di Giacomo Sartori
La mia morte è una cosa molto seria. Non ho detto estremamente seria, ho detto molto. Non mi va di essere preso per un mitomane. Siamo la bellezza di sette miliardi, staremmo freschi se ognuno inscenasse una tragedia greca per la propria morte. Resta pur sempre il fatto che da piccolo per addormentarmi mi immaginavo di essere appena deceduto: tutti erano molto tristi. Anch’io ero affranto, a sapermi morto: piangevo a calde lacrime. C’erano varianti riguardanti le circostanze del trapasso, per quel che mi ricordo sempre eroico, ma il succo del discorso era quello. Era bello essere così disperato nel letto caldo e confortevole: mi è rimasto il gusto per gli addormentamenti struggenti. L’esistenza potrebbe essere vista come una prova generale del decesso, è stato detto e ridetto. Uno si esercita e si riesercita, e poi un giorno passa all’azione. Spesso lasciando di sasso financo le persone più prossime. O addirittura se stesso. Una notte mi sono svegliato e non potevo respirare, i miei polmoni erano gomma bruciata. Metà del cuscino di piume sotto la mia testa era stato mangiato dal fuoco,














