi, quando papà ha le gare. Della pesca conosci gli strumenti: la canna (sottile), il filo (trasparente), la pasta (colorata), i vermi (vivi), il coltellino (svizzero), il bastone (di legno). Della pesca conosci le persone: colleghi di lavoro di papà, cappellini da baseball, pantaloni della tuta, felpe. Della pesca conosci il silenzio: denso come la nebbia, rosso come il sangue. Passi la giornata a preparare le palline, brillantinate. Papà getta l’esca nel laghetto. In lontananza, il suono del bastone che picchia la trota, è distante. Guardi le mani luccicare illuminate dal sole. Ci sarà una festicciola dopo la gara. Papà ti promette un panino con la salsiccia. Unto e pieno di ketchup.

La prima volta che uccidi hai 17 anni. Al campo scout fate i giochi di sopravvivenza. Il vostro cibo, questa sera, nuota in una piscinetta gonfiabile azzurra: due trote in cinque centimetri d’acqua. Dovrete pescare a mani nude. O così, o non mangerete. Le ragazze della tua squadra storcono la faccia. Incarichi le più piccole di accendere il fuoco e con una tua coetanea ti allontani alla ricerca di un bastone.

Morirete una morte veloce. Un colpo secco alla testa.

Quando tornate con la vostra arma, il fuoco scoppietta. Togli gli scarponi, i calzini, entri con i piedi in quella ridicola vaschetta. Foste in un bosco, non lo faresti. Foste in un bosco, morireste. Arrotoli le maniche della camicia azzurra guardandoti i piedi, il tuo presagio di morte per loro. Bene, dici, e senza pensare ti abbassi per immergere le tue tenaglie nell’acqua. In poco tempo afferri la prima trota e la getti per terra in direzione della tua amica, che come un giocatore di baseball, aspetta la sua vittima. Il suono del bastone quasi non si sente attutito dal fogliame. Vi guardate con un sorriso complice. E’ andata.

Per la seconda trota ci metti dieci minuti. Lei ha capito il pericolo e si muove veloce. Sbatte sulle pareti di plastica azzurra come una furia. Sbatte fino a stordirsi. Fino ad arrendersi. Quando la tiri fuori dall’acqua la coda si agita appena.

Esci dalla piscinetta un’eroina. Esci dalla piscinetta una carnefice. Qualcuno ti passa un asciugamano per i piedi, bagnati. Infili i calzini, metti le scarpe, aspetti che la compagna ritorni con i pesci, morti. Quando arriva, mandi le ragazze che hanno preparato il fuoco a prendere altra legna, estrai il coltellino svizzero dal taschino e incidi la pancia dei pesci per lungo. Togli le viscere, levi le squame, infilzi la carne rossastra con uno stecco di legno sottile.

Poi ti sciacqui di dosso il sangue.

Mangerete a mani nude questa sera. Mangerete finché non sarà finito.

Mangerete e vi succhierete le dita.

Vi succhierete la violenza.

Carne e sangue. Carne e vita.

Il cuore del mondo

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di Luca Alerci

Vincenzo Consolo lo incontrai, viandante, nei miei paesi sui contrafforti dell’Appennino siciliano. Andava alla ricerca della Sicilia fredda, austera e progressista del Gran Lombardo, sulle tracce di quel mito rivoluzionario del Vittorini di Conversazione in Sicilia. Era un pomeriggio d’inverno, freddo e livido: solo al tramonto, le nuvole divennero ocra e rosse sfiorate dal sole. Stavamo visitando un piccolo borgo, Villadoro d’Altesina. Parlava molto dei suoi anni milanesi, i primi, dei suoi studi di giurisprudenza. Discuteva con Liborio che non rinunciava neanche in quelle occasioni alle sue iperboli: “Vicì – gli diceva – la mia casa è il centro del mondo.” Lo guardavamo tutti un po’ stupiti, ed era quello che voleva. “Ma è naturale” continuava. “Il Mediterraneo è il centro del mondo, la Sicilia è al centro del Mediterraneo, la nostra città è al centro della Sicilia, la mia casa è al centro della città. Mi pare ovvio, no?”
Consolo sorrideva, con il suo sguardo troppo simile a quello dei suoi personaggi: insinuante ma aperto, acuto ma ingenuo, forte ma delicato.
Sa avvocato?” Così si rivolgeva al mio amico Rino: “Io la invidio. Anch’io avrei voluto continuare sulla strada della legge. Si impara molto nei tribunali, e ancor di più quando si ascoltano le confessioni dei clienti.”
Rino rispose con la consueta arguzia: “si imparano troppe cose, troppe per continuare a voler imparare.”
C’era una grande sintonia tra Rino e il nostro Consolo, la condivisione della passione per la giurisprudenza. Il crepuscolo, intanto, si stendeva lieve sulle strade solitarie: era tardi, bisognava rincasare e accompagnarlo all’albergo. Ma Liborio non voleva, era abituato ad uscire la notte, ad ascoltarla. Io dovevo rincasare per forza. Si decise di rientrare, per quella sera. C’eravamo tutti al rientro: Danila ci aveva raggiunti e con la sua consueta delicata premura, aveva portato il mio piccolo registratore e la macchina fotografica. Avremmo voluto e dovuto realizzare un’intervista, lei che scriveva per Il giornale di Sicilia, ma non so perché la rimandavamo continuamente, forse perché non volevamo in verità fermare sul foglio le emozioni di quelle sere, dei lunghi pomeriggi a spasso tra i monti. Eppure, una cosa Danila riuscì a chiedergli delle tante domande che si era preparata: cosa resta del laboratorio della letteratura siciliana? Consolo ci pensò su e poi le disse: “dipende da voi, dalla vostra generazione”. “Non granché allora – rispose amara Danila – non granché”.

Il giorno dopo quella passeggiata, lo andammo a prendere di buon mattino: ci aveva chiesto di salvarlo da non so quale conferenza o cenacolo organizzato per lui. Troppe parole, troppo rumorose soprattutto. A me dispiaceva in realtà assecondarlo e non perché non volessi continuare a chiacchierare con lui, da soli. Mi dispiaceva però tradire il nostro amico professore che tanto aveva desiderato questi incontri. Alla fine restammo, ma non mancò la possibilità di un’ultima discussione tra noi, all’ombra del duomo. Consolo mi disse: “anch’io sono nato nel Val Dèmone, eppure qui c’è aria di montagna, siete fortunati.” Io gli citai naturalmente Le città del mondo, le descrizioni oniriche di questi borghi osservati dai silenzi della vita nomade di Rosario e del padre, le scene delle fanfare nelle campagne, quasi metafisiche, ma che parlavano invece di lotte dure, di sacrifici, di emancipazione negate o tradite o mai raccontate.
Questa è la mia città – dissi. Mi dispiacerebbe andare via.”
Consolo mi rispose che non c’era più bisogno di andare, non era più come ai suoi tempi. Poi mi disse, a proposito dei discorsi che aveva ascoltato tra noi su Tomasi di Lampedusa: “ho di recente riletto ancora tutto il carteggio di Vittorini e Mondadori. Le sue parole sul Gattopardo sono state sempre travisate o forse neanche mai lette veramente. È piaciuto creare questa contrapposizione. E te lo dice uno che secondo molti ha scritto l’anti Gattopardo (si riferiva ovviamente a Il sorriso dell’ignoto marinaio).”

Nella primavera di quello stesso anno, nonostante mille problemi, decidemmo di andarlo a trovare per invitarlo a settembre in vista di un premio che la mia scuola voleva consegnarli. Era a Siracusa. Faceva già caldo, sulle coste, quel caldo denso che non capirò mai come si riesca a sopportare per cinque mesi all’anno.
Aveva poco tempo, e ci fu solo l’occasione di prendere un tè nel piccolo salottino dell’albergo, a Ortigia.
Ciao Vicì” gli disse Liborio. “A settembre, quando ci vedremo di nuovo da noi, ricordami che ti devo fare avere il bellissimo libro di Michele Anzalone, Favole a Castroforte. Ne parlavamo l’altra volta. Ci sono i protagonisti della nostra città, una città che non è però stata protagonista di nulla…”
Con piacere, certo che mi ricordo”, rispose. “Sai Liborio, c’è una cosa che volevo dirti. Non l’avere a male, ma devo confutare la tua teoria sulla non necessità dell’arte, ma forse ne parleremo a settembre, sei troppo attento ora.” Rise, e noi con lui, perché aveva ripreso una delle illuminazioni di Liborio quando voleva spostare il livello del discorso. Liborio era un grande artefice, creava racconti con la terracotta, la ceramica, il metallo, il legno, piccole increspature sopra la fronte di una statuetta che diventavano narrazioni: qua, qua è il racconto, ammoniva. Era la nostra guida, quando ci raccontava di Guttuso, delle manifestazioni a Roma dove lo chiamavano il Ciciliano, dell’avventura bella e dannata del PSIUP, “dell’acqua d’acqua” a proposito dei suoi esperimenti creativi nelle campagne di Piazza, dei suoi tormenti, ben nascosti tra i sorrisi beffardi.
Non bisogna mai guardare le cose troppo da vicino” continuò Consolo. “Bisogna osservare la vita, raramente parteciparvi.” Diceva così in quei momenti di fronte al livido scirocco sul mare dei Greci.
Doveva andare, e noi rientrare. “Allora, ci vediamo a settembre” disse. “Magari prima venite a Sant’Agata, da me. Voglio farvi vedere il mio mare del Val Dèmone, e poi ce ne saliamo sui monti, a guardare il cielo da vicino.” Furono strane parole.
Ma quel settembre non arrivò mai: quando lui tornò, noi non potemmo andare. Impegni di lavoro, per lo più.
Eppure ci sarebbe bastato, come ci aveva suggerito, valicare i Nebrodi tra Cesarò e San Fratello, nel cuore della faggeta di Sollazzo verde, solenne sotto Monte Soro, sino al mare di Sant’Agata. Un breve viaggio, due ore, nella Sicilia che era stata al centro della sua descrizione del Risorgimento degli ultimi.
Ma no, non ci andammo né allora né più mai.

Ricordo ancora una delle sue illuminazioni, la prima volta che ci incontrammo: sapeva cosa pensavamo prima che lo pensassimo (non dovrebbero fare questo gli scrittori?).
La letteratura in Sicilia”, ci disse con tranquilla fermezza, “ha perduto la propria visione unitaria, non segue più la ricerca degli ‘altri doveri’ di Vittorini. Non è per forza un male, anche se sembrano prevalere delle letterature di solo intrattenimento, neo rusticane. Ma capisco la vostra amarezza. Eppure non voglio pensarci ora, portatemi in giro tra queste nuvole basse accagliate tra le rocche.”
Era felice, quella sera, aveva trovato forse ciò che era venuto a cercare, chissà. Camminammo a lungo, a braccetto. Ad un certo punto, la nebbia ce li nascose, lui e Liborio, scomparsi. Riapparvero dopo qualche minuto, ma sono sicuro che per loro erano passati anni, all’indietro, tanto felici e vivi erano i loro sguardi.
C’era Vittorini appoggiato ad un portone” ci disse Consolo guardando Liborio. “Era lì che si stava accarezzando i baffi e io gli ho detto se voleva venire a conoscervi, giovani e affiatati come i Dioscuri. Ma era impegnato, doveva raggiungere altri amici. Ci ha detto che tornerà. Aspettatelo, tornerà.”
Liborio e Consolo ripresero la passeggiata.
Noi guardavamo lontano, nonostante la nebbia. O forse proprio grazie a lei.

 

Les nouveaux réalistes: Cristina Pasqua

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Il buco

di

Cristina Pasqua

Spense la luce vicino al letto, e lo vide. Parlava di vuoto. Sciorinava promesse. Non ci aveva mai fatto caso prima. Discosto dal muro, pure se di poco, per la prima volta notò il pannello. Si capiva subito che non sarebbe stato difficile da staccare. Aveva lo stesso odore della vernice delle pareti, ma la resa della pittura era diversa, come diverso era il materiale. Era bianco sporco, insozzato di polvere, tempo e inverno.

Iole fece scorrere l’indice sul sottile bordo scheggiato, poi lo afferrò con la punta delle dita alle estremità e tirò forte verso di sé. Il mastice teneva ancora, opponeva una resistenza muta, difficile da governare. A guadare bene, a tirare e tirare ancora, a opporre resistenza erano proprio le aderenze coriacee e filamentose della colla. Dietro, c’era solo muro, una porzione di parete identica alle altre, stessa tinta, solo più pulita, nessuna ragnatela o traccia di morte violenta di certi insetti.

Villa Gloria era la casa che abitavano l’estate. Attraversato l’anno, si era ripromessa di non tornarci più, aveva deciso che sarebbe stata la sua ultima vacanza lì. Viaggiare in treno, in aereo, in nave, partire, prenotare una camera in una pensione lungomare, una cabina, un ombrellone e una sdraio in uno stabilimento sull’Adriatico, a questo pensava mentre accendeva la luce e l’elettricità faceva vibrare la stanza di giallo.

Raggiunse la finestra, scostò le ante e lasciò entrare la notte. La pineta, oltre il giardino, le strinse la gola di resina. Dopo essersi persa tra gli oleandri e le siepi di lentisco, nel lamentoso tormento delle cicale, tornò al pannello con uno sguardo distante. L’unica cosa che giustificava la sua presenza di compensato era il buco. C’era un buco sulla parete, proprio nel mezzo. Un piccolo buco sgretolato d’intonaco, affacciato sul cemento. Ginocchioni sul materasso, le spalle alla salsedine, con il mare che rovistava gli scogli, ci infilò l’indice dentro e iniziò a scavare.

Seguirono notti senza sonno. Al mattino, rimetteva il pannello al suo posto facendo attenzione a non lasciare tracce, a sprimacciare a dovere il cuscino, a tirare lenzuola e federe evitando di lasciare pieghe. A nessuno doveva venire in mente, meno che mai a sua madre, di spostare l’anima di ferro dal muro e scoprire lo scavo.

Iole si era fatta crescere le unghie per tutta la vacanza. Indisturbate da limetta e forbicine, erano adunche e sgraziate. Con lucida determinazione aveva deciso di smettere di mordersi e staccare le pellicine. All’inizio scavò a mani nude. Quando una chiazza di mattino allagò il pavimento, prese un batuffolo d’ovatta, aprì il flacone dell’alcol e si disinfettò le nocche.

Venne il tempo della matita, sostituita poi dalla lama di un vecchio coltello, di quelli arrugginiti dimenticati nel fondo di un cassetto. Fino a che non aprì il mobile nel sottoscala e trovò il malepeggio di suo nonno. In poco meno di una settimana ambedue le mani entravano nel buco. Sparivano al suo interno fino al polso. Nell’oscurità collosa, illuminata solo dal lampione in fondo al parco, ogni notte demoliva il muro della sua stanza, la stessa parete che dall’altro lato correva lungo il corridoio fino alla stanza da bagno.

Intanto vagheggiava vacanze lontane, un impiego remunerativo, le piste bianche, gli alberi piegati di neve e un paio nuovo di sci, i gesti galanti di Alberto, il cugino di Adele, una soffitta al quinto piano, le tegole lucide di pioggia e le guglie lontane, e ancora il profumo bianco del pane e della neve d’inverno, l’aria fragile di cristallo e le assi scure del rifugio, uno chalet odoroso di grappa e cenere.

Sapendo di incorrere nelle ire di sua madre e del nonno, che quella casa l’aveva tirata su spezzandosi le reni, all’alba, prima di coricarsi, eliminava le tracce del suo passaggio con attenzione maniacale. Di notte, davanti al buco, largo oramai quasi come tutto il pannello che lo occultava, si rese conto di quanto fossero misere le sue aspettative. Quanto poco futuro riusciva a masticare, l’ordinario in agguato dietro la porta. Rimise a posto il compensato e, con il retrogusto della delusione, tornò a dormire. Si svegliò presto, aveva dimenticato gli scuri aperti e quando i primi raggi del sole le scarabocchiarono gli occhi già non vedeva l’ora che l’oscurità si mangiasse il giorno per ricominciare da capo.

«Perché?» chiese sua madre in cucina.

Iole rimase in silenzio, mentre il caffè anneriva il fondo della tazza.

«Erano della zia Luisa. Sarebbe felice di vederli sulle tue mani» continuò, in attesa di risposta.

«Sì, lo credo anch’io» rispose secca, prima di bere un sorso. I guanti erano lunghi e avorio, dai polsi e fino al gomito si rincorrevano minuscoli bottoncini rivestiti in tessuto. Li aveva trovati nel buco, sembravano nuovi, si erano perfettamente conservati nel cellophane trasparente.

Il nonno infilò il naso nella tazzina e restò in silenzio.

La notte successiva si ritrovò in mano il tacco di una scarpa. Era sporco di terra, non troppo alto, forse di un mocassino, non era appropriato a una décolleté. Frugando ancora, si passò tra le dita una treccia di capelli. E denti. Ne contò almeno dieci, li lavò per bene e li fece sparire in una scatolina di latta.

La mattina dopo, a colazione, aveva gli occhi cerchiati e indosso un vestito che non era il suo. Il nonno perse colore, la faccia gli diventò di gesso. Rimase in silenzio per qualche tempo, come se nascondesse un rimpianto o una colpa, poi si alzò e senza dire una parola abbandonò la cucina. Sua madre si limitò a distogliere lo sguardo. Iole poggiò la scatolina sul piano di formica e la spinse fino al bordo del tavolo. Con un gesto calcolato la fece cadere. I denti della zia Luisa si sparpagliarono qua e là sul pavimento.

Andò avanti così, fino a che non arrivò la notte in cui Iole chiuse il buco. Il giorno dopo lasciò la casa. Il nonno si offrì di accompagnarla alla corriera, ma lei preferì andare da sola. Camminò senza ripensamenti fino al cancello, poi si voltò. Sua madre era affacciata alla finestra di quella che era stata la sua camera durante la vacanza breve, la stessa stanza dove, in un tempo lontano e dimenticato, aveva dormito la zia Luisa.