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Seghe e saghe

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Una nota quasi stonata
di
Francesco Forlani

Da diverso tempo ci si interroga sul ruolo della critica letteraria in Italia. Sia sul versante nobile delle sue capacità esegetiche dei testi che su quello più biecamente commerciale. Se da una parte, in molti, pensiamo che la buona critica sia sempre dalla parte della buona letteratura dall’altra ci si rende conto che sempre meno, così è in Italia, la stessa entra in risonanza con i lettori almeno fino al punto di spingerli a comprare e, si spera, leggere il romanzo che si è giudicato meritevole. Il discorso di certo non vale per i lettori forti, a loro modo anche critici e sicuramente in grado di orientare il passo di altri lettori in quella giungla complessa che è il paesaggio letterario. E allora la domanda da porsi a questo punto è: di chi si fida il lettore? Sempre che ancora si fidi delle terze pagine dei quotidiani che, va detto, poco possono rispetto ai potenti mezzi della televisione, quelli sì in grado di tradurre un passaggio di pochi minuti in una trasmissione di successo in migliaia di copie vendiute. Così mi sono fatto un’idea. In questa guerra delle letterature e dei letterati, e si smetta di parlare di guerra fra poveri visto che le guerre da che mondo è mondo vengono sempre combattute dai poveri, la critica letteraria somiglia un poco ai servizi segreti. In pratica si comportano con raffinate tecniche di spionaggio e controspionaggio, fanno credere una cosa e immediatamente dopo, l’esatto contrario. Può capitare per esempio che un critico come Andrea Cortellessa in grado di analisi testuali assolutamente mirabolanti e condivisibili quando poi indica le strade maestre mi trovi raramente d’accordo, o che Antonio D’Orrico, un critico in grado di decretare il “successo” di un autore proponga ai lettori dei titoli che lasciano davvero basiti. Eppure, come dicevo, alla stregua di un ottimo agente del controspionaggio può capitare che l’uno, Cortellessa, ti porga nella bella libreria di Mesagne, lettera 22, un piccolo capolavoro Europeana, o il D’Orrico ti convinca a leggere Gaetano Cappelli definito dallo stesso, “il nuovo maestro (in prosa) della vecchia commedia all’italiana.”. A D’Orrico io ho dato retta stavolta, proprio perché non mi fido e così vi dico, cari lettori, non fidatevi nemmeno voi e correte a leggere un romanzo che vi farà viaggiare in lungo e in largo attraverso ogni vostra più recondita passione.
Ho chiesto a Marco Di Marco, editor alla Marsilio di mandarmi l’estratto che segue, in modo da offrirlo ai lettori di NI. E qui lo ringrazio. effeffe

da Romanzo irresistibile della mia vita vera raccontata fin quasi negli ultimi
e più straordinari sviluppi (Casa Editrice Marsilio)
di
Gaetano Cappelli

Eggià, a pensarci bene… così al mio corso di scrittura – eccone un’altra di faccende che proprio non sopporto e in cui, dopo la mia caduta in disgrazia, mi trovo invece invischiato e per quattro lire – quando qualcuno di quei disgraziati che vengono a vedermi sbadigliare, mentre inciampo tra un concetto e l’altro – ma cosa mai potrò insegnargli?, penso sospetti la gran parte dei presenti – uno di loro, facendosi coraggio, mi ha chiesto: «Maestro» – i più rispettosi e timidi mi concedono questo titolo – «ma come si capisce se si ha davvero il talento dello scrittore?», io improvvisamente ho preso vita, mi sono risollevato con un ampio respiro dalla scrivania, e ridacchiando gli ho chiesto: «Senti ma tu da ragazzino, sempre che ora abbia smesso, come te le tiravi le seghe?» La classe anche si è rianimata: eccola finalmente di nuovo la zampata del leone; eccolo lo scrittore talmente fuori dal coro da perdere il Nobel pur ampiamente meritandoselo. Il tizio è arrossito – l’ho detto: è un timido. Ha chiesto anche più che da timido, da vero minchione: «In che senso Maestro? Che vuole sapere ehm… se con le mani… o cosa?»

Adesso il resto degli aspiranti scrittori stava proprio sbellicandosi dalle risate. Perfino il tipo che ogni tanto si fa vivo rimanendosene all’ultimo posto, impettito nei suoi completi, penso di Caraceni, a giudicare, più che dallo sfarzo dei tessuti, dall’importanza della spalla.
«No no, voglio dire» ho ripreso io, «durante l’atto avevi in mente un’immagine fissa, chessò una foto, un corpo nudo, due gambe accavallate o elaboravi una sceneggiatura?»
«Ah, capisco…»
Non è il solo. L’intera classe ha capito. Ma io la spiego lo stesso, la faccenda – bisogna pure che questa stramaledetta ora, in qualche modo, passi.
«Allora» continuo, «sega a immagine fissa: diciamo che è assai difficile che poi uno diventi scrittore, anche se non proprio impossibile» tocca non scoraggiarli del tutto prima che il corso finisca.
«Con sceneggiatura: in questo caso il talento, nella maggior parte, è addirittura misurabile in rapporto alla complessità del copione» e il mio talento con quel metro, questo lo penso ma non lo dico, be’, era grande; anzi grandissimo. Infatti nonostante zia Irma a quel punto – il punto del pellegrinaggio a Pompei – si fosse ormai sposata e fosse andata a vivere col marito in un’altra casa, continuava a restare nella mia testa l’imperturbabile ispiratrice delle più fantasiose ardenti pippe – ora era ai miei piedi che, insoddisfatta dal marito, mi pregava: «Giulìè dammelo, ti prego, dammelo!»; ora ero io a implorare lei che, assente il coniuge causa viaggio di lavoro, mi si concedesse per un ultimo infuocato amplesso a conclusione del quale, proprio come nel famoso film con Lisa Gastoni – di cui vivendo nel posto fuori dal mondo in cui vivevo avevo potuto solo vedere la meravigliosa locandina su un giornale – le sussurravo: «Grazie zia!» Solo che nel film Lisa Gastoni era la zia acquisita del protagonista. Zia Irma invece era mia zia carnale e cedere ai miei cattivi pensieri implicava ben due peccati mortali; e uno assai più mortale dell’altro dal momento che a masturbarsi pensando a lei – dico: la-sorella-di-mia-madre – si poteva ben parlare d’incesto: e c’è forse qualcosa di più peccaminoso, di più perverso?
Sebbene avessi preso a mettere in discussione l’esistenza stessa del Padreterno, non m’ero ancora liberato dal timore della sua vendetta – ammesso che ci si riesca mai del tutto – per cui mi dicevo: “Se fai peccato moriranno i tuoi genitori, moriranno le tue sorelle” – oddio, quelle erano così tante che magari una piccola sfoltitina – “né, peccando, sarai promosso, né soprattutto diventerai un pianista famoso come Arturo Benedetti Michelangeli e quindi…”
Quindi, ogni volta, dopo esser caduto in peccato iniziavo a sentirmi talmente oppresso da quel peso che sarei corso dritto dritto in chiesa a mondarmi dalla mie colpe, ma il problema era che don Liborio non è che si contentava della confessione semplice dei miei atti impuri. No, il maledetto, voleva anche i particolari, e a chi pensi e come ci pensi – era più porco di me insomma e io, io potevo mai raccontargli di zia Irma, proprio a lui che, essendo parente di mia madre, lo era anche di zia?

Sì, quella mattina a Pompei me l’ero invece finalmente tolto quel grosso, immane peso e potevo ora godermi la mia sospirata vacanza. Una vacanza al mare, poi: ecchì ci andava al mare allora, in quegli anni, in un paesino dell’Appennino meridionale? Così, uscendo dalla chiesa nell’aria tersa di quella meravigliosa giornata di sole, ebbi come il presentimento che un avvenire altrettanto meraviglioso mi attendesse: finalmente libero dalla torbida passione incestuosa avrei trovato l’amore, quello puro di una ragazza bellissima, abitante magari in Roma zona centro, visto che ci andavamo vicino, la quale guardandomi intensamente negli occhi mi avrebbe rapito il cuore – in effetti, qualcosa di simile sarebbe presto successo; una volta al mare almeno, perché usciti dal santuario venni sì rapito, ma di nuovo dalla Santa Madre di Dio. Fu deciso infatti – sempre e come questa volta potemmo davvero ascoltare, all’unisono dalle tre infaticabili sorelle – di far visita all’annesso museo degli ex voto a lei dedicati.
Una visita che, voglio dirlo, si rivelò faticosa ma anche strabiliante mentre davanti ai nostri occhi si dispiegava, insieme alla miriade di manine e braccini e gambette e pieducci e piccoli cuori e occhi di argento istoriato, tutt’intera la varietà delle sventure umane. Dalle avversità pastorali più modeste con dediche tipo:

Zucca Pasquale ringrazia assaie per la guariggione della vacca prediletta

a quelle più spaventevoli con carri di buoi imbizzarriti che si capovolgevano sul conducente o su piccole folle agresti o del ladro di angurie che, raggiunto agli zebedei da una fucilata, fissa atterrito il fiotto di sangue che ne scaturisce, dello stesso rosso scarlatto del frutto rubato frantumatosi a terra. Fiotti di sangue che, del resto, zampillavano con la veemenza del getto di una fontana da ogni altra parte del corpo e da ogni genere di ferite; da quelle inferte in terribili combattimenti all’arma bianca o da zuffe con inferocite tribù di negri cannibali o dagli artigli di leoni e infide tigri del Bengala – chi avrebbe mai immaginato che, nei paesi circostanti, ci fosse stata una tale schiera di indomiti esploratori con tanto di casco e sahariana! – tutto meticolosamente riprodotto in quel profluvio di miniature: immagini assai spesso appena degne della mano di un bambino, magari della stessa età di quello che, precipitando da un balcone sotto gli occhi disperati della mamma, veniva raccolto poi, incolume, nel velo celeste della Madonna; o si salvava dal pauroso incidente d’auto in cui dieci altri suoi amichetti perivano tritati tra le lamiere o ghermiti dalle fiamme. E fiamme ecco, un’infinità di fiamme che sembravano propagarsi da un ex voto all’altro attraverso le fabbriche e i caseggiati delle città di ogni continente, o dalle foreste e i campi di grano di ogni emisfero, o dai transatlantici ai magnifici velieri dispersi in ogni oceano, alcuni di loro tranciati in due dalle onde gigantesche di terribili tempeste – come “nell’immane tragedia del Conte Rosso” – sulla cui cresta le scialuppe già disseminavano manciate di naufraghi nell’acqua scura di nafta, pronti a essere abbrancati dai tentacoli di un’immensa piovra, o dalle livide acuminate dentature di mostruosi squali, mentre in alto, lì in un angolo, sospesa tra lingue vermiglie di fuoco, dense cortine di fumo e nubi procellose, appariva, come in una campana di purissimo cristallo di Rocca, la Santa Vergine Maria arrivata proprio in quel momento a salvare uno e uno solo tra quella torma brulicante di disperati; lo stesso che col suo ex voto – non di rado, in questi casi, un dipinto della potenza e della bellezza di un’antica leggenda marinara – avrebbe poi testimoniato, ce ne fosse stato bisogno, dell’inevitabile disparità nella sorte degli umani – altro che cazzi e studi e ricerche sull’inesistenza del destino!

Man mano che si andava avanti in quella galleria, perfino le mie garrule zie, che all’inizio salutavano ogni salvamento con urletti di mistico stupore, si zittirono e tutti noi, sopraffatti da quell’infinito catalogo di prodigi, ce ne restammo silenziosi, come fossimo immersi nella visione di una pellicola il cui regista, tagliando ogni inutile prologo, si fosse divertito a mettere insieme solo le scene madri di tutti i più terribili film del mondo. Finché non ci trovammo davanti invece quest’ultimo e grande quadro: un cielo con un’immensa nuvola a forma di balena che allagava di pioggia la campagna sottostante, cosparsa di case di cui si vedevano solo uno spicchio o un angolo di tetto, come fossero navigli d’una flotta colata a picco, tranne per la fattoria protetta dalla veste della Signora Celeste, nel cui cono d’ombra splendeva invece il sole e il cielo era azzurro, sereno, scintillante. La dedica diceva:

Case e podere di Ruminiello Amilcare miracolosamente sottratti alla catastrofica alluvione della Balena Volante in Vallo di Diano anno 1653.

«Capito la Madonna! Gli ha protetto il podere dalla Balena Volante», «E perché quello… quello che addirittura è caduto da un grattacielo senza farsi nu graffio!», «E quella signora di Milano che non poteva ave’ figli e grazie alla Madonna ne ha poi avuti dieci»: ripresero così a cianciare sull’uscita le tre sorelle. «Pregatela sempre alla Santa Vergine, anzi facciamoci n’altro bel rosario prima d’andà e chiediamoci una grazia in ginocchio che Ella non ci abbandona.»
Quando finalmente riuscimmo ad abbandonarla noi, la Madonna – non senza che perfino io, giacché c’ero, gliela chiedessi, una grazia, una cosa assai semplice intendiamoci, cioè la prima scopata, visto che a sentir le canzoni alla radio e i racconti dei più grandi, tutti, ma proprio tutti, al mare se la facevano – quando finalmente venimmo fuori da quel benedetto tempio, dicevo, mio zio Ilario, in qualità di maestro elementare assurto al ruolo di intellettuale di famiglia, pretese a sua volta la sosta doverosa agli scavi cosicché noi ragazzi apprendessimo della gloria passata “dei nostri antichi e nobili antenati”.
“Macché brutta stirpe avevano però generato” pensai guardando i turisti italici che, appena vomitati dai torpedoni, sciatti, grassi e sudati razzolavano tra quelle antiche vestigia – era la prima volta che vedevo tanti individui assieme, certo se si eccettuano le feste patronali al paese, ma lì conoscevo già tutti e non mi avevano mai così impressionato – “o è la razza umana, nel suo insieme e magari proprio dalla notte dei tempi, a essere brutta e volgare visto che i turisti stranieri erano, se possibile, pure peggio?” pensai pisciando dietro un’antica colonna essendo anche i cessi, per coerenza, appropriatamente ributtanti.

Dio ti ma

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di
Francesco Forlani

Ho letto l’ultimo libro di Luisa Muraro, pubblicato da nottetempo, Dio è violent.

Su “Dal rumore bianco” di Mariano Bàino

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di Andrea Inglese

Dal rumore bianco è la terza prova narrativa di Mariano Bàino, poeta della sperimentazione linguistica incessante, esordiente nella collana Tam Tam di Spatola, animatore con Cepollaro e Voce di “Baldus”, rivista-laboratorio del plurilinguismo e del post-moderno critico, autore di diversi libri di poesia, tra cui nel 2000 Pinocchio (moviole), un’efficacissima riscrittura in versi di Collodi.

Piccoli Maestri è diventata un’associazione culturale

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(Ricevo questa buona notizia da Federico Cerminara, e la pubblico qui molto volentieri.)

La fotografia è di Rino Bianchi

Siamo lieti di comunicarvi la nascita dell’associazione culturale Piccoli Maestri, affiliata Endas. Il progetto, nato nel 2011 da un’idea di Elena Stancanelli, su ispirazione del lavoro di Dave Eggers in America (826 Valencia) e Nick Hornby a Londra (Il ministero delle storie), coinvolge un gruppo di scrittori che, mettendo a disposizione tempo e passione, legge e racconta un libro ai ragazzi delle scuole medie e superiori. All’iniziativa, di carattere totalmente gratuito, hanno già aderito numerose scuole e centri di aggregazione giovanile.

Con l’intento di rendere sempre più viva e solida la scuola di lettura dei Piccoli Maestri, abbiamo fondato l’omonima associazione culturale il cui consiglio direttivo è composto da Elena Stancanelli (presidente), Federico Cerminara (segretario), Vins Gallico, Chiara Mezzalama, Roberto Parpaglioni, Emiliano Sbaraglia, Emilia Zazza. Il ruolo del tesoriere è affidato a Rino Bianchi.

Stimolare la curiosità dei ragazzi e tenere vivo lamore per la lettura, questo è il nostro obbiettivo. Inizia un nuovo anno scolastico, e i Piccoli Maestri sono pronti. Carichi di libri e di buone intenzioni. L’elenco degli scrittori e delle scrittrici, abbinato ai libri che hanno proposto, è presente sul blog, a disposizione delle scuole che potranno invitarci presso le loro sedi.

 

Ulteriori informazioni e contatti:

rassegna stampa: http://piccolimaestri.wordpress.com/rassegna-stampa/

elenco libri: http://piccolimaestri.wordpress.com/piccoli-grandi-libri-2/

blog: http://piccolimaestri.wordpress.com/

mail: piccolimaestri.info@gmail.com

facebook: Piccoli Maestri – scuola di lettura per ragazzi

twitter: @piccolimaestri

Paysages

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di

Francesco Forlani

 

Supplique feroviaria
June 17, 2012 at 6:29pm ·

Sto tran tran qui me strabuza li oci à luce à luce a noce à noce que la voz que te pare d’artri te sumiglia, t’encanta et s’alimente lo coeur par rollement de la vetura l’echange des regards figa quela figo quelo no pennient et se simula d’assonnarse pour un desìo de cullarse comme un bebè, un enfant, nu caruso, comme ça devant à tout le monde appustato A-B colli numeri de uno a centumila et alors que l’une apres l’autre se seguentan staziune de villes fameuses ou pennient piccerelle staziuncelle cum flores et faunas de barbun de sigarete accese sur le quais, se sbinaria lu tran tran et frina lorsque nu sibilo parait nu fisculo d’arbitro in miezz’o campe de ioco alors que financo lo controlor cambia d’acento de tono selon la region la ville lu village nu poco de stangheza te guadagna l’anema pe sta botta de vita de nomade genereuse ah la Boheme Boheme et puis el tran tran tout de subbète t’arridona el surriso la bocata d’oxygene comme si killo c’avive lassiat l’esta à nouveau de t’aspetarte à l’autre cap du monde du voyage et te strabuza li oci alors sta vida te fa sentrte vivo sta vida à luce à noce à noce que la voz que te pare d’artri te sumiglia, un peu

 

Dal libro “Il peso del Ciao”, casa editrice l’Arcolaio in uscita a dicembre 2012

Venti polpette

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 (L’autore del divertente e surreale Polpette, uscito 2 anni fa per le edizioni Epika, ci regala 20 sue polpette inedite. Buon appetito. G.B.)

di Jacopo Masini

1) “Siediti” dissi a me stesso, “devo parlarti”.

2) Il bambino nacque d’inverno. L’infermiera lo prese in braccio e lo porse alla madre. La madre lo guardò, poi si rivolse al marito, inarcò e con aria preoccupata disse: “Caro, e se fosse Gesù Cristo?”

3) “Posso farmi una domanda?”
“Dimmi”
“Sai le risposte in anticipo perché siamo la stessa persona?”
“Sapevo che me l’avresti chiesto”.

4) Leone Bruschi diceva che lui e la moglie erano come due falene: attratti dalla stessa luce, divisi da una lampadina.

5) Vasco Zanlari si accorse all’improvviso, dopo aver sbattuto per caso con la fronte contro un muro, di essere ricoperto di glassa sin dalla nascita. Vide una crepa apririsi nella glassa e diramarsi sino al collo e poi giù sino ai piedi. Appena liberato, si sgranchì, avvicinò una signora e le chiese “Posso abbracciarla?”. “Faccia attenzione, però” disse la signora, “la mia glassa è ancora fresca”.

6) Tullio Bolla perse le idee una mattina di maggio che tutto gli sembrava chiarissimo. Le aveva con sé fino a un minuto prima, poi, proprio quando stava per estrarne una, niente, non le trovava. “Dovrei averne un mazzo di scorta a casa” pensò e fece per rientrare. Allora si accorse che non ricordava più dove abitava, cosa stesse per fare, nemmeno cosa pensasse di preciso. Ma c’era un sole bellissimo e il cielo era blu.

7) C’erano due che avevano la mania di scusarsi anche se non avevano fatto niente, “Perdonami, non volevo” diceva uno, “Ma va, non hai fatto niente, scusami tu piuttosto” diceva l’altro. E ancora “Non scherzare, sono io che devo scusarmi” e via di seguito, in una trafila inarrestabile di scuse a vuoto. Alla fine prendevano a sberle il primo passante che capitava loro a tiro, per sfogare tutta la tensione accumulata.

8) “Pensa se potessi fare cambio e mettere il cuore al posto del cervello e viceversa” gli disse una volta un suo amico, usando una metafora. Lui tornò a casa, si squarciò il petto e il cranio, e tutto imbrattato di sangue tentò l’esperimento. Passò un mese seduto sul divano a fare strani ragionamenti senza senso e nessun sentimento. Adesso lavora al circo, lo chiamano l’Uomo Sgambetto: entra in pista, dice due cose, si mette a piangere, si contraddice e poi passa un’ora a sgambettarsi da solo. Tutti ridono, ma lui no.

9) Luigi Raiola, una sera che stava guidando verso casa, a metà di una curva, pensò al giorno in cui avrebbero parlato di lui in sua assenza, cioè dopo la sua morte. E allora, quasi subito, gli venne in mente che anche lui parlava di gente che non c’era più. E gli parve stranissimo, proprio mentre rallentava, era quasi arrivato, che non si possa mai parlare della nostra assenza. Suonò al citofono e in casa non c’era nessuno. Solo lui, davanti al citofono, che suonava e suonava.

10) “Perché non c’eri quando avevo bisogno di te?” disse lei, “Guarda che ci siamo conosciuti la settimana scorsa” disse lui, “Ah, ecco” disse lei.

11) Il mondo finirà per colpa della signora Ines Barigazzi che si dimenticherà il gas aperto, secondo la profezia di Gianni Ferrarini, titolare del bar Gianni di viale Piacenza dal 1969.

12) “Ha gli occhi di suo padre” disse.
“Dici?” rispose.
“Sì, li tiene nel cassetto della scrivania”.

13) Un giorno è uscito, aveva una faccia un po’ così, un suo amico gli ha chiesto “Cos’hai?”. Lui si è incassato nelle spalle, ha detto “Ma niente, le orecchie”. “Nel senso che ti fanno male?” ha chiesto l’amico, “No, è che ho le orecchie”. Da quel momento lì, quando qualcuno gli chiedeva cosa aveva, lui diceva “Il naso”, oppure “Le mani” e tutti rimanevano perplessi. Però smettevano di chiedergli “Cos’hai?” e al contrario iniziavano a pensare che infondo anche loro avevano per esempio il naso ed era molto tempo che non ci pensavano.

14) Vincenzo Lozzi era il settimo di tre fratelli. Per tutta la vita ha dovuto dare delle spiegazioni a quelli che gli chiedevano come fosse possibile che mancassero tre fratelli per renderlo il settimo. Lui diceva sempre non sapeva darsi una spiegazione, ma che certamente doveva esserci, altrimenti non si capiva quel senso di mancanza che si portava dietro sin da piccolo, da quando giocava a nascondino e non riusciva mai a fare tana agli ultimi tre.

15) “Signora” disse “faccia attenzione con la credenza”. “E perché?”. “Ci vuole un attimo a riempirla di superstizione”.

16) “Sei la donna più bella che abbia mai visto” disse lui. “E’ tanto che non esci, vero?” disse lei.

17) “Lei ritiene che potremmo amarci moltissimo?”
“Ritengo che la prospettiva sarebbe allettante”
“La prospettiva è opera di Giotto”
“Amo molto anche Giotto”
“Limoniamo duro?”
“Durissimo.”

18) Una volta la Madonna è apparsa a Amos Barigazzi, ma lui stava ordinando una bottiglia di prosecco per gli amici, non l’ha riconosciuta e, amen, non ne ha parlato nessuno.

19) Fausto Torrazzi era famoso come profanatore di tombe vuote. Andava al cimitero, vedeva un avello vuoto, si infilava dentro e lanciava nell’aria una risata sinistra. Poi tornava a casa contento, e basta.

20) “Mi manchi”, disse lui.
“Ho una pessima mira”, disse lei.

 

Ingiuro che sì

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di
Livio Borriello
(Frammenti dal suo nuovo sito che vi invito a visitare)

L’insulto deve tornare a essere quello che era, una forma protogiuridica di controllo sociale, un meccanismo ormonale e psicologico, in cui entrano in gioco il cortisolo e la dopamina, l’endorfina e l’ossitocina, le componenti fisiche e carnali del biasimo e della approvazione, della colpa, della punizione e del premio, finalizzato a regolare il comportamento sociale degli individui.

 

*

E’ che la sx attuale ha dimenticato la trasgressione, ha dimenticato l’esplosione di felicità del ’77 e della fantasia al potere, e è andata a strozzare la propria vitalità nell’imbuto del politically correct, si è andata sbiadendo nel grigiore del perbenismo politico. La stessa difesa dell’omosessualità, del trasgenderismo, della trasgressione erotica, viene vissuta non più come esplosione liberatoria e delirante della corporeità, come accesso all’assoluto del corpo, come colore interiore e spuma ormonale, ma come semplice e noiosa rivendicazione di un diritto civile. La trasgressione è psicologizzata, regolamentata, istituzionalizzata, e dunque non è più tale, poiché varcato il limite, si ritrova racchiusa e controllata da quello più subdolo della falsa tolleranza modernista, e diventa null’altro che una nuova tipologia di piacere, un nuovo prodotto di consumo. Simbolo triste ne è la calza a rete o i segni esteriori della femminilità simulati e ricostruiti del transessuale. In Bataille e nei situazionisti, come nelle culture alternative degli anni ’70, la trasgressione era altro, e era apparentata semmai a quella di Savonarola o Maddalena de’ Pazzi, un bisogno di trasgredire, travalicare e trascendere l’umano, di sconfinare oltre il limite, di annullare per l’istante brevissimo dell’infrazione, il senso del limite, la coscienza della morte, il peso della materia, propri della condizione umana.

 

Le origini. la storia della famiglia di Rio

questa è rio, l’otaria che pensa
questo otaria – secondo quanto certifica
il pensare del figlio di piero angela –
riesce a distinguere le lettere dai numeri,
e compie delle deduzioni. quindi pensa.

il nonno di rio, l’otaria pensante. non pensa.

tuttavia ha gettato le basi del pensare, riuscendo a mangiare aringhe di oltre 72,6 cm. queste aringhe così grandi, hanno creato una compressione a livello del canale otaricolo e del dotto aringospastico, e hanno costretto i neuroni ad evolversi in una struttura più complessa. è nata così la neuringa, il neurone-aringa, congegno cellulitico portentoso, nella cui composizione è presente un’alta percentuale di dio.
ecco infatti la composizione della neuringa, secondo uno studio del Massachutes and St. Gennar Otaric Neurology Institute: 40% acqua; 25% bicarbonato; 30% olio d’oliva; 27% acido glutotarico; 22% dio; 1% scapece. Come si vede, la somma delle percentuali dà il 144%, e questa è una caratteristica specifica della neuringa. Ecco cosa afferma il prof. Brain Water, a capo del dipartimento: The straordinar carachteristics of neuringa is that she is most of the his most…. so neuringa feels most what she feels. Probabilment, just this permit to neuringa of thinking. This is the true misterity of oggigiorn science.
chi volesse contribuire alla ricerca sulla neuringa, può inviare una donazione liberale a questo IBAN:IT42K0316501600000011184720, beneficiario livio borriello. i fondi saranno utilizzati al 50% in azioni blue-chip sull’aringa e padre pio, il resto ai poveri e alla costruzione di un faraonico acceleratore ittiostatico, che dopo un processo di bombardamento protonico e frittura, separerà dall’aringa la sua componente di acqua, la sostanza più misteriosa. per la prima volta sarà prodotta acqua a partire dalle aringhe (anzi, precisano gli scienziati, un’acqua con un leggero gusto di gazzosa molto gradevole), aprendo alla scienza orizzonti inimmaginabili.

la famiglia di rio, l’otaria che pensa, vive serenamente nelle isole ballestas.

ogni sera, i membri della famiglia si riuniscono davanti alla casa di zi’ carmeledda, l’otaria archeo-pensante, e commentano i programmi alla tv. il sogno di zi’carmeledda è partecipare al programma di carlo conti Tale e quale, di cui è molto appassionata, perché è convinta di assomigliare a albano. in tal modo essa è convinta di diventare il capo del mondo. le otarie ragionano infatti essenzialmente per somiglianze e differenze, e ritengono quindi che se si SEMBRA il capo del mondo, si E’ il capo del mondo. perché poi le otarie credano che albano sia il capo del mondo, questo non è stato ancora scoperto dalla scienza.

p.s. l’amico elio p. sostiene che questo pezzo è sciocco… forse ha ragione, d’altronde qui bisogna buttare anche un po’ gli scritti azzardatamente e sperimentalmente… e magari questo pezzo è anche meno sciocco di quel che sembra, per cui può sempre costituire un arricchimento il cogliere la differenza fra quanto lo sembri e quanto realmente lo sia

I’m not there

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In verità, in verità vi dico

1

di Giuseppe Zucco

Il disegno è di Erica il Cane

 

È più brusco
trovarsi a tu per tu con le strutture tutto in una volta.
Elio Pagliarani

La parte migliore di me non avrebbe dovuto lasciarti andare. Sinceramente, la parte migliore di me non avrebbe dovuto neanche permettere che ti allontanassi di un millimetro.
La parte migliore di me avrebbe dovuto lottare – svenarsi, sgolarsi, certo – e cercare di convincerti: metterti al riguardo di quanto la stabilità sentimentale venuta a instaurarsi tra una cardiochirurga giovanissima ma molto promettente e uno dei più noti autori televisivi del momento fosse una tale rarità in natura, un tale evento nel più ampio sistema solare, che non restava altro da fare che preservarlo e custodirlo e consegnarlo come cartolina ai posteri che, un giorno, nel periodo più introspettivo della loro vita, vagamente illuminati da questa immagine di reciproca elettrica attrazione, avrebbero intuito cosa intendevamo noi per felicità – per appagamento, già, dei sensi o dei sentimenti – una specie di riposo del guerriero, il momento di stasi che precedeva o seguiva le grandi battaglie, l’attimo in cui le armature lucide o spaventosamente deformate posavano per terra mentre gli occhi della persona davanti diventavano uno specchio o un lago, qualcosa a metà tra uno specchio e un lago, un punto circoscritto dello spazio infinito in cui riflettersi e immergersi senza alcun tremore e spaesamento.
Eppure, la parte migliore di me ha infilato certe nebbie. Probabilmente, la parte migliore di me ha subito la temperatura elevata della sala autori mentre fuori infuriava l’inverno. La quantità delle sigarette e delle barrette proteiche e della taurina allo zero virgola quattro per cento contenuta nelle lattine durante la stesura delle scalette e dei copioni. I progressivi avanzamenti decimali dello share su cui scommettevo con gli altri autori e gli assistenti ai programmi – non cene, sfilare nudi sul balcone della sala autori che dava sulla strada era lo standard, se perdevi.
In fondo, In verità, in verità vi dico, il titolo nonché la formula di rito che apriva il nostro programma, la cronaca nera al servizio dei cittadini, come tu sai, aveva vagito sotto il sette per cento, da lì era cresciuto, nei primi tempi osservava la curva dell’indice di ascolto inerpicarsi per altezze irraggiungibili con un filo di struggimento – e anche se all’inizio eravamo un semplice gradino della più estesa scalinata del palinsesto, piano piano e poi di colpo eravamo diventati un punto di vista, un marchio riconoscibile, una presenza concreta e puntuale con cui la realtà doveva fare i conti, prova ne erano le telefonate ricevute, l’e-mail intasata dai commenti, la mezza stellina dei critici televisivi su riviste e quotidiani appuntata alla giacca come medaglia al valore, le promesse gaudiose del riposizionamento di In verità, in verità vi dico in una fascia oraria strategica e dell’inserimento di due pause pubblicitarie aggiuntive nel corso del programma, tanto che più volte, di notte, infilando l’indice nel nodo della cravatta, allentavo di poco mentre consultavo le ultime agenzie stampa, un gesto istintivo di cui avrei appreso in seguito la natura profetica.
Non credo che la parte migliore di me, prima di oggi, avesse chiaro il concetto di stabilità sentimentale. Non credo neanche che sapesse cosa farsene, sebbene, in definitiva, decidesse del mio umore e del mio stato d’animo, permettendomi di concentrarmi solo e unicamente sul programma, sul fatto che uno dei miei inviati dovesse per esempio fiondarsi in un paesino di provincia quando ancora la bambina non era stata del tutto conquistata dal rigor mortis per intervistare i suoi genitori e chiedere loro cosa provassero in quel momento, cioè cosa sentissero, quali parole riuscissero ad articolare guardando in modo confuso e cognitivamente ellittico la telecamera davanti al colore neutro della parete di una sala di attesa del reparto grandi ustionati.
Capirai senz’altro, la parte migliore di me non sta cercando di salvaguardare l’astrazione romantica della parola amore. La parte migliore di me ormai da tempo ha superato le più scontate convenzioni – l’amore, naturalmente: e la vita di coppia, il matrimonio, la rigidità asfissiante della monogamia. La parte migliore di me, come avrai capito, prospera proprio su un altro piano.
La parte migliore di me, per essere esatti, è convinta che per un autore televisivo e una cardiochirurga in ascesa, perlomeno in orbita verso la più scintillante delle carriere nei rispettivi campi di azione, la stabilità sentimentale sia tutto. Sapere che nonostante le noie e lo strazio delle grandi battaglie della vita quotidiana c’è sempre qualcuno a casa disposto ad ascoltare senza giudicarti o degradarti all’ultimo livello delle categorie umane, lo stronzo, il pezzo di merda, la merda umana, è una di quelle certezze su cui posare la prima pietra della costruzione di una visione equilibrata della vita e del proprio lavoro.
Detto in altre parole, è chiaro che il simbolico allentamento del nodo della cravatta è stata responsabilità mia, soltanto mia, del tutto mia – e ancora oggi mi pento e mi dolgo di avere indetto quella festa a casa nostra in seguito alla registrazione del più alto picco di ascolti in prima serata non prevedendo che tu tornassi con un giorno di anticipo da un convegno sul futuro della cardiochirurgia, uno di quei elegantissimi rituali massonici da cui rincasavi con espressioni tipo decision making e il costo dei vari devices, piccoli tappeti linguistici sotto cui nascondevi la grande polvere di un problema ricorrente, cioè se per un’azienda sanitaria fosse sensato prima che economico prendere la decisione di operare vecchi catorci su per giù sulla settantina con speranze di vita inferiori all’anno, una percentuale considerevole della popolazione ospedaliera che risucchiava gran parte delle risorse finanziarie, allungando di colpo l’ombra dei cardiochirurghi sul viale del cinismo già ampiamente battuto dagli autori televisivi, un cinismo funebre, a dire il vero, cosa che appena veniva accennata ti faceva inforcare gli occhiali e alzare dal letto e andare in cucina e farti trovare con un bicchiere d’acqua in mano davanti alla finestra aspettando non che io ritirassi tutto, ma che muovessi i capelli e ti baciassi sulla nuca e facessi promessa di non svalutare la tua vocazione cardiochirurgica che di tanto in tanto ti destinava in una qualche località sperduta del nord Africa in un’altra mossa riuscita del capitalismo avanzato.
Ma se tu di punto in bianco non avessi deciso di porre fine alla nostra relazione, di troncarla, di farne cenere da disperdere al vento, probabilmente io non sarei caduto in errore: o in un eccesso di realtà, per essere corretti, anche se tutti i commentatori continuano a designarlo come un vero errore, e dei più irrimediabili, a dirla tutta. La parte migliore di me, in effetti, proprio allora, ha registrato una relazione proporzionale tra la mia stabilità sentimentale e la mia concentrazione sul lavoro.
Se ci pensi bene, è un discorso tutt’altro che unilaterale. Se fai mente locale, tu eri ancora necessariamente al mio fianco quando il padre della bambina morta per ustioni ha rifilato un secco no alla richiesta del nostro inviato, un pugno in faccia e due tre calci nello stomaco, ma sono stato io stesso a sedare l’inviato al telefono invitandolo a scongiurare la vendetta o la denuncia, pena la sparizione del suo nome dai titoli di questo e di futuri altri programmi, e con tanto di frattura al setto nasale di proseguire il suo lavoro, intervistando la lunghissima sequela dei parenti della bambina, gli anziani, soprattutto, chiedendo loro cosa provassero in quel momento, come se non fosse più un pezzo televisivo, ma un inchino alla probabilità statistica, qualcuno alla fine avrebbe risposto con le lacrime agli occhi, umidità cariche di rassegnazione cosmica che avremmo deliberatamente sottolineato con la musica adatta, un tantino melodrammatica, a dire il vero – la stessa cosa successa mentre io ero ancora necessariamente al tuo fianco, e sotto la luce gelida azzurrina della sala operatoria il tuo respiro non approdava all’asma, la tua fronte non era imperlata di goccioline di sudore, la tua mano non tremava, il tuo bisturi non trovava inceppo né ostacolo, il tuo ago disegnava bene ogni sutura, e il bypass aorto-coronarico riusciva nonostante le mille e una complicazioni che di solito annodano il cartellino all’alluce tanto al paziente quanto alle quotazioni del cardiochirurgo di turno.
Chiaramente, se solo avessi avuto sentore, se solo avessi previsto gli esiti disastrosi della relazione ormai scientificamente dimostrabile tra stabilità sentimentale e concentrazione sul lavoro, la parte migliore di me si sarebbe guardata bene dall’indire seduta stante al picco di ascolti di In verità, in verità vi dico una festa a casa nostra. Vedere i tuoi occhi dilatarsi oltre misura sulla soglia della nostra camera da letto mentre due ispettrici di studio completamente svestite vagavano sulla landa desolata del mio corpo emettendo tutta una serie di esoterici balbettii, aveva cancellato di colpo dalla mia memoria il numero complessivo di puntate che aveva tenuto il pubblico incollato al televisore. È vero, uno dei miei inviati, rovistando nel sottobosco intorno alla casa della donna scomparsa, aveva ritrovato il frammento superiore di un femore, e noi, principianti Sherlock Holmes in erezione, di quel femore ne avevamo fatto un cadavere, la prova che il marito aveva scombinato la disavventura della donna scomparsa in mille piccole disavventure sotterrate con estrema cura e perizia, ma a quel punto io avrei restituito la risoluzione del caso piuttosto che smarrire la stabilità sentimentale e quindi la concentrazione sul lavoro. Se mi sono spiegato bene, non è esattamente amore, ma neanche egoismo, il mio. Se ti sto tortuosamente ma ufficialmente chiedendo di tornare al mio fianco, riguadagnando in modo più contemporaneo e disinvolto i vantaggi di un’efficiente stabilità sentimentale del tutto preclusa alle tradizionali coppie monogame, è per scongiurare di farti incorrere in un qualche errore capitale – errore che peserebbe su una vita intera e su un’intera carriera.
La parte migliore di me, infatti, non ha retto. La parte migliore di me, già abbastanza annebbiata da lavoro scommesse taurina, quanto tu sei andata via, è caduta nelle spire dell’instabilità sentimentale, seminando errori a catena sul lavoro. Per esempio, chiedendo la testa dell’inviato che non era riuscito a raccogliere neanche una microscopica fluidità salina sul volto di un qualsiasi lontanissimo parente della bambina morta ustionata, essendo i parenti rinchiusi nel più stretto riserbo. Per esempio, caricando me stesso su una macchina di redazione e precipitandomi nel paesino della bambina morta ustiona. Per esempio, aspettando sotto casa il padre della bambina, due ore tonde, se non ricordo male, e poi notandolo uscire da casa, scagliarmi addosso, stringergli le mani al collo e urlare chi si credeva di essere, proprio così, che titoli e quali argomenti avesse lui per mettersi di mezzo tra le telecamere e la verità. Per esempio, introducendomi nell’obitorio, con la telecamera a tracolla, dopo avere corrotto un paio di infermieri, cercando il numero della cella frigorifera associato al nome della bambina morta ustionata.
Non ti sto pregando, ora, in questo istante, dovunque tu sia, di ritornare. Non ti sto dicendo tra le righe di prendere le tue cose e venire a ripiegarle nei cassetti di questa casa nelle prossime ore. Non è questo.
La parte migliore di me sta solo tentando di farti immaginare quale abisso di rimorso e risentimento potrebbe spalancarsi sotto i tuoi piedi nel momento in cui troveresti le pareti domestiche sguarnite di una figura che in modo molto disinvolto e contemporaneo ti assicura una duratura stabilità sentimentale e di conseguenza una tenuta nel mondo del lavoro. Pensa solo a tutti i casi di infezione o di sanguinamento post-operatorio che potresti incidentalmente causare ai tuoi pazienti se le rigorosissime procedure sanitarie di cui sei fedele devota fossero messe a repentaglio da tutta un’altra qualità di pensieri instabili e sentimentali. Pensa solo a quanta disperazione stia bruciando per riemergere dal fondo di un errore o, ci siamo capiti, di un eccesso di realtà, che mi è costato prima le proteste, poi un’interrogazione parlamentare, quindi la soppressione istantanea del programma.
La parte migliore di me, se solo avesse trovato qualcuno a casa disposto ad accogliere le mie ragioni senza darmi preventivamente contro, con una qualche certezza non si sarebbe precipitata nel paesino né avrebbe aggredito il padre della bambina ustionata, non avrebbe corrotto gli infermieri né sarebbe entrata nell’obitorio, non avrebbe aperto la cella frigorifera né avrebbe messo in spalla la  telecamera e ripreso gli arti ustionati della bambina, le gote ustionate, le dita ridotte a miseri carboncini consumati, montando poi quelle immagini nel servizio mandato in onda.
Non sto affatto dicendo che tu non possa frequentare chiunque tu voglia, con una prossimità tra i corpi che declinerai tu di volta in volta: siamo troppo adulti e democratici e contemporanei per compromettere la nostra stabilità sentimentale cioè la nostra carriera per questo genere di cose – anche se ammetto che deve essere stato sufficientemente traumatico farsi trovare addosso due ispettrici di studio, peraltro svestite, con le labbra appaiate sul bottone rossastro dei miei capezzoli.
Sto solo dicendo che noi due, una volta seduti abbracciati davanti al tramonto di questa trascurabile incomprensione, facendo tesoro della nostra rinnovata stabilità sentimentale, potremmo diventare due esseri umani migliori – migliori e pacati, più retti, particolarmente in sesto e misurati, capaci di prevedere quanto sfuggire gli errori e i fallimenti e le capitolazioni.
Anche perché la parte migliore di me, come quella di ogni singolo spettatore che ha composto il pubblico dell’ultima puntata trasmessa di In verità, in verità vi dico, riesce a stento a prendere sonno dopo avere allestito l’oscurità nella propria stanza o a cercarsi nello specchietto retrovisore durante una pausa al semaforo o a riempire in altro modo l’attesa di completamento del download illegale di un film americano.
Il sorriso ustionato della bambina ustionata denuda i denti e continua a espandersi tra i pensieri sebbene in principio apparisse definitivamente rigido, e annerito.

[Questo racconto è stato pubblicato nell’antologia Storia di martiri, ruffiani e giocatori, edita da Caratteri mobili, a cura di Vicolo Cannery]

La casa di Peter Handke

2

di Danilo De Marco

Si entra nell’ampio giardino: una macchia verde da una parte, uno sterrato coperto di ghiaia dall’altra.

Peter Handke viandante carinziano in Friuli

5

di Erri De Luca e Hans Kitzmüller

Peter Handke è un bambino che ha saputo tutto del mondo e se ne va tra gli adulti raccontando loro qualche dettaglio.

Tre nostalgie

5

di Vanni Santoni

(Che, sì, potrebbe essere anche il titolo di un libro di Richard Yates*). Ho letto di recente tre bei romanzi, che trovo siano uniti, oltreché dal fatto di essere stati scritti da autori nati nella forbice di un quindicennio (Pavolini 1964, Ghelli 1975, Cognetti 1978) e legati a vario titolo a Roma (Cognetti per l’editore, Ghelli per averla scelta come città di adozione, Pavolini per nascita e editore), da una fortissima tensione nostalgica, declinata tuttavia secondo modalità affatto diverse.

il Grande Rischio scienza

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di Antonio Sparzani

Ci vorrebbe una vera Commissione Indipendente che vigilasse continuamente e attivamente sui grandi rischi connessi sia con la scienza, sia, e forse soprattutto, con i suoi variopinti portavoce, o profeti, o sacerdoti, non so, detti scienziati, e scienziate, naturalmente.
Questa faccenda della sentenza del tribunale dell’Aquila che condanna un’intera commissione per il suo operato è proprio emblematica, anche e soprattutto nel senso che i suoi rimbalzi mediatici, vicini e lontani, tendono sempre più a deformare e a non far capire quale sia il centro del problema. Tanto che viene tirato in ballo Galileo che proprio poco c’entra e perfino Giordano Bruno, che già ha subito abbastanza ingiurie perché gliene si debbano aggiungere altre.

Addio mia bella Nauplie – Atelier du Roman

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Allocution prononcée en clôture de la XIVe Rencontre de L’Atelier du roman à Nauplie (Grèce) les 6 et 7 octobre 2012.
di
Lakis Proguidis (trad. di effeffe)
Eccoci infine giunti al termine del XIV Incontro de L’Atelier du Roman a Nauplia. L’usanza vuole che alla fine di ogni Incontro sia annunciato il tema dell’incontro successivo. Quest’anno non sarà così per il semplice motivo  che non ci saranno più gli Incontri dell’Atelier du Roman.

Avuto, visto 12-14 / Vincenzo Ostuni

3

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tratto da Faldone zero-venti : poesie 1992-2006 di Vincenzo Ostuni, Ponte Sisto, 2012

Il perché delle biografie

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di Isabel Burdiel

Diceva Josep Pla che, se a quarant’anni continui a leggere romanzi, sei un idiota. Non è necessario essere d’accordo per rifletterci un po’ sopra.

Per molti lettori – forse anche per Pla –  la poesia è il genere dell’adolescenza, il romanzo quello della giovinezza e la biografia è il genere della maturità. Un genere che esercita un fascino particolare per coloro che iniziano a sentire che la vita si fa seria, e che abbiamo bisogno di ordine e di consolazione in mezzo al rumore e alla furia di una vita che galoppa e ci sfugge. Si tratta di quegli anni alle spalle nei quali non c’è scampo al tempo, quando il passato, come diceva il poeta Ángel González, è così incerto e scoraggiante quanto il futuro per gli adolescenti. 

Autismi 27 – La mia inettitudine

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di Giacomo Sartori

Ci sono persone che sanno fare tutto, o sembrano sapere fare tutto, mentre io non so fare quasi niente. Tanto per cominciare non so cantare. Nella mia famiglia sono tutti intonati, io invece sono stonato come una campana, una campana precipitata dalla cima del campanile sul lastricato sottostante. Mia moglie, che canta molto bene, mi ripete sempre con una voce paziente ma anche surrettiziamente esasperata che non esistono persone stonate, basta fare esercizio. Io non le ho detto che c’è stato un periodo in cui vocalizzavo inni marxisti-leninisti, ma restavo pur sempre stonato: certe cose si mimetizzano perfino a chi ci sta più vicino. Insomma, canto unicamente quando viaggio in macchina da solo e ho i finestrini chiusi, preferibilmente di notte. Del resto non so nemmeno ballare. Una volta certi amici della mia prima fidanzata mi hanno convinto a provare, e io ho ballato. Vedi che sei capace, mi dicevano, facendomi dei sorrisi incoraggianti come si fa con i portatori di raccapriccianti handicap. E a me stesso sembrava di ballare passabilmente, se non proprio bene: forse proprio perché avevo un po’ bevuto. Poi però una di loro con il pallino della didattica mi ha detto che ero proprio sulla via buona, se adesso cercavo di creare un minimissimo legame tra i miei movimenti e il ritmo della musica sarebbe stato perfetto. Allora ho capito che era meglio che lasciassi perdere, anche se certe volte è imbarazzante essere l’unico che non balla. E non so fare le divisioni con due cifre. Ero assente il giorno che il maestro le ha insegnate, e non c’è più stato verso di rimediare (adesso può far sorridere, ma nell’era pre-elettronica ho speso tantissime energie a mascherare questa mia inettitudine, per anni sono vissuto nel terrore di venire smascherato e di pagarne le conseguenze). Ma non so nemmeno giocare alle carte, parlare ai bambini, raccontare barzellette, andare in vacanza, cucire, capire se fa freddo o caldo, non so come funziona facebook e tutti gli altri aggeggi di adesso, non so rispondere su due piedi alle persone quando mi domandano cose anche molto semplici, pur avendo dei fermi convincimenti non so avere opinioni politiche coerenti, o anche solo opinioni coerenti di altro tipo, e forse addirittura idee coerenti, non so tenere i segreti, non so essere fedele, non so vedere un derelitto che soffre senza piangere io stesso (benché in altri frangenti non sappia evitare di far piangere certi derelitti), non so mandare al diavolo mia madre quando fa la nobildonna settecentesca, zittire i tipi che dicono stronzate, infrangere le illusioni altrui, anche le più dissennate (tanto più se si tratta di amici), andare alle feste, o anche solo intervenire nelle conversazioni, toccare i pesci vivi, baciare i morti, pisciare da uomo, fare due cose nello stesso momento, procreare, ricordarmi le trame dei libri e dei film, ricordarmi le altre cose, chiedere un piacere, guardare le persone senza mostrare che le guardo, dormire senza terrificanti incubi, essere ottimista, vedere film sanguinolenti, o anche solo sequenze sanguinolente, leggere i cosiddetti gialli, avere una calligrafia leggibile, comprarmi le scarpe, e via dicendo: la lista potrebbe essere lunghissima. Queste affollate inettitudini restano però pur sempre anedottiche: sono ben altre quelle davvero cariche di invalidanti conseguenze. In particolare non so respirare. Senza accorgermi trattengo il respiro, e quando proprio non ce la faccio più sbuffo fuori l’aria, e gioco forza ne segue una agonica inalazione. Gli appassionati di record subacquei o subaerei di apnea mi capiranno. Questo fin da bambino: quando guardavamo la televisione i miei mi dicevano che era impossibile starmi vicino, e mi allontanavano. Adesso quando vado al cinema i vicini tossicchiano, o anche si alzano e cambiano posto. Non ho mai imparato a respirare. Mia madre mi portava da ogni sorta di dottori, ma non è servito a niente. Ma non so nemmeno mangiare. O meglio, condurre alla bocca i cibi in qualche modo riesco, anche se pare faccia molto rumore e molte briciole, ma poi non so capire quando sono sazio, il che mi crea sempre dei problemi. Adesso sarò sazio?, mi chiedo. E adesso? Avrò mangiato troppo poco o troppo tanto? Nemmeno mio fratello sa giudicare quando è sazio, come del resto nemmeno lui sa valutare se fa freddo o caldo, e secondo lui è perché nostra madre decideva tutto lei. Comunque sia è dopo aver ingerito il cibo che viene il peggio: non so digerire, non ho mai imparato. Non digerisco gli spaghetti al pomodoro, la carne, il pesce lesso, il formaggio, la pizza, i cavoli, le cose più comuni e semplici. E i pochi alimenti che digerisco mi fanno male. Il pane mi fa male, la pasta in bianco mi fa molto male, il vino mi fa malissimo, e via dicendo. Un cetacico terapeuta al quale mi sono rivolto diceva con il suo vocione incoraggiante che dipendeva dall’equilibrio tra i succhi pancreatici e la bile: bisognava dissotterrare le ragioni profonde responsabili del suo traviamento nella tenera infanzia, per poi reimpostare tutto: ci sarebbe voluto un po’ di tempo ma poi avrei digerito anche i rospi crudi e i sassi. Un altro terapeuta magretto e di modi tenui sosteneva che dovevo riconciliarmi con le sostanze alle quali il mio corpo era allergico: mentre io stringevo in ciascuna mano una fialetta contenente una data sostanza lui mi massaggiava certi punti appropriati del corpo con il sottofondo di una musica indiana. Il bello è che al giorno d’oggi l’eclettismo e l’ecumenismo furoreggiano anche in campo sanitario. Purtroppo però un’altra cosa che non so fare è perseverare nelle terapie che comincio. Del resto nemmeno di camminare, sono capace. Insomma, per un po’ riesco, ma poi mi inciampo. Non c’è nessunissimo ostacolo, nemmeno millimetrico, e io inciampo. Dopo essermi inciampato mi guardo indietro, un po’ per darmi un contegno e un po’ anche per constatare che davvero non ci fosse qualche intoppo, non si sa mai, ma non c’è mai un intoppo. Pure per questo mia madre mi portava dai dottori, e anche in questo caso invano. E poi non so ascoltare le persone. O meglio, mi sforzo di ascoltare, ma perdo subito il filo, mi distraggo. La maggior parte delle volte fingo di stare a sentire e mi domando cosa cavolo stia dicendo quel’essere umano che mi sta parlando con tanta foga. E comunque che ascolti o non ascolti stare tra la gente per un periodo prolungato mi provoca il mal di testa. È cominciato prestino, verso i sei mesi, e poi si è acuito a due anni e mezzo, quando per la prima volta sono stato internato (mia madre lavorava). Per i miei gusti all’asilo c’erano troppi essere viventi che parlavano tutti assieme, troppi odori, troppe aspirazioni divergenti, troppi ormoni. Non è che mi dispiacesse, ma mi sfiancava, mi provocava appunto dei nefasti mal di testa. Più di una volta sono finito all’ospedale. Del resto nemmeno con un’altra persona singola ho mai imparato a convivere. Mi sono sforzato, ho fatto indubbi progressini, ma non ho mai davvero imparato. Ne sa qualcosa mia moglie. Forse la cosa più grave, viste le mie passioni e il mio stile di vita, è però che non so parlare. Fino circa ai venticinque anni emettevo suoni inarticolati. E nonostante i passi in avanti la mia dizione rimane tuttora molto impastata, al limite dell’incomprensibilità, non mi vengono in mente le parole più comuni, quando sono stanco balbetto. E comunque le mie biascicate asserzioni rifuggono qualsivoglia sottigliezza dialettica: sono tombali colpi di accetta. Immaginiamoci allora lavorare: per la maggior parte degli impieghi bisogna ben tollerare la promiscuità, saper ascoltare, avere cristalline opinioni, e bisogna sapere parlare, saper digerire, saper pisciare da uomo. Tutte cose che non so fare. Beninteso sgobbo lo stesso, altrimenti non potrei appunto mangiare, e anzi paradossalmente per certe cose sono considerato brillante, ma patisco esponenziali emicranie derivate dalla sinergia dei singoli mal di testa (procurati dalle singole inadeguatezze). A causa del ridondante consumo di analgesici sono definibile un drogato. Quel che però è più grave di tutto, era scontato che finissimo qui, non so amare. Nel corso degli ultimi decenni ho fatto molta strada, ma non mi sembra che si potrebbe affermare che padroneggi i rudimenti minimi dell’amore. Certo, a casa mia non si usava, e non sono cose che poi si imparano tanto facilmente in età adulta, ma è assurdo inseguire sempre cause e colpe: devo prendermi le mie responsabilità. Ho imparato a fare come se amassi, a comportarmi come una persona che ama, ma non so se amo davvero, non mi pare. Più che un amatore sono un attore che impersona meglio che può un amatore. Con la mia inettitudine amatoria cerco di fare meno danni possibile, ma qualche volta ci sono feriti, qualche volta ci scappa il morto. Talvolta mi accorgo di amare più un animale che le persone, e ho orrore di me stesso. Secondo mia moglie tutte queste inettitudini sono dovute al fatto che non mi prendo in mano: secondo lei moltissime cose sono come il canto, se mi mettessi, e continuassi per esempio le terapie che comincio, imparerei benissimo a fare tutto. Io non credo che abbia ragione, ma mi fa piacere che abbia fiducia in me. Lei è una di quelle persone che canta e balla e ama con leggiadra baldanza, allargando via via senza pena alcuna lo spettro di azione. Però non è vero che non mi sono mai sforzato: molte cose le ho imparate anzi mettendoci una esagerata applicazione, la fanatica ostinazione e l’inumana perseveranza ereditate da mio padre fascista. Insisti che ti insisti ho appreso a guidare la macchina, anche se dentro di me considero che non so guidare, e nel tempo in cui chiunque altro ne avrebbe imparato dieci, ho assimilato qualche lingua straniera. Nello stesso modo ho anche imparato un po’ a scrivere. Mi sforzo, ma so che i risultati saranno quelli che saranno. So che i ragionamenti astratti mi saranno sempre preclusi, so che non potrò mai leggere un cosiddetto giallo, che non avrò mai opinioni coerenti. So che tutto mi costerà sempre fatica.

(l’immagine:  Sam Doyle)

Premio Ciampi – Valigie Rosse 2012

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Venerdì 26 Ottobre ore 21.00 Teatro La Goldonetta, Livorno
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Premio Valigie Rosse 2012. Il Premio Ciampi – Valigie Rosse 2012 viene assegnato al francese Charles Juliet, personaggio di grande rilievo nel panorama della poesia francese, con la sua antologia Radici della luce, curata e tradotta da Federico Mazzocchi; e l’italiano Giacomo Trinci con la sua plaquette inedita Sul finire. A seguire lo spettacolo teatrale Non si sa dove si va, ma si va di e con Carlo Monni ed Andrea Kaemmerle, con Roberto Cecchetti (violino), Massimo Barsotti (pianoforte). Allestimento, regia e musiche a cura di Maria Cassi e Leonardo Brizzi. Uno spettacolo folle,  allegro e surreale. Il primo pretesto sono le storie dei minatori di Maremma tratte dalla “Vita Agra” di Luciano Bianciardi, meraviglioso testo pieno di sagacia ed ironia, un libro che rappresentà un clamoroso caso editoriale e letterario.

Il senso di una fine

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 di Gianluca Veltri

Julian Barnes, Il senso di una fine, Einaudi, pag. 160, traduzione di Susanna Basso

Il libro vincitore del Booker Prize 2011 Il senso di una fine di Julian Barnes, ha suscitato reazioni di violento entusiasmo e acida avversione. A quanto pare, Barnes o lo adori o lo detesti. L’autore del Pappagallo di Flaubert gioca ai limiti della regolarità (letterariamente parlando, ovvio), perché se da una parte riesce accattivante, per altri versi si rivela sottilmente manipolatorio verso il lettore. Soprattutto perché lo obbliga a seguire la storia attraverso il punto di vista, le percezioni e i ricordi di un narratore a cui tutti rimproverano di «non capire». Questo ci conduce insieme a lui in un cul de sac, nella sostanziale incomprensione degli eventi-chiave, con effetti sorpresa a catena. Depistaggio totale, magistrale e vigliacco, da parte dell’autore.

Tony Webster, protagonista e io narrante, è un sessantenne che ha compiuto una scelta di normalità. Tony è un uomo medio, pallido, mediocre, assai diverso, a osservarlo da giovane, dall’adulto che sarebbe potuto diventare. (Sennonché, risulterà chiaro che la normalità non esiste mai.) Nei due tempi in cui il romanzo è scandito, c’è un prima e un dopo, assai nettamente tagliati in due dalla linea della vita, come un tracciante. Prima è gli anni ’60, la Londra più o meno swingante, scuola, prime relazioni, futuro spalancato davanti, delusioni, incontri. Il delta della gioventù. Dopo è quarant’anni più tardi: le carte sono state giocate, l’esistenza non è finita ma i sogni sì. Tony è divorziato, una moglie rimasta amica, una figlia distratta e lontana. Ormai da decenni si sono divaricate le strade dagli amici e dai compagni di allora. È come se la maggior parte della vita si fosse svolta, concentrata, consumata, in poche stagioni — quelle decisive, piene, luminescenti di una giovinezza inconsapevole. Della compagnia di Tony, Adrian era l’amico più brillante: intelligente, provocatorio, filosofico. Capace di teorizzare persino il suicidio e la sua obiettiva plausibilità. Veronica era stata il primo amore di Tony, una ragazza spigolosa con la quale il protagonista aveva vissuto una relazione complicata. Veronica aveva preferito proprio Adrian — il collega intelligente — al nostro narratore. Tony scrisse ai nuovi amanti una furiosa lettera: peccato che quarant’anni dopo si sia dimenticato della cattiveria di quella lettera. Abbiamo la tentazione di sottovalutare la nostra brutalità, come pachidermi che non avvertono la propria grevità. Oggi, decenni dopo, Tony riceve dalla madre di Veronica, conosciuta illo tempore in uno sconcertante e gelido weekend, un’eredità a dir poco inattesa: 500 sterline e il diario di Adrian, l’amico filosofico, che si suicidò ancora giovane, praticamente subito dopo essere uscito dai radar di Tony. Perché? Perché il suicidio (allora) e perché questo lascito (adesso)? Cosa accadde a quello studente così brillante? E cosa provocò in Adrian quella antica feroce lettera scritta ai due traditori? Tanti tasselli cercano di rimettersi a posto, avvenimenti dell’epoca vengono ripassati al setaccio ossessivamente. Quelle pagine che erano tutte bianche sono state scritte, forse imbrattate, ma intanto non si possono cancellare più. Nella prima parte della vita non ti accorgi che un pomeriggio vale quanto un anno, un fine-settimana quanto un decennio. Passati come un soffio, i giorni dell’incoscienza tornano indietro come quadri in serie, come specchi deformati. Tony ha conosciuto l’epoca di quella pienezza esplosiva, e poi un vasto tempo uniforme senza lampi e senza ricordi, come una spiaggia di sabbia levigata e intatta. Quasi dovesse rassegnarsi a una copia sbiadita della vita, una gara ad accontentarsi. Valutare, per tutto il resto dell’esistenza, le conseguenze di quella stagione, dal momento in cui si è messa in moto «la catena delle responsabilità».

Il colpo di scena finale fa seguito a disvelamenti che mostrano come sia assai discutibile la nostra versione dei fatti, e quanto risulti fallace il monologo con cui ci costruiamo da soli la nostra storia autoassolutoria.

[pubblicato su Mucchio Selvaggio n. 699, ottobre 2012]

 

video arte #12 – omer fast

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Da: Omer Fast, CNN Concateneted, 2002.

Anonymous. La grande truffa. IV

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WarGames

(Termina con questo post la pubblicazione del pamphlet Anonymous. La grande truffa, fortunosamente arrivato nei database di Nazione Indiana. Qui la prima parte. Qui la seconda parteQui la terza parte.)

La legge del caos

 

È un gioco o è la realtà?
Che differenza fa?
Wargames (1983)

WarGamesQuando si entra in una chat sulla rete Anonymous, una stanza aperta a tutti, ci si trova in un ambiente potenzialmente infiltrato da curiosi, troll, giornalisti e agenti di polizia, nel quale in fin dei conti nessuno dice la verità. È probabile che in molte di queste chat vi siano soltanto infiltrati, che passano il tempo a manipolarsi a vicenda. O che registrano in silenzio, dal fondo della sala, ogni parola. Un curioso che volesse discutere con un Anonymous dovrebbe allora armarsi di molta pazienza. Muoversi pazientemente da una stanza all’altra. Legarsi di amicizia con altri utenti. Fornire via via prove più convincenti della propria sincerità. E alla fine, continuerebbe forse a non capire se si trova “dentro” o “fuori”.