di Massimo Rizzante [a cura di antonio sparzani], originariamente apparso qui.
Pomeriggio di giovedì 8 ottobre [1998, n.d.c.]. Rientrato a casa, dopo il lavoro all’università, squilla il telefono. È il direttore de L’Atelier du Roman, una rivista francese con cui collaboro da alcuni anni. Da Parigi, tutto contento, mi annuncia che José Saramago ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Dopo un respiro profondo gli rispondo: “Finalmente è arrivato”. Mi spiega poi che secondo le ultime indiscrezioni giunte da Stoccolma via Varsavia (i polacchi in questi ultimi tempi, vedi Milosz e Szymborska, poeti premiati con il Nobel rispettivamente nel 1980 e nel 1996, devono essere degli specialisti) Saramago ha dovuto battere addirittura la concorrenza di un suo compatriota, anche lui tra i cinque finalisti, Antonio Lobo Antunes.
Insomma quest’anno il Nobel per la letteratura è stato un affare di famiglia, della grande famiglia di lingua portoghese e lusofona che annovera tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, tra Portogallo e Brasile (senza dimenticare le isole Azzorre, Capoverde e le varianti creole africane) circa duecento milioni di parlanti e solo in questo secolo almeno una dozzina di scrittori di valore assoluto in campo internazionale. Per il Portogallo bastino i nomi di Pessoa, Miguel Torga, Vergilio Ferreira, Agustina Bessa-Luís, José Cardoso Pires, José Saramago, Antonio Lobo Antunes, João de Melo; per il Brasile mi vengono in mente, tra quelli tradotti anche in Italia, i nomi di Machado De Assis, Clarice Lispector, João Guimarães Rosa e Jorge Amado.











