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Evanescenza e consistenza del mondo: Zanzotto versus Ponge

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Questo saggio è stato scritto in occasione del convegno internazionale tenutosi a Parigi: Zanzotto europeo, la sua “poesia di movimento”, 25 -27 novembre 2022. E’ in seguito uscito in volume per Franco Cesati Editore, nel 2023, a cura di Giorgia Bongiorno, Andrea Cortellessa e Laura Toppan, che sono stati anche gli organizzatori del convegno. Si tratta di un testo lungo, non adatto alla lettura web, ma chi è interessato può scaricarselo in pdf. L’idea di rendere disponibile anche sul web tale materiale specialistico è conseguenza di una mia idea di scrittura saggistica, che vorrebbe idealmente far saltare la frontiera tra critica militante e critica accademica. a. i. 

di Andrea Inglese

Il mio proposito è quello di avvicinare l’opera di Zanzotto a quella di Francis Ponge, utilizzando quest’ultima come un reagente che sia in grado far risaltare e porre in dialogo aspetti delle poetiche di entrambi gli autori. Ponge non rientra nel novero degli scrittori francesi o francofoni, con cui Zanzotto ha stabilito, nel corso della sua attività poetica, un confronto significativo. Insomma, Ponge non è né Eluard né Michaux, ma nemmeno Artaud o Bataille. Inoltre Ponge, in maniera assai anomala, continua a essere poco frequentato in Italia, e ne è una prova lampante la scarsità di traduzioni che lo riguardano. Malgrado in Francia, grazie anche ai due volumi Pléiade del 1999 e del 2002, la sua opera abbia acquisito un’importanza indiscussa, in Italia l’unica traduzione circolante per una grande casa editrice è ancora quella realizzata alla fine degli anni Settanta da Jacqueline Risset di Il partito preso delle cose, libro per altro del 1942. (Sia detto tra parentesi: in tempi recenti qualcosa di Ponge ha cominciato a essere disponibile grazie al lavoro prezioso di piccoli editori come L’Obliquo o Benwey Series.)

In questo primo lavoro di avvicinamento tra le due opere, che non ha certo pretese di sistematicità, mi limiterò, per quanto riguarda l’attività poetica di Zanzotto, alla produzione che culmina con “l’improbabile trilogia” pubblicata tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. D’altra parte, gli ultimi libri scritti da Ponge in vita escono anch’essi nel corso di quel ventennio. Ciò non toglie che una futura ricerca comparatistica possa travalicare con profitto il limite cronologico che qui mi sono posto.

Ponge appartiene alla generazione precedente rispetto a Zanzotto, essendo nato ventidue anni prima, nel 1899. Diverge notevolmente il loro rapporto con le avanguardie artistiche e letterarie. Zanzotto ha mantenuto sempre un atteggiamento conflittuale e diffidente con i Novissimi, laddove Ponge, a sessantacinquenne anni, inaugura una collaborazione con la neonata rivista Tel quel, uno dei più celebri laboratori neoavanguardistici, in Francia, a metà degli anni Sessanta. Ponge, inoltre, ha prediletto nel corso del tempo forme di scrittura in prosa, mentre Zanzotto non hai mai rinunciato al verso. Posti questi primi elementi che permettono di coglierne alcune differenze, è utile ricordare qualche punto comune biografico – entrambi antifascisti e impegnati a vario titolo nella Resistenza – e soprattutto tematico: ad avvicinarli è la questione del paesaggio. Di primo acchito, si potrebbe avere l’impressione che Ponge sia risolutamente rivolto alle “cose singole”, naturali o di fabbricazione umana – la vespa, il fico secco, il bicchiere di vetro, il sapone –, laddove Zanzotto sembra muoversi nell’orizzonte aperto del paesaggio, alla ricerca di un’enunciazione in grado di fronteggiare la totalità, l’estensione massima del reale in tutti i suoi aspetti. Di fatto, pur rimanendo sullo sfondo, meno esibita e centrale che in Zanzotto, anche in Ponge svolge un ruolo importante l’esperienza del paesaggio. Il termine stesso, ad esempio, compare come sottotitolo provvisorio di uno dei suoi testi più importanti, ossia Nioque de l’avant-printemps, che esce nel 1983, ma avendo avuto una prima stesura all’inizio degli anni Cinquanta e una seconda durante gli anni cruciali 1967-68. Leggiamo da uno dei passaggi tratti dalla prima stesura:

Je RELIS (et titre) le PAYSAGE D’AVANT-PRINTEMPS et j’écris ce qui suit, comme préface-réflexion :

« Je ne puis rien dire, écrire (ni penser) d’autre que ce que la saison m’inspire. »

(Ces jours-ci : paysages, nioque, proêmes, notes de l’avant-printemps.)[1]

In questo volumetto-manifesto, che è dedicato a una fase precisa del ciclo stagionale – quella appunto che annuncia, ancora in inverno, l’arrivo della primavera – il “paesaggio” è in realtà dappertutto, disseminato in descrizioni più o meno rapide, ed esso include non solo la natura selvaggia, ma anche le tracce della presenza umana.

Questa prossimità tematica tra i due autori rivela a un esame più attento una vera e propria poetica comune, incentrata sull’idea che il mondo naturale giunga a compimento nel logos umano, ossia nel discorso ordinario dapprima e, in ultima analisi, nella parola poetica, che di quel discorso costituisce una sorta di ultima e più avanzata realizzazione. Detto in altre parole, la zona del logos umano dove il compimento del mondo naturale è programmaticamente perseguito e dove esso promette la più alta e felice riuscita è la poesia. Per quel che riguarda Zanzotto, cito dal celebre distico di chiusura di uno dei testi della Beltà: “Tanto, in questo fondo, / resta del processo di verbalizzazione del mondo”[2] (componimento numero XVI di Profezie o memorie o giornali murali). Di Ponge presenterò più avanti un paio di passaggi altrettanto espliciti. È importante, però, sottolineare subito che questa concezione della poesia si manifesta in lui con accenti nettamente laici e disincantati, mentre in Zanzotto rinvia a una visione della parola poetica, che non ha rinunciato a fantasie totalizzanti e a suggestioni sacrali. Nei versi citati, ad esempio, associato al “processo di verbalizzazione del mondo”, vi è il termine “fondo”, che in Zanzotto si situa tra i significati divergenti di “residuo” e “fondamento”, divergenti ma, come spesso in lui, reversibili[3]. Il fondo è ciò che rimane alla fine di tutta una serie di operazioni espressive e di filtraggi intellettuali, è quanto resiste al fronteggiarsi arduo tra parola e cosa, ma nello stesso tempo è ciò che indica una base o, più esplicitamente, un fondamento, qualcosa insomma che permette alla verbalizzazione di consistere. Ponge, invece, sembra alieno dagli armonici filosofici che un termine come “fondamento” suscita. In lui, però, come in Zanzotto, è presente l’apertura a una possibile totalità e il “paesaggio” diventa spesso sineddoche di “mondo”, inteso come sintesi inscindibile di natura e storia, anche se – è importante chiarirlo subito –, tale totalità rimane aperta, e quindi soggetta a imprevedibili evoluzioni. Si ricordi la nota finale di Galateo in bosco, dove si dice: “Tutto è ancora possibile su questo terreno ipersedimentato. La questione è aperta come quelle di tutti i boschi, vegetali e umani”[4]. In Ponge, in modo ancora più categorico che in Zanzotto, la storia umana non segna l’avvento di una compiuta ragione in un mondo naturale che ne era privo, o ne costituiva solo il germe ancora incompiuto. Scrive in Pour un Malherbe del 1965:

Nous n’avons sans doute qu’une raison d’être au monde, c’est le maintien des valeurs dont nous avons reçu l’héritage, à une époque où le progrès extraordinaire des sciences et de l’outillage, dont dispose l’homme, s’accompagne d’une régression non moins extraordinaire des valeurs esthétiques et morales (…). Le maintien est donc l’un des valeurs qui s’imposent à nous ; l’autre étant la création de valeurs nouvelles.[5]

La questione aperta riguarda, quindi, che cosa dire e fare di un paesaggio in parte antropizzato, in cui la storia si è inserita sia come progresso sociale sia come perdizione e smarrimento da diversi punti di vista (l’urbanizzazione crescente, l’industrializzazione del lavoro agricolo, l’appiattimento culturale favorito dalla diffusione dei media televisivi, ecc.). Entrambi gli autori, d’altra parte, hanno innanzitutto alle spalle esperienze e testimonianze delle due guerre mondiali e, intorno a essi, lo sfruttamento massiccio delle risorse naturali avviato nel dopoguerra. In ogni caso, nominare e descrivere il paesaggio significa rivolgersi alla totalità, al mondo, ossia a quella sintesi tra natura e cultura, tra territorio e storia, che è problematica e costantemente in divenire. Di Zanzotto, basti citare i primi due versi di una delle sue più belle poesie, Al mondo, inclusa nella Beltà: “Mondo, sii, e buono; / esisti buonamente,”[6]. Dove al vecchio “vocativo”, tipicamente lirico, si sostituisce ora un’ingiunzione doppia: quella – diremmo noi – di consistere “ontologicamente” e quella, “politico-morale”, di realizzare un bene, ossia una finalità superiore che non è affatto determinata e necessaria. Di Ponge citerò un altro passaggio di Pour un Malherbe, in cui ritroviamo un’apostrofe entusiasta: “O Monde! Monde ovale et merveilleux! Machine ovale! O l’oeuf du ciel! Ce paysage, comme l’onion de nos grands-pères!”[7].

Per due europei come Ponge e Zanzotto, “paesaggio” è quindi un termine che fa inevitabilmente riferimento a una realtà in cui “natura” e “cultura” si trovano saldate assieme. Da noi, insomma, a differenza di ciò che è accaduto ad esempio nel Nord America, e di cui testimonia l’ideale della Wilderness, gli spazi paesaggistici sono da sempre intrisi di memorie storiche, letterarie e artistiche. Naturalmente, questa compresenza pone anche alcuni problemi sul piano delle strategie poetiche. Rimane il fatto che entrambi, a diverso titolo, la riconoscono. Di Ponge, cito a questo proposito un passo di Nioque de l’Avant-Printemps, dove si legge: “D’ailleurs la nature en France c’est encore vous-même : industrialisée, commercialisée; des jardins, des pâtis, des labours, des fabriques de bois. Pourtant, la liberté e le vent et les oiseaux y gambadent, y dansent à l’aise ; La liberté par tous les pores (robinets) en jaillit”[8]. Quanto a Zanzotto, nel XV componimento della serie Profezie o memorie o giornali murali, in La Beltà, scrive:

No miseria inedia frustrazione;

allevamenti immediatamente,

batterie di vitelli polli carnami antifame.

Formiche mosche vespe

Bruchi cantàridi d’allevamento

(…)

noi disposti all’imprinting di più savie regole

e poi per tutti i cosmi il sostegno commestibile

(…)

Siamo qui situati al centro di una notevole contraddizione: la lotta contro l’atavica fame, che è innanzitutto fame contadina, implica l’inquadramento e lo sfruttamento del vivente non-umano. Questo ovviamente esige un prezzo molto alto da pagare in termini di un possibile equilibrio tra natura e cultura.

La contraddizione è senza dubbio sentita in modo più tormentato da Zanzotto, e ciò è dovuto in parte anche alle componenti ideologiche che determinano la sua concezione del paesaggio. In essa possiamo rintracciare, da un lato, un discorso risalente alla tradizione veneta della “villeggiatura” e del “sogno rurale”, sviluppato nel Rinascimento all’epoca della diffusione della villa palladiana e, dall’altro, il discorso dell’idealismo tedesco della fine del XVIII secolo. Entrambe queste tradizioni assegnano al paesaggio valenze utopiche, ma si tratta di utopie che oscillano tra il fantasma di un passato (di un’origine) d’integrità ed equilibrio tra umanità e territorio naturale, e la profezia, ossia la proiezione nel futuro di tale integrità ed equilibrio. L’uso che faccio del termine “fantasma” non è casuale, in quanto esso viene per me a caratterizzare un tratto complessivo della postura poetica di Zanzotto, che la distingue da quella, per altri versi simile, di Ponge. In termini un po’ schematici, che cercherò di giustificare nel proseguo del mio intervento, tra l’enunciazione che si riferisce al paesaggio e il paesaggio stesso, in Zanzotto s’introduce il fantasma, inteso nelle più diverse accezioni, compresa quella psicanalitica. Questa interferenza dell’immaginario soggettivo contribuisce spesso, nella sua opera, al dissolvimento della rugosità e dello spessore del mondo, condannandolo all’evanescenza, nel momento stesso in cui l’enunciato poetico vorrebbe fissarlo in figura – “in agio di ritmari e rimari”, come dice nella Beltà, o in un “oggetto verbale equivalente”, come direbbe Ponge.

Il termine “fantasma”, quindi, sta a indicare tutti i sedimenti ideologici – anche nel senso marxista di “mistificazioni” – entro i quali Zanzotto si dibatte nel corso della sua impresa di “verbalizzazione” del paesaggio-mondo. Ed è questa continua tensione tra desiderio e norma, tra delirio e ragione, tra abbandono e distacco che, in particolar modo a partire dalla Beltà del 1968, determina il caratteristico andamento frantumato e torturato, e quell’effetto di stop and go, di acceso-spento, di alternanza secca – o ambivalenza irrisolvibile – tra euforia e disforia, del suo dettato poetico. Il balbettio zanzottiano non è solo inerente al ritorno verso la condizione d’innocenza linguistica dell’infans, ma è anche il moto continuamente frustrato verso la “cosa stessa”, intesa in senso fenomenologico, ossia verso un aspetto del reale liberato sia dalle idiosincrasie individuali sia dagli strati deformanti che vi ha lasciato l’immaginario sociale. In alcuni momenti, con sagacia che ricorda il Foucault decostruttore del discorso fenomenologico, Zanzotto si accanisce nell’inventario archeologico del paesaggio, includendo assieme ai profili tangibili una pletora di chimere, a rischio di non poter più distinguere, però, la cosa dalla sua ombra[9]. Contro questo rischio si premunisce Ponge, attraverso un progressivo avvicinamento agli oggetti per continui avanzamenti e ripieghi, per viste e prese successive, che alla fine, fallendo consapevolmente il proprio obbiettivo – ossia l’appropriazione umana del mondo –, ne persegue un secondo più limitato, che è l’estensione e la rigenerazione provvisoria, radicalmente storica, del linguaggio umano e di quello poetico in particolare. Scrive Ponge, sempre in Pour un Malherbe:

De même que (…) nous devons nous résoudre (je ne dis pas nous résigner) à nous concevoir comme partie, élément ou rouage non privilégié de ce grand Corps Physique que nous nommons Nature ou Monde extérieur ;

De même, ne devons-nous concevoir nos écrits que comme partie, élément ou rouage de cette horloge, ou come branchette ou feuille de ce grande arbre – également physique – que l’on nomme la Langue ou la Littérature française.

Ce n’est pas que, tout comme un autre, nous n’essayions incessamment d’en sortir… Mais nous devons constater aussi que nous n’en sortîmes, ni sortirons probablement, jamais.[10]

La posizione di Ponge, a intenderla bene, è radicale, e richiama certe formulazioni altrettanto radicali che si trovano in Samuel Beckett sul nesso costitutivo tra arte/letteratura e fallimento. L’esilio nel linguaggio e nella letteratura non equivale, però, a una rinuncia o perdita del mondo. Alcune pagine dopo il brano citato, Ponge aggiunge: “Cependant, par bonheur, il nous semble que, dans le même temps, nous sommes devenu extrêmement sensible, de plus en plus sensible, aux choses de la nature, je veux dire aux objets, comme aux personnes”[11]. Il fatto che la poesia e più in generale l’espressione linguistica umana non possano attingere alle “cose stesse” (comunque si vogliano intendere sul piano filosofico), in quanto una precisa e innovativa descrizione di un fico provenzale o di una collina veneta non sono altro che ulteriore materiale verbale, stampato su carta o formulato attraverso la voce, ebbene questa condizione non è per Ponge interamente negativa, non è concepibile come semplice scacco. Qualcosa, infatti, è cambiato tra me e il mondo, dopo l’esercizio di verbalizzazione. L’opacità delle cose non è stata una volta per tutte penetrata, ma esse hanno assunto, nel frattempo, una maggiore vividezza, in quanto la nostra esperienza sensibile e intellettuale si è come riorganizzata e rinnovata attraverso questo nuovo confronto.

Torniamo ora a Zanzotto, e vediamo più da vicino come, nel suo discorso extrapoetico, in articoli o interviste in prosa, si affaccino i motivi ideologici che abbiamo precedentemente evocato. Partiamo da quello tipicamente aristocratico-borghese del paesaggio “arcadico”. In un libro intervista del 2009, così parlava Zanzotto del celebre Montello, che tanto spazio ha nella sua figurazione poetica.

Il Montello, locus amoenus e nel contempo horridus, era un colle veramente nobile e sacro per tantissime ragioni. Un’Arcadia-Eden in perenne ricomposizione e scomposizione, il simbolo stesso dell’utopia. Ma in quest’Arcadia c’era ben piantato un teschio che, proprio come nel famoso quadro del Guercino, diceva: “Et in Arcadia ego”, ossia, anche nell’Arcadia io, la morte, ci sono. Cosi, la tradizione che collegava quella zona a eleganti ozi e pensamenti sottili è svaporata a causa delle devastazioni progressive del bosco, fino alla quasi totale distruzione venuta con la guerra.[12]

È interessante notare come Zanzotto confermi invece che smentirlo il nucleo ideologico dell’Arcadia: la morte che penetra nel paradiso terrestre prende il volto della guerra o della deforestazione, ma Zanzotto sa meglio di altri che così non è, che la morte è penetrata da sempre in arcadia per coloro che hanno vissuto la condizione di esclusi dagli “eleganti ozi e pensamenti sottili”, ossia per la popolazione contadina, esposta senza difese alle durezze della vita rurale. Lo stesso autore ha patito, nella sua famiglia, la scomparsa tra le due guerre di due sorelle, di cui una morta di tifo. Il paradiso agreste non è mai stato un ideale per tutti e in Veneto, in modo particolare, si diffonde in un contesto storico preciso, che è quello del reinvestimento dei capitali cittadini sulla terraferma, nel momento in cui, durante il XVI secolo, le nuove condizioni geopolitiche limitano l’espansionismo marittimo veneziano.

A partire sopratutto dalla Beltà, libro di crisi e svolta, tutti i nodi ideologici relativi alla concezione del paesaggio “vengono al pettine” e la poesia deve trovare un modo chiaroveggente e critico di trattare – cito da un verso – “Il retaggio fantasmatico” dell’autore. La soluzione sarà quella, già indicata, di un’ambivalenza pienamente assunta nell’articolarsi stesso del dettato poetico. Accade così che, nel più tardo Galateo in bosco del 1978, il lemma “Arcadia-Eden” compare semanticamente rovesciato come “Arcadia-Mafia”. Dalla Beltà in poi, tutti i miti associati al paesaggio e agli ideali bucolici o ai sogni d’integrità e pienezza della parola poetica sono non semplicemente abbandonati e sconfessati, ma sottoposti a critica, irrisione, distorsione iperbolica. Ma in questo modo continuano a nutrire quell’archeologia del complesso umano-naturale di cui la poesia di Zanzotto è divenuta ormai massima espressione.

Più significativo ancora è l’articolo uscito nel 1962 – periodo in cui si è aperto il cantiere della Beltà – e che s’intitola Architettura e urbanistica informali. Qui Zanzotto fornisce una limpida – sebbene non innocente – filosofia del paesaggio.

Ma se ci si colloca, con sufficiente superbia e sufficiente umiltà, sul piano dell’uomo (ed è questo il postulato di ogni nostro discorso) si deve dare all’uomo quel posto che egli stesso in buona fede non può negarsi, a pena di smentire la sua natura e di cadere nella più ipocrita delle mistificazioni. Della figura umana, del volto umano, non si discute; esso è in qualche modo l’apparizione sensibile della ragione. E cosi non si discute dell’insediamento umano, che la natura “deve” essere pronta a ricevere, è predestinata a ricevere. Ecco che allora ogni fantasma di insediamento-piaga scompare per lasciare il posto all’insediamento-fioritura. Momento più alto della realtà naturale; teso a ciò che la supera, l’uomo si colloca in essa – almeno teoricamente – al punto giusto, la riordina alle sue leggi e in ciò stessa ne rivela la preumanità, quell’attesa dell’umano in cui essa si preparava. (…) Il paesaggio si anima e si accende della presenza umana perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano delle strutture che un giusto antropomorfismo aiuta a vedere; ogni città costituitasi in accordo col suo ambiente diventa opera di un dio indigete.[13]

Potremmo limitarci a ricordare che dell’ottimismo di matrice hegeliana qui presente non si trova traccia nello Zanzotto maturo, innanzitutto considerando come egli ha commentato questo stesso articolo a distanza di anni. In un volume collettivo apparso nel 2005, l’autore ripresenta l’intervento del 1962 – il titolo nuovo è In margine a un vecchio articolo –, preceduto da una breve riflessione e seguito da due frammenti poetici. La cornice del 2005 mette l’accento, con toni heideggeriani, “sull’affermarsi del potere della tecnica” e sugli aspetti più distruttivi del sistema capitalistico. La critica al boom economico, per come esso si manifestava nelle campagne, era nel 1962 essenzialmente indirizzata contro il “malgoverno”, ossia le deficienze della politica italiana incapace di “regolare” il mutamento. Nel 2005, i misfatti dello sviluppo economico e tecnico hanno contorni più ampi e schiaccianti. In questo contesto è poi singolare che Zanzotto citi, in uno dei due frammenti poetici di chiusura, questi versi tratti dal libro Elegia in versi del 1952 e in particolare dalla V sezione del testo Ore calanti:

La mia povera vita

si fa grande di tante

profonde fantasie di colline

Anche in una circostanza di riflessione critica sul destino del paesaggio nella contemporaneità, Zanzotto non rinuncia a ricordare che, per lui, le “fantasie” – e, aggiungiamo noi, i “fantasmi” – sono coestensive alle “colline”, in una possibilità sempre aperta di sostituzione, supplenza, consolazione.

Ritorniamo, però, all’immagine dell’insediamento-fioritura, che assegna all’umanità, intesa come la manifestazione di un ordine superiore a qualsiasi ordine pre-umano, un ruolo centrale e decisivo nell’ordinamento del paesaggio. Un tale assunto, diversi pensatori lo avevano già messo in crisi, e tra questi basterà ricordare Adorno e Horkheimer, che pubblicano La dialettica dell’illuminismo nel 1947 (tradotto in italiano, però, solo nel 1966). Ma all’altezza degli anni Sessanta Zanzotto sembra leggere più Heidegger che Adorno. Ma anche Heidegger, come vedremo, costituisce una sorta di necessaria alternativa a questa filosofia del paesaggio, che già non è più sostenibile negli stessi testi della Beltà. La crisi linguistica del quinto libro di Zanzotto, tra le sue svariate radici – oltre all’impatto violento con i Novissimi o l’approfondimento del discorso lacaniano –, ne ha senza dubbio una nel venir meno di questa concezione teleologica della storia e del privilegio che l’uomo avrebbe in essa.

Su questo punto Ponge si è mostrato sempre estremamente lucido. In un testo inizialmente pubblicato nel 1956, Le murmure, scriveva[14]:

L’homme n’est pas le roi de la création. Non, du tout. Plutôt son persécuteur. Persécuteur persécuté.

Un animal comme un autre ? Je le crois. Mais l’un des mieux doués ? Peut-être. Surement, l’un de plus insensés. D’autant que, par son activité à le dominer, il risque de s’aliéner le monde, il doit à chaque instant, et voilà la fonction de l’artiste, par les œuvres de sa paresse se le réconcilier.

In questo brano, apparso sei anni prima di Architettura e urbanistica informali, Ponge espone con talento aforistico la sua “metafisica”: l’uomo non è il “momento più alto della realtà naturale”, né costituisce, attraverso il suo lavoro, il compimento di essa. Per Zanzotto, agli inizi degli anni Sessanta, l’uomo è ancora colui che “riordina [la natura] alle sue leggi e in ciò stessa ne rivela la preumanità”. Ponge, dal canto suo, inventa una formula geniale, che ha un tutt’altro significato: l’uomo è il “persecutore perseguitato” della natura. Formula, purtroppo, profetica, che le attuali riflessioni sull’Antropocene e gli ormai assodati effetti del riscaldamento climatico confermano nella sua giustezza. La sempre maggiore presa che l’umanità, grazie alla varie fasi della modernizzazione dapprima occidentale e in seguito mondiale, esercita sul pianeta attraverso controllo e sfruttamento illimitati non fanno che alienarlo, ossia renderlo nuovamente distante, nemico e incontrollato. Ponge non si limita, però, a ribadire in questo passo la sua tipica condanna dell’antropocentrismo – condanna che ai giorni nostri percepiamo come particolarmente pertinente –, ma ci introduce anche a una specifica poetica, ed è proprio questa ad avvicinarlo nuovamente a Zanzotto. In Pour un Malherbe, leggiamo:

Nous donnons la parole à la féminité du monde. Nous délivrons le monde. Nous désirons que les choses se délivrent, en dehors (pour ainsi dire) de nous. Nous les invitons, par notre seule présence, les provoquons, les incitons à se connaitre, à se révéler, à s’exprimer. La parole doit se faire humble, se mettre à leur disposition, pourrir à leur profondeur. Voilà notre art poétique, et notre spécialité érotique (…).[15]

Ancora più suggestivo questo passo, tratto da Le carnet du bois de pin, incluso in La rage de l’expression, volume pubblicato per la prima volta nel 1952:

Au mois d’aout 1940 je suis entré dans la familiarité des bois de pins. A cette époque, ces sortes particulières de hangars, de préaux, de halles naturelles ont acquis leur chance de sortir du monde muet, de la mort, de la non-remarque, pour entrer dans celui de la parole, de l’utilisation par l’homme à des fins morales, enfin dans le Logos, ou, si l’on préfère et pour parler par analogie, dans le Royaume de Dieu.[16]

La presenza del termine “logos” sotto la penna di un poeta non è così frequente e banale, soprattutto quando è utilizzata per esplicitare la concezione stessa della poesia. Il discorso di Ponge è chiaro. Innanzitutto egli non distingue nettamente, come si è visto in uno dei passi citati in precedenza, tra “lingua francese” e “poesia”, in quanto la poesia si radica nella lingua, per eventualmente rinnovarla nella sua capacità di nominare e descrivere il mondo. Le cose, ai margini del linguaggio – un linguaggio che è solitamente rivolto alle esclusive faccende umane (amori, poteri, guerre) – giacciono mute, morte, in uno stato – questo sì fantasmatico, inconsistente – di “non remarque”, di trascuratezza percettiva ed espressiva. La parola poetica, allora, nello sforzo pongiano di focalizzarsi sulle loro qualità “distintive”, le conduce nell’universo luminoso della parola umana, dei suoi segni, suoni e significati. E questo processo si accompagna a un’intensificazione dell’esperienza (“nous sommes devenu extrêmement sensible…”).

Siamo vicini qui alla poetica della Beltà, anche se, nei libri successivi degli anni Settanta e Ottanta, per Zanzotto il logos si carica di ulteriori e più problematiche significazioni. La parola poetica, allora, non si limita ad accendere i sensi dell’individuo, accompagnandolo verso una rinnovata e sempre provvisoria prossimità con zone diverse del mondo. Essa deve farsi in qualche modo sostegno e fondamento dell’edificio stesso della realtà, o di quel soggetto umano che si rivolge ad essa. Sono pretese, queste, che definirei totalizzanti e/o fondanti, e che coincidono, tra l’altro, con una certa fascinazione che, in quegli anni, il pensiero di Heidegger esercita su Zanzotto e altri poeti della sua generazione. Si tratta dell’Heidegger della “svolta” che, nell’arco compreso tra gli anni Trenta e Cinquanta, finirà per mettere al centro della sua riflessione la parola poetica. Quest’ultima, infatti, costituisce un’occasione privilegiata per disvelare l’essere, condannato all’oblio nella presente età della tecnica. Mi accontenterò di citare una delle tante formule suggestive, che costellano In cammino verso il linguaggio, il volume di saggi pubblicato nel 1959. In L’essenza del linguaggio, possiamo leggere: “Secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero, la parola dà: l’essere”[17].

Ai fantasmi “arcadici” già circolanti nel paesaggio, e diversamente evocati-esorcizzati nella Beltà, si aggiungono così, nella nuova fase della ricerca poetica di Zanzotto, altri fantasmi, di matrice heideggeriana questa volta, che riguardano soprattutto il ruolo del logos poetico[18]. Una traccia evidente di questo mutamento è riscontrabile nella nota d’autore che chiude Filò, libro di poesie in dialetto, nato dalla collaborazione al Casanova di Fellini e uscito nel 1976. Un passaggio in particolare è significativo: “il dialetto appare come la metafora – ed è per un certo verso la realtà – di ogni eccesso, inimmaginabilità, sovrabbondare sorgivo o stagnare ambiguo del fatto linguistico nella sua più profonda natura”[19]. La “più profonda natura” del linguaggio necessita di essere avvicinata per via “metaforica”; da qui la riflessione sugli aspetti spesso duplici se non contraddittori del “dialetto”. L’evidenza quasi ipnotica delle cose lascia ora spazio a tentativi di “figurazione” (letterale o metaforica) della parola stessa che, quelle cose, cercava di nominare e descrivere. E in questa torsione dal paesaggio alla voce che lo evoca, Zanzotto apre la sua scrittura in prosa e in versi a tutte le “fantasie” di un’origine-radice, che l’espressione dialettale costituirebbe in maniera privilegiata. Il dialetto è “come un primo mistero”, “un’assoluta libertà”, “la corrente infera”, “riversato entro la terra”, “carico della vertigine del passato”, “pulsione e gorgoglio somatico”, ecc. In realtà, l’autore si rende conto che, per dirla con le parole di Adorno, un certo “gergo dell’autenticità”, e soprattutto un’ideologia ad esso associata, aleggia intorno al suo oggetto di riflessione. Forse per questo motivo, la nota è particolarmente articolata e lunga, rispetto a quelle dei suoi altri libri. Zanzotto è consapevole che si tratta di sottrarre il dialetto a forme di rimpianto e di mito identitario, per attribuirgli doti progressiste e, al limite, profetiche[20].

Zanzotto, a differenza di Ponge, subisce una tentazione nei riguardi di queste immagini della totalità, dell’origine, del fondamento, quasi che l’azione espressiva del linguaggio, nel suo caso, non si limiti a trarre fuori le cose dal loro mutismo e dalla loro assenza (“morte”), ma debba colmare un vuoto d’esistenza, una lacuna d’essere, intrinseca al soggetto umano stesso che di quel linguaggio è portatore. È questo, allora, a giustificare il tema ricorrente del logos erchómenos, che emerge nel Filò e risuona nuovamente nei versi di Fosfeni; tema che, come per primo ha ben visto Giorgio Agamben in un saggio di Categorie italiane[21], attribuisce alla parola poetica una valenza messianica, di salvezza morale e integrità fisica. Poco importa determinare se questa concezione massimalistica del dire poetico sia conseguenza, in termini psicologici o esistenziali, di una fragilità narcisistica dell’io poetante, che prima ancora di poter dare consistenza verbale al mondo delle cose combatte per dare consistenza alla propria realtà individuale. Quel che appare chiaro è che il rimedio non annulla il male: la parola che dovrebbe portare salvezza e integrità (nel proprio sé e nel mondo), si rivela di continuo inadatta al suo compito sovrumano, e si rovescia in parola vuota, menzogna, delirio.

Tale situazione, d’altra parte, è già annunciata ancora una volta nella Beltà. Un esempio di questo andamento oscillatorio tra la pienezza del tutto e l’inconsistenza di semplici immagini o vuote parole – che ricorda per altro la pendolarità già presente, nell’Heidegger della “svolta”, tra l’essere e il nulla – si trova nel componimento XVIII[22] di Profezie o memorie o giornali murali. Qui il “logos veniente” assume la fisionomia straziata di una confessione sotto tortura: “Il paesaggio ha tutto confessato, essudato, / il paesaggio è in confessione, in sudore” e, alcuni versi più sotto, “E il tentatore riapre la porta / e il torturatore rilegge ciò che / che aveva rossamente fatto essudare fuori / Idee tropi nomi e niente”. Il contenuto della “confessione” infine ottenuta dal paesaggio – qui nuovamente sineddoche di “mondo”, di totalità reale – è espresso attraverso il climax negativo dell’ultimo verso citato: si parte dalle “idee” – entità mentali –, si passa per i “tropi” e i “nomi” – entità retoriche e linguistiche –, per chiudere sul “niente”. La pienezza costantemente chiamata finisce per rovesciarsi nell’esperienza negativa, annichilita, di questa pienezza. Quando il paesaggio viene alla parola, questa parola si rivela come una collezione di tropi, come un inconsistente rituale “verbale”, come un “niente”. D’altra parte, nell’incipit del secondo testo della Beltà, leggiamo: “Quante perfezioni, quante / quante totalità. (…)”[23]. Il paesaggio non fa che promettere totalità e perfezioni, nella sua lontananza e ritrosia, ma appena il poeta – nel suo ruolo di “verbalizzatore della realtà” – s’impegna per catturare, attraverso la parola, tali entità sublimi, si trova sul foglio o nella mente qualcosa d’inconsistente. Questo accade anche quando l’obiettivo è più umile e circoscritto, come nei due versi d’attacco del componimento VIII di Possibili prefazi o riprese o conclusioni: “Quasi oblioso e volto / volto a un girasole, volto a un falso a una bigiotteria”[24].

Il pagano e materialista Ponge, quanto a lui, sembra del tutto immune dal novecentesco rovello del “fondamento”, e dimostra un’invidiabile fede nell’esistenza del soggetto che parla, della lingua da lui usata, e degli oggetti artificiali o naturali che gli si pongono di fronte. L’uomo, insomma, non è un messaggero dell’essere né la consistenza della realtà materiale è in qualche modo debitrice del linguaggio umano. Se mistero esiste, esso non si pone alle spalle dell’uomo e del mondo, ma nell’incontro ogni volta circoscritto tra un soggetto pensante e sensibile e un oggetto determinato. Riguardo a Zanzotto, vi è una sorta di “riduzione” o “sgonfiamento” delle pretese (salvifiche, totalizzanti) della parola poetica, così come dei caratteri tragicomici che circondano la figura del poeta. Sappiamo che Zanzotto è incapace di prendere sul serio il “dramma” romantico dell’espressione, con i turbamenti e le sregolatezze che lo accompagnano; neppure però vuole rinunciare del tutto agli effetti teatrali di tali patimenti. Per questo abbraccia l’opzione modernista per il registro tragicomico. Un tipico esempio di autorappresentazione tragicomica lo si trova in questi versi tratti dal componimento Periscopi[25], incluso in Fosfeni del 1983:

(…)

Eppure quanto è stato

piegato sulla rugiada vialattea

……….piegato a specchiarvi

stilla stilla avventure sofferenti clamori

io camaleontizzato, trasecolato

in lumini di mutanti alfabeti,

a immaginarsi portavoce

e portacroce di tutta una semicultura

(…)

Il poeta si mette in scena come “portavoce” e “portacroce” dei micro e macro oggetti naturali, che tratta indistintamente, ossia la “rugiada” e gli astri della “Via Lattea”. Dalla figura camaleontica di teatrante-clown si scivola a quella cristica, che ovviamente ricorda il già citato logos erchómenos e la figura del Messia. Ci troviamo, in realtà, nella continuazione di quella strategia messa in opera a partire dalla Beltà, per cui gli ideali inarrivabili (e spesso mistificanti o regressivi), connessi con una certa ideologia del paesaggio – o della parola poetica in questo caso –, piuttosto che essere espulsi dalla “scena” del testo vi ritornano in forma di maschere grottesche o comiche. Questo ritorno, però, comporta una chiara contraddizione interna al soggetto poetante e la sofferenza che ad essa si accompagna. Né contraddizione né sofferenza abitano invece il poeta nel suo faccia a faccia con le cose del mondo, nel resoconto che ne dà Ponge in diverse occasioni, e in particolar modo in uno dei suoi testi-manifesto più celebri: Comment une figue de paroles et pourquoi.

Oh! Le triomphe, le jardin, le paradis de la merveilleuse variété des choses, et des sensations qu’elles nous procurent, et des propositions de qualité qu’elles nous offrent,

et des morales, des arts de vivre qu’elles nous proposent,

des façons d’être.

Oh ! l’héroïsme de la moindre chose.

Sa vertu. Sa patience. Sa volonté d’être comme elle est, comme elle attend qu’on vienne l’admirer ; et l’aimer.[26]

In Ponge, ritroviamo il corredo delle immagini utopiche – il “trionfo, il giardino, il paradiso” – ma esse si fondono con “la più piccola e irrilevante cosa”. Non abbiamo una rovesciamento di significati (il tragicomico zanzottiano), ma piuttosto una congiunzione tra valori opposti: il paradiso e l’oggetto banale. Ma quest’ultimo, nel caso specifico il frutto dell’albero di fico, si lascia alle spalle la totalità del paesaggio, che funge da necessario sfondo – e non fondamento – sul quale si staglia. Inoltre, in piena sintonia con l’atteggiamento del secondo Wittgenstein[27] – quello delle Ricerche filosofiche – Ponge è più interessato a fare delle cose con il linguaggio, che a interrogarsi sulla sua “origine” o sulla sua “più profonda natura”. Non è importante per il poeta sapere perché il linguaggio funzioni, costruendo più o meno coerenti e utili teorie, ma come funzioni nel modo più efficace, per ridurre appunto – senza mai poterla annullare – la distanza tra uomo e mondo, tra parola e cosa.

Ponge, insomma, non pare minimante attratto dall’essere heideggeriano, che lo si voglia intendere in termini di “totalità” trascendente gli enti e le comunità di individui o in termini di “fondamento-destinazione” delle pratiche umane rivolte al mondo. A fronte del fico secco o del bosco di pini, che è – come lui stesso scrive – “une pièce de la nature, faite d’arbres tous d’une espèce nettement définie”[28], l’essere – pur gravido di magnifiche promesse – deve sembrargli assai insipido, vago, fantasmatico. Zanzotto invece necessita di fantasmi, seppure ha, nei loro confronti, – lo abbiamo ripetuto – un atteggiamento ambivalente: li celebra ma anche strapazza; non ne può fare a meno ma li irride[29]. Di tutto ciò l’autore ha piena consapevolezza, come dimostra il paratesto di Fosfeni (1983): “Sotto il nome di logos va qui ogni forza insistente e benigna di raccordo, comunicazione, interlegame che attraversa le realtà le fantasie le parole, e tende anche a “donarle”, a metterle in rapporto con un fondamento (?)”[30]. Il brano si chiude con un ironico, depotenziante, punto di domanda tra parentesi, apposto al termine heideggeriano di “fondamento”. Questo autosgambetto, che qui è quasi inappariscente, rinvia a quel gioco al massacro dell’enunciazione poetica che caratterizza una buona parte della produzione di Zanzotto dalla Beltà in poi. Ed esso testimonia della circolazione continua del fantasma (fantasia, chimera, ossessione, mistificazione), anche in quel logos eveniente che vorrebbe dire il mondo e dargli consistenza.

A conclusione di questo percorso sinuoso, sorta di viavai tra testi dell’uno e dell’altro autore, testi poetici e di poetica – anche se, come abbiamo visto, la distinzione è spesso poco evidente –, vorrei evocare un altro degli importanti punti di tangenza tra Zanzotto e Ponge, ossia la concezione della poesia come elogio, lode di ciò che semplicemente esiste. Scrive Zanzotto nel suo Autoritratto del 1977:

Particolarmente in certi istanti io provavo una febbrile, travolgente ebbrezza dell’esistere per poter contemplare certe cose, anzi per partecipare a una loro vita segreta. Sentivo che promanava, quasi, da una foglia, da un albero, da un fiore, da un paesaggio, da un volto umano, da una presenza qualsiasi e più tardi anche da un libro, una corrente di energia, un sentimento di corrispondenza da me attesa; c’era una specie di circolazione tra la mia interiorità e questo mondo esterno tutto fatto di “punti roventi”, vette o pozzi, preminenze in ogni caso. Di là sono venuti i fantasmi più insistenti che mi hanno spinto in direzione della poesia. E a questo punto devo ribadire che a mio parere la poesia è, prima di tutto, un incoercibile desiderio di lodare la realtà, di lodare il mondo “in quanto esiste”.[31]

Ritroviamo in queste righe diversi “motivi” tipicamente pongiani: la “vita segreta” delle cose, le cose piccole e semplici (“foglia”, “albero”, “fiore”), le specifiche occasioni d’incontro (“punti roventi”, “preminenze”) e la naturale (“incoercibile”) attitudine alla lode, che definisce il fare poetico nel suo tratto distintivo. Ulteriore conferma di questa prossimità possiamo averla, citando un passo tratto da Comment une figue de paroles et pourquoi:

Il existe dans l’homme une faculté (…), une faculté (dis-je) de saisir que les choses existent justement parce qu’elles sont – et resteront toujours – incomplètement réductibles à son esprit.

La reconnaissance (et l’amour et la glorification) de cette existence des choses (ou aussi bien des êtres) si variées, si inattendues, si imprévisibles, si sacrées (peut-être) si indicibles (non, pas indicibles), telle est la fonction supérieure de la poésie : c’est la chose plus naturelle au monde.[32]

È importante sottolineare ciò che Ponge mette tra parentesi con spirito di understatement. Le cose suscitano la lode per tutta una serie di caratteristiche (“varie, “inattese”, ecc.), ma in primo luogo perché semplicemente esistono. Ora, nonostante esse siano “non compiutamente assimilabili” dalla mente umana – e quindi irrimediabilmente opache –, non per questo esse sono indicibili. La dicibilità del mondo non solo fa piazza pulita di tutti i miti (i “fantasmi”) connessi all’ineffabilità che minaccia la parola poetica, ma soprattutto considera quest’ultima un moto tipico del linguaggio umano. Ancora una volta, Ponge ribadisce la continuità tra parlare comune e scrittura poetica.

Se fino a qui, nel raffronto tra i due poeti, non possiamo che riconoscere una profonda condivisione di sguardo e attitudine, nelle pagine successive del suo scritto Zanzotto introduce un tema estraneo a Ponge, quello dello statuto “precario” del soggetto che guarda il mondo. D’altra parte, stiamo percorrendo le pagine più intime dell’autoritratto. E possiamo identificare, forse, una delle ragioni autobiografiche, che ci permettono di comprendere sia il motivo variamente declinato della dissoluzione e dell’inconsistenza del mondo (e/o dell’io), sia l’ossessione per un fondamento e un’origine, che siano garanzia di realtà e condivisione.

Ma soprattutto credo che abbia male influito sulla mia infanzia e sulla mia adolescenza l’infiltrarsi progressivo in me di un’idea certo aberrante; quella dell’impossibilità di partecipare attivamente al gioco della vita in quanto ne sarei stato escluso. (…) Vivevo in una strana duplicità, nel precario, nel vuoto. Cresceva in me un sentimento di distacco dalla realtà, vedeva come su uno schermo allontanante il mondo della storia ed i suoi conflitti (…).[33]

Zanzotto ci fornisce una pista “psicologica”, per interpretare quella minaccia d’irrealtà che pesa non tanto sulle cose, sulla loro carattere “inassimilabile”, ma sul soggetto stesso che è portato a lodarle. Quest’ultimo è minato nella sua fisionomia interna e nella sua capacità espressiva, ancor prima di essere entrato in contatto con uno dei “punti roventi”, che designano l’incontro erotico tra l’io e una “preminenza” del mondo. Non è caso, d’altra parte, che proprio in tale contesto discorsivo emergano, poche righe dopo, immagini d’inconsistenza ed evanescenza legate all’attività poetica. Proseguiamo dunque la lettura:

(…) ho corteggiato a lungo il sacro mondo delle muse o anche il mondo banalissimo di quelle che vengono scambiate per muse e in realtà sono soltanto scorie di miraggi, alcuni già vivi nel passato, altri già morti quando erano stati progettati come futuro. Quello della poesia è un mondo di sbagli, di allucinazioni, di torpori, di rigiri a vuoto, in cui s’incontra di tutto e ben di rado la pepita, il ramo d’oro.[34]

Abbiamo qui uno strano rovesciamento rispetto al primo dei brani citati. Nel momento in cui viene meno la “circolazione” tra l’interiorità e il mondo esterno e in cui si fa strada “il sentimento di distacco dalla realtà”, in aiuto del poeta giunge il “sacro mondo delle muse”, ossia tutta un’eredità culturale e letteraria che deve supplire al mancato incontro con i “punti roventi”. Entro tali condizioni psichiche ed esistenziali emerge, allora, quella “archeologia del paesaggio”, che facendo di necessità virtù permette a Zanzotto di includere nella sua poesia non solo la lode per ciò che esiste, ma anche la lotta con i propri fantasmi (individuali e collettivi), con insomma quella serie “di sbagli, di allucinazioni, di torpori, di rigiri a vuoto”, in cui il poeta si dibatte nei lunghi periodi che intervallano i suoi rari incontri con una “pepita” o un “ramo d’oro”.

Note

[1] Francis Ponge, Nioque de l’avant-printemps, Gallimard, Paris, 1983, pp. 21-22.

[2] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2011, p. 309.

[3] La Beltà, in particolare, costituisce quasi un formulario di questa ambivalenza-reversibilità tra “consistenza” e “dissoluzione”, che sono i due possibili e contradditori esiti del “processo di verbalizzazione del mondo”. Ricordo da un altro testo (Esautorazioni): “(…) davanti al mondo ch’è paese: / ma come, come lo sosterrò? / Come lo risolverò? E il mondo è risolto? Risolto non è dissolto? E il grumo non deve – oro guano miele – rimanere? (…)”. Il “grumo” è ancora una volta sinonimo di “fondo”, di “residuo”, ma anche di “nucleo”, “radice”, “fondamento”: esso può essere inutile e ripugnante come uno scarto – la feccia, le deiezioni organiche – o magnifico e godibile come il dono supremo – l’oro, il miele. Inutile insistere ancora una volta sui rimandi alla simbologia alchemica, essi d’altra parte, assieme a rimandi di caratare mitologico, letterario, storico, filosofico, non fanno che “rimpolpare” figurativamente il concetto di zanzottiano di poesia che, soprattutto a partire da questo libro, diventa assieme al paesaggio (il referente “privilegiato”) uno degli argomenti della poesia stessa (Ivi, p. 276). Questo, per altro, è un ulteriore aspetto che Zanzotto e Ponge hanno in comune: l’integrazione del discorso sulla poesia (riflessione, teoria) all’interno degli stessi componimenti poetici.

[4] Ivi, p. 609.

[5] Francis Ponge, Pour un Malherbe, Gallimard, Paris, 1965, p. 25.

[6] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 267.

[7] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., pp. 74-75.

[8] Francis Ponge, Nioque de l’Avant-Printemps, op. cit., p. 31.

[9] È importante ricordare che, oltre ai riferimenti espliciti e noti di Zanzotto a Lacan, da un lato, e a Heidegger, dall’altro, all’altezza della Beltà si è ormai giocata, a livello di cultura europea, la transizione dal paradigma filosofico della fenomenologia e dell’esistenzialismo a quello dello strutturalismo e del decostruttivismo. Zanzotto, per altro, è alla fine molto più poeta di “idee” che Ponge, il quale resta relativamente sordo a queste correnti intellettuali, per quanto riguarda la riflessione sulla sua prassi poetica. Una sordità che, almeno nel suo caso, potremmo definire “feconda”.

[10] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., p. 197.

[11] Ivi, p. 201.

[12] Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazioni con Marzio Breda, Garzanti, Milano, 2009, p. 26.

[13] Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano, 2019, pp. 124-125.

[14] Il testo è poi raccolto in: Francis Ponges, Méthodes, Gallimard, Paris, 1961, p. 202.

[15] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., p. 73.

[16] Francis Ponge, La rage de l’expression, Gallimard, Paris, 1952 e 1976, p. 114.

[17] Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973, p. 153.

[18] A dire il vero, come ha mostrato tra gli altri Luca Stefanelli in un approfondito studio dedicato alla Beltà e alle sue fonti intertestuali – Attraverso la Beltà di Andrea Zanzotto del 2011 – svariati temi heideggeriani circolano già in questo libro. L’emersione, però, della tematica dell’idioma e dell’oralità dialettale creano ulteriori tangenze tra la poetica zanzottiana e il pensiero del filosofo tedesco, che troveranno nella trilogia un terreno privilegiato di sviluppo.

[19] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 508.

[20] In un intervento scritto quattordici anni più tardi, Zanzotto affronterà in modo critico, in uno stesso contesto discorsivo, sia la nozione di idioma sia la fascinazione che essa ha esercitato su scrittori come Artaud e pensatori come Heidegger. In Tra ombre di percezioni “fondanti”, del 1990, leggiamo: “Si ricordi, tra l’altro, a proposito dello sprofondamento necessario per avere un qualche rapporto con gli strati originari (in una certa analogia con Artaud) che nel caso di Heidegger si constata l’inveramento, in una forma resa mostruosa, dell’”idioma”. Egli, pare, non fu nazista nel senso di razzista (…); egli idolatra la propria lingua, blocca lo sgomento del senzafondo puntando sulla lingua (propria). Non è qui inesatto appunto richiamare la tematica di Artaud, perché, effettivamente, all’inizio si è sempre immersi, diciamo pure infangati, interrati, all’interno di una lingua, che è e dà radici. (…) Ma Heidegger va in delirio per l’idiomaticità pura, che fa tutto precipitare proprio in implosività ed impossibilità di un’uscita reale verso l’esterno”, Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, I Meridiani Mondadori, Milano, 1999, pp. 1340-1341.

[21] “Il «logos erchomenos» di Andrea Zanzotto”, in Giorgio Agamben, Categorie italiane, apparso per la prima volta per Laterza, Bari, nel 2010. Nuova edizione, per Quodlibet, Macerata, 2021.

[22] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 312.

[23] Ivi, p. 237.

[24] Ivi, p. 257.

[25] Ivi, p. 654.

[26] Francis Ponge, Comment une figue de paroles et pourquoi, Flammarion, Paris 1977 e 1997, pp. 66-67.

[27] Quali che siano le ricchissime considerazioni speculative si possono trarre dalle Ricerche filosofiche, i poeti potrebbero accontentarsi di accogliere almeno un paio di consigli. Poeta – sembra dire Wittgenstein – invece di andare alla ricerca di una parola pura e perfetta, meravigliati dello straordinario accordo che, nella vita ordinaria, possiamo constatare tra le forme di vita e i nostri modi di dire! Dedicati alla pratica di ciò che il linguaggio già ti permette di fare, senza pensare di possedere uno strumento strutturalmente imperfetto e inadatto ai tuoi bisogni! E non rimanere affascinato dai miti sull’origine e il fondamento del linguaggio, perché essi non contribuiscono in nulla a rendere più efficace la pratica dei vari giochi linguistici!

[28] Francis Ponge, La rage de l’expression, op. cit., p. 105.

[29] Si legga quanto scrive Zanzotto, nel 1967, parlando de Gli strumenti umani di Sereni, ma parlando forse più di se stesso e della sua poetica: “Egli ha la piena coscienza che nessuna situazione della vita concreta è di fatto tanto demitologizzata (o deerotizzata) da non basarsi su monconi di miti e di amori che, tutto sommato, non possono non conservarsi tali, e che per essere sentiti come tali devono venire espressi proprio con questi termini, per quanto frusti ed erosi, anche se il mito dell’antimito e del disincanto totale impone delle finte, delle reticenze nei loro confronti. (…) Si delinea allora una verità in cui la terminologia ‘alta’ e accenni di sintassi alta bucano il tessuto del parlato depresso-disilluso che pure viene accettato, se non come preferibile, come il solo che oggi conceda agganci”, in Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano, 1994, p. 42.

[30] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 679.

[31] Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, op. cit., p. 1206.

[32] Francis Ponge, Comment une figue de paroles et pourquoi, op. cit., p. 101.

[33] Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, op. cit., pp. 1207-1208.

[34] Ivi, p. 1208.

Mar e Dio

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di Vincenzo Reale

Maria del Mar si prostituiva, ma a Caracas tutti sapevano che serviva pizze e supplì alla stazione di Roma Termini per pagarsi un corso di make-up. Quando il suo fidanzato l’aveva lasciata e se ne era tornato in Venezuela, Mar era rimasta in Italia senza soldi e senza lavoro e senza casa e un giorno in treno aveva conosciuto una dominicana che le aveva proposto di lavorare con lei, che le aveva detto che era molto bella e che bastava mettere un annuncio online per fare un po’ di soldi. E aveva ragione. Mar era procace, tropicale. Aveva un volto antico, primigenio, che a guardarlo ti sembrava di conoscere tutta la storia del mondo. Ma era anche giovane, e di un’età indecifrabile. E i capelli erano lunghi e neri e luccicavano come filamenti di diamanti. Era molto bella, Mar. Sorrideva poco, e quella gravità la impreziosiva; parlava poco, perché le avevano detto che era meglio parlare poco o non parlare affatto, se si era poco istruiti. Aveva ragione, la dominicana. Mar scrisse l’annuncio. – Fatima – disse Mar alla dominicana – non so se ce la faccio. – Ce la farai. – E ce la fece, Mar. Bastava bere un paio di birre prima degli appuntamenti e i clienti se ne andavano soddisfatti. E tornavano.

La casa di Fatima era al terzo piano di un palazzo rinascimentale, e la stanza di Mar era affrescata. Il cliente entrava, la pagava e si spogliava e, quando stava sotto, Mar guardava Dio sul soffitto. Era vecchio e arrabbiato e la giudicava. Poteva essere suo nonno, poteva essere il nonno di Fatima, poteva essere un altro cliente. Mar non ci credeva, in Dio, ma pensare a Dio come a un cliente lo faceva esistere. Per un attimo, solo per un attimo – il tempo di due giravolte sul letto e qualche gemito – Dio esisteva. Quando però tutto era finito e Mar si ripuliva con le salviette umide sul comò, Dio tornava di calce, scolorito, spento. Una domenica, dopo aver passato tutta la mattina a pensarci, disse a Fatima: – L’ho visto sorridere, l’altro giorno. – Chi? – Dio – disse Mar, e non riuscì a credere di averlo detto. – Sì – disse Fatima – a volte lo fa.

Presto Mar fu piena di appuntamenti, così piena che certi giorni non aveva neanche il tempo di mangiare. Faceva dieci docce al giorno, cambiava le lenzuola, riprofumava la stanza. Tutto sotto gli occhi di Dio e degli angeli ribelli, che sembravano fuggire via quando Mar si spogliava; si disperdevano per la stanza con gli occhi iniettati di lacrime e rimanevano immobili a mezz’aria. Dopo aver passato il pomeriggio con Mar, i clienti tornavano a casa e scrivevano online lunghe recensioni appassionate, e tutti, forse con ancora gli affreschi negli occhi, dicevano che Mar era un angelo in carne e ossa. Alcuni si innamorarono. I più ricchi andavano a trovarla quasi tutti i giorni, gli altri si presentavano con fiori e gioielli. Mar non poteva innamorarsi, ma alla fine s’innamorò anche lei. Glielo avevano detto, di non innamorarsi degli italiani. Glielo aveva detto, Fatima, di non innamorarsi dei clienti. Ma Mar lo fece.

Lui non era ricco – faceva il cameriere in un ristorante – e non era bello, ma sapeva farla ridere, capiva la meccanica del suo umorismo, e parlava uno spagnolo buffo, da italiano, e già dopo i primi appuntamenti Mar non sentì più il bisogno di bere prima le due birre. Quando se lo trova alla porta, ha come la sensazione che sia nel posto sbagliato, che debba essere tra i suoi affreschi a scacciare i demoni o a proteggerla dalla pioggia di fuoco su Sodoma e Gomorra. Si incontrano per mesi. E poi una sera lui arriva stanco, ha gli occhi incavati, si mettono a letto e si spogliano e fanno tutto con calma, Mar dimentica Dio, e si svegliano abbracciati la mattina e Mar si rende conto di non aver ricevuto soldi, di non averli chiesti, di non averli voluti, e se ne rende conto anche lui, cerca i pantaloni sul pavimento perché è lì che tiene il portafogli – Li prendo subito – le dice. – Non importa – dice lei, – non li voglio. – Sono qui, te li do subito. – Non li voglio. – Perché non li vuoi? – Mar non risponde. Perché non li voglio?, pensa, perché mi sembra sbagliato volerli? Mar è perspicace, capisce subito, ma non parla. Lui la guarda, rimette il portafogli nei pantaloni, si siede sul letto. – Vuoi venire a vivere da me? – Mar non ricambia lo sguardo, ha appena visto Dio sorridere sotto i baffi. Risponde solo: – Sì.

Fatima non approvò affatto quella decisione, e glielo disse. Le disse anche che la metteva nei guai, che doveva dirglielo prima, che adesso doveva tornare a pagare l’affitto da sola. – Sei una puttana – concluse. – Sparisci.

Maria del Mar fu felice. Lui lavorava quasi tutto il giorno, ma la sera tornava a casa e Mar cucinava e nei fine settimana andavano a ballare, e poi di domenica, quando si svegliavano e c’era il sole, passeggiavano nel parco e mangiavano in qualche trattoria e bevevano vino e tornavano a letto e ci rimanevano per ore. Si scoprirono gelosi, lei delle sue colleghe affascinanti e istruite, lui delle telefonate che Mar riceveva a tutte le ore del giorno e della notte dai vecchi clienti. – Lo sapevi – gli diceva Mar – lo sapevi che facevo la escort. – Lui lo sapeva e non parlava. Lei capiva che di uno come lui, di uno abituato a frequentare escort, non c’era in fondo da fidarsi. Ma Mar l’aveva fatta, la escort, e allora non parlava neanche lei, perché in fondo neanche di lei c’era da fidarsi. Quando però lui usciva, lei lo seguiva o controllava col telefono i suoi spostamenti. E quel telefono, il telefono di Mar, inondato di chiamate e messaggi. A volte i clienti erano insistenti, così insistenti che Mar era costretta a mandargli un vocale – volevano sentire almeno la sua voce – o, come era prevedibile, delle sue foto in intimo. Almeno la lasciavano in pace per un po’. Mar si scattava le foto e le inviava, e tra una foto e l’altra controllava dove fosse lui. Ma lui era sempre al lavoro, e allora un giorno Mar va al ristorante e lo osserva dalla vetrina e vede che lavora davvero, che con le colleghe non parla quasi mai, se non dei tavoli da servire e da sparecchiare. Lui la vede, là fuori, ma non fa in tempo a uscire a parlarle che Mar è già andata via. Mar torna a casa e dovrebbe essere felice, ma non lo è. È arrabbiata, e non capisce perché. Riordina il letto, apre le finestre, pulisce la cucina e pensa, mentre spolvera i cassetti, pensa e non capisce e si dice che, se non capisce, è perché non c’è niente da capire. Che forse l’amore è proprio questo: una banalità.

Una sera Mar preparò la cena e comprò del vino e mangiarono e bevvero, andarono a ballare e bevvero ancora, e mentre ballavano lui le si avvicinò all’orecchio e le disse: – Pensi che sono stupido? – Iniziò una lunga discussione che si trascinarono fino a casa, e a casa entrambi esplosero e lui le strappò di mano il telefono e vide tutti quei messaggi e tutte quelle foto, e lei gli rimproverò di essere troppo ingenuo, di non aver fatto niente per conquistarla, per conquistare la sua fedeltà. In quella casa si erano scoperti gelosi, e adesso, tra le parole e i movimenti disorganici dei loro corpi, si scoprirono violenti, e da quella casa – che non era affrescata, che era senza Dio – Mar fu cacciata come un angelo ribelle, insultata e cacciata da lui, che di nome avrebbe potuto fare Luca o Esteban o 温琴佐, ma che a lei non era mai importato, mai, anche se, si disse Mar in mezzo alla strada con la sua vecchia valigia, forse era l’unico ad averla amata davvero, e forse lei, Mar, la prostituta, l’impulsiva e ormai cinica prostituta di Caracas, la violenza se l’era meritata.

Maria del Mar aveva ancora le chiavi della casa di Fatima, e quella notte tornò lì, nella sua stanza affrescata. Sembravano passati millenni. Fatima non c’era. Si sentì al sicuro, si sentì di nuovo corretta. Dio era sul soffitto e la guardava, e adesso con il dito onnipotente sembrava indicarla. Cos’è che sbagliava sempre? Ogni volta sbagliava qualcosa. Ogni volta. E cos’è che avrebbe fatto ora?, pensava. E se fosse tornata in Venezuela? Le servivano più soldi. Avrebbe ricominciato da lì, dalla stanza affrescata, e avrebbe scopato abbastanza da comprare un volo per Caracas, e poi, e poi, Maria del Mar, si disse ancora in piedi in mezzo alla stanza, cosa fai a Caracas? Cosa racconti alla gente, Mar? No, pensò, sto pensando troppo. Lui mi richiamerà, mi scriverà, mi chiederà scusa e ci chiederemo scusa e ricominceremo da lì, nella casa senza affreschi. Le cose non finiscono così, le storie non finiscono di notte. E se invece, pensò, finissero proprio così? Finiscono proprio così, Mar, si disse. Di notte.

Si abbandonò sul letto a braccia aperte, si tolse le scarpe. Era inquieta, era stanca. Fece un lungo sospiro, inarcò le sopracciglia, ma invece di sorridere sentì il volto contrarsi in una smorfia di disgusto, e fu solo in quel momento che accettò di piangere.

Si addormentò con difficoltà, ma quella notte Mar sognò una grande festa e dei fiori. Una foresta, una città di fiori. Indossava un vestito scarlatto in organza e non riusciva a smettere di ridere – se non per bere dal suo flûte di cristallo. Era un giorno magnifico. I suoi occhi si perdevano tra le decorazioni della città, i drappi dorati alle finestre e le bandiere di un mondo nuovo e intramontabile che ondeggiavano al vento, e intorno a lei tutti cantavano inni trionfali di prosperità. Non era il paradiso, era qualcosa di meglio, e Mar era lì, era parte di qualcosa di eterno.

Quando Fatima tornò, la stanza era ancora piena di fiori. Il volto consumato, le rughe antiche, Dio vegliava solenne dal soffitto. Tra le increspature della barba di calce, l’orizzonte piatto del mare.

La televisione e la metamorfosi del palinsesto

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di Pasquale Palmieri

Non guardiamo più la televisione come una volta. Ce lo ripetiamo spesso, contribuendo a costruire un solido luogo comune, ma fatichiamo talvolta a comprendere le ragioni di quello che sta accadendo davvero al “piccolo schermo”. I nati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – per fare un esempio – hanno un’esperienza del tutto peculiare del medium, difficile da spiegare alle nuove generazioni. Le giornate erano scandite dai palinsesti. Si mangiava all’ora di Beautiful, di ritorno da scuola. Si sostava sul divano durante I Simpson, si aprivano svogliatamente i libri per studiare dopo la sigla finale di Non è la Rai, prima della Melevisione o di Bim Bum Bam. La passeggiata con gli amici segnava uno dei rari momenti di disconnessione dal “tubo catodico”. Il rientro a casa era accompagnato dalla sigla di apertura del telegiornale, ma nel giro di pochi minuti iniziavano le contese familiari per la conquista del telecomando. Duravano poco, in genere. In fondo la tentazione di abbandonare il notiziario per il Karaoke di Fiorello, Sarabanda, Un posto al sole o per l’ennesima replica di Una mamma per amica era forte anche per gli spiriti più responsabili o desiderosi di informazione.

Ormai da anni è in corso un cambiamento profondo, che appare inarrestabile. Cosa lo ha reso possibile? Quali dinamiche hanno contribuito a ridimensionare il ruolo di un oggetto che sembrava possedere un’assoluta e indiscutibile centralità nelle nostre vite? Non ci sono facili risposte per queste domande. Siamo soliti fare riferimento all’arrivo di internet e delle piattaforme digitali, ma rimane difficile trovare un orientamento in questo paesaggio variegato. È di certo utile allo scopo l’eBook di Alice Valeria Oliveri, intitolato Mondovisione (contenuto nella serie “Quanti” di Einaudi), che si pone l’obiettivo esplicito di costruire una mappa della tv contemporanea in Italia. Fin dalle pagine introduttive, l’autrice suggerisce di concentrare l’attenzione proprio sul concetto di palinsesto, baluardo delle reti tradizionali, capace di salvaguardare “la verticalità del contenuto” e di arginare “l’orizzontalità dei cataloghi infiniti” – quelli di Netflix, Disney+, Prime, Youtube, in prima istanza – a disposizione di utenti seguiti e profilati in ogni scelta, guidati dagli algoritmi verso prodotti che si ritengono confacenti alle loro preferenze.

Gli anni Venti del Duemila continuano a spostare le prospettive e sembrano rendere meno appetitoso questo infinito menù, pronto a soddisfare ogni palato. Si intravedono i segni di un’uscita definitiva dalla “sbornia” di “grande serialità” internazionale che ha caratterizzato l’inizio del nuovo millennio, fatta di draghi, metanfetamina, zombie e isole misteriose. Non servono più grandi prove per ammettere che le fiction Rai – da molti denigrate, fino a divenire bersagli di spassose parodie – svolgono bene il loro compito. Una replica del Commissario Montalbano riesce a raggiungere con facilità il 20% di share, ma anche prodotti come Blanca, Le indagini di Lolita Lobosco e L’amica geniale ottengono risultati importanti in termini di ascolto. Questa solidità di consenso si spiega, secondo Alice Valeria Oliveri, con “una scrittura semplice e distesa”, che coinvolge senza sconvolgere, creando “un rapporto di fedeltà tra lo spettatore e la messa in scena che si solidifica col tempo”. Una dinamica simile è innescata da Domenica In, fondata sul rapporto intimo che si stabilisce fra conduttrice e ospiti, impegnati nella ricerca di ricordi comuni sospesi fra sfera personale e memoria collettiva del paese. Altrettanto efficaci come dispositivi di coinvolgimento sono i giochi a premi, capaci di ricreare un ambiente familiare, nel quale chi segue la competizione può assorbire le sensazioni dei concorrenti, le loro paure o la loro voglia di rischiare.

Diverse sono invece le caratteristiche del “continente Mediaset”, che un tempo provava a cavalcare il mito della libertà dai vincoli statali configurandosi come terra di coraggio e innovazione, ma oggi ripiega su una strategia di conservazione, legata a programmi e volti garantiti dal “bollino di Canale 5”. Il cuore pulsante di questa impresa è il regno di Maria De Filippi, “una sorta di Vaticano della tv, pari allo Stato Pontificio sia per potere che per influenza nel resto dell’universo televisivo italiano”. Uomini e donne, Temptation Island, C’è posta per te e Amici vanno a formare una sorta di pianeta parallelo abitato da tronisti, traditori seriali e aspiranti stelle che “rimbalzano da studio a studio”, rendendosi riconoscibili grazie a una peculiare postura etica, estetica e verbale. Tutto ruota intorno alla parola “percorso”, che è la chiave di volta di ciascun segmento narrativo: un “percorso” per trovare il grande amore della vita, un “percorso” per avere conferma della solidità dei propri legami sentimentali, un “percorso” di riconciliazione familiare, un “percorso” di crescita professionale o artistica. Le regole sono dettate proprio dalla conduttrice, che accompagna le trame con la sua voce e il suo sguardo (benevolo, interrogante, giudicante), interpretando i sentimenti del suo pubblico, accarezzando il senso comune, arrogandosi il diritto “mettere ordine, legiferare, ristabilire gli equilibri”.

Più in generale, si ha l’impressione che Mediaset abbia trovato un suo assetto iconografico stabile e faccia costantemente leva su un palinsesto rivolto al passato. Cosa hanno in comune Paolo Bonolis, Luca Laurenti, Gerry Scotti, Michelle Hunziker, Ezio Greggio, Enzo Iacchetti, Federica Panicucci, Ilary Blasi, Alfonso Signorini, Silvia Toffanin, Claudio Bisio e Vanessa Incontrada? Poche cose, si direbbe a un primo giudizio superficiale. Usano diversi registri e si impegnano su diversi generi. Ciò nonostante, risulta difficile ignorare il fatto che siano accomunati da una residenza stabile in azienda – con occasionali o rare eccezioni – che copre un periodo oscillante dagli ultimi 20 agli ultimi 40 anni. Di certo non possono bastare iniziative isolate, come la defenestrazione di Barbara D’Urso o l’ingresso di Bianca Berlinguer, per disorientare una platea tendenzialmente adulta, abituata ad avere punti di riferimento precisi, con lunghe e consolidate esperienze.

Ben più complesse sono le considerazioni possibili quando ci si allontana dalle cosiddette “reti ammiraglia” di Rai e Mediaset (Rai Uno e Canale 5, per intenderci). Alice Valeria Oliveri è molto attenta nel registrare i movimenti tellurici che hanno interessato emittenti come Raidue o Italia 1 in seguito alla migrazione del pubblico giovane verso le piattaforme digitali. Non è un caso che le poche novità di successo degli ultimi anni siano legate a prodotti frazionabili, dai quali vengono estratte sequenze brevi destinate a diffondersi grazie a Instagram, Youtube, Tik Tok. È certamente il caso di Una pezza di Lundini, incentrato su interviste surreali, simulati servizi d’inchiesta e parodie della televisione classica; di Belve, che costringe gli intervistati ad adattarsi a una liturgia codificata, rispondendo sempre alla stessa domanda (“Che belva si sente?”); o del Collegio, che catapulta gruppi di adolescenti in immaginarie scuole di epoche passate, costringendoli ad affrontare anacronistici riti di passaggio (come il “primo taglio di capelli”). Persino la vecchissima formula delle Iene – attiva fin dal 1997, bene ricordarlo – ha provato a entrare a gamba tesa nel flusso della viralità con monologhi affidati a personaggi famosi, che trattano temi controversi o rispondono a domande formulate da utenti dei social network. In buona sostanza, siamo di fronte a un repertorio variegato che si tuffa nel web per attendere una certificazione di rilevanza, sondando i gusti e i giudizi di generazioni ormai lontane al telecomando.

È stata proprio la rete, che prometteva di annientare la televisione, a costruire invece un sistema di vasi comunicanti capaci di nutrirsi a vicenda, permettendo allo spettatore di sfruttare la disintermediazione e di costruirsi un palinsesto su misura. I segni distintivi di questa trasformazione erano stati già individuati nel 2014 da Luca Barra (Palinsesto. Storia e tecnica della programmazione televisiva in Italia, Roma-Bari, Laterza) e Irene Piazzoni (Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv, Roma, Carocci). Non riuscendo più a essere il punto di incontro fra emittente e pubblico, o fra industria e consumo, il “palinsesto” lascia spazio al “catalogo”, dissolvendosi all’interno di un paesaggio mediale complesso che separa il prodotto dalla sua messa in onda. Lo stesso progresso tecnologico risponde a spinte eterogenee – lo ha chiarito bene Peppino Ortoleva nelle sue “lezioni” (Media-storie, Roma, Viella, 2020) – offrendo di volta in volta risposte a bisogni culturali, politici ed economici dotati di una loro concretezza storica, e quindi indagabili in primo luogo con il metodo storico. Anche sulla base di queste analisi, riusciamo a comprendere come i vorticosi cambiamenti in corso non abbiano spazzato via il potere del vecchio “piccolo schermo”, ancora in grado di intromettersi, sia pur in maniera indiretta, nella produzione di discorso pubblico.

Nello specifico, le piattaforme liberano gli spettatori dai principi ordinatori che erano soliti scandire le loro giornate, dando agli individui la possibilità, o forse la semplice sensazione, di comporre scalette personali. È importante tuttavia sottolineare come questi processi distributivi stimolino anche la convergenza di molteplici dispositivi sui medesimi contenuti, che proprio per le reti “generaliste” della tv tradizionale erano stati ideati. Si pensi ad esempio alle comunità di appassionati che hanno contribuito alla fortuna della serie Mare Fuori condividendo interviste, commenti, recensioni, anteprime. O si considerino sul versante opposto – quello delle iniziative industriali – le scelte di Discovery e Sky, che provano a trarre beneficio dalla popolarità di personaggi e programmi già affermati, accaparrandosi celebrità come Fabio Fazio, Amadeus, Gialappa’s Band, o comprando i diritti per trasmettere X-Factor, Italia’s Got Talent e Pechino Express.

Nel descrivere questo scenario di grandi metamorfosi, siamo comunque costretti a fare i conti con una delle più grandi singolarità del nostro paesaggio mediatico: il successo strabordante del Festival di Sanremo. La polverizzazione dei consumi di contenuti su molteplici dispositivi e piattaforme avrebbe potuto configurarsi come un ostacolo invalicabile per l’agognato trasversalismo nazionalpopolare della rassegna canora. Ma gli sviluppi degli ultimi anni hanno acquisito una fisionomia ben diversa. È stata proprio l’espansione transmediale dell’evento a creare, al contrario, una straordinaria occasione di interazione fra persone di diverse età. Non importa che si segua la trasmissione in diretta su Raiuno, che si leggano i commenti su Facebook, Twitter (ora denominato X) o Threads, che si guardino i video su Tik Tok, Instagram o Youtube. L’importante è essere presenti, pronti ad affrontare la discussione e ad essere parte del grande gioco, costi quel che costi.

Il Festival di Sanremo ci consente, in estrema sintesi, di uscire dalle nostre bolle social, stimolandoci a convergere attraverso i nostri dispositivi tascabili e i nostri profili social su un unico spettacolo. Ci riporta – con un salto all’indietro di sapore quasi nostalgico – dentro la sincronia del vecchio tubo catodico, dandoci la possibilità di condividere opinioni, giudizi e preferenze con le persone che ci circondano, nella consapevolezza di star facendo tutti la stessa cosa nello stesso momento (senza che si tratti della trasmissione in diretta di un grande evento sportivo). Proprio per la comprensione di questi passaggi risulta cruciale la lettura di Mondovisione di Alice Valeria Oliveri. Con un paragone felicissimo, l’autrice ci invita a immaginare il web come una biblioteca infinita, nella quale è possibile scegliere in solitaria il prossimo testo da leggere. La tv invece aspira a essere, ancora oggi, un gigantesco circolo di lettura con milioni di iscritti che si radunano in un orario preciso per poter parlare insieme dello stesso libro. Questo obiettivo – in condizioni ordinarie – sembrerebbe essere ormai irrealizzabile, chimerico, anacronistico. Ma ogni anno, almeno in Italia, ai primi di febbraio l’utopia smette di essere tale e assume i contorni del reale.

 

RASOTERRA #1

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di Elena Tognoli (disegni) e Giacomo Sartori (testi)

 

(il merlo)

«Per molti merli dire lombrico equivale a dire porchetta, o pollo arrosto, un qualcosa che ha un valore solo alimentare. Mi farei volentieri due lombrichetti, si sente dire, e nessuno pensa che si tratta di creature viventi, con un abbozzo di cervello e sedici cuoricini. Chi non ha testa ha gambe, si sente spesso dire, quando un verme riesce a squagliarsela, anche se forse l’espressione non è adattissima, trattandosi di animali senza gambe.
Devo confessare che io li trovo invece molto interessanti. Non si può dire che siano esseri molto espansivi, e men che meno empatici, però a ben vedere hanno una loro ctonia ieraticità, e non si perdono in chiacchiere inutili. E si danno sempre da fare, scavano e ancora scavano, mangiano e fanno i loro arzigogolati bisogni, migliorando la terra a uso e consumo delle piante, dei batteri, degli uomini, e insomma dell’ecologia. Fanno un po’ pensare alle formiche, le quali però con i loro passetti nevrotici sono sempre lì che cercano qualcosa da rubare, mentre loro non sgraffignano niente, regalano anzi alla terra le loro preziose cacchette. E non attaccano mai briga con nessuno.
Non so perché tra gli altri animali abbiano una reputazione così scadente, mentre tutti ammirano le formiche. Qualche volta mi dispiace doverli mangiare, anche se per i miei fratelli e i miei cugini, che sono sempre lì pronti a criticare, questa è pura pazzia. Fai tanto il sensibilone, e poi ti ingozzi anche tu, mi dicono.
Io non gli do retta, e mi dico che in un mondo ideale dovremmo essere tutti vegetariani, in modo da non fare male a nessuno. Il mondo però è tutt’altro che ideale, quindi se uno ha fame è normale che mangi, senza che i parenti lo critichino.»

 

(la pala eolica)

«Ho sempre adorato le tracce dei trattori sulla terra. Fanno pensare alle costole di un animale preistorico, o anche alle vertebre dei dinosauri stampate nella roccia. Si potrebbe pensare che siano tutte uguali, visto il furore di uniformizzazione che ha contagiato gli agricoltori contemporanei, e invece riescono ogni volta a stupirti con le loro imprevedibili particolarità. Possono essere lievi e sensibili, o tutt’all’opposto rozze e implacabili, oppure arzigogolate e per così dire cerebrali, o stravaganti e quasi poetiche, non si può mai sapere in anticipo. Esattamente come una frase scritta non è mai identica alle altre.
Leggendole con attenzione si capisce quello che vogliono comunicare, quello che preferiscono tenere nascosto, quello che dicono tra le righe. Molti le considerano la cosa più terra a terra che esista, e invece spesso sono struggenti. Certe serate senza vento emanano una atroce melancolia, un ardente desiderio di accedere alle verità nascoste, all’infinito. Quasi gridassero il loro desiderio di scapparsene chissà dove, chissà con chi. Secondo me bisognerebbe prenderle molto più sul serio di quanto si faccia, bisognerebbe che i critici più rinomati si consacrassero alla loro esegesi. Si scoprirebbero certo un sacco di segreti molto interessanti.
Per parte mia so bene che non posso capire tutto, che molte sfumature mi sfuggono. Sono abituata a avere a che fare con i venti, che arrivano e subito se ne vanno, senza lasciare tracce scritte. Quello che hanno da dire lo dicono con i loro fruscii e le loro sferzate, punto e basta. Qualche volta mi dico che forse mi perdo i messaggi più essenziali delle tracce dei trattori, quelli più preziosi. Giro in tondo, invece di avanzare nella comprensione.»

 

(la radice)

«Gli umani sono esseri molto singolari, hanno la mania dell’ordine e della geometria. Si fanno in quattro per organizzare ogni cosa secondo i dettami della loro logica implacabile, e anche le forme devono adeguarsi alle stesse prescrizioni. Adorano i campi perfettamente rettangolari, i solchi degli aratri paralleli come rotaie, l’erba rapata a zero, gli alberi tutti uguali, i frutti identici uno all’altro, le strade asfaltate senza l’ombra di una buchetta o d’un filo d’erba. Passano e ripassano i loro erpici sulla superficie finché la terra non ha la minima irregolarità, non sopportano il minimo difettuccio. È davvero inspiegabile, questo fanatismo dell’apparente regolarità e simmetricità.
Se non vedessero solo la facciata – è la nostra salvezza -, verrebbero a mettere ordine anche giù da noi, sotto i loro piedi. Farebbero avanzare le radici tutte dritte, come i soldati a una parata, obbligherebbero i lombrichi a scavare gallerie rigorosamente parallele, ognuna identificata con un codice a barre, raderebbero le barbe delle micorrize perché siano della stessa lunghezza, rinchiuderebbero i vari animali in gabbiette separate, ognuna con la sua bella etichettina e il suo QR Code. E metterebbero delle luci dappertutto, perché hanno la smania dell’illuminazione, anche quando non c’è alcun bisogno.
Per finire spargerebbero i loro prodotti per sterminare tutte le nostre amichette e tutti i nostri amichetti, a cominciare da quelli microscopici: la chiamano pulizia, o disinfezione, o pastorizzazione. Fortunatamente non possono vedere un bel niente sotto terra, altrimenti per noi sarebbe la fine.»

I materiali testuali e grafici che presentiamo sono stati elaborati nel corso della residenza artistica “Terra Alta” al Centro CA’MON (Monno, Valcamonica, 2023-2024), che terminerà questo settembre, finanziata dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura (Creating Living Lab, quinta edizione). Essi entreranno, assieme alle interviste agli specialisti di varie discipline (agroecologia, economia responsabile, arte…) che sono stati coinvolti nel progetto, in un volume in preparazione. Il direttore artistico di CA’MON è Stefano Boccalini, mentre tutte le nostre attività sono state coordinate da Elena Turetti, responsabile della progettazione, e da Marco Milzani, direttore della Cooperativa Sociale Il Cardo (Edolo, Valcamonica).

Abbiamo iniziato questo lavoro sulla terra (con la t minuscola) e i viventi, a cavallo tra arte scrittura e scienza, nella primavera del 2021, nell’immediato dopocovid, con la residenza “Panorama” (PETR Cœur des Hauts de France, DRAC Hauts de France, 2021-2022), e lo abbiamo poi continuato nell’ambito della residenza A.R.T.S (2022 – 2023) a Lilla (Ville de Lille, DRAC Hauts de France).

Elena Tognoli e Giacomo Sartori (ETGS)

 

Spatriati

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Gianni Biondillo intervista Mario Desiati

Mario Desiati, Spatriati, Einaudi, 2021

Leggevo Spatriati e pensavo al dittico di Boccioni: “Quelli che vanno”, “Quelli che restano”. Il tuo è un romanzo di stati d’animo?

Anche e soprattutto di uomini che cambiano, il senso della storia sta nel percorso dei personaggi, delle loro esistenze e delle vicende che li riguardano e non nella conclusione.

Claudia è dinamica, determinata, estroflessa. Francesco è meditabondo, passivo, introspettivo. Hai ribaltato i luoghi comuni sui generi. Per dirci che non hanno più senso?

Sinceramente non credo a un carattere omogeneo di un genere, ho provato raccontare due mondi variegati, ma non troppo diversi. Non ho mai lavorato su un carattere predefinito, provo a evitare le scalette metodologiche, ma anche i fini e gli scopi da raggiungere. In questo romanzo mentre ci lavoravo, trasferivo anche uno sguardo personale sul mondo che cambiava e metteva continuamente in gioco il processo del racconto.

Però poi Francesco parte, diventa “uno che va”. Lascia la Puglia per Berlino. Quanto i paesaggi determinano i personaggi?

Non riesco a non immaginare una storia senza le quinte di un paesaggio e senza il colore che riflette il mondo fuori al mondo interiore dei suoi protagonisti. È anche una questione di luce, mi affascina Roberto Longhi quando dice che l’artista è uno che tiene in equilibrio la luce e l’oscuro, ed in qualche modo quel che succede con i paesaggi chiari e bui in cui si muovono i personaggi di una storia.

Più un romanzo è di finzione e più è intimamente autobiografico (nonostante l’autore lo neghi). Quanto sei in Claudia e Francesco?

Gli uomini scrivono finzioni perché sono imperfetti e fatti di carne. In quella regione intermedia e terrena fatta di fantasmi inafferrabili che si trasformano in romanzi, c’è la casa di ogni scrittore. Ho riportato un’idea che appartiene a Ernesto Sábato, e che lui raccontò nello Scrittore e i suoi fantasmi. Mi affascina l’idea di quel mondo di ombre dove si muovono gli scrittori, e in ognuna di quelle ombre riconoscono qualcosa lo affascina e gli appartiene, trasformandosi nei vari personaggi della storia che prova a raccontare. Anche se la voce di Francesco assomiglia a quella di altre voci usate da me nei romanzi precedenti, ho molto avuto alcuni snodi della mia vita, simili agli stessi di Claudia. Ma sono minuzie, poco importanti ai fini di quel che poi sono diventati i personaggi.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2022)

Come uva

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di Edoardo Balacchi

Quando ci accorgemmo che il capo era morto ci venne naturale chiuderlo nello sgabuzzino. Lo lasciammo sulla poltrona presidenziale che si era comprato da solo per i dolori alla schiena e ci limitammo a spingerlo nel ripostiglio in cui tenevamo i toner per la stampante, le lampadine di ricambio e le risme di carta.

Frank disse che sembrava la sepoltura di un faraone, nessuno gli diede retta. Nemmeno il capo.

Il resto del giorno fu abbastanza tranquillo. Frank chiamò tre clienti e piazzò qualche vendita masticando svogliatamente la matita, Pam scrisse alla direzione centrale per quel problema con il condizionatore e fu nuovamente ignorata.

Amy delle risorse umane rimase a lungo col cadavere del capo, lo guardò negli occhi lattiginosi che erano rimasti aperti come acini d’uva troppo matura finché non le sembrò di essere entrata in una nuova fase della sua vita, quindi chiuse la porta dello sgabuzzino e tornò alla sua scrivania.

Alle sei Logan e Cynthia spensero il computer e chiusero la cassettiera – le chiavi delle rispettive auto strette nelle mani, i cellulari infilati fra la spalla e la testa.

Chiamarono l’ascensore all’unisono, le loro mani si toccarono per un breve sorriso di circostanza, poi sparirono nel baratro che separava l’ufficio dal mondo di fuori.

Frank disse che sembrava l’inferno di Dante, lo disse senza riferirsi a qualcuno in particolare, guardando le ragnatele che pendevano da un angolo del soffitto, come parlando alle zampe minuscole dei ragni che vi abitavano.

Il giorno dopo Frank andò da un paio di clienti. Il capo non lo chiamava più sul cellulare, non lo tormentava con i report delle vendite. Dal primo cliente andò molto bene, dal secondo un po’ meno. Frank disse che era come il mercato delle vacche, lo disse ad entrambi i clienti ed entrambi risero: uno rilassato e complice, l’altro imbarazzato.

In ogni caso entrambi firmarono i contratti, mentre Frank si grattava con un sorriso rassegnato la testa rosicchiata dalla calvizie che aveva ereditato da suo padre.

Dopo le vendite Frank tornò in ufficio e raccontò a tutti che i clienti avevano firmato i contratti e che si sentiva stranamente sereno anche se uno dei clienti aveva sorriso in modo strano alle sue solite battute. Pam annuì, anche Logan. Amy gli disse che avvertiva una strana vibrazione nell’aria, come un soffio freddo ed elettrico di vento.

Venerdì arrivò come sempre di soppiatto fra vestiti casual e procrastinazioni. Frank decise di prendersi la mattina libera, così restò seduto sul tetto a prendere il sole.

Anche Pam e Cynthia lo seguirono.

Si stesero sulle tegole, puntellandosi con i gomiti e schermandosi gli occhi con le dita socchiuse. Ogni tanto parlavano e ridacchiavano senza impegno mentre una luce calda gli colava nei vestiti e gli disegnava dolci aloni di sudore sotto le ascelle e sulla schiena.

Logan ridipinse l’ufficio di rosa. Scelse un colore molto acceso e lo stese velocemente sulle pareti con un rullo imbevuto di vernice. Lavorò nel weekend per non disturbare gli altri. Con le maniche della camicia rimboccate fino al gomito ogni tanto si allontanava di qualche passo dalla sua creazione per guardarla con l’occhio di un pittore. Alla fine la trovò perfetta e tornò a casa immaginandosi l’espressione di stupore dei colleghi che sarebbero entrati per primi lunedì mattina. Ridipinse anche il corridoio e l’ufficio del capo, lo sgabuzzino no.

Il nuovo colore steso sulle pareti diede a Pam uno strano vigore che le permise di gestire magistralmente la riunione settimanale con le altre filiali. Nessuno parve notare l’assenza del capo, anche le altre filiali sembravano stranamente acefale e quiete. Dopo la riunione Pam e il coordinatore del team sales di un’altra filiale parlarono per mezz’ora di gatti. Entrambi avevano un Maine coon, un maschio e una femmina, potevano farli incontrare.

Il coordinatore era stranamente affascinante nonostante i capelli bianchi, che in videoconferenza gli si illuminavano come una lampadina accesa conferendogli una strana dignità selenitica. Sorrideva con una dentatura perfetta chiaramente artificiale e annuiva a fondo quando Pam parlava di tiragraffi e palle di pelo.

Fu Amy a tenere i rapporti con la sede centrale. Le sue telefonate erano brevi e dirette come iniezioni: mirava alla giugulare e infilava l’ago senza sbagliare. Parlò delle vendite, dei rapporti con i fornitori. Parlo ancora dei condizionatori e dei malfunzionamenti del lettore che registrava gli accessi. Parlò con naturalezza del fatto che per una madre single come lei fosse importante farsi una scopata come si deve, ogni tanto, e che fosse una vergogna tutta questa reticenza a parlare pubblicamente delle mestruazioni.

Venne un tecnico a sistemare i condizionatori, un ragazzo coi capelli ricci e la barba incolta.

Parlò con Logan di auto, si entusiasmò parecchio per la Dodge Coronet del ‘53 che Logan aveva sistemato con suo padre. L’aveva riverniciata di bianco perché il colore originale gli era sembrato pacchiano. Adesso filava, sembrava nuova.

Il tecnico gli disse che restaurare auto d’epoca era il suo sogno.

Quando ebbe finito di riattivare i condizionatori chiese cosa fosse quell’odore strano che sembrava provenire dallo stanzino. Nessuno sembrò dargli retta, nello stanzino non c’era nulla.

Il tecnico annuì, poi si sedette sulla scrivania del capo e guardò il soffitto per qualche minuto mentre il rumore soporoso dei condizionatori lo chiudeva in un guscio pulito.

Frank disse che sembrava una balena spiaggiata, una grassissima balena bianca che ha finito di soffrire il mal di mare. Il tecnico sorrise, gli disse che era forte, e anche Frank sorrise.

Pam alitò sul vetro della finestra, ci disegnò un cuore e lo cancellò quasi subito con la manica. Aveva preparato caffè e biscotti per tutti, le era sembrata una buona idea. Logan e Cynthia si erano avventati all’unisono sullo stesso biscotto, poi entrambi avevano insistito affinché lo prendesse l’altro, assolutamente, prima tu.

Alla fine Cynthia ne morsicò un pezzo e diede il resto a Logan, imboccandolo. Il biscotto sporco di rossetto sembrava stranamente felice di essere divorato, di essere diviso.

Frank convocò una riunione e annunciò a tutti che avrebbe voluto fare il comico, da giovane. Era un martedì qualsiasi e l’odore era quasi insopportabile. Amy annuì, si raccolse i capelli in una coda alta da ragazzina.

Frank insistette: sarebbe stato un ottimo comico, oppure un cantante, un cabarettista. Niente report vendite e niente telefonate, solo presenza scenica e prontezza di spirito. Mentre gesticolava fece cadere a terra il portapenne di cristallo del capo: i frammenti per un istante disegnarono un arcobaleno sul muro e poi si sparsero come perle di una collana rotta, correndo sul pavimento fin sotto le scrivanie.

Pam osservò il vetro insinuarsi sotto la stampante, sotto la porta chiusa dello sgabuzzino. Raccolse un frammento e si tagliò, poi lasciò che il sangue le gocciolasse libero sul finto parquet. Quando fu chiaro a tutti cosa stava succedendo si riscosse e disse che era ora di andare a casa, che avrebbero pensato un’altra volta alle schegge.

La direzione centrale inviò al capo un encomio per l’eccezionale rendimento dell’ultimo trimestre. Amy lo lesse, poi lo appese con una puntina alla porta dello sgabuzzino. Chiese a Pam di tagliarle i capelli. Corti. Disse che voleva tingerseli di verde, una volta a casa, e che voleva un taglio aggressivo per una volta in vita sua. Non da mamma, non da figlia. Quando Pam le tirò per sbaglio una ciocca si morse il labbro e inspirò a fondo. Fallo, taglia, avanti.

Amy e Frank fumarono seduti sulla scrivania del capo con le gambe a penzoloni come da un baratro. Frank fumava il sigaro, Amy sigarette al mentolo. Gli raccontò di sua madre, della demenza senile, dell’intima speranza di trovarla pacificamente morta nel sonno ogni mattina. Frank la ascoltava prendendo lunghe boccate di sigaro e facendosi uscire il fumo dal naso come la caricatura di una teiera. Le disse che le aveva sempre voluto bene come a una sorella. Amy gli chiese se avesse qualcosa contro l’incesto. Risero, poi Amy ripeté la domanda, questa volta più seria.

Bruciarono il calendario e staccarono i telefoni, tagliando i cavi uno alla volta nella progressiva estinzione dell’esterno per far espandere l’ufficio oltre i confini gelidi della produzione e dei grafici. Amy con le forbici e i capelli verdi rideva di gusto mentre Frank provava le sue battute in piedi sulla scrivania.

Pam con gli occhi chiusi, sdraiata sulla scrivania, disse a Logan che doveva esserci qualcos’altro. Qualcosa che le sfuggiva.

Cominciò come una sensazione sgradevole, come qualcosa che si appiccica sotto le suole delle scarpe, un suono indeciso e nervoso.

Controllarono le scrivanie, i cellulari aziendali. Tutto spento, tutto inerte, eppure qualcosa faceva un rumore dolente e colpevole, qualcosa li stava chiamando.

Fu Amy a guardare per prima lo sgabuzzino, la porta sigillata e la lettera d’encomio che vibrava nell’aria come una bandiera dopo la disfatta.

Cynthia e Logan uscirono dal bagno in cui si erano chiusi insieme mezz’ora prima, uscirono per fissare anche loro la porta dello sgabuzzino senza capire, senza chiedere nulla.

Il suono continuò, si allargò in un pianto disperato, nella suoneria troppo alta di una discarica di cabine telefoniche e telegrafi e balene spiaggiate, nel battito di ciglia di un occhio cieco e bianco come un acino d’uva troppo maturo.

Frank disse che si era sempre immaginato così l’apocalisse e tutti capirono all’istante cosa volesse dire ma rimasero fermi, congelati nelle pose che avevano quando tutto aveva cominciato a implodere.

Immagine di Michael Pointner da Pixabay

Autenticità e poesia contemporanea #7

1

La settima puntata della serie “Autenticità e poesia contemporanea” –  un dibattito lanciato da un dialogo fra Maria Borio e Laura Di Corcia e sfociato in un questionario sottoposto a poete e poeti (che trovate qui), ospitato dai blog Nazione Indiana, Le parole e le cose e PordenoneLegge – vede le risposte di Andrea Accardi, il quale dopo Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Marilena Renda, Andrea Inglese Marco Pelliccioli e Antonio Francesco Perozzi prova a dare una sua visione del tema e ad affrontarne le sfumature. Il dibattito registrerà anche una puntata dal vivo a PordenoneLegge – qui tutte le informazioni.

di Andrea Accardi

L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?

   “Autenticità”, non c’è parola più ambigua e scivolosa di questa, e quindi fate bene a porre il problema. Per il senso comune (che spesso ha ragioni che la ragione non conosce) una letteratura e una poesia autentica sarebbe grossomodo quella che mette in mostra una trasparenza del soggetto, che fa esercizio di confessionalismo, e questo non è né falso né vero. Ci sono posture del genere che possono risultare poco convincenti, stucchevoli, artefatte, ma ce ne sono altre che invece sembrano toccare qualcosa di essenziale, dolente, personale, e fare insomma centro, se non fosse che nel sottobosco della poesia ormai si nasconde (da anni? decenni?) una torma di cacciatori pronti a impallinare alla prima traccia effusiva di un io che trapela. Non dico che quella non sia una costruzione delicata che si attesta lungo un confine sottile, sdrucciolevole verso l’insidia patetica, il contegno naïf, la posa invecchiata, il sentimentalismo color seppia, e così via. Ma non credo nemmeno che si debba negare ontologicamente la possibilità che l’io intercetti, malgrado sé stesso, qualcosa di vero della propria posizione nel mondo, considerando illusoria qualunque vocazione soggettiva (io qui mi muovo d’altronde all’interno di una non facilmente dimostrabile empiria, che mi sembra però l’unico punto di partenza possibile). Oggi sulla carta può risultare forse più vincente e smaliziato il fatto di tentare la stessa indagine per qualche via obliqua che non ripercorra le traiettorie viete e corrive del soggetto lirico sempiterno romantico (quello cioè sdoganato dal romanticismo, e che ancora oggi in qualche modo ci autorizza a dire gratuitamente di noi stessi), ma che cerchi appunto altre strategie per fare esplodere la soggettività, per vaporizzarla sopra una distesa di apparente neutralità, rinunciando insomma all’inverecondia puntiforme del pronome personale, per volerlo ritrovare a un livello superiore, ulteriore. Se stiamo con le riflessioni di Guido Mazzoni (nella cui poesia un io peculiare, cinico sofferente disincantato, risulta tutt’altro che camuffato), ad esempio in un’opera come La Terra desolata, dove non c’è traccia di io lirico, siamo immersi nel trionfo di una soggettività, che si arroga il diritto di ricomporre analogicamente e idiosincraticamente il contemporaneo occidentale e la sua tradizione. Molte scritture poetiche hanno felicemente forzato i limiti del confessionalismo proprio per fare emergere un lato inconfessato della realtà che ha bisogno di altri discorsi, di altre strutture, di un’altra sintassi. E allora certe strutture ereditate vengono stigmatizzate non solo come poeticamente inefficaci, ma addirittura complici di un adeguamento al noto e all’immutabile, fedeli a quella che alcuni chiamano la lingua dei padroni. Ma come può suonare vuoto e falso un soggetto che si proponga platealmente come pieno della propria verità (posto che l’arte sia sempre in qualche misura un infingimento, ma non è di questo che si parla), allo stesso modo certi esibiti autosabotaggi dell’io possono risultare nondimeno dei trucchi scoperti, così come altri accorgimenti mimetici che vorrebbero restituire una naturalità materica, antiretorica della lingua (via le maiuscole, via la punteggiatura, libertà dei significanti, slogature della sintassi, slittamenti grafici, e via dicendo) hanno ormai una tradizione recente ma già consolidata per non sembrare artifici uguali e contrari rispetto a quelli cui si oppongono (e così il problema si sposta ma non si risolve). Nel recente Esiste la ricerca dello scorso ottobre mi dicono che sia stata posta la consueta dicotomia lirici vs sperimentali, che mi sembra più che altro uno schematismo di comodo per indicare due tendenze che facilmente si compenetrano, si spalleggiano. Se invece poste in opposizione, sulle spalle della lirica verrà addossata ogni forma di autenticità pretestuosa, dal lato della scrittura sperimentale e di ricerca sarà rivolto il pathos di un’inchiesta sul mondo non viziata dal confessionalismo. Eppure, penso a scritture come quella di Bortolotti e di Broggi, che sanno tenere così bene in equilibrio l’interno e l’esterno; a una battuta ricorrente di Cepollaro: “non esistono scritture di ricerca, esistono scritture di riuscita”. Non mi pare insomma che questa polarizzazione giovi realmente a qualcuno, così come le barricate conservative o gli estremismi del tipo “la scrittura di ricerca sarà incendiaria o non sarà”.

 

L’autenticità sembra distinguersi dalla verità: la prima partirebbe da una spinta interiore, dalla necessità individuale di poter esistere e agire secondo il proprio sé, mentre la seconda sarebbe legata a un orizzonte esterno, dal momento che il discorso della verità deve comunque poter essere condiviso. Seguendo, però, le riflessioni che abbiamo ereditato da Jacques Lacan, il desiderio presenterebbe un duplice volto, ovvero giungerebbe sempre dall’altro (il Grande altro), ma manterrebbe anche delle sue caratteristiche intrinseche (il desiderio è anche mio, e di nessun altro). Che rapporto c’è fra desiderio e autenticità?  

È chiaro che ci sono verità condivise che mandano operativamente avanti il mondo, perlomeno quelle tecnico-scientifiche (se passiamo alla sfera morale già ci intendiamo di meno, ma per fortuna si converge comunque in larga parte), ma non per questo considero la formula “verità soggettiva” una contraddizione in termini, anzi credo che vada presa con molta serietà. Non c’è dubbio che per la psicanalisi, e quella di Lacan in particolare, la verità del soggetto coincida con il suo desiderio inconscio, spesso non allineato alla volontà cosciente e dunque pronto a reclamare la propria esistenza sotto le insegne dolorose del sintomo. Un desiderio che, come ha detto in un’intervista Antonio Di Ciaccia, il paziente suda le proverbiali sette camicie per capire quale sia. Ma se prolunghiamo questa prospettiva lacaniana, allora bisogna precisare che il desiderio si articola sempre all’interno di un fantasma soggettivo, che è il modo unico di ciascuno di noi per guardare la realtà, e che ci collega all’Altro a condizione di restarne sufficientemente separati. E allora forse l’autenticità può avere a che fare con questo, con l’impressione che l’autore stia articolando dentro il testo la lotta con il proprio fantasma, con qualcosa che davvero è soltanto suo, e che oltrepassa e precede il chiacchiericcio del poetico e del letterario. È di nuovo una verità pragmatica, in qualche modo da riconoscere prima con il corpo. A volte sento dire: si scrive sempre lo stesso libro, ma forse dovremmo dire: si riscrive sempre lo stesso fantasma. Poi è chiaro che esistono i desideri collettivi, le grandi rivendicazioni plurali, e quindi una letteratura che tenta di esprimere una vocazione pubblica e politica, ma credo che anche in quel caso si debba prima superare la dogana del proprio fantasma soggettivo.

Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?  

Sono più domande, comincio dall’ultima: l’espressione più o meno risoluta di sé da parte di un autore può certamente interessare e coinvolgere il pubblico dei lettori, è anzi evidente che questo avvenga, in virtù di quel fondo simmetrico che ci permette di specchiarci e riconoscerci in qualche misura nell’esperienza di un nostro simile. Decisivo è il passaggio, e uso ancora come strumentazione il Mazzoni teorico, da un autobiografismo che prevedeva uno sforzo preliminare e programmatico di esemplarità a quello in cui siamo ancora immersi, per il quale l’individuale è già universale, e tocca insomma al lettore stare al gioco. Ma non è affatto detto che l’autenticità debba per forza trovare uno sfogo confessionale e un impianto apertamente soggettivo. Una forma non strettamente lirica può magari favorire una qualche perdita di padronanza, permettere di aggirare sovrastrutture identitarie ormai logore, prevedibili. Un’articolazione aderente al proprio profondo “vero sé” non necessita insomma della prima persona. Ma se la lirica moderna è davvero tutta soggettiva, e tanto di più quando non vediamo l’io perché ci siamo sprofondati dentro, allora la scommessa è capire quanto, in quali punti, con quali anelli, un mondo ossessivo e personale ha saputo entrare efficacemente in contatto con la realtà esterna, farsi carico del mondo. Si può comunque fare centro con qualunque scelta o non scelta di campo, ribadisco che non c’è una strada falsa e l’altra vera. Così come una voce può sempre irrigidirsi, alienarsi in altre voci e in altre scritture, comprese quelle che ambiscono all’impersonalità retorica e ripetono invece dei moduli divenuti riconoscibili e urlano quindi un desiderio di appartenenza. Vallo a capire qual è il fantasma e quale il fantasma di un fantasma, ma questo vale per tutto, anche per le battaglie che riteniamo più esterne e svincolate dalla nostra ossessione. Evocando poi l’Intelligenza Artificiale, e la sua ombra sinistra che si distende sull’umanesimo tutto, la buona notizia è che allo stato attuale dell’algoritmo non sembra riuscire a proporre valide riconfigurazioni poetiche del mondo né a costruire un io lirico credibile. L’autenticità è ancora questo scarto, chissà per quanto, tra l’umano e il cibernetico. Forse un giorno ChatGPT sperimentale bullizzerà istericamente ChatGPT lirico, e ChatGPT lirico protesterà in modo querulo che ChatGPT sperimentale non si capisce, e sarà come se nulla fosse cambiato.

In letteratura l’onestà – come il tema della “poesia onesta” caro a Umberto Saba – può andare di pari passo con il valore estetico?  

“Onestà” è un termine ancora più pericoloso di “autenticità”, perché sembra evocare una certa concezione corrente di letteratura edificante, morale, socialmente utile, valoriale, in definitiva buona (l’espressione è in effetti colpa di Saba, che credo fosse soprattutto in polemica con un certo uso novecentesco della metafora e dello stile). Non mi resta che riecheggiare cose che ho già detto: per me onesta e autentica è un’opera in cui possiamo sentire che l’autore, in qualunque modo, ha lottato con il proprio fantasma, qualunque esso sia. E sì, il valore estetico ha a che fare anche con questo agonismo cognitivo, senza dubbio. Chiaro che poi devono essere onesti anche i lettori, cioè disposti a riconoscere che quella lotta è avvenuta, fosse pure contro un’illusione e verso il fallimento. E invece mi pare che lettori onesti, per ragioni ideologiche umorali contingenti personali, spesso non riusciamo a esserlo.

*

Immagine: Franz Kline

 

 

 

Il bel tempo

2

di Luisa Pianzola

 

Questo è il bel tempo.
Il tempo che non c’è, che leva le tende e sparisce
si solleva da terra e sfuma nel primo strato
dell’atmosfera. Nessuno va più su
o di lato, o indietro.
Non maturano i gigli e le pesche, acerbe.
Si chiudono temporaneamente orifizi
e fughe prospettiche.
Tutta la folla rimane in attesa. Socchiuse le bocche
mentre altre stanze precipitano,
si abbassano al suolo come un periodare maldestro.
La scrittura non rincorre il fine riga.
Non passa per l’antica meta del cervello
il punto che arriverà.
Questi siete voi, i descritti.
Questi non saremo mai noi.

 

 

 

 

Un lago si è aperto sotto di me,
un vuoto d’aria e acqua. Immersi vi sono
i miei genitori, se ne stanno così
in profondità che tra noi, tra i miei piedi
e le loro teste corrono chilometri di silenzio.
Verticale, opaco.
Filtrato da strati vischiosi.
Solo così li rivedo, da sopra
ma non sento i dialoghi di casa,
quel tipo di conversazioni.
Si sente solo un sibilo acuto come di cetacei.
Degli esseri viventi, quindi, che si muovono
nello spazio abissale che ci separa.
Non sono sicura che siano morti.

 

 

 

 

Senza indulgenze, ferito per disgrazia
fissi i passanti poi ti ritiri verso il muro.
Svariati interessi del tutto umani, inutili.
Gli stolti e i fanciulli ridono.
Tu, crudele senza gaiezza, per necessità
nel circuito e nel legame.
I tuoi genitori non ti rivogliono
ti è totalmente indifferente.
Gli occhi lattiginosi per guarire
forse non guarirai.
Ti è indifferente.
Sotto, la verità.
Più sotto, la verità.

 

 

 

 

Ma perché a un certo punto della vita
c’è sempre qualcuno che sente la necessità
di infilarti qualcosa nel corpo, cioè, anche tu
ne senti la necessità, spesso, ma che cos’è questo
penetrare le carni di un altro, entrare nelle sue
fenditure e lì pretendere ristoro, occupazione
di piacere senza caparre né prenotazioni.

 

 

 

 

Per esempio adesso c’è questa vita qui
da vivere, c’è questa vita. Andando avanti
e indietro come su una strada, come in corpi
da penetrare. Ti sembra di riuscire a stupirti
ancora e invece è sempre la stessa biologia
scritta e riscritta a penna, proprio a mano
tanto tempo fa.
Alla fine non risulta costruito quasi niente.

 

 

 

 

Regalaci un nome buono
un’immagine da conservare.
Abbiamo perso tutti gli occhi
e vediamo solo con fronti inadeguate,
labbra che non mordono.
Camminiamo in riserva: ecco, qui si è squarciato
il recinto e siamo tutti caduti in una fossa.
Raffreschiamo le nostre giornate
con oblio puro.

 

 

 

 

*

Estratti da Il bel tempo, di Luisa Pianzola (Transeuropa 2024)

“Better Call Saul”, “L’amica geniale” e il lato oscuro del sogno americano

2

di Giacomo Agnoletti

Nel 2020, la rivista Entertainment Weekly chiese a Barack Obama quali fossero i suoi programmi televisivi preferiti. L’ex presidente citò Better Call Saul, per i suoi grandiosi personaggi, e perché esamina il lato oscuro del sogno americano”.  Da parte mia, sono convinto che i prodotti culturali di massa, anche quelli che di solito vengono considerati un passatempo privo di impegno, possano raccontarci molto del nostro presente (Michel De Certeau sarebbe stato d’accordo). Propongo dunque un accostamento improbabile: la serie tv Better Call Saul e il romanzo L’amica geniale di Elena Ferrante. Le affinità sembrano a prima vista inesistenti: da una parte il Nuovo Messico degli anni 2000, dall’altra la Napoli del dopoguerra. Due mondi lontanissimi. Se però ci concentriamo sull’immaginario del pubblico, la mia tesi è che il punto d’incontro di queste due opere così diverse risieda nella percezione di uno stato di crisi del sogno americano o, se vogliamo, del suo lato oscuro. Torniamo quindi a Obama…

Ma di cosa parliamo oggi quando parliamo di American Dream?

Senza bisogno di risalire a Walt Whitman e alla sua mitica Song for Myself, ci sono alcuni concetti che, nell’immaginario globale, sono strettamente legati al sogno americano. Intanto, un sistema economico percepito come naturale, quindi intrinsecamente giusto (la “mano invisibile” di Adam Smith: se l’individuo agisce nel suo interesse, l’intera società ne trarrà beneficio). Il corollario della naturalità del sistema è la sua inevitabilità, dimostrata dal fatto che anche i paesi ex comunisti si sono dovuti evolvere verso una sorta di super-capitalismo controllato dallo Stato. Impossibile allora non ricordare Margaret Thatcher e il suo There Is No Alternative. Poi c’è l’idea della fine della storia: grazie alla diffusione di liberalismo, democrazia e capitalismo, l’occidente dei primi anni Novanta sarebbe felicemente approdato alla conclusione di un processo di evoluzione sociale dal retrogusto marcatamente hegeliano. Ma soprattutto, legata al sogno americano, c’è l’idea di mobilità sociale meritocratica, percepita come la più alta forma di giustizia: il riconoscimento sociale del valore individuale, ottenuto inseguendo un desiderio che non pone limiti alle possibilità del singolo di farsi largo nel mondo. Derrida scrisse che la giustizia è un anelito insopprimibile presente nel cuore di ogni uomo, “un’esperienza dell’impossibile”. E cosa c’è di più improbabile di un servo che diviene padrone? L’ansia di arricchimento e di beni materiali assume così una valenza più ampia e quasi trascendentale; e non stiamo parlando solo dell’altra sponda dell’Atlantico, ma di tutti noi. Perché se, come scrisse Baudrillard, “l’America è la versione originale della modernità”, allora il sogno americano rappresenta la nostra contemporaneità industriale con le sue promesse di sviluppo, emancipazione e felicità.

Fig. 1 Better Call Saul, stagione 3, episodio 4, “Sabrosito” (2017)

Tornando a Better Call Saul (di seguito BCS), l’intera serie tv è un invito a problematizzare i valori che stanno dietro il sogno. Nella terza stagione Gus Fring, il proprietario della catena di fast food “Los Pollos Hermanos”, intende tranquillizzare suoi dipendenti, terrorizzati dai loschi personaggi che il giorno precedente si sono presentati nel locale (Fig. 1).

(LYLE) Signor Fring, chi erano quelle persone?

(FRING) Beh, come sapete, molti anni fa, ho aperto il mio primo “Los Pollos Hermanos” a Michoacán. Poco tempo dopo, quegli stessi uomini vennero da me. Volevano dei soldi. E io… io mi vergogno di dire che decisi di pagare. Vedete, in quel posto, e a quel tempo, se desideravo continuare la mia attività non avevo altra scelta. Ma ieri mattina… Ieri mattina sono venuti qui. Qui. Hanno spaventato i miei clienti. Hanno minacciato il mio personale. E, di nuovo, volevano dei soldi. Ora, amici miei, devo confessare che stavo quasi per dare loro quello che volevano. Ma poi ho pensato: “No.” No. Qui siamo in America. Qui le persone oneste non hanno ragione di temere. Qui, quegli uomini non hanno alcun potere. E quando hanno visto che non avevo affatto paura di loro, sono scappati come codardi quali sono, sono tornati al loro paese. Dunque non torneranno mai più. Noi ripartiremo da qui. Amici miei, io prometto a tutti… che noi insieme avremo un grande successo.

Quella che Fring rivolge ai suoi dipendenti è un’apologia del sogno americano. Ma tutti, spettatori e sceneggiatori, conoscono bene la realtà. Gus Fring sta fingendo: lui non è un onesto imprenditore, ma uno spietato signore della droga, uno dei più feroci cartel guys. Questa scena, non priva di ironia, è rivolta a uno spettatore per il quale non è più possibile credere davvero nel sogno. Se la storia avesse avuto come protagonista un Fring onesto e irreprensibile, che fa soldi facendo concorrenza a KFC, tutto sarebbe stato meno attraente per il pubblico odierno.

BCS è imperniata sulle vicende di un modesto avvocato di provincia, Jimmy McGill, che diviene Saul Goodman, il grande avvocato della mala. Riuscireste a immaginare il protagonista come un onesto avvocato che combatte contro i cattivi? Una storia come questa non avrebbe avuto successo né guadagnato popolarità;  sarebbe stata troppo simile a un vecchio thriller degli anni ‘80. Infatti, Jimmy non è certo il “buono” della storia; al contrario, il suo concetto di giustizia, intesa come aspirazione a una situazione di vita diversa e migliore, è costantemente ambiguo e moralmente discutibile.

Per capire davvero come funziona BCS però bisogna guardare anche agli altri personaggi. Sono soprattutto gli antagonisti a svolgere una funzione fondamentale nel thriller, perché il pubblico dovrebbe condividere il risentimento che muove i protagonisti contro di loro. Chi sono i cattivi in BCS? Naturalmente, Tuco, Lalo e tutti i Salamanca sono malvagi. Ma sono, in un certo senso, cattivi da cartone animato. Inoltre, Saul non si ribella direttamente contro di loro, che non sono certo i suoi diretti nemici. Qualcuno potrebbe obiettare che il protagonista dello show, come accade a Walther White in Breaking Bad, diventa il cattivo nel corso della storia, ma questo porterebbe verso un’interpretazione psicologica che vorrei lasciare da parte.

Se manteniamo una prospettiva sociologica, ci rendiamo conto che i protagonisti delle celebrate fiction di Gilligan sono tutt’altro che criminali nati. Eppure, allo stesso tempo, diffidano di un sistema sociale in cui non credono, un sistema che li ha ingannati e poi espulsi: Walther è stato cacciato dalla multinazionale che ha sfruttato le sue ricerche, e Jimmy non riesce a integrarsi all’interno dei grandi studi legali. Pertanto, il loro progetto di felicità individuale è un piano di vendetta contro il sistema, rappresentato dalle élites economiche: gli studi legali influenti come HHM, le banche come Mesa Verde e la potente azienda di Gretchen ed Elliott in Breaking Bad. Questi sono i veri cattivi, gli antagonisti contro i quali qualsiasi tipo di azione socialmente legittimata – un processo che ripristini la giustizia, una faticosa ma meritocratica scalata al successo – è semplicemente impensabile:  le grandi multinazionali, i potentati e le lobbies, hanno sempre la meglio. E le forme istituzionalizzate di lotta collettiva – sindacati, partiti politici, ideologie, persino religione – sono ormai così superate da non poter più essere neppure rappresentate. Allora, se ogni vendetta sociale è preclusa, avanti con la vendetta privata.

Fig. 2 Better Call Saul, stagione 4, episodio 10, “Vincitore” (2018)

Nella quarta stagione, la giovane studentessa Kristy Esposito ha fatto domanda per una borsa di studio presso HHM. Tuttavia, la ragazza ha dei piccoli precedenti penali e la borsa le viene rifiutata. Ma Jimmy si riconosce in Kristy e sente il bisogno di darle un consiglio che le cambi la vita (Fig. 2).

(JIMMY) Kristy. Kristy Esposito, aspetta. Ciao. Jimmy McGill, noi ci siamo visti dentro.

(KRISTY) Ah, salve.

(JIMMY) Ciao… Non ce l’hai fatta. Non era possibile in alcun caso. Loro… loro ti illudono, ti raccontano che hai tantissime chances ma, mi dispiace, è una farsa. Perché hanno dei pregiudizi immensi, avevano già deciso prima ancora che tu entrassi in quella sala. Tu hai commesso un errore e questo loro non lo dimenticheranno. Per quanto li riguarda, il tuo sbaglio è essere quello che sei, essere tutto quello che sei. E non mi riferisco solo alla borsa di studio, credimi, io mi riferisco proprio a tutto. È vero, ti sorridono, ti danno pacche sulle spalle, ma non ti lasceranno mai, dico mai, entrare nel loro giro. Però senti. Ascolta. Questo non importa, non fa niente, perché tu di quelli non hai bisogno. Cioè, da loro non otterrai nulla? Chi se ne frega. Te la caverai da sola. Tu farai tutto quel che è necessario fare, mi hai capito? Tu non seguirai le regole. Tu farai sempre a modo tuo, farai quello che loro non fanno, sarai scaltra, prenderai delle scorciatoie, e così tu vincerai.

La parola chiave è dunque vendetta. Vendetta contro un sistema che non si può combattere perché percepito come naturale e inevitabile (ricordate la mano invisibile e Margaret Thatcher?), ma che minaccia di espellerci come Walther e Jimmy. Il sistema non mantiene le sue promesse, quindi nei protagonisti nasce un forte bisogno di ribellione. Tuttavia, poiché un’insurrezione sociale non è più concepibile (non dopo il crollo delle ideologie e dei vari muri), questa ribellione sarà portata avanti con gli strumenti del sistema, cioè attraverso un capitalismo violento finalizzato solo al profitto. Lo spacciatore, il mafioso, il signore della droga può allora essere visto come un personaggio crudelmente ultra-capitalista, che combatte e uccide per commerciare e per arricchirsi. Come scrisse Eric Hobsbawm commentando la saga del Padrino, “la mafia, lungi dallo sfidare i valori dell’americanismo, li incarnava. Dopotutto, cosa potrebbe esserci di più americano delle storie di successo di poveri ragazzi immigrati, che si fanno strada verso la ricchezza e la rispettabilità con un’impresa privata?”.

Anche la vendetta degli eroi contemporanei delle fiction Netflix, come Jimmy e Walther, è del tutto privata e personale, e mai sociale. La profonda americanità dei protagonisti viene costantemente ribadita – seppur con amara ironia: “Che cosa c’è di più americano di questo? Sono uno Yankee Doodle Dandy”, dice Jimmy, ormai trasformato in Saul Goodman, entrando nel suo studio/tempio – che è esso stesso una parodia distorta e grottesca del sogno. Il nostro avvocato si sta arricchendo col riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di droga: un’attività moralmente riprovevole. Nonostante questo, siamo ancora dalla sua parte come spettatori perché Il risentimento nei confronti delle élites è condiviso dal pubblico, che dà forma al suo sogno latente e confuso di vendetta attraverso l’identificazione con i personaggi. È così che BCS diventa “interessante”: lo spettacolo cattura l’attenzione perché intercetta un bisogno di massa.

L’inesauribile energia di Jimmy/Saul Goodman, costantemente e ossessivamente teso verso un miglioramento della sua posizione socio-economica, esemplifica perfettamente quella “privatizzazione della speranza” di cui Ronald Aronson e Zygmunt Bauman hanno parlato. È l’idea stessa di progresso a essere oggi concepibile solo a livello individuale: e il successo della ribellione sarà misurabile solo con gli strumenti del sistema, vale a dire con enormi montagne di denaro, come ha anticipato Puzo nel Padrino. Non riusciamo a immaginare niente di diverso: lottiamo solo per i soldi e per noi stessi. Queste storie riflettono la nostra incapacità di pensare un futuro migliore, di concepire l’utopia, che è sempre utopia sociale.

Cosa c’entra L’amica geniale con tutto questo? Credo che il punto di contatto tra queste due opere molto diverse risieda nell’immaginario che entrambe condividono, e che si lega alla percezione di un lato oscuro e problematico nel sogno che guida la nostra idea di modernità. Ho poco sopra sottolineato come l’American Dream si basi su una distribuzione virtuosa del reddito: una giustizia sociale meritocratica. L’economista francese Thomas Piketty ha però evidenziato che nel capitalismo è insita una contraddizione: la ricchezza proveniente dai grandi patrimoni cresce molto più velocemente di quella derivante dalla produzione e dai salari. E, dopo la fase di redistribuzione successiva alla seconda guerra mondiale, Piketty percepisce oggi il riaffacciarsi di una nuova era di diseguaglianze, in quello stesso mondo in cui il neoliberismo di Milton e Friedman ha stravinto.

Secondo la definizione del sociologo Ulrich Beck, la globalizzazione è il processo attraverso il quale gli Stati-nazione e la loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali. Ma se il potere economico è per lo più sovranazionale, non può che generarsi una diffusa percezione di inefficacia dell’azione politica, inevitabilmente circoscritta in una dimensione locale. Ed è un fatto che, prima in USA e poi in Europa, sono sempre di più gli elettori che disertano le urne.

Interpretazioni parziali e ideologiche? Non sono interessato a commentare le argomentazioni di Piketty o Beck, ma a evidenziare quanto peso abbiano avuto idee come queste sull’immaginario del pubblico della fiction, sia romanzesca che televisiva. Il lato oscuro del sogno americano, citato da Obama, riguarda le angosce della nostra contemporaneità, simboleggia le nostre inquietudini di terrestri industrializzati. La cultura di massa ci mostra però che c’è un altro modo con cui il consumatore di storie può reagire alle angosce del nostro presente, cioè ai problemi di cui si sono occupati Piketty e Beck. La prima via consiste nel sognare, e nel vivere attraverso la finzione, una fantasia di vendetta contro il sistema. In questo modo, possiamo seguire le storie immorali di personaggi “cattivi” che diventano i nostri eroi. Ma esiste anche un altro tipo di risposta, un’altra via di fuga mentale. E questa risposta riguarda l’Italia.

L’immaginario sull’Italia è tanto pervasivo da rappresentare un sogno globale. L’Italia è ovunque nel cibo, nella moda, nel design e nella cultura internazionale. Tuttavia, tale immaginario è profondamente cambiato nel tempo. Alcuni testi letterari sono un emblema, una sintesi, dei mutamenti dello sguardo del “mondo” verso il Belpaese: due romanzi come L’avvocato del diavolo di Morris West (1959) e Il tormento e l’estasi (1961) di Irving Stone, rappresentano bene un periodo in cui l’Italia era vista come il paese della Grande Tradizione, sia culturale che religiosa. Oggi, invece, l’idea di Italia rappresenta qualcosa di molto diverso. Non è più il luogo della Grande Tradizione, ma incarna meravigliosamente la tendenza che caratterizza la nostra epoca: quella che Zygmunt Bauman definisce “retrotopia”, la nostalgia di un passato che si sostituisce al futuro come luogo di sogni e speranze.

Esiste un altro modo per sfuggire alle ansie del presente, e passa attraverso la possibilità di sognarci magicamente in un passato che non abbiamo mai vissuto, dove possiamo riscoprire tutti quegli aspetti “autentici” e “umani” (dal cibo ai piccoli piaceri quotidiani) che la modernità industriale ci ha negato. I primi indizi del cambiamento di prospettiva dei consumatori sono partiti nella seconda metà degli anni ’70, ma è nel corso degli anni ’80 che la via italiana alla modernità è andata configurandosi come un’alternativa piacevole, anzi “godibile” (per usare un’espressione di Daniele Balicco). L’apprezzamento del pubblico per i prodotti culturali a tematica italiana è di conseguenza esploso nella metà degli anni ‘90, con un notevole crescendo fino al 2010. Ma questo non deve farci dimenticare che prima degli anni ‘70 l’immaginario collettivo sull’Italia era molto diverso. Nel periodo fra le due guerre, come testimoniano i romanzi di John Fante e Henry Roth, gli immigrati italiani erano addirittura discriminati: erano “less than white”. Oggi, il “mondo” ci vede in maniera molto diversa. Perché? Credo che il radicale cambiamento dell’atteggiamento del pubblico sia stato causato soprattutto da un mutamento delle esigenze dei consumatori, che hanno preso coscienza dell’incapacità della modernità americana di soddisfare i loro desideri più profondi. Così, la voglia di italianità è esplosa, determinando nella letteratura di massa la riproduzione di un modello di “contatto salvifico” con la nostra cultura, esemplificato dai bestseller Sotto il sole della Toscana di Frances Mayes (1996) e Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilbert (2006): attraverso il contatto con l’italianità lo straniero, infettato da una modernità efficiente ma umanamente arida, può guarire le ferite della propria anima – così da tornare con rinnovato slancio a inseguire il sogno americano.

I concetti chiave sono diversità e autenticità. Diversità rispetto a un American Way of Life basato sul successo individuale, sulla professionalità e sulla possibilità di lavorare per un numero infinito di ore; l’autenticità rimanda invece alla consapevolezza del proprio stato di fragilità/mortalità e all’umanità come valore da recuperare. Nella mente del pubblico globale, queste immagini sviluppano altre suggestioni attraenti, come lo sviluppo della creatività e della genialità individuale, il recupero della dimensione familiare e l’accesso senza sensi di colpa alla dimensione edonistica dell’esistenza; e queste fascinazioni, tutte culturali e simboliche, si riverberano automaticamente sulla domanda di merci italiane.

Ora possiamo chiederci se l’Italia sia ancora di moda come negli anni in cui dal libro di Gilbert venne tratto un blockbuster con Julia Roberts. Il successo dei romanzi di Ferrante ci dice che il lettore globalizzato, mentre crescono le ansie da neoliberismo, è ancora affamato del sogno italiano. Tuttavia, il modello di rappresentazione culturale che ha dominato fino al 2010 non è più attraente per il pubblico. Oggi, lo schema del contatto salvifico, con i suoi viaggiatori in cerca di rigenerazione, può essere riproposto solo nella letteratura di genere: rosa, gialli o romanzi storici, ma non nella letteratura mainstream. Il bisogno globale di un’alternativa sta crescendo, e il lettore/consumatore, perennemente alla ricerca di una via di fuga immaginaria, cerca nelle storie ancora più identificazione ed empatia; le storie di Gilbert o Mayes, che avevano venduto milioni di copie, ora non bastano più, diventano meno interessanti. Lo stesso accade nella fiction poliziesca o thriller, dove la costruzione di una narrazione di successo richiede più di quello che Puzo ha fatto negli anni Settanta: non basta rendere dei “cattivi” protagonisti della storia. Ora, il pubblico vuole esplorare le ragioni dello sconvolgimento morale dall’interno, vuole viverlo emotivamente, come accade nelle fiction di Gilligan.  Allo stesso modo, nel romanzo a tema italiano, i lettori e le lettrici vogliono vivere l’italianità dall’interno, desiderano sentirla emotivamente.

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Fig. 3 Fotogramma della prima stagione della serie televisiva L’amica geniale (2018)

Ecco allora il successo del ciclo de L’amica geniale (Fig. 3). Ferrante immerge il lettore in un sogno legato all’idea di Italia meridionale; e l’Italia, per il pubblico globale, è essenzialmente un paese meridionale. Il nord Italia, percepito come culturalmente vicino all’Europa settentrionale, ha poco spazio nell’immaginario del consumatore mondiale. Il lettore, entrando nella testa di Elena, sperimenta la vita nella Napoli del dopoguerra, ne esplora vicoli e cortili. Inoltre, nel complesso rapporto tra Elena e la sua sosia, la sua geniale amica Lila, il lettore sperimenta anche la parte sinistra e indicibile della mentalità italiana.

Il pubblico globale di Ferrante soddisfa attraverso la finzione il suo bisogno di esplorare un viscerale e potente “spirito italiano” basato sul fascino del passato, un approccio alla vita che funge da antidoto alle angosce della modernità globale. Tuttavia, il sogno italiano alla base di questa nuova letteratura, le cui caratteristiche più evidenti sono la serialità dei testi e l’alto carico emotivo, non costituisce una rottura con lo schema del contatto salvifico. Le eroine di Ferrante sono le dirette discendenti delle viaggiatrici in cerca di rigenerazione di Adriana Trigiani, Elizabeth Gilbert e – perché no – della Daisy Miller di Henry James, anche se l’assenza di utopia, che emerge soprattutto nel finale del ciclo de L’amica geniale, ci rammenta quanto quest’opera si relazioni col nostro presente e quanto abbia in comune con i più diffusi prodotti culturali americani.

Come alla base della nuova fiction a tema italiano c’è un bisogno che nasce dalla consapevolezza del lato oscuro del sogno americano, così gli autori di una serie di successo come BCS fanno vivere allo spettatore una fantasia di vendetta contro un sistema socio-economico inevitabile e invincibile: la nostra pervasiva modernità industriale, capace di cancellare ovunque cultura, tradizione e persino ideologie. La stessa entità che Pasolini definiva “Sviluppo” all’inizio degli anni ‘70.

ESISTE LA RICERCA 2024

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A Napoli, venerdì 6 e sabato 7 settembre 2024, dalle 10 alle 18,

alla Galleria Toledo Teatro stabile d’innovazione

Via Concezione a Montecalvario 34

ESISTE LA RICERCA

direzioni distribuzioni fantasmi

Esiste la ricerca nasce a Roma nel giugno 2022 presso lo Studio Campo Boario, dell’artista Alberto D’Amico, e si articola come sequenza di incontri che chiama a raccolta molte voci delle scritture sperimentali sorte negli ultimi vent’anni, insieme a critici, studiosi, editori, artisti, musicisti e altri sodali. Dopo un altrettanto affollato e proficuo secondo evento a marzo 2023 presso lo spazio milanese La Cavallerizza, nel Teatro Litta, diretto da Antonio Syxty, e un’ulteriore tripla data a settembre 2023 nel foyer dello stesso teatro, quest’anno l’occasione di confronto viene offerta a Napoli dalla Galleria Toledo, di Laura Angiulli.

In sé l’iniziativa nasceva (e ancora prende spunto) dal desiderio di offrire uno spazio pubblico alla discussione sulle intenzioni, i valori, le relazioni e i contesti operativi delle nuove generazioni della scrittura e della critica di ricerca.

Anche a Napoli, come nelle precedenti occasioni, l’incontro consisterà in un libero estemporaneo scambio di idee e costruzione di ipotesi, senza microfoni, senza registratori o videocamere, e senza gerarchie, a partire da alcuni quesiti fondamentali: un dialogo aperto e orizzontale in cui potranno prendere la parola sia le persone invitate sia il pubblico.

I quesiti – o meglio le questioni di fondo – i temi – che a settembre si metteranno in gioco saranno principalmente due:

> le direzioni e prassi, le “poetiche”, della ricerca letteraria (insieme alle “difficoltà” delle poetiche in generale, nel contesto contemporaneo dato); e

> la distribuzione dei materiali testuali e artistici e l’editoria indipendente; con uno sguardo all’ipotesi dell’autoproduzione (che è una pratica con una storia anche politica importante, in qualche modo rinnovata soprattutto nell’ultimo quarto di secolo dall’esistenza stessa di internet). Questo secondo tema sarà arricchito dalla presenza di editori e collane che esporranno le opere da loro pubblicate.

L’iniziativa si avvarrà poi, a dialoghi conclusi, nei giorni e mesi successivi, di riflessioni audio (daccapo non pre-organizzate, non pre-scritte) su quanto detto e udito a Napoli, ospitate via via dal blog Esiste la ricerca (mtmteatro.it/progetti/esiste-la-ricerca/), nato a fine 2023 grazie al sito di Manifatture Teatrali Milanesi / Teatro Litta.

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Galleria Toledo

Teatro stabile d’innovazione

Via Concezione a Montecalvario 34

METRO LINEA 1 – Fermata Toledo / uscita Montecalvario

convenzionata con SuperGarage, Via Shelley, 11 – Napoli

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si ringrazia Laura Angiulli per l’ospitalità e la collaborazione

Amelia Rosselli, “A Birth” (1962) – Una proposta di traduzione

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di Marco Nicosia

A Birth — prosa composta da Amelia Rosselli nel 1962 — è il tentativo, attraverso il sogno, di riavvolgere il tempo come nastro magnetico per tornare indietro all’infanzia trascorsa a Parigi, ripercorrendo l’età che ha preceduto e che ha seguito la violenta morte del padre, quelle «vaghe memorie surrettizie d’una giovinezza veramente piccola». Soprattutto onirica è la prima parte del racconto, con la comparsa di immagini archetipiche (il «cielo tondeggiante», «la torre campanaria» e «sanguinante», il «paese torreggiante», fino alla «deforme fine del vicolo») che portano alla visione surrealistica di Poppy (incarnazione del genitore), «che ride, che ruggisce, dolce, offuscato». Il tentativo è quello di trovare «l’incurvato punto infornato dell’infanzia» e «simulare una svolta sul largo punto di svolta […] della volta», alla ricezione dei vecchi luoghi dell’anima che si realizzano adesso per via analogica in una chiesa irreale la cui posizione è ancora da reperire. Ad irrompere nella seconda parte della prosa è il trauma dell’omicidio del padre, l’«avvertimento» e la «vendetta», «l’interrogatorio», «la sommossa, subdola, nella mente del bambino», «l’omicidio nella folla», gli «striscioni in rivolta nella strada», la «terribile folata».

Come nota Chiara Carpita nell’edizione del meridiano Mondadori, già in My Clothes to the Wind (1952) Rosselli tenta di ripercorrere attraverso il sogno la giovinezza più tarda, trascorsa a Londra e in Italia, accorgendosi tuttavia che la creazione letteraria non può dare un senso al proprio vissuto, «non è possibile, cioè, raccontarlo, se non per frammenti scomposti»: «this saying of grime is not transparent enough, I cannot do as I desired and make the thing more plain». Così anche in A Birth l’autrice — «while stamping necessarily cleaner phrases» — si ritrova a fare i conti con il labirinto intricato delle sue memorie, rendendosi alla fine conto che esse non possono essere altro che falsate (ripetuto è sempre il verbo e aggettivo “fake”): «the child stares at its memory and swings uncertain of reality. The child stares. The child is there. The child is gone». Entrambe le prose si concludono con il «riconoscimento», ma se in My Clothes to the Wind esso è raggiunto attraverso il sogno, qui non restano che le lacrime a ricomporlo («I in the unreason of sleep came to the choosing and the mingling, and to the recognition», My Clothes to the Wind; «Crying daughter at the thin just cavalier. […] Sample of recognition», A Birth).

Nota alla traduzione

Questo scritto inglese, assieme a My Clothes to the Wind (che ho già tradotto per la rivista indipendente Niedern Gasse), è ricco di stratificazioni semantiche che possono sfuggire all’occhio poco allenato del lettore, o anche a colui che d’inglese s’intende. È quindi bene prendere in mano un dizionario e ricercare ogni parola, anche quella di cui si conosce il comune significato, per sviscerarne tutte le possibili definizioni — e purtroppo cristallizzarne solo una sul foglio. D’altronde la bravura di Rosselli, in simili sperimentazioni narrative, consiste proprio in questo: nel comporre un testo che si presta, anche a livello puramente formale, ad un’infinita varietà di significazioni; nel costruire un linguaggio ricercato, e decostruirlo poi, e riplasmarlo, e persino dare forma a neologismi, alla ricerca di un idioma tutto personale. Perciò il lavoro di traduzione sarà forse più fertile a chi lo conduce che a chi lo riceve, e tuttavia dietro questo tentativo vi è anche la volontà di condividere con i lettori una prosa poco conosciuta per via della sua difficoltà pure in lingua originale. Per quanto a me noto, è possibile reperire solo un’altra traduzione italiana di A Birth, realizzata brillantemente da Elena Carletti per la rivista di teoria e pratica della traduzione «Testo a fronte» (n. 58, XXIX anno, I sem. 2018), che mi è stata di utile confronto e da cui tuttavia ho deviato in vari luoghi per questioni di interpretazione.

La prima difficoltà di traduzione si pone già nel titolo e nel soggetto del racconto, la «child-birth» che appare per la prima volta e in contemporanea fra le ultime righe del primo capoverso e che si riproporrà costantemente in seguito. «Child» può prestarsi, in prima lettura, alla traduzione di “bambino”, naturalmente priva di uno specifico genere grammaticale. L’incognita del genere non viene sciolta nemmeno successivamente, quando al bambino è attribuito il possessivo neutro «its». «Birth» può invece essere letto da subito con il significato di “nascita”. Ma l’autrice, in realtà, gioca con l’ambiguità semantica inglese, a causa della quale si può parlare di «child» sia come di “bambino” sia più specificamente come di “figlio”, soprattutto se vogliamo attribuire a «birth» il significato di “parto”. Il dubbio che il “bambino” sia “figlio” sorge in particolare quando nel decimo capoverso si presenta la figura del padre, cui è accostato nella frase successiva («If a father… If a child»). In questa sede ho comunque scelto il primo termine per distinzione da «daughter» (“figlia”), che si propone nelle battute finali del racconto esplicitando così la natura del soggetto e il suo genere.

Andando con ordine, l’anafora «If I lay back layers of time», poi variata in «If I lay back on layers of time» e ancora in «I lay back folds of time», ha richiesto più e più volte correzioni e riletture nella mia bozza, per dirigermi infine verso la traduzione che mettesse il più possibile d’accordo le varie parti della narrazione restando quasi letterale (ma in un modo che, ancora adesso, mi pare provvisorio e insoddisfacente): «Se (mi) riavvolgessi indietro (su) strati di tempo». Il tentativo di recupero della memoria è infatti in questo racconto il tentativo di recupero di un’infanzia mai esistita, il tentativo — o la sensazione o l’allucinazione — di “riavvolgere indietro strati di tempo” come nastro magnetico. Se «lay» significa “avvolgere”, ho tentato qui di connettere il verbo con l’avverbio seguente «back», dunque “avvolgere indietro”, dunque “riavvolgere”, per ipercorrettismo “riavvolgere indietro”. Resta comunque aperta la possibilità di intendere «lay» con il suo significato altro di “stendere” (così ha fatto Carletti, «se stendo strati di tempo a ritroso»), soprattutto se il campo semantico successivo è quello del velo della mente («folds of time», «the light sheeting», «the child lifts the veil»). Resta inesplorata la terza via del riposare, giacere, stendersi o distendersi su strati di tempo.

Un’ultima, grande difficoltà — lo si è già sperimentato con la suddetta anafora — consiste nell’incastro di termini dal vasto campo semantico in un’unica possibilità di traduzione, che è poi anche la più irragionevole. È, per citarne uno, il caso di «a flap of curls», tradotto in definitiva come «uno sventolio di boccoli» e che pure avevo reso, prima di passare alle righe successive, come «lembo di boccoli»; poco dopo, infatti, si impone un campo semantico tutto rivolto all’irrequietezza del vento e alla rivolta (flap sostantivo, per esattezza, significherebbe “lembo”, “ribalta”, “agitazione”, mentre il verbo to flap corrisponde a “sbattere”, “sventolare”).

Nel complesso, la lettura e la traduzione esigono, come fa l’autrice, «[to] look askance again», di guardare di sbieco, e poi di nuovo scrutare e ancora una volta guardare di traverso. Il gioco della traduzione, di fatto un rompicapo, diventa “un parto” che accompagna al «riconoscimento» di memorie ora falsate ora simulate, e piazzarle e rincorrerle, «ready to make a run for it».

Traduzione

Se riavvolgessi indietro strati di tempo, e l’uomo oscuro che sorride falso e triste con la sua smorfia screpolata, l’ho incontrato la scorsa notte dopo una lite, nella luce che velava la pesante aria albeggiante della corte, se riavvolgessi indietro strati di tempo, sarei pronta anche ad aprire l’elenco dei luoghi, gli indirizzi di tutte le nostre vite! Pronta a rincorrerli. Se riavvolgessi indietro strati di tempo potrei ancora placare la rabbia con l’amore indisturbato. Se mi riavvolgessi indietro su strati di tempo potrei trovare Poppy che ride, che ruggisce, dolce, offuscato contro il cielo tondeggiante sopra la torre campanaria della caccia. Se mi riavvolgessi indietro su strati di tempo pronta all’omicidio, accompagnata da risa che collassano predatorie su di una nuova dinastia, se allora il tempo sventolasse all’indietro, se fossi codarda e credessi alla nascita, lo sforzo di allontanare lievi imprevisti dal paese potrebbe aiutarmi a chiarire la nascita! Se fossi un paese torreggiante o una torre sanguinante contro un cielo propizio alla nascita, se fossi giapponese potrei domandare perché aderisci a una lite col tuo pugno in dentro? Nascita e pane collassano su un letto per la nascita che si strozza con la tensione propria dell’ultimo rifiuto del suo essere donna. Il primo rifiuto fu la torre curva il rimbalzo elastico di cui aveva tracciato tutti i lievi imprevisti contro il cielo. Un cielo rosso, roseo e ingiallito con l’età, un cielo ardito con la sua ingiusta indifferenza sugli oggetti, deforme fine del vicolo.

La domenica è il classico pomeriggio di un luogo per una nascita uggiosa e un pianto, il bambino finge ricordo della curva della volta della chiesa tesa sulla sua posizione cardinale, bambino che recupera memoria quando una pagnotta di pane viene rigirata, è bambino senza infanzia.

Le foto dei luoghi sono migliori dei luoghi o dei ricordi, foto nei nostri cervelli allo stesso modo. Curva il triangolo all’infuori della fuga e il paesaggio in averi incurvati.

Forse la zuffa è meglio riguardata qui da questo punto di vista e l’incurvato punto infornato dell’infanzia non è altro che ciò che ne facciamo mentre l’amore si risveglia tenero con uno schiaffo. Sono incandescente pensai mentre riavvolgevo indietro strati di tempo nudi sul mio petto che si gonfiava livido nel calore di un’estate adatta al disperare negli occhi di giovani donne. La giovinezza non è una crepa che si conserva con costanza, ma il maleodorante e lucido e lieve imprevisto d’una vita ruotata attorno al suo essere.

Particolarmente gentile con mia madre deve esser stato mio padre, dal momento che predicava in tal modo. Particolarmente gentile con mia madre deve esser stato il prete se tanto bene rispettò un comandamento di fame recondita per amore delle buone domeniche.

Adesso mentre parlo la sottile corda riconosciuta di duro amore scorre debole attorno alle stecche di bambù secco nelle lampade, mentre i bastoni di bambù spaccato sui tamburi dei vicini dagli occhi angusti si spezzano liberi dal loro nastro adesivo nero. Si spezzerà il bastone e verrà ancora una volta tenuto il peso nelle due cavità frastagliate di palme mentre si curverà la cima incava del tamburo e la lampada apprezzerà la quiete? Adesso mentre parlo si dirigerà la radice ad un appello adesso mentre timbro frasi necessariamente più chiare nel tamburo dell’orecchio del sordo si spezzerà forse il suo bastone? Adesso mentre attendo le nuvole più accorte irromperanno forse nella mia parsimonia? Adesso mentre attendi aprano le montagne i loro sentieri alla caccia al cervo.

Cacciando contro un cielo straordinario attaccai la prima visione della città rosea su di un cielo ribelle, mentre pioveva luce la cupola sui miei anni spellati. Adesso mentre attendo la pioggia rifiuta tu obbedienza alle mie fantasie d’arcobaleno, mentre attendi il curvarsi delle strade sotto quest’alta volta.

Mentre colloco un tal sogno di visione accanto al primo carico del cuore, vengono ricuperati il luogo e la posizione della chiesa, contro una strada al di sotto ingrigita, mentre le finestre illuminate liberarono il cuore del bambino. Adesso mentre faccio lo sforzo di preconcepire una visione, il bambino fa lo sforzo d’uscire all’aperto contro una finestra floreale asciutta dalle asciutte vele, le loro tende pulite sempre spazzate dal vento, volenti nolenti e bianche contro un cielo bianco ancor più tetro da quando è immobile, le tende si strapparono annoiate e l’altra casa verso la quale nessuna curva di pantheon mai accordò la sua oscurità, l’altra casa incise la memoria narrata al bambino, grasso contro uno sventolio di boccoli. La luce rimbalzò dalla strada verde ancor più impercettibile in basso, verso il bambino che stava forse in piedi osservando la chiesa dentro la sua memoria di adulto. La chiesa sventolò il suo saggio e disfatto stendardo d’una scintilla pienamente matura per simulare poesia, rosea sotto la luce di rugiada che io pongo adesso contro una superficie ruvida incrociando l’angolo del marciapiede finora invisibile, né inciso né ricordato. Il bambino simula una svolta sul largo punto di svolta della piazza circolare, dove quella bianca luce forse non brillò contro ad albero alcuno tranne che alla lieve pietra ingrigita e ondeggiante; il bambino guarda fisso alla sua memoria e dondola incerto della realtà. Il bambino guarda fisso. Il bambino è là. Il bambino se n’è andato, saccheggiando nuovamente la fuga o la verità di memorie fornite dai nonni, con la loro avvizzita gioia di separazione, la loro gioia di vita impeccabile in una valle! Guarda nuovamente di traverso: il bambino alza il velo e il punto di svolta della volta e della chiesa non altro che una preparazione alla morte di misteriosi seminatori, guardiani selvaggi, politici nauseabondi. Guarda più lontana la torre campanaria che s’è piegata per curvare la cupola non ancora arrugginita, poiché brilla di traverso la grigia ottusità della sua materia (indifferentemente un gesso bianco o grigio), tanto rosea se desideri perdonare il suo appello alla morte dei giovani.

Una strada dal nero naviglio, e un padre dal grigio mantello in fiamme sulla svolta invernale verso la primavera accanto alla pioggia. Un padre ammantato nella lana d’un riposo al sole, e il sole che mai illumina un occhio di padre giacché lui non è figura incontrata nella corsa della piazza, col suo punto nero che gira in dentro alla realtà, la piega nera indesiderabile d’una sagoma svanita.

Se un padre avesse prestato la sua pistola ad un altro, così era la sua auto di rappacificazione violetta, avvertimento o vendetta. Se un bambino presta la sua memoria per fingere parole poi dette mistiche delle nubi, alla chiesa fu il suo nascere. La nascita del bambino in una chiesa vellutata dalla cupola rombante è primavera senza peccato e dolore di paradiso; grigio scompiglio e quesito, scivolano giù per superficie piana no ma spazio integrato in spazio, di nuovo rosa, blu no e verde per sempre nella nebbia d’infanzia color rugiada marrone per rivalsa mistica. Poi dio apparve come stella oltremodo svolazzata e la correzione la volta consumò l’immaginazione del bambino spezzò la verità e la vendetta terrena del padre, la severità della terra.

E c’erano cupole nell’aria bianca di Parigi nei duri profili bianchi di luce di bambino? Orecchie sorde ha il bambino alla sorda quiete e le tende sorde di lino alla luce d’affari che planano mistici sopra l’aria rombante di strade inimmaginate. Le finestre sono troppo lunghe per il rombo che sorge dalla loro immaginazione incrociata e la coppia scortata è sempre silenziosa al crepuscolo mentre una luce più marrone del crepuscolo risuona l’altro attraverso piante giapponesi che spolverano l’aria, che vietano la pace, che echeggiano di violenza, i capelli marroni che fanno scivolare pelli sopra la fronte del mercante e l’articolazione dell’osso lungo del mento (la collana). La polvere sopra i loro volti tradì il cuore della città e la sua pressione riflessa su un bambino che si restringe alla finestra di lui più larga, più libera, più vuota col suo fasto che domina sul nulla, da quando il nulla si riempì di finestre marroni di vedove o chirurghi in vacanza. Controvoglia i giardinieri sbucarono fuori dalle finestre troppo strette per la terra marrone di altre generazioni che s’insinuavano nell’aria al livello della larghezza d’una strada. E nelle stanze canali angusti molto vicini alla decomposizione erano le risposte e le offerte delle finestre, l’umanità concepita da una persona così giovane, che scruta attentamente per comprendere cos’è un uomo. Nessun’ironia si manifestò in quella visione d’infanzia tranne che nella morte incerta, insinuantesi maestosa in luoghi meschini, con foglie dai bordi verdi per scacciar via gatti di cupidigia, il gaio cappio.

Il cappio era un giardiniere, il giardiniere un gaio compagno. Bambino marrone e finestre dallo sguardo fisso, e anche suore dallo sguardo fisso che sorseggiano un tè in cappotti marroni si rivoltarono prima d’affrontare l’interrogatorio; indizi di cupidigia erano banchetti in valli eterne, i larghi viali grigi si sollevavano diretti all’albero verde d’alghe marine stringendosi, immergendosi e sprofondando per graffiare le finestre superiori immediatamente sbandierate: poi giunse la sommossa, subdola, nella mente del bambino, e un misfatto meschino e un amore sciatto con la popolazione d’improvviso provvidenzialmente imperfetta, nel banchetto di palloni scoppianti, l’omicidio nella folla che d’improvviso implorava in ginocchio all’odore quotidiano di cibo mentre i bambini scrutavano il precoce sbandierare del sole contro striscioni e striscioni e striscioni in rivolta nella strada, prime bandiere in cima agli alberi, folate nello sventolio blu di dimore per il cibo, laminate bianche con un urlo che rallentava fino alla gioia sbattuta giù contro un bancone unto.

Oh io cappio allentato! Oh io urlo nella valle! Oh i miei trent’anni scivolati via schiantandosi violenti nella casa di striscioni schiantantesi, stretti contro un vento allentato. Il collasso della fama inizialmente fu una terribile folata, poi lentamente la ragione tornò come un tram nella semioscurità di vie al neon. All’inizio strati impossibili di tempo sventolarono indietro per rivelare una ragione che era stata omessa poi negata, poi in definitiva spiegata intera, massacrata alla mascolinità, e la donna che dietro le quinte piangeva dentro gli abiti in falsa pelliccia per lo spettacolo della sera lo spettacolo intero della vita. Oh lo scoppio della rivoltella rivelò un muro bianco spaccato, il demone della povertà, nell’ingresso dietro le quinte. Il bianco turbinio della vita, che vive negli occhi del destino, un disastro.

Tra le vaghe memorie surrettizie d’una giovinezza veramente piccola scivolò vicino a un cinema pomeridiano per bambini, e la madre preoccupata dal dolore e dalla preveggenza impellicciata di castoro e impellicciata di tigre in un elegante cappello da sera, controvoglia lei accompagnò i figli che piangevano a vedere il ruggito dei leoni prima che l’umorismo fosse compianto. Tenue madre, gelida madre, duro padre invisibile. Figlia che pianse quando don chischotte apparve sgargiante e la pietà del bambino fu preveggenza, senza fine. Che rise al leone ruggente minaccioso, che pianse al minuto cavaliere onesto. Che non giocò con nessuno salvo che con un cappotto blu di media taglia dai risvolti neri, velluto, premonizione, e il cappello tondo dai fiocchi neri appesi al retro? Semplicità negata a tutte le età. L’amore l’unico rivale alle lacrime, ed esso scomparve per sempre.

Campione di riconoscimento.

A BIRTH (1962). TESTO ORIGINALE

(da Amelia Rosselli, L’opera poetica, i Meridiani Mondadori, Milano 2012, pp. 657-662)

If I lay back layers of time, and the man dark simpering and sad with his cracked smile, I met him last night after a fight, in the light sheeting the court’s heavy dawn air, if I lay back layers of time I might be ready to open the list of places, addresses of all our lives! ready to make a run for it. If I lay back layers of time I might still render the rage softened by undisturbed love. If I lay back on layers of time I could find Poppy laughing, roaring, softly, blurred against the round sky over the steeple chase tower. If I lay back on layers of time fit for murder with laughter collapsing marauding into a new dynasty, if then time flapped itself back, if I were a coward and believed in child-birth the effort of driving out of town mishaps might permit me to account for birth! If I were a town towering or a tower bloody against a sky fit for birth, if I were a Japanese I might ask you why fit a fight with your fist in it? Birth and bread collapsing over a birth bed choking with her strain of womanhood’s last denial. First denial was the curved tower the elastic bounce of which had designed all mishaps against the sky. A sky red, rose and yellowed with age, a sky bold with its impassibility wronged of things, crooked end of the lane.

Sunday is a typical afternoon of a dreary birth and cry place, the child fakes remembrance of the curve of the vault of the church straining on its cardinal position, child who regains memory as a loaf of bread is turned, is child with no childhood.

Fotos of places are better than places or memories, fotos in our brains same ways. Curve the triangle out of escape and the landscape into curved belonging.

Perhaps the fray is better regarded here from this viewpoint and the curved baked point of childhood is no other than we make it as love wakes tender at a slap. I am incandescent I thought as I lay back folds of time naked into my bosom which heaved purled in the heat of a summer peculiar to despair in the eyes of young women. Youth is not a break which keeps up with continuity, but the reek and sleek mishap of a life revolted to its being.

Particularly kind to my mother must have been my father, in that he so preached. Particularly kind to my mother must have been the priest in that he so well kept a commandment of recondite hunger for the love of good Sundays.

Now as I speak the recognized thin string of harsh loving creeps slight acircle the dry bamboo springs of lamps while cracked bamboo sticks on the drums of the narrow eyed neighbor snap free of their black stick tape. Will the stick snap and the burden be once more held in two ragged hollows of palms while bent the hollow top of drum and enjoyed stillness the lamp. Now while I speak is the root driving at an appeal now while stamping necessary cleaner phrases into the drum ear of the deaf will its stick snap. Now while I wait will wiser clouds break into my parsimony. Now while you wait sweep the mountains their trail to the deer-hunt.

Hunting against an everest sky I attacked the first vision of the pink city over a rebel sky, and the coupole raining shine over my skimmed years. Now while I wait the rain refuses obedience to my fancies of a rainbow while you wait for the turn of the streets below this high dome.

As I place this dream of a vision alongside the first burden of heart, is to be regained the place and the position of the church, against a road greying below, while the shined windows unburdened the child’s heart. Now as I strain to preconceive a vision the child strains outdoors against a dry window flowered with dry sails, their everblown clear curtains, willy nilly white against a white sky even drearier since it was still, the curtains snapped bored and the other house to which no curve of pantheon ever adjoined its gloom, the other house recorded the memory recounted to the child, fat against a flap of curls. The light skipped by the green street ever lower unperceivable, to the child perhaps standing watching the church in its memory of adult. The church flapped its wise and wrecked standard of a full grown blaze smothered to fake poetry, rose under the dew light which I place now against a rough surface crossing the corner of the sidewalk as yet invisible, unrecorded, unremembered. The child fakes a turn on the wide turning point of the circled Square, where that white light shone against no trees perhaps but stone light grey and heaving; the child stares at its memory and swings uncertain of reality. The child stares. The child is there. The child is gone, marauding again the escape or the verity of recollections furnished by grandparents, with their withered joy of separation, their joy of faultless life in a canyon! Look askance again: the child lifts the veil and the turned point of vault and church is no other than a preparation for the death of mysterious seeders, wild guardians, gross politicians. Look further at the steeple which has bent to curve the dome unrusted since the grey dull of its matter (a white or grey chalk indifferently) shines askance, very rosy if you wish to pardon its death appeal to the young.

A street with a black canal, and a father with a grey smouldering cloack on winter turning into spring besides the rain. A cloaked father in the tweed of sunrest, and the sun never lighting any eye of father since he is no figure met at the run of the Square, with its black dot circling into reality, the black undesirable fold of a contour gone.

If a father had lent his pistol to another, so was his car of violet appeasement, warning or vengeance. If a child lends its memory to fake terms later called cloud mystics to the church it was its birth. The birth of a child in a velvet church with a drone dome is faultless spring and paradisical pain; grey unrest and question slime down no flat surface but a space imbedded in space, rose again, blue not and green forever in the mist of dew brown childhood by the mystic vengeance. The god appeared as an overblown star and the correction the vault spent the child’s immagination broke the father’s earth truth and vengeance, earth’s severity.

And were there domes in the white air of Paris in the white hard shapes of light of child? Deaf ears has the child to the deaf stillness and the deaf lilly curtains to the light of business planing mystic over the droned air of streets unimmagined. Windows are too long for the drone that arises from their criss cross imagination and the scorted couple is always silent at dusk while browner than dusk light resounds the other through japanese plants dusting the air, forbidding the peace, resounding of violence, brown hair slipping skins over the merchant’s brow and joint of long chin bone (the necklace). The dust over their faces betrayed the heart of the city and its reflected pressure in a child narrowing at a window larger, freer, emptier with its wealth ruling over nothing, since nothingness was crammed with brown windows of widows or surgeons on vacation. Gardeners lept out unwillingly of windows too tight for the brown earth of other generations creeping through the air at the space of a street width. And narrow whannels into rooms very near rotteness were the answers and the proposals of the windows, the humanity conceived to one so young, peering to learn who is a man. No irony esquissed itself in that childhood vision but the uncertain death rolling majestic in petty places, with green border leaves to shy away cats of greed, gay noose.

The noose was a gardener, the gardener a gay mate. Brown child and staring windows, staring nuns too sipping tea in brown coats revolted before living the questionning; inkling of greed were feasts in eternal valleys, the grey wide avenues lifting to sea weed green tree lacings shafting and plunging to scratch upper windows suddenly flagged: then riot came, subtle, in the child’s mind, and gross misdemeanour and love slovenly with populace suddenly blessedly imperfect, in the feast of balloons snapping, the murder in the crowd suddenly begging down to daily smells of food while children peered at the sun’s early flagging against banners and banners and banners riot in the streets, early flags at tree tops, winds in the blue flaps of food houses, white edged with a scream slowed down to joy slammed down against an oily counter.

O I am a loose noose! O I am a scream in the valley! O my thirty years have slipped by crashing forcefully into a house of crashing banners, tight against a loose wind. The collapse of stardom was a terrible blow at first, then slowly reason returned as a tram in the half light of neon pathways. Impossible layers of time at first flapped back to reveal a reason which had been neglected then denied, then ultimately explained away, slaughtered to manhood, and the woman backstage crying into the fur false costumes of the evening’s, the living’s entire show. O the blow of the revolver revealed a cracked white wall, poverty’s demon, in the backstage door. White whirl of life, living into the eye of destiny, a disaster.

Among the vague surreptitious memories of a very small youth slipped by an afternoon cinema for children and the mother worried with pain and foresight beaver furred and tiger furred in an elegant afternoon hat, she unwillingly accompanied the crying children see the lions roaring before humour wept at. Soft mother, cold mother, harsh father invisible. Crying daughter when don chichotte appeared flamboyant and the pity of the child was foresight, endless. Laughing at the lion roaring with menace, crying at the thin just cavalier. Playing with no one save a medium blue coat with black turn ups, velvet, premonition, and the round hat with black hanging ribbons at the back? Simplicity denied at all ages. Love the only rival to tears, and it disappeared forever.

Sample of recognition.

Per un ritorno dei libri di Janet Frame. Cento di questi anniversari

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Janet Frame – Massey University Library (10th Jun 2021). MU, 1 November 1993

di Anna Toscano

Per alcuni anni ho scelto Un angelo alla mia tavola di Janet Frame come libro da raccontare quando le scuole mi chiamavano per i “Piccoli maestri”. Il progetto, declinato nella mia regione su quello nazionale, prevedeva che scrittrici e scrittori dessero la propria disponibilità ad andare a raccontare libri nelle scuole, che selezionassero in quale ordine e grado di istituti preferissero andare e indicassero una lista di titoli come proposta.

Per tutti gli anni in cui vi ho partecipato ho selezionato le scuole superiori e indicato il romanzo di Janet Frame e Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Calvino veniva scelto molto di meno, forse perché già conosciuto o materia di studio o già presentato da altri colleghi, e Janet Frame era la più gettonata. Con mia grande gioia – in quanto era l’occasione di parlare di una autrice non antologizzata e sempre meno letta in questi ultimi anni – e con un pizzico di rammarico: sarei andata a parlare di un libro non rintracciabile in commercio in edizione cartacea, in quanto le sue ben tre pubblicazioni – in tre volumi per Interno Giallo nel 1991 e 1992, traduzione di Lidia Zazo, Einaudi nel 1996, traduzione di Lidia Conetti Zazo, Neri Pozza nel 2010, traduzione Lidia Conetti Zazo a cura di Giovanna Scocchera – le si trova da tempo solo nelle bancherelle dell’usato. Fatta eccezione per il formato Kindle reperibile per Neri Pozza si trattava, e si tratta, di un libro introvabile.

Ciò che mi incoraggiava a proporlo ogni anno era l’effetto che ne faceva la narrazione in classe, il fatto che il film omonimo di Jane Campion fosse ancora reperibile online e che, immancabilmente, le biblioteche scolastiche e non, per un mistero non tanto insondabile, avessero questo titolo. Infine, alcuni studenti scoprivano che sugli scaffali delle librerie nelle loro case c’era il volume. E mi veniva spesso da sorridere, allora, perché i loro genitori avranno avuto in media la mia età e passando per gli anni ’90 da lettori o lettrici o da amanti del cinema il titolo Un angelo alla mia tavola non poteva sfuggire. Come non sfuggì a me il leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1990: film che allora venne proposto per lunghissimo tempo nelle numerose, allora, sale cittadine.

Perché ho scelto di raccontare questo libro, perché ho pensato che la storia di una bambina, poi ragazza e donna, in Nuova Zelanda tra gli anni Venti e Trenta del Novecento e poi snodatasi tra ospedali psichiatrici in patria e viaggi liberatori in Europa, potesse avere a che fare con loro? Per lo stesso motivo che la stessa Frame racconta in questo libro quando descrive la scoperta e la lettura di molti classici, come i Grimm o Shakespeare, dice: “quanto era meraviglioso l’intuito dei poeti che permetteva loro di leggere nella mia vita, di scrivere come se scrivessero della gente di Oamaru, che tutti sapevano essere a metà strada fra l’equatore e il Polo Sud […]”. Il potere di ritrovare la propria vita nei grandi scrittori e di come le grandi opere letterarie parlino proprio della nostra vita.

La scoperta di Frame ragazzina si riversa sui ragazzi e sulle ragazze di oggi che la leggono. Come una ragazzina di una famiglia povera, poverissima, e nomade – il padre lavorava alla costruzioni delle ferrovie -, con tre sorelle e un fratello affetto da autismo, che viveva in una baracca che di volta in volta scomponevano e ricostruivano in un altro luogo, una bambina coi capelli ricci, rossi, piena di efelidi, robusta, molto robusta, con abiti irrigiditi dall’uso, e spesso con poca possibilità di lavarsi, come questa bambina, piena di tic e presa di mira da insegnanti e compagni, derisa, bullizzata, fosse una di loro. Di come questa bambina, la cui madre raccontava favolose storie di bellezza e allegria, venisse salvata da un maestro che ha visto in lei un dono: la scrittura. Di come la rivelazione di questo dono ponesse questa bambina un poco fuori dal cerchio della stigmatizzazione e le desse la forza di sopravvivere a situazioni difficili. Di come, comunque, il marchio della diversità con cui la società l’aveva bollata fosse diventato indelebile e lei ci dovesse convivere.

Di come i buoni maestri che si incontrano svoltino la vita come i cattivi maestri: di come un professore della magistrale, interpretando a modo suo un testo scritto da una Frame già cresciuta e pratica di scrittura, le faccia scontare anni e anni di manicomio. Lo psichiatrico degli anni ’50 in Nuova Zelanda, come in moltissimi altri paesi, è un vero e proprio luogo di violenza e reclusione in cui gli elettroshock erano un sistema più punitivo che curativo. Sarà l’intuizione di un editore a salvare la ragazza Janet da una lobotomia, quell’editore che riceve pezzi di fogli con i suoi racconti e ne intuisce il valore: il primario che le aveva prescritto la lobotomia allora si ricrede, pensa che non sia pazza ma “solo” un’artista, una scrittrice, e la libera.

Frame non sarà mai libera dal marchio della follia – le centinaia di elettroshock subiti urlano in tutta la sua opera – dalla fatica si stare in mezzo agli altri, ma sarà libera di incontrare altre persone, “maestri”, e saperli vedere buoni o cattivi, capire se afferrare la loro mano che si tende o voltarsi dall’altra parte.

La fine di questo suo libro, infine, passa attraverso un’altra mano tesa, quella di uno psichiatra a Londra che la segue per aiutarla a ridefinirsi soprattutto alla luce di un passato così violento, e ci parla di accettazione di sé nella propria diversità in quanto la diversità è ciò che ci accomuna agli altri esseri umani – “la sua prescrizione per la mia vita ideale era che vivessi da sola e scrivessi resistendo, se lo desideravo, alle richieste degli altri di «unirmi a loro»”- e di scrivere, scrivere la sua storia, per affrontare il passato ed essere così in grado di vivere il presente, per ricostruirsi, rimettere insieme i tasselli di un sé frantumato dagli eventi, ricrearsi una identità e progettare il futuro.

Ed è quello che Frame farà diventando, libro dopo libro, una delle scrittrici neozelandesi più importanti del secolo scorso.

Non ho quasi mai parlato, nelle classi, del libro dal titolo Dentro il muro, uscito per Tea nel 1994, traduzione di Lidia Perria, e nel 2013 con il titolo Volti nell’acqua per Neri Pozza, con la stessa traduzione: è il diario dei suoi anni reclusa nei manicomi, con una scrittura talvolta poetica talvolta surreale non risparmia nessuna crudezza a chi lo legge, un libro spietato ammantato della lingua di Frame, un libro che porta alla luce le efferatezze in virtù di una regolarizzazione sociale. Gli anni dei ricoveri psichiatrici di Alda Merini sono di un decennio più tardi ma il libro in cui lei li racconta, La pazza della porta accanto, riporta gli stessi orrori. Non ne ho mai parlato, solo accennato, come discorso-esca che ha sempre aperto a infinite domande. La bellezza della scrittura di Frame, di tutti i suoi libri in prosa fin alla poesia, pubblicata postuma in Italia, è la narrazione di un mondo così distante per tempi e luoghi eppure così vicino, in cui tutte le protagoniste personagge parlano di ognuna e ognuno di noi, delle nostre vicende e della nostra vita, della società civile tutta senza confini alcuni.

Due note in chiusura. La prima. Spesso la mia narrazione nelle classi, talvolta del biennio e talvolta del triennio, è stata resa, dalle contingenze, efferata da una veridicità spiazzante verso la fine: prima di lasciare spazio alle domande, rivelavo che anche io avevo avuto, in altri modi e tempi, delle vicende complicate quando frequentavo la scuola dell’obbligo e l’unica persona che mi aveva teso una mano da “buona maestra”, già alla fine delle superiori, era stata la mia insegnante di letteratura, neodiplomata al suo primo incarico di insegnamento. Aggiungevo, parafrasando la Frame, che era stata lei che mi aveva fatto capire che col “Passero solitario” Leopardi stava parlando anche di me, della mia vita, dell’umanità tutta. Ed era a questo punto, non senza un pizzico di commozione – commozione che mi prende anche ora che lo sto scrivendo – che rivelavo che la mia insegnante di allora era la medesima che avevano loro e che mi aveva invitata a parlare in quella classe. Si faceva un silenzio colmo e sordo, alcuni si guardavano, ci guardavano, borbottavano e poi un “Ma davvero?” scioglieva ogni dubbio.

La seconda nota è che oggi ricorre il centenario della nascita di Janet Frame che, morta nel 2004, ha scritto libri belli e importanti: in Italia con una fortuna alternata che man mano va scemando. Vorrei che questo centenario aprisse, spalancasse, le porte ad altri cento anni pieni di libri di Frame tradotti e pubblicati, non solo Un angelo alla mia tavolama anche le altre sue numerose opere, un desiderio che ho, anche già espresso quest’anno, in occasione del centenario dalla morte di Goliarda Sapienza e di Brianna Carafa: cento di questi anniversari con tutti i loro libri in commercio.

Senza misura. Leggi gli altri ritratti di questa rubrica

Questi nostri tatuaggi

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di Danilo Soscia

Pubblichiamo un estratto da Mamma Mostro. Tetramerone, una raccolta inedita di Danilo Soscia

Gli infermieri apparecchiarono le lenzuola come fossero una mensa. L’uomo disse che non gli sembrava lecito servire il caffè a quel modo, sul letto dove sua moglie era in coma. Alla fine accettò per debolezza, perché i tatuaggi incisi sulle braccia del caposala lo spaventavano. Tanti minimi oggetti, una lama, una paio di manette, una chiave inglese. In quella selva disegnata comparivano anche volti di donna, oppure animali intenti in faccende umane, come suonare i cembali, brandire un fucile. Un uomo con un così grande potere, pensò, non aveva certo il timore di usare un letto di ospedale come il tavolo di un bar.

Al tramonto, tracciò sul quaderno una somma di messaggi senza destinatario. Telegrammi che avrebbe dovuto spedire quando tutto sarebbe finito. Strinse il polso di sua moglie. Il palpito aveva la consistenza di un grumo di sangue che andava e veniva piano dentro le vene. Finito di scrivere, accettò di fumare in compagnia, di strappare la linguetta alle molte lattine che aveva ricevuto in regalo.

Nella sala d’aspetto grande, accanto alla cappella, si ritrovò a colloquio con l’ombra di sua moglie che veniva a ringraziarlo per la costanza mostrata in quei mesi. Si scusò con lui per lo squallore dell’ospedale, nemmeno fosse una sua responsabilità. Contarono insieme il denaro nascosto a casa, ripassarono il calendario di annaffiamento di ogni singola pianta che avevano allevato. L’uomo le domandò cosa avrebbe portato via con sé come ricordo dei decenni trascorsi nello stesso letto, e lei fece no con la testa, lo sguardo d’argento di coloro che muoiono poveri. Le diede qualche spicciolo, lo aveva fatto spesso nel corso della loro vita. Si salutarono senza nemmeno toccarsi, senza voce. Si mostrarono reciprocamente il palmo della mano, e lui si scoprì a contare le stelle sulla veste della madonna all’angolo dell’androne, fino a quando qualcuno gli infilò un pacchetto di sigarette nel taschino della camicia e gli comunicò che sua moglie aveva smesso di respirare.

L’ultimo caffè. Poi avrebbe dovuto decidere se sigillare il corpo nella bara, oppure esporlo al piano terra, per una camera ardente di due ore. Scelse la prima. Al cimitero, sul cemento fresco che chiudeva la sepoltura, tracciarono le iniziali con un punteruolo.

A casa si servì uova di pesce e limone, ma il senso di colpa gli impedì di divorare la confezione per intero, e ne lasciò un poco. Le piante avevano il terriccio secco.

Nei giorni che aveva trascorso in ospedale, gli afidi ne avevano succhiato tutto il fluido.

Senza troppa sorpresa da parte sua, la vista di ogni oggetto lo nauseava, spingendolo fuori da quelle stanze in cui per una vita erano stati in due. Eppure in nessun modo avrebbe saputo rinunciare alle cornici di cartone, alla ceramica sbeccata che da sempre lo ributtava. Persino le sedie spaiate di casa lo trattenevano.

Guardò alla televisione i programmi della notte, e poco dopo l’alba decise di telefonare a una donna di cui aveva dimenticato il volto. Sperò che il numero, ormai vecchio di decenni, nel frattempo non fosse mutato. Ebbe fortuna. Gli rispose una voce asciugata dal molto bere che lo riconobbe subito. Lui le disse del lutto. Si ricordarono a vicenda di quante volte avessero tentato di rivedersi. Gli auguri di Natale e di buon compleanno scambiati quasi di nascosto, che sembravano sottacere sempre un invito diverso. Entrambi erano sposati. Entrambi avevano scelto per sé un ricovero che non li contemplava insieme. Così, dopo i primi amichevoli scambi, l’uomo riprese il filo della questione e le domandò se per caso tra le sue conoscenze ci fosse una puttana disponibile a venire a casa. Lei si informò se ancora lui suonasse il pianoforte. In cambio di quel favore avrebbe potuto organizzare un piccolo concerto privato. Entrambi risero, e posero fine alla telefonata mentendosi con la promessa che si sarebbero rivisti presto.

L’amica perduta lo chiamò l’indomani. Lo squillo del telefono lo sorprese sulla soglia di casa con gli incarti del mercato, il formaggio, la cotenna, i due pacchetti di sigarette con cui avrebbe affrontato il fine settimana. La donna lo salutò affettuosamente e gli domandò la vera ragione della richiesta che gli aveva rivolto il giorno precedente. Insinuò scherzando che l’irreprensibile amico di un tempo conducesse quel tipo di consumo anche durante il matrimonio, e che fosse rimasto a digiuno di conoscenze fresche. Lui candidamente ammise che quella sarebbe stata la prima volta. Voleva un premio per la sua solitudine. Aveva in bocca tutti i denti, i capelli fitti sulla cute, l’odore vivo di un uomo fecondo. La donna gli augurò allora ogni bene. Si congedò, ricordandogli la promessa di suonare per lei, e gli promise che in giornata avrebbe ricevuto una visita.

L’uomo ingannò l’attesa tagliando a strisce sottili il grasso che aveva acquistato. E quando il fumo prese a salire dall’olio che cuoceva, sua moglie gli ricordò di quando possedevano un pianoforte. Se ne stava seduta a gambe incrociate sulla sedia a capotavola. Sollevò la tovaglia che nascondeva la superficie del tavolo e gli mostrò la tastiera che molti anni prima avevano disegnato sul legno. Lui la prese a sedere sulle ginocchia e finse di suonare, imitando con la voce la melodia dei tasti, il loro scricchiolio. Lei chiuse gli occhi, posò sul tavolo gli spiccioli che il marito le aveva dato in ospedale e si congedò di nuovo.

Apparecchiò per due, riempiendo le scodelle di rigaglie e di verza ancora cruda. Un alone azzurro opacizzava i tetti del quartiere. Pioveva. Raccolse il primo boccone, poi si ricordò che la telefonata gli aveva fatto dimenticare la porta d’ingresso aperta. Sollevò lo sguardo dal piatto e vide davanti a sé una ragazza di bassa statura. Indossava una mantella di colore giallo che le proteggeva il capo e la schiena. Intorno ai piedi un’aureola d’acqua. Si presentò. La mandava quella sua amica. La voce incerta, la ricerca lunga delle parole, come se non conoscesse la lingua che parlava. Lui la invitò ad asciugarsi, a sedere. Le disse che era stata fortunata a trovare pronto. Mangiarono, senza parlare. Non volle sapere niente di lei, nemmeno l’età, sebbene il sospetto di qualcosa di illecito lo inquietò.

Ripulito il piatto, la ragazza lo ringraziò, benedicendo il grasso che l’aveva riscaldata. Disse poi che aveva sonno, e che prima di ogni cosa avrebbe voluto dormire. Lui non si oppose. Le mostrò la stanza da letto, le salviette ripiegate, e quindi il piccolo lavello della stanza, il cesso nascosto dalla tendina. Uscì per pudore. Non voleva vederla mentre si toglieva i vestiti. Lasciò andare il caffè e solo quando fu pronto si affacciò con la tazzina nella camera in penombra. Osservò il corpo nudo che già dormiva sulle lenzuola. Per quanto minuto, acerbo, intonso dai vizi, era quasi completamente disegnato, dalle clavicole al sesso, e giù fino al dorso dei piedi. Solo le mani e il volto non mostravano segni. Era una bestiola istoriata, ed era impossibile non desiderare di passare la mano su quel rilievo di forme in movimento.

Si spogliò a sua volta, e si sdraiò accanto a lei. Scoprì che i tatuaggi raccontavano una specie di storia. Una donna a gambe aperte, riversa su una brandina, partoriva tra le mani di un medico gobbo. Una bambina piangeva dimenticata a terra, tra i residui di una vita adulta, mentre un uomo, forse il padre, prendeva a pugni un altro bambino. Ecco l’ombra di un uomo sulla soglia di una porta, e poi un vassoio di paste domenicali, biascicate, una natura morta di tale vividezza che nauseava. Intorno ai seni muscolosi erano state tatuate due mani da minatore che si avvitavano intorno a quelle rotondità. In basso, in coincidenza con l’ombelico, un piatto vuoto, due corpi di donna avvinghiati come serpi d’estate, il disegno anatomico di una lingua, l’impronta di una vulva divaricata, una pistola di grande calibro, un uomo a terra, riverso. E infine, per quello che riusciva a vedere, sulla linea più bassa del ventre il ritratto di un vecchio che gli parve somigliare. I capelli, la barba accennata, gli occhi larghi da scimmia. La sfiorò giusto in prossimità di quel disegno. La puttana lo percepì nel sonno, e si voltò sull’altro fianco. Lui si rannicchiò a sua volta, raccogliendo le ginocchia tra le braccia, e cominciò a tremare, a cercare senza trovarlo un passaggio che lo conducesse sotto le coperte.

Si svegliò con la luce del nuovo giorno. La ragazza gli stava davanti, oltre la sponda inferiore del letto, che lo guardava. Si era rivestita con la sua mantella di plastica, il trucco di nuovo marcato sulle labbra e sulle guance. Gli chiese se potesse pagarla. L’accompagnò alla porta, nudo com’era. Le passò in mano quattro banconote piegate e la ringraziò.

Al tavolo della cucina ritrovò sua moglie. Anche lei si era spogliata e aveva il corpo disseminato di tanti minimi tatuaggi. Un bouquet nuziale, una moneta da cinquanta centesimi, medicinali, una forma di pane, la sagoma della bara in cui l’avevano calata pochi giorni prima. Il marito le domandò dove avesse trovato da morta il tempo per farsi tatuare. I tatuaggi, poi, non si potevano collezionare a lungo, perché erano destinati a diventare una macchia nera, senza alcuna memoria di quello che erano stati. La moglie lo osservava parlare, come aveva fatto per una vita. Amandolo, commiserandolo. Gli mise le braccia al collo. Voleva essere accarezzata, annusata. Nudi, davanti a un lavello ingombro di piatti, sembravano felici. Quando si sciolsero dall’abbraccio, la donna era di nuovo vestita. Ma salutandolo si alzò il vecchio maglione all’ombelico e gli mostrò il tatuaggio che adesso portava. Era il volto volgare di una giovane, un essere violento e tenero, che lo insultava dagli occhi. A lui ricordò la ragazza con cui aveva dormito, e forse anche sua moglie dovette dare credito alla stessa impressione, perché fece ondeggiare i muscoli laschi del ventre, su e giù, tanto che quel volto sembrò parlare. Sembrò domandare. L’uomo avvicinò l’orecchio per ascoltare meglio, ma di nuovo non c’era più nessuno. Solo la cucina lurida, la scorta delle sigarette.

Aveva compiuto il suo centodecimo anno di vita, e non riusciva a morire.

Immagine di Khalid Hamid da Pixabay

Le rovine di La Chiusa

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di Giorgio Mascitelli

Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.

In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi;  quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.

Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.

Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.

La fuga di Anna

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Gianni Biondillo intervista Mattia Corrente

Mattia Corrente, La fuga di Anna, Sellerio, 2022

La fuga di Anna ha come protagonisti personaggi biograficamente lontani dalla tua età. Come mai questa scelta, al tuo esordio?

Mi affascinava la vecchiaia, per antonomasia considerata il tramonto della vita, un tempo governato da reminiscenze, nostalgie e rimorsi. E se invece diventasse un momento di riscatto? Se sulla soglia della fine ci si infatuasse della libertà, se tirate le somme ci si accorgesse che per una vita intera non si è davvero stati chi si voleva essere e si trovasse il coraggio di rincominciare? Il coraggio di cambiare, quando si è più saggi e consapevoli è un atto d’indescrivibile bellezza. Anche se è troppo tardi.

Il tuo è un romanzo che parla più che di una fuga, di una ricerca. Di cosa, esattamente?

Nel romanzo la fuga diventa una necessità per i personaggi: fuggire per non restare dove non si è mai stati bene. Fuggire per ricercare la libertà repressa per una vita intera. Una libertà che se arriva ti condanna allo spaesamento. Chi siamo davvero senza un destino dettato anche dalle scelte altrui? E che peso ha la libertà nelle vite di chi ci vuole bene? Ricercare la libertà può rivelarsi un atto di violenza per noi e per chi abbiamo a fianco. Egoisti o altruisti nella scelta o non scelta della libertà, comunque restiamo imperdonabili.

Metti in discussione, senza sconti, ruoli sociali all’apparenza indiscutibili: l’essere madri, padri, figli…

Viviamo in una dimensione sociale che ci vuole premeditati, in cui i ruoli familiari sono pretese e non sempre scelte libere. La maternità un destino biologico ineluttabile da portare a compimento, la paternità un dovere per garantire la prosecuzione della specie. Ma i figli possono sconfinare, infrangere i ruoli attraverso la disobbedienza. E rompere gli schemi. Il romanzo ce lo racconta.

Forse il tema è quello del rimpianto, del rimorso, della frustrazione per una vita che poteva essere “altra” da quella vissuta?

È un romanzo in cui le vite non vissute, nell’odissea al contrario del protagonista in cerca della moglie scomparsa, vengono disseppellite. Una estumulazione dei sé mancati che non porta rimorsi e frustrazione, ma consapevolezza: nessuno può liberarsi dalla versione di sé che ha scelto. O non ha scelto. Eppure c’è una speranza, dopo la scoperta di questa verità incontrovertibile: provare a fuggire con la versione di noi più coraggiosa e pericolosa di tutte, quando gli altri non ci fanno più paura, quando la vita che abbiamo davanti è più corta di quella che si siamo lasciati alle spalle.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2022)

Cose che accadono la notte

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di Francesco Ciuffoli

 

I. con il cervello in vasca
lungo queste rovine
urbane come detective tra le pianure
dispersi in una guerra senza colpe né responsabilità,
sono tornato a casa felice, sai
la scorsa notte
Giù per via Padova, in direzione Crescenzago
dove c’era rispettivamente: il sottopassaggio, il centro massaggi, l’alimentari,
il bar Simpon’s, il vicolo dove non ti vede nessuno e c’è sempre gente che scava nell’ombra
quando passa il treno.

Eccone uno, uno così, un altro poveraccio
giovane mezzo occupato da dentiera e braccio con l’alzabandiera
si tormenta le ossa. Ex lavoratore, ha 40 anni, per ora
Va, poi quando finisco i soldi
ti pago del risarcimento, intanto, ordina una Tennent’s.
Quest’altro gliela allunga.

In un ashram senza più speranze e vie di fuga
o vie che possano portare da qualche parte, deve essere bello qui, passare l’estate.
In questo inverno che sente per un po’ di Dio in questa ragazza
una fortuna incredibile, una donna incredibile
un rifugio, un buon posto, un luogo sicuro dove innamorarci perdutamente.

E checché se ne dica, questa mia compagna così fedele alla vita
anche se non sembra
per un libro e una gonna di jeans verrebbe a trovarti
anche domani
In direzione Loreto: dal quinto, dopo il sotto
passaggio del treno, benzinaio IP, l’alimentari, la Pam, il tabacchino…
dov’è c’è stato, con te a guardare
questo lento tornare dei camion pubblici sotto un cielo di rame e lana grigia
Per le ore di traffico «Hai per caso una sigaretta?
«Te la giro io, dai

*

II. Mentre al parco mi ricordo, un giorno di «Hai per caso
una sigaretta? Tipo
Diceva questo qui «quella industriale? se vuoi ho da girare «vabbene. grazie.
«vai – e gli ho dato tutto in mano
«non è che me la chiudi. io non posso. ho i chiodi,
i chiodi nelle mani, mi hanno operato, guarda. E fa vedere
i bozzi da macellaio, affiorano sottopelle. Era un ragazzo di colore
aveva le mani gialle,
era quello delle angurie, a detta sua, il migliore, «tu non sai,
quante ne sollevavo io
Poi l’incidente, mi ha raccontato «non dire niente, diceva
il padrone «ti aiuto io, ma tu, non dire niente, diceva
e lui voleva solo mangiare, «ci penso io in ospedale, non dico niente,
ma tu porta da mangiare. Solo mangiare, perché così non si poteva
lavorare e lui doveva, si,
mangiare. Una, due, tre volte. Poi più niente.
Lui queste cose non le fa perché è bravo, anche se non è giusto
Lui è bravo, se dice che non parla, non dice niente, lui non dice, non parla
Ma lui quando lo vede girare per Lecce con gli amici la moglie la gente…
«Io lo guardo così. e il padrone, lui si deve girare,
ma lui non lo fa, mi chiede pure e dice
«mi stai guardando? Mi stai guardando!? «Capisci?! Se io ti guardo
Tu Ti Devi Girare! solo questo.
perché io mi spacco la schiena, io mi sono fatto male
alla schiena. io non parlo, non dico, mi sono rotto le mani e io,
io non dico niente.
Solo agli amici ho parlato. io gli ho detto, lo dico, lui non è uno bravo, adesso
io lo dico a loro e poi vediamo.
Perché l’italiano non lavora, nelle campagne, ci siamo solo noi, io adesso lo dico
e poi vediamo.

*

III. Eppure potrei dirti con frasi equivalenti, trovandomi lì, per curiosità
chiederti se hai visto
Nella possibilità instancabile di edifici e torrette, per esempio
questa serie di
terra, vetro, scarpe e pelliccia. nel cemento, i chiodi nelle mani, il fumo,
le fiamme sopra i caschi, i lacrimogeni, durante le cariche della polizia,
gli occhi dentro la coppa d’argento, il cielo di marzo, il buio di via Padova,
la camicia appesa, insieme alla giacca, la città stanca e depressa, quest’inquietudine
senza trauma né attesa

E quanto pesa seppellirci tutti?
La testa di un re senza corona. Questa febbre, la poesia. Un deserto che resiste
al freddo.
Com’è sarebbe, bella la vita. Com’è bella la poesia. L’affitto di una camera, per una
vita.
La vita in nord Italia.

*

IV. In riferimento. È su quelle spiagge che ci abbiamo versato tutte
le lacrime, il sudore, la saliva e il sangue. Lo sperma, i cocci di bottiglia per terra
Per strada, con la macchina, passando davanti a una casa senza luci
Una coppia di anziani rimasta sveglia, guardare Sanremo, guardava la luce
azzurra del televisore, Amadeus.
In fondo, li capisco benissimo. Cambiano poche cose a 25 anni
è un quarto di secolo! Sei vecchio! Alla fine. Sei anni. in sei anni
cambiano poche cose, davvero.

*

V. perché «vivi allora? «non so
«perché aspettando la fine, anche se non arriva
e neanche passa, questo incredibile senso di sospensione
ogni giorno si rovescia e ci attraversa, finché un giorno
un giorno
un giorno ci conquisterà. Lo so
«sarà la cosa più triste «il giorno più bello
«l’ultima cosa felice
sulla faccia della Terra. Il fiammifero acceso che cade di mano.
Nel rogo, le fratture / la chimica più pura.

E tu dirai allora «cosa fare? cosa resta? «La città
questo spazio di sensazione e indeterminazione, che ci determina e dimentica
questa notte che passa pensando di sorgere anche domani, dopo che passerà
questo processo, questo sollievo da grande allucinazione che affonda su di noi
anche su di noi
la sua lama

qui
sulla Terra
con il cervello in vasca e quattro minuti di silenzio, una bella canzone, qualcosa
da raccontare sottovoce, una storia per esempio, senza intreccio né trama,
né colpi di scena, una giustificazione.

*

VI. E anche se uno sguardo d’altri su questi pazzi chiude a una a una tutte le porte
per noi, senza troppe smancerie
si sentirà il gemito di chi gioisce, soffre, e gode di vivere ancora su queste impossibili strade
e case e città e pianure
ogni singola notte. «Accendi i tergicristalli. Dai. Alza il volume. Vorrei sapere
come finisce.
da un momento all’altro. questo nostro mondo.
la geografia di un sogno. la mappa imperscrutabile di questo incubo.
Dove, per un buco di terra senza palazzi né ascensori, ci sarà sempre
un luogo utile per riposare,
quest’idea
di io e di te come raggi climaterici di questa catastrofe
perché nessuno riesce davvero a riposare, neanche noi
E si perde a guardarci
Ma prima di attaccare il turno
saremo per Lui giovani, adulti di nuovo, gli amanti del quinto piano,
l’ultima scena di un film, di un libro
in cui sia io che te abbiamo incastrato forse i nostri anni migliori
senza più pene né preoccupazioni
fino a domani.

*

 

[L’immagine in copertina è dal Flickr di Shaun Merritt]

Non si può essere troppo seri

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di Renzo Paris

Nei titoli dei romanzi di Paolo Marati si avvertono allusioni ad altri titoli. In Il giorno in cui Lorenzo morì (Ponte Sisto, 2018) il titolo alluso era Quando morì Jonathan, dello scrittore francese Tony Duvert. Nel romanzo appena uscito dalle Edizioni Il Foglio: Non si può essere troppo seri, Marati cita il verso di Arthur Rimbaud: “Non si è seri quando si hanno diciassette anni”. La protagonista Patrizia Mariani è una studentessa sedicenne del quinto ginnasio di un liceo della Capitale. A diciassette anni, frequenta il primo liceo. Il romanzo si svolge tra le vacanze a Lavinio con la madre vedova e l’appartamento di Roma nord, con le amiche del cuore: Anna e Letizia, e diversi ragazzi come Lollo e Nicola che finirà col licenziare bruscamente. Patrizia non è come loro, non beve, non fuma, non si droga, è astemia. Per distogliersi dal lutto di suo padre, si immerge nello studio, evitando anche i discorsi politici del collettivo. Gli anni del suo diario sono il 1981 e il 1982, quando gli anni Settanta sembrano finiti, nonostante gli strascichi. Legge Thomas Mann, Tozzi. Va con le amiche alle feste, in pizzeria, sempre ragionando sui suoi amori impulsivi e fallimentari. Il suo chiodo fisso è il professor Bellomo, che veste di nero e sembra a quelli del collettivo un fascista , anzi un vero e proprio Hitler. Ma Bellomo è in lutto per la moglie e i figli perduti durante un incidente automobilistico. La madre di Patrizia diventa dolce con lei quando le presenta il suo nuovo amore, disposta a lasciarla sola quando se ne va in gita con lui. Così Nicola tenta di farle perdere la verginità, dimostrandosi il fascista che è. La sua amica Letizia la ama e le scrive del lesbismo come liberazione dall’uomo. Lollo, il suo grande amore muore di infarto in Belgio dove si era trasferito con la sua famiglia. La paura della solitudine e il ricordo di suo padre la spingono nell’ultima vacanza a Lavinio a  frequentare un altro ragazzo. Paolo Marati è bravo nel seguire passo passo lo stato confusionale della sua protagonista, anche perché è un professore di liceo e di ragazze “secchione” come Patrizia deve averne incontrate diverse. Ho letto altri romanzi in cui i protagonisti, anche ventenni, sono indifferenti alla politica, presi dalle loro tragedie famigliari, ambientati proprio negli anni Ottanta-Novanta. Il mondo stava cambiando con il ritorno a casa dei giovani. Certo non è bella la vita dei diciassettenni con droghe o no, e noi lettori adulti faremmo bene a prestare loro attenzione, senza etichettarli, come se fossero tutti uguali. Marati, con questo romanzo diventa il cantore della gioventù di Roma nord. E noi vorremmo sapere oggi che ne è della sua studiosa Patrizia.

Buchi

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di Serena Barsottelli

La sensazione che provava non era simile ai brividi. Eppure spesso tremava. Non si trattava neppure dell’umidità, quel freddo capace di filtrare sotto il primo strato di pelle e poi sciogliersi nei cunicoli tra nervi e vene. Quel freddo, per capirci, che dicono scavare  e insediarsi per non uscire più. Quello che dimora dentro le ossa, e dallo scheletro poi si propaga, disperdendosi, dove i raggi non vedono, in un mare assoluto e nero.

Il dolore, invece, arrivava dopo.

 

La pianta appassiva lenta. Oppure sprofondava sotto la terra.

 

Si era convinto che la scarnificazione fosse parte del processo quando Melody, la ragazza dalle tette piccole e dai capelli verdi che lavorava sulle strade del primo anello di periferia, gli aveva fatto notare una certa somiglianza di suoni tra scarnificazione e sacrificio. Lui, un po’ per il rumore del traffico e del treno in transito sulla linea sopraelevata – il treno dei morti, così lo chiamavano i tossici come lui, ché barcollando alle sue fermate ci finivano sotto – , un po’ perché quella roba era fatta per rallentargli il cervello, aveva faticato a coglierne l’assonanza. Eppure, pensava, Melody era una che sapeva quello che diceva: un mezzino per un lavoretto con la bocca – rigorosamente senza denti, prometteva, giacché le erano caduti tutti. Per una cosa completa ci voleva una dose. Se le portavi quella buona o se le davi la quantità giusta di denaro per acquistarla, ti concedeva un piccolo extra. I suoi clienti preferiti non erano quelli che le offrivano un riparo per la notte o una doccia, ma quelli dell’extra. Lei diceva che erano amici su cui poteva sempre contare.

 

L’animale lavorava con le zampe anteriori e con quella bocca pelosa, facendosi strada dove gli altri insetti non osavano avventurarsi. Avevano paura di spingersi tanto in là: preferivano rinunciare alla prelibatezza e accontentarsi di ciò che la superficie offriva loro in ogni stagione dell’anno. Non si preoccupavano del freddo, gli altri, che in certi periodi dell’anno sembrava ucciderli. Il calore bruciante del sole estivo non procurava alcun fastidio, inebriati com’erano dal profumo dolce dei frutti appena maturi.

 

Lui di certo non aveva amici.

 

Incuranti del contadino, e degli uccelli in agguato, gli altri insetti si arrampicavano sulle foglie verdi e succhiavano.

 

Era più difficile per un uomo trovare qualcuno disponibile.

 

Avrebbero potuto contrastarlo con il veleno. Un tentativo di avvelenare la morte. Eppure era mosso solo dall’istinto, e l’istinto dalla fame. Alimentarsi, sopravvivere, nascondersi. Essere invisibile, e poi spogliarsi da preda per diventare a propria volta predatore.

 

Melody, dunque, gli aveva esposto quella strana teoria per cui ogni sofferenza fosse necessaria. Persino quella autoprodotta. I tatuaggi ormai verdi – tanto avevano perso l’intensità dell’antico nero, assumendo una sfumatura di colore simile a quella dei capelli e poi, quando qualcosa nel fegato aveva iniziato a fare i capricci, della pelle – erano al centro del suo petto. Dalla tetta sinistra spiccava il volo una fenice; sulla destra, invece, un uomo dalle ali sciolte precipitava nel nulla; aveva la testa all’altezza del cuore. Una volta le aveva chiesto se non fosse stato meglio invertire le immagini, rappresentando dapprima un sogno che si spezza e poi la volontà di risorgere. Melody aveva sorriso. Melody non gli aveva risposto. Gli aveva toccato il braccio, lui aveva sussultato.

È per i buchi, gli aveva detto.

Già, aveva annuito senza comprenderne il motivo.

 

L’animale era abituato all’oscurità del sottosuolo. Preferiva quello umido, più facile da scavare. Quello che accoglieva lombrichi e larve di altri insetti. Quello che lo rendeva affamato anche dei propri simili.

 

I buchi se li faceva sotto le unghie delle mani o, meglio, in quel sottilissimo filo di carne che resisteva. Se le mangiava, un tempo. Poi avevano iniziato a spezzarsi: si sfaldavano, strato dopo strato, dose dopo dose. Era perché gli mancava qualcosa, forse del calcio. Che cosa rende più forti le unghie? Ma chi se ne frega, pensava succhiando il sangue e lo sporco che si annidava lì. Chi se ne frega; c’è la roba.

 

I buchi dalla superficie portavano tutti al buio. Non tentava mai di risalire, anche se avrebbe potuto volare. La luce lo infastidiva e interrompeva la caccia. Quando ci si abitua alle tenebre, poi si fatica a vivere sotto il sole.

 

La prima volta aveva infilato un ago sotto la lunetta delle unghie nel tentativo di ripulirle: il nero della polvere, del sangue, del sudiciume grattato via dalla pelle. Lo sporco era rimasto al proprio posto, e a lui era venuta la geniale idea di provare a farsi lì. Mica semplice trovare dei flussi di sangue in cui far scorrere la roba. Così, di tanto in tanto, provava con lo strato di pelle tra le dita: quello tra il pollice e l’indice era il più grande e, messo controluce, rivelava il sottile vaso che lo attraversava. Quello, aveva compreso, era il punto perfetto.

 

E il sottosuolo era comodo da abitare se eri in grado di scavare. Costruire gallerie, e chi se ne frega se quello che è in superficie prima o poi cadrà e collasserà. All’animale interessano solo le radici.

 

La droga entrava nel corpo da quel minuscolo foro, sfondando la prima barriera della pelle, e poi gli altri strati, uno dopo l’altro. Era appena doloroso, e il dolore si ripeteva ogni volta, quasi fosse impossibile abituarvisi. Allo stesso tempo quel fastidio gli procurava una leggera scarica di piacere, come quel tipo di solletico che dura troppo a lungo e ti costringe a ridere, a piangere e a invocare pietà. Persistente, più che acuto, resisteva anche dopo, quando l’ago era stato estratto. Niente a che vedere con quella sensazione intensa che avrebbe provato poco dopo, ma una smussata, quasi impossibile da percepire se non ci si concentrava sulla zona di iniezione. Era questo l’effetto della roba: trovarsi al contempo dentro e fuori il proprio corpo. Attorcigliato su sé stesso e vuoto come un’ammonite di cui sia sopravvissuto solo il guscio.

Anche gli animali dovevano essere entrati in lui da quel buco.

 

Quando ne trovava una, poteva tagliarla per continuare a scavare. Accadeva se non aveva fame o se la radice non era particolarmente prelibata. Preferiva mangiare quelle dolci, gustando il contrasto con il sapore ferroso della terra che le sporcava. Era quello il connubio che lo rendeva vorace.

In superficie, intanto, il fiore chinava il capo, la foglia la punta affusolata.

 

Melody gli aveva suggerito di scegliere aghi più piccoli, così i buchi sarebbero stati troppo sottili e i parassiti non sarebbero riusciti a penetrare. Gli aveva anche detto di farsi in posti asciutti, lontano dall’umidità e dalla terra. Le pozzanghere erano una brutta cosa, anzi, la peggiore. Doveva evitare di calpestarle e non avvicinarsi alla strada quando l’asfalto era bagnato. L’ideale sarebbe stato non sostare all’aria aperta nelle giornate di pioggia. Gli animali, diceva Melody, dovevano venire da lì. Evitare umidità e sporcizia, aveva sottolineato, quasi lo reputasse un porco che si divertiva a razzolare nel fango.

 

Che stupidi, pensava – se agli animali è concesso il dono del pensiero. Altrimenti sentiva, sentiva soltanto, insieme alla vibrazione delle proprie antenne e al movimento delle zampe anteriori che scavavano, scavavano, tagliavano, finché non arrivavano le lamelle dei denti, e il morso. Che stupidi, sentiva, che stupidi ad accontentarsi di quello che appare, di ciò che il vento smuove. Essere costretti ad aggrapparsi a un filo d’erba piegato dal vento o da passi degli uomini, anziché trovare il proprio riparo nel sottosuolo.

 

Osservandosi nel riflesso di una vetrina, aveva scoperto di avere ditate scure su entrambe le guance e uno strato profondo di nero sul mento, nel punto in cui ci si sarebbe aspettati la barba. Cercò una bottiglia vuota tra l’immondizia ai bordi della strada e vagò in cerca di una fontanella. La maglia era maculata di sudore, e per un attimo pensò di strizzarla, di bere tutto il liquido rimasto intrappolato nel tessuto. Oppure di farsi, di allungarlo insieme alla prossima dose. Forse non sarebbe stato poi tanto differente da quando dopo aver svuotato la siringa dalla miscela la riempiva del proprio sangue.

 

L’animale trascinava la parte posteriore del corpo sbilanciandosi in avanti.

 

Quei bastardi dovevano averle tolte tutte. Tutte le maledette fontanelle. In nome del decoro, forse. L’uomo tornò a camminare nelle strade, grattando le braccia. Un’unghia si spezzò nella foga e schizzò tra i guizzi delle auto, nel traffico.

 

Le antenne battevano contro il muro di terra, ma l’animale non provava dolore.

 

Forse era colpa di un filo, un filo che si era allentato, e stuzzicava la pelle come la coda di un topo. Fai smettere questo fastidio, pregava in silenzio, e la droga non gli rispondeva. Continuava a scorrere nelle sue vene, e dalle sue vene ai suoi organi.

 

Sapeva solo di dover scavare, più in profondità, e costruire una buca abbastanza grande da contenere le uova.

 

E dagli organi si propagava come i raggi di sole quando il tempo è velato dall’afa estiva. Intaccava il punto buio, quello sacro e antico, dell’uomo.

 

E quando le aveva deposte, riprendeva il viaggio.

 

L’uomo aveva iniziato a camminare sul lato della ferrovia. Le architetture antropiche lasciavano via via il posto a quelle naturali, e al deturpamento che la disperazione di certi uomini e di certe donne lasciava con il proprio passaggio: materassi tra il fogliame, fazzoletti ombreggiati di rosso o di marrone. Un assorbente, usato. Delle bottiglie, vuote. Sacchi, sacchi rotti e sacchi ridotti in brandelli. Sacchi che un tempo forse erano stati pieni, poi non più. Erano stati svuotati e non stavano più ritti.

 

C’erano ammaniti, ossa di qualche animale domestico sepolto, pochi spicci che avrebbero riflesso la luce del sole ma sottoterra no.

 

Ecco! Eccolo! Gridò. Osservava il suo braccio, le geometrie martoriate di vene, buchi, tatuaggi svaniti, ferite infette. Eccolo, gridò, puntando il dito sull’insetto che sbucava dall’unghia, nello strato di pelle così sottile che sembrava appartenere a nessun corpo. Eccolo.

 

Dal fittone si diramavano tante radici e radichette. Sembrava un albero al contrario. Questo avrebbe pensato l’animale se avesse avuto la capacità di elaborare un ragionamento. Ma sentì qualcosa di simile al calore del sole che da tempo non provava sul proprio corpo vellutato. Fece una capriola, poi allungò le zampe anteriori e staccò un frammento di radice. Aprì la bocca e si avvicinò.

 

Eccolo, sì, l’animale. E il treno? Melody gli aveva detto tante volte che ci sarebbe rimasto sotto come gli altri, e che come gli altri avrebbe continuato a viaggiare in eterno, da stazione a stazione, mendicando una dose o un po’ di amore.

 

Le foglie della pianta, sulla superficie, ondeggiavano. Non soffiava vento. Non cadeva pioggia.

 

Riuscì a evitare l’impatto per poco, perché quella Melody doveva aver tradito il caro principio per cui era bene tenersi alla larga da certi posti. Alcuni, diceva, puzzavano troppo di morte anche per una tossica come lei.

Che cazzo fai? Le urlò in faccia. L’hai fatto scappare!

Scusa se ti ho salvato la vita!

L’animale! Aveva messo la testa fuori dalla pelle un istante fa, ma tu_

 

Le foglie si piegarono fino ad accarezzare il terreno. Poi sprofondarono giù in un buco.

 

L’uomo guardò la ragazza con i capelli verdi di fronte a lui. Inclinò la testa avvicinandola al collo sul lato destro, poi sul sinistro. Cercò i suoi occhi; si perse tra le rughe della pelle che segnavano il viso dell’altra. Il treno corse alle loro spalle, incurante.

 

Il grillotalpa non era ancora sazio. Voleva altre radici.

 

 

Chi sei? le chiese.

Mi prendi per il culo?

Chi cazzo sei?

Le braccia segnate dai buchi e dalle vene non prudevano più. Sentiva ancora il bisogno di farsi. Tutto il resto l’aveva dimenticato.

La ragazza dai capelli verdi si tirò su la manica. Non era pronta a bucarsi. Era sicura che qualcosa le fosse appena entrato dentro, dalle unghie o dal naso, e la stesse uccidendo.

 

 

 

 

Soluzioni per ambienti

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di Antonio Francesco Perozzi

 

per ottenere una distanza
per costruire una distanza negli interni
e fare che le cose si distanzino
che prendano la forma della distanza
che si percepiscano distanti

 

 

inoltre possono essere prese in considerazione le scatole
quando una scatola è presa in considerazione
qualcosa si modifica nella scatola
e anche nella considerazione
le scatole e le considerazioni hanno a che fare con le idee
inoltre possono essere prese in considerazione le idee
conservandole in pratiche scatole

 

 

i materiali amano ispirarsi alle forme
garantiscono ordine e pulizia
avere un portascarpe pratico e comodo
che si ispira alla forma
rientrando a casa la sera
si ispira all’ordine

 

 

se si hanno delle sedie in più
nel caso ci siano ospiti
quando gli ospiti non ci sono
le sedie sono in più
sono delle sedie utili
non essendoci gli ospiti

 

 

di conseguenza una decorazione a parete
crea profondità nell’ambiente
grazie a una gola di luce nel soffitto
se nell’ambiente si crea profondità
nella gola dell’ambiente
è grazie a esili decorazioni

 

 

Da Soluzioni per ambienti, di Antonio Francesco Perozzi (Manufatti poetici di Zacinto Edizioni, 2024)

Alcune persone sono rigide come rettili

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di Marcello Ranieri

Anna conobbe Marta durante uno sciopero. Si erano notate, poi qualcuno le presentò. Er Matassa? Al bar passarono il tempo a cantare. Anna diceva “La conosci? Bombe, tombe, ombre. Solo in tanta polvere”. Marta continuava “Avanzo a duro muso. Cielo aperto e ora chiuso”. E così. Poi Marta la invitò a casa, al Nomentano. Chi organizza gli scioperi non pensa mai a quanta gente si incontri così, come un effetto collaterale, passando mattinate nei bar. Pensa a portare avanti la causa, o almeno a metterla in piazza. Chissà quante unioni di vite sono nate, chissà quante ne sono finite.

Dopo tanto andare, parlando, salirono in un quinto piano verso le due. Anna ebbe un intimidirsi, come per non profanare un rito. Marta girò la lunga chiave nella blindata e le fece cenno di fermarsi. Anna guardava il corridoio in penombra e i suoi arredi, ma la sua attenzione venne improvvisamente catturata da qualcosa che arrivò da una delle stanze, avanzando sul pavimento.

Un serpente procedeva divincolandosi in direzione dell’ingresso. Prima che Anna producesse l’urlo Marta chiese “C’hai paura?” e si chinò a prenderlo. Anna si rilassò e li guardò, ammirando la donna. Marta stette un po’ lì col serpentello avvolto in una mano ad accarezzarlo, sulla porta ma già dentro, mentre Anna rimaneva sul pianerottolo.

“Non entri?” la guardava infondendole coraggio. Anna procedette e si fermò nel corridoio, la porta venne chiusa dalla mano libera di Marta. “Lo vuoi tocca’?”. Anna avrebbe preferito che non glielo chiedesse, però aveva saputo subito che sarebbe successo. Gli appoggiò le dita sopra, temendo una reazione. Non ci fu. Era freddo e indifferente come alcuni esseri umani, che desiderò per associazione di idee non incontrare mai più. “Si chiama Mapetto. Me pare ‘n mapo. Eh? Mapetto!” Marta lo baciò sulla testa. Poi lo posò sul pavimento della stanza da letto di fianco a lei e invitò Anna a seguirla in cucina. Le disse di lasciare la borsa su una sedia. Anna si girò intorno e disse anche che era bello lì, ma stava guardinga. In effetti il panorama era bello. Prepararono le linguine con gli scampi, Mapetto venne, Anna gli dava un brandello ogni tanto, mentre cucinava. Poi mangiarono bevendoci un bianchetto freddo, Anna ritornò tranquilla.

Dopo andarono un po’ sul letto a farsi le carezze. Lì Mapetto non saliva. Poi era l’ora del cotral di Guidonia.

Foto di Tiffany da Pixabay

Autenticità e poesia contemporanea # 6

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di Antonio Francesco Perozzi

Dopo Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Marilena Renda, Andrea Inglese e Marco Pelliccioli, Antonio Francesco Perozzi si e ci interroga sul tema dell’autenticità, nell’ambito di un dibattito lanciato da un dialogo fra Maria Borio e Laura Di Corcia e sfociato in un questionario sottoposto a poete e poeti (che trovate qui), ospitato dai blog Nazione Indiana, Le parole e le cose e PordenoneLegge. Il dibattito registrerà anche una puntata dal vivo a PordenoneLegge – qui tutte le informazioni. 

Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?

Mi sembra – potrei partire da qui – che l’idea che la storia irrompa nella quotidianità e quella di esserne invece pienamente svincolati, siano in realtà la stessa idea. Dal mio punto di vista, già questa opposizione si regge su una serie di taciuti ideologici. L’immagine della storia che riappare violentemente nel presente, del resto, funziona solo se si presuppone proprio la capacità di staccarsene. È un paradosso: la cultura umana coincide esattamente con la storia, dunque l’espressione “la storia irrompe nel presente” equivale a “la storia irrompe nella storia”. Ecco, questo paradosso si origina a partire dalla tendenza, semmai, a interpretare come naturale (dunque neutro) un preciso contesto storico e culturale – quello capitalistico – in maniera funzionale alla sua sopravvivenza. Non è un caso che si torni a parlare di storia – come è successo allo scoppio della guerra in Ucraina – solo in caso di macro-fenomeni violenti, che sono la parte più spettacolare, ma non la totalità, della storia.

Tutto questo per dire che l’aspetto deteriore delle prospettive postmoderniste, cui il pensiero debole è legato, sta proprio in questa scissione ideologica tra cultura e storia. Per contro, l’aspetto che io ritengo più interessante del postmodernismo è la rilevazione della pervasività e molteplicità dei linguaggi e dei media. I due aspetti sono naturalmente legati, e questa matassa di linguaggi è proprio ciò che permette al postmodernismo di tentare la fuga dalla storia. Ma se smontiamo l’ideologia su cui si basa la scissione, ecco che il mondo dei linguaggi torna a essere un (iper-)oggetto della storia. Su questa base, anche la dicotomia tra fiction e realismo mi pare una semplificazione: la finzione come alternativa alla realtà, come alternativa escapista, soprattutto, bypassa il problema delle radici materiali della finzione. Detta così può sembrare paradossale, ma non più di quanto lo sia l’idea di una finzione totalmente scollata dal reale. Siamo ancora lì, in un sistema di decurtazioni ideologiche. Invece: la finzione è reale. L’apparato intricatissimo e multiplanare delle finzioni può essere reinquadrato e inteso, più che come un extra-, come un infra-mondo: è coinvolto nella realtà, ne è sintomo, ma ne amplia anche i confini come un doppio fondo, come un Nether. Nello stato di cose presenti, la nostra azione non può che compiersi all’interno di questa commistione tra realtà e finzione. E il discorso sull’autenticità in poesia – che approfondisco nella risposta successiva – soffre a mio avviso di un vizio simile a questo non vedere una compromissione tra reale e finzionale, storico e “non-storico”. La finzione non sostituisce la realtà, come si illudeva molto postmodernismo, ma ne partecipa, spezza l’unità delle cose. È la cultura, in fin dei conti, benché accelerata dai media. Ed è la cultura, ma in senso latouriano: è un ibrido tra materia e linguaggio, natura e cultura, come lo sono tutti prodotti umani, e gli umani.

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L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?

Per me, ripeto, non sono trascurabili i sottotesti culturali. Sono quindi d’accordo con il collocare il paradigma dell’autenticità in una precisa fase storica, cioè in legame allo sviluppo dell’identità moderna: dopo l’illuminismo, sicuramente (in Occidente) la dimensione individuale assume una posizione culturalmente primaria. Non solo: realizza progressivamente quel passaggio da autobiografismo trascendentale ad autobiografismo empirico di cui parlava Mazzoni in Sulla poesia moderna. Su questa linea, è impossibile non vedere l’intrecciarsi del processo di “individuazione” con l’ascesa della borghesia e lo sviluppo del cattolicesimo. L’autenticità, quindi, contribuisce a fondare l’individualità moderna sulla base di: 1) la trasformazione dell’individuo in produttore/consumatore; 2) un’interpretazione morale e religiosa della vita. Il problema del discorso sull’autenticità è che spesso viene approcciato omettendo queste due elementi fondamentali. Il primo definisce in maniera pratica e storicamente rintracciabile ciò che possiamo chiamare l’individuo moderno. Nella modernità l’individuo viene promosso a soggetto anche in virtù del fatto che acquisisce un ruolo diverso (rispetto al feudalesimo) all’interno dell’economia. La soggettività – la rilevanza socio-culturale dell’attore individuale – è anche la capacità imprenditoriale del borghese. Saltare questo passaggio rischia di svincolare l’individualità dalla sua definizione storica ed economica, dunque assolutizzarla a-storicamente. Quanto al secondo punto: che l’individualità sia sottoposta a un giudizio morale (agire nel bene o nel male) e a un programma dualistico di salvezza o dannazione rafforza (se non determina) il paradigma su cui si regge l’autenticità. Ciò che non riesce a convincermi del valore dell’autenticità è il suo platonismo di fondo: c’è la verità, da una parte, che si annida nella profondità dell’individuo, e la falsità, dall’altra, che equivale a una serie di barriere poste tra individuo e mondo. La vedrei quindi anche in maniera inversa: l’autenticità che fonda l’individuo romantico, ma anche il romanticismo fichtiano, Io-centrato, che costruisce le condizioni culturali per pensare l’idea di autenticità. Da questa prospettiva è facile declassare la storia ad accidente della Vita, parco di duplicazioni fallaci delle Idee; così come è facile intendere la lirica (il cui sviluppo coincide, ancora con Mazzoni, con il processo culturale di individuazione) a strumento attraverso il quale ricongiungersi a una verità/individualità pura e astorica. Mi interessa problematizzare questi paradigmi. Il nichilismo per me non è una degenerazione morale, ma una coerente evoluzione dell’individuo moderno: indebolita la giustificazione religiosa, a un certo punto della storia, il “platonismo” descritto prima rimane monco e fa emergere gli aspetti distruttivi dell’individuo-consumatore-dominatore. Il punto però non è reiniettare un freno religioso in questa dinamica; si tratta di cambiare dinamica.

Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?

Senza dubbio la lirica, almeno in linea di massima, si regge su un’interpretazione della soggettività che più facilmente può integrare l’aspirazione all’autenticità. Se la lirica ha come obiettivo – ancora semplificando – una tensione verticale a partire dall’esperienza del singolo, l’autenticità può essere intesa come banco di prova della forza veritativa di questo slancio. Detto altrimenti: per verticalizzarsi, la lirica tende a esigere un’autenticità dell’esperienza, quindi della scrittura che la accoglie, finendo spesso per identificarsi, almeno nelle aspirazioni e nei meccanismi di senso, con l’idea stessa di autenticità. Le criticità che ravviso in molta lirica – parlo di un problema culturale e ideologico, che può anche prescindere dal giudizio estetico, da ciò che mi piace leggere – sostanzialmente coincidono con quelle del paradigma dell’autenticità: proprio se consideriamo l’etimologia della parola, si capisce come al centro del paradigma ci siano degli assunti filosofici per niente pacifici. Tanto l’autenticità che la lirica attribuiscono un valore veritativo all’esperienza individuale, tendono a evidenziare l’unità di questa esperienza (anche quando è esposta in maniera frammentaria, fin da Petrarca: permane un’istanza soggetto-autore forte, centripeta e dominante la materia verbale) e ad avere fiducia nel distinguere in maniera netta un’esperienza vera da una falsa. Ancora la storia, però, ci dice che questa prospettiva è figlia di una certa epoca e l’esperienza contemporanea spinge a rileggerla completamente, in direzione di una connessione più intricata tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso”, e di una difficoltà a riconoscersi nella gerarchia tra un profondo autentico e una superficie inautentica.

Detto questo sulla lirica, non vorrei tuttavia riportare tutto a una questione di fazioni, che banalizza davvero troppo il discorso. Anche per questo ho svincolato il giudizio estetico sulla lirica da una sua lettura storica e antropologica: ci sono poeti lirici che a me piace leggere, e anche molto, ma questo non esclude la possibilità di criticarli su un piano culturale o politico. Dipende anche dal fatto che, appunto, le nostre esperienze sono intersoggettive, e che l’egemonia culturale, quindi le istituzioni che educano il nostro gusto, sono di matrice borghese. È in un’ottica né calcistica né democristiana, semmai critica e analitica, quindi, che mi pare possibile dire che le prospettive non liriche sfidino più chiaramente il criterio dell’autenticità, inteso come misura di una verità esperienziale o ontologica: si tratta di non riuscire più – storicamente – ad avere fiducia in un soggetto unitario, in un suo dominio assoluto della materia verbale, in un criterio valutativo basato sull’aderenza dell’esperienza alla verità e della lingua all’esperienza, in una coerenza di senso monolitica. In questo caso, la dimensione intersoggettiva mi pare si faccia più realistica, perché permette di far entrare nel testo nuovi meccanismi e attori (non solo umani, non solo animati e non solo materici), riducendo la centralità del soggetto-mondo di matrice romantica e presupposta dal paradigma dell’autenticità. Se intendiamo la poesia (solo) come espressione, mi sembra lineare che la sfera della collettività rimanga poco toccata: stiamo ragionando ancora sul poeta come versione speciale, appunto “autentica”, di una Soggettività padrona della storia e del linguaggio. Al contrario, il lavoro del poeta può interessare la sfera collettiva non come portatore di verità ma come luogo pragmatico di manipolazione e interrogazione del senso, che è sempre una costruzione collettiva. Questo si può fare anche liricamente, nel momento in cui viene mantenuto un margine di presenza soggettiva, di soggetto che si domanda. Ma è storicamente rintracciabile che lirica e paradigma dell’autenticità siano prodotti della stessa cultura.

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Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?

Credo sia inevitabile averle presenti nel momento in cui si scrive. A prescindere dalla propria opinione, si tratta di questioni molto dibattute nella poesia contemporanea e quindi per forza di cose attraversate. Ciò a cui bisogna stare attenti, a mio parere, è evitare che il discorso sulla scrittura colonizzi la scrittura e la determini in maniera matematica. Sono scettico verso l’idea di ispirazione (se la intendiamo in una forma pura e metafisica come spesso si fa), perché la scrittura è dentro, inevitabilmente, le altre scritture, poetiche e non. Di conseguenza non credo affatto che il dibattito intellettuale “sporchi” la scrittura poetica, e, anzi, sappiamo che dagli anni ’60 la poesia ha convogliato al suo interno molto discorso intellettuale o scientifico. Allo stesso tempo, anche nelle scritture più programmate (che frequento), mi pare che il gesto funzioni se si lascia al suo interno una certa dose di imprevisto, di rivolta al programma. Niente di umorale, o soggettivismo di ritorno; è lasciare, entro un tot, le briglie della macchina, proprio in virtù di un soggetto che non si controlla pienamente, non controlla pienamente la lingua che usa e il luogo in cui gli si costruisce. Quando scrivo mi pare interferiscano – e mi sta bene così – una parte studiata e razionale e una indeterminata, il retro di ciò che scrivo nella corteccia cerebrale. È fondamentale questo retro, proprio per come intendo la questione dell’autenticità. In bottom text, ad esempio, contenuto nel XVI Quaderno, credo di aver ottenuto una cosa del genere. Un’istanza soggettiva che agisce, che dice io, anche, e nomina i suoi luoghi e i suoi oggetti, ma lo fa cinque passi indietro rispetto alla “verità”; lo fa solo in parte, mentre da un’altra zona la sua lingua e la sua esperienza risultano guidate da qualcos’altro, o almeno spinte a collocarsi in una terra di mezzo, in un livello dislocato impossibile da definire, in fin dei conti, come autentico o meno.

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Immagine: Matthew Barney – Water Cast 12: White Dwarf, 2015

(cast bronze, bronze chain and polycaprolactone)