di Franco Buffoni
Nato nel 1894 – quindi più giovane di T. S. Eliot ma più vecchio di Auden, quasi coetaneo di Montale – E. E. Cummings può essere facilmente messo a fuoco facendo scorrere su un ideale schermo dietro alla sua figura, alternativamente, due fondali dai contorni precisi. Fondali culturali, cioè discorsi fissi, coordinate acquisite. Il primo riguarda esclusivamente i poeti americani, e consiste in quell’attrazione verso l’Europa che – in particolare negli anni venti e trenta – causò vere e proprie migrazioni, dai grand tour un po’ dilatati di William Carlos Williams e Hart Crane ai più mentali, ma non meno profondi e necessari, spostamenti oltreoceano di Wallace Stevens o Marianne Moore, ai definitivi traslochi di cittadinanza di T. S. Eliot o Ezra Pound.
Il secondo fondale culturale concerne la storia della poesia occidentale in senso più ampio, e riguarda quella rivoluzione dei mezzi espressivi – con ampio ricorso anche al virtuosismo verbale – che può configurarsi in Majakovskj come in Apollinaire, in Marinetti come – per l’appunto – in E. E. Cummings, ferme restando ovviamente le peculiarità di ciascuno e le grandi differenze tra i vari “movimenti”.
Sul termine movimento, forse, è possibile trovare un punto di intersezione tra i due fondali: perché è vero che l’entrata nel circuito europeo significava contatto e interazione con surrealismo, futurismo, dadaismo e cascami del simbolismo. Ma è anche vero che l’imagismo viene importato in Europa dagli Stati Uniti, e il vorticismo è già un fenomeno di area anglosassone.












