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Kafka nel Paese delle Meraviglie (Letteratura e diritto #5)

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di Pasquale Vitagliano

Può essere che Franz Kafka abbia letto Alice nel Paese delle Meraviglie? La domanda non è oziosa. Se l’è posta per primo Bruno Cavallone ipotizzando che il racconto Davanti alla Legge sia stato ispirato dall’episodio della Porta e della Rana contenuto nel romanzo di Lewis Caroll e arricchito nel seguito-appendice Attraverso gli occhiali. Le coincidenze sono davvero impressionanti. In entrambi i casi c’è una porta da varcare e un guardiano, che nel racconto di Caroll è una rana-valletto. Questo ingresso è riservato esclusivamente alla persona che vorrebbe entrare, ma non osa farlo. Infine, tanto Alice quanto il contadino devono aspettare per anni prima che la porta possa finalmente aprirsi per loro (esclusivamente). “È vietato l’ingresso fino alla settimana dopo la prossima”. Kafka non conosceva l’inglese. È possibile che egli abbia letto una traduzione in tedesco che risale al 1869. Ai tempi della stesura del racconto nel 1914 esisteva anche un’edizione italiana del libro di Caroll dell’Istituto Editoriale Italiano destinato ai ragazzi. Può essere che sia stata questa la fonte occasionale, almeno nella sua versione aggiornata. Quella in tedesco, infatti, è successiva.
La sorprendente analogia tra Alice e K. introduce un altro argomento, quello della “soglia” tra mondo interno libero e mondo esterno regolato, ovvero dell’accesso al Tribunale come paradigma del giudizio e della verità. “Il Tribunale non vuole niente da te. Ti accoglie quando vieni e ti lascia andare quando vai”. È l’enigmatica frase che il Sacerdote (Guardiano) pronuncia a Josef K. ne Il Processo, nel capitolo in cui viene ripreso il racconto.
È quello che capita al rappresentante di commercio Alfred Traps ne La panne. Una storia ancora possibile di Friedrich Durrenmatt. In viaggio per lavoro, l’auto di Traps va in panne, appunto. Viene quindi ospitato per la notte dal signor Zorn, un giudice in pensione, che lo invita prima a cena e poi a partecipare con altri tre amici ad un gioco di ruolo che consiste nel simulare un processo. L’esito sarà inaspettato e tutt’altro che rassicurante. Il processo, pertanto, assume il perimetro di uno spazio ideale separato dalla vita reale. Può addirittura essere relegato dentro la testa di chi giudica e/o si sente sotto processo. In una miniatura svizzera del XVI secolo questo recinto ha forma ottagonale, come Castel del Monte, con un imprevisto ampliamento delle possibili spiegazioni della vocazione originaria di questa misteriosa architettura federiciana in Puglia.
La soglia della Legge è anche quella che separa il vero dal falso. Questo, credo, sia anche il tema del film di Giuseppe Tornatore, La migliore offerta. Il battitore d’aste Virgil Oldman se avesse fatto subito alla donna in sedia a rotelle del bar vicino alla villa su cui tutta la vicenda è incentrata la domanda che le rivolgerà alla fine non sarebbe caduto vittima dell’inganno. Il film termina simbolicamente a Praga in omaggio alla (non casuale) suggestione kafkiana.
“Noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell’inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi”, afferma il giudice di Durrenmat nel corso del gioco di ruolo. Insomma, siete proprio sicuri che senza tribunali ci sarebbero meno processi tra gli esseri umani?

 

Sui rapporti tra Gramsci e Togliatti

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di Alessio Barettini

Francesca Chiarotto in Egemonia in movimento – tra Gramsci e Togliatti, (Mimesis, 2024, euro 15), mette in luce agilmente e approfonditamente i rapporti fra i due più grandi rappresentanti del PCI del ‘900, suggerendo una lettura che, attraverso alcuni episodi chiave delle loro storie e mettendo in luce la linea di continuità esistente fra i due grandi ideologi del comunismo, nonché grazie a un corposo apparato storiografico, riveli questa relazione abbattendo ciò che più volte è stato messo in dubbio, ieri come oggi, nel tentativo goffo e pericoloso di riscrivere la storia per fini specifici.

La storica gramsciana illustra il suo ragionamento attraverso sei capitoli che vogliono portare a ragionare sulle implicazioni di questa vicinanza all’interno del problema del lascito di Gramsci e della storia del Partito Comunista Italiano, specificamente negli anni del dopoguerra, con particolare attenzione al ruolo degli intellettuali italiani.

Il punto di partenza, il nodo essenziale da cui prende forma questo libro, è quello dell’eredità gramsciana e del ruolo di Togliatti, che, sin dai tempi iniziali della storia delle varie pubblicazioni gramsciane, è stato accusato di aver tradito il fondatore del Partito Comunista, tendenza fattasi ancora più marcata a partire dal 1991. La studiosa si rifà a due lettere in particolare. La prima, del 1926, relativa alla discussione intorno alla posizione ufficiale da tenere davanti alla divisione nel PCUS fra Stalin e i suoi oppositori, Trockij su tutti. Qui Gramsci prendeva nettamente le distanze dal partito sovietico e Togliatti ne fermava l’invio, come rappresentante dello stesso organismo che rappresentava lo stesso Gramsci, per ragioni diplomatiche, politiche, strategiche. Non per una ragione personale, quindi, come fu detto a più riprese, ma una differenza di punti di vista, un dissenso. La seconda lettera è del 1928, e fu inviata da Ruggero Grieco ai dirigenti del Partito. «scritta peraltro con toni piuttosto “lievi” e disinvolti, conteneva informazioni sullo scontro politico Stalin-Trockij, e sulla situazione politica internazionale.» La lettera aveva reso Gramsci, allora già in carcere, più diffidente nei confronti dei compagni di partito, e fu via via definita “leggera” (Spriano) e addirittura falsa (Canfora), ma soprattutto fu usata in senso antitogliattiano per dare adito all’idea che Togliatti avrebbe voluto sabotare la sua liberazione, tesi che ha trovato spazio anche in tempi recenti, nel 2012, quando il premio Viareggio è stato vinto da Franco Lo Piparo, con un libro che mira ad appropriarsi di Gramsci al di fuori del suo legame con il comunismo.

Del resto qualunque tentativo di screditare in chiave populista un certo tipo di personaggi storici, non fa i conti, come fa giustamente osservare l’autrice, con l’idea blochiana di storia che qui si rivela lasciando ampio spazio a tutti i passaggi storici che hanno determinato l’andamento dell’eredità gramsciana. Così, il secondo e il terzo capitolo si fermano a raccontare la storia dei Quaderni, ovvero in che modo essi sono stati portati fuori dal carcere, salvati prima e poi resi noti, e il Premio Viareggio del 1946, quindi nel primissimo dopoguerra, attribuito agli stessi quaderni gramsciani, decisione che, se da un lato contribuì alla diffusione ulteriore dell’opera di Gramsci, dall’altro accese ancor di più le temperie di una guerra fredda che, culturalmente, cominciava allora a definirsi in campi netti. In entrambi i casi Togliatti ha un ruolo non secondario, anche se ugualmente mistificato da più parti, sulle quali Chiarotto fa luce, affermando del resto «Era chiaro che nelle pesanti polemiche sul Premio, affiorava il clima politico che fin dall’inizio dell’anno si stava surriscaldando (…) Gli ambienti conservatori, laici e cattolici, premevano per una rottura dell’unità antifascista e per una esclusione delle sinistre dal governo del Paese, mentre cominciavano vere e proprie persecuzioni, licenziamenti, processi nei confronti dei partigiani», anche se «la stragrande maggioranza degli scrittori e dei critici italiani espresse un giudizio largamente favorevole all’assegnazione del Premio».

Togliatti ha indubbiamente avuto un ruolo centrale nella diffusione del pensiero di Gramsci, operazione rientrata in quella più ampia della costruzione di un partito moderno, di massa, che tenesse conto tanto della dottrina marxista quanto della situazione politica attuale, nell’idea che un partito marxista avrebbe dovuto disporre di una politica culturale che tenesse conto della crescita dei gruppi sociali mai abituati prima alla lettura, e gli intellettuali, a cui Togliatti stesso chiese maggiore attenzione per lo studio del marxismo e le sue applicazioni.

Nella seconda parte del libro Chiarotto pone l’accento sul concetto che dà il titolo il libro, ovvero i modo con cui Togliatti ha costruito il PCI negli anni della Repubblica, già ampiamente teorizzato come “democrazia progressiva”, per l’ottenimento della quale fu fondamentale il rapporto con gli intelettuali, necessari alla formazione della coscienza di classe (capitoli 4 e 5). La scelta si appoggia proprio sul pensiero di Gramsci, necessario per dare credito a un partito altrimenti sospeso fra le contraddizioni delle democrazie occidentali e la guerra fredda, e ancor più durante il periodo controverso che ruota intorno al 1956, nell’ultimo capitolo, quando, per non perdere elettorato e fiducia Togliatti si appoggiò molto a nuove strutture associative di riferimento al Partito, oltreché ancora una volta agli intellettuali dell’epoca e all’eredità di cui si è detto.

Il 1956 (così come la destalinizzazione) fu un anno complesso per la storia del PCI, e più in generale di tutto ciò che può essere accomunato nella sfera dell’antifascismo. In quel periodo le scissioni, le discussioni, com’è noto, furono molte. L’idea di un partito unico, con un’ideologia ortodossa, vacillava enormemente. Egemonia in movimento mostra perciò un paradosso. Il concetto di pensiero unico, di egemonia culturale, spesso usato come atto di accusa contro gli ideologi e gli intellettuali della sinistra, è diventato il tratto distintivo della destra, ormai abituata a tenersi stretti baluardi dei quali spesso non conosce neppure le basi. D’altra parte una costante discussione animata dalla molteplicità dei punti di vista, in mancanza di una “verità unica”, è proprio ciò che oggi andrebbe auspicato, conclude l’autrice, «in chiave autocritica», come antidoto contro certa leggerezza culturale, un approccio marxista alla storia che oggi tendiamo a sottovalutare, nell’interrogarci su spazi culturali di costruzione attiva in un mondo omologato, liquido e complesso come il nostro.

Dove finisce questo teatro inizia forse il mare: su “Il mare nascosto” di Luca Calvetta

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di Ornella Tajani

Se è vero che il sud è una regione dell’anima – così splendidamente diceva Ettore Scola –, Il mare nascosto si configura come un viaggio in una Calabria dai tratti sfumati, che per sineddoche diventa uno dei tanti sud del mondo, sintonizzati su una medesima frequenza. Una frequenza che si riconosce, ad esempio, dal contrasto violento tra meraviglie naturali o artistiche e architetture obbrobriose – scendendo lungo la Salerno-Reggio Calabria, così come viaggiando in Puglia o nella Sicilia dell’entroterra, il minimo comune denominatore sono le costruzioni sventrate, gli scheletri di edifici mai portati a termine; paesaggi che restituiscono a chi guarda un sentimento del tempo molto peculiare.

È un sentimento ben articolato in questo primo lungometraggio di Luca Calvetta, liberamente ispirato al Petit prince di Saint-Exupéry; il dialogo fra l’aviatore e il piccolo principe diventa qui uno scambio di battute fra Ascanio Celestini e il giovane protagonista «venuto da lontano»: avatar di un migrante e al contempo incarnazione di molti «senza voce», o di molti «penultimi» (come titola una bellissima raccolta poetica di Francesco Forlani), cioè di personaggi che vivono sulle sponde della storia e che sfilano nel film uno dopo l’altro, offrendo i loro racconti al ragazzo che li incontra. «Non è una vita semplice, la mia. È la vita intera. È tutta la vita possibile», dice uno di loro: bellissima frase, che si potrebbe applicare a qualsiasi vita a patto di riconoscerne il valore, la preziosità che sta proprio nel suo essere paradigmatica.

Il mare nascosto gioca con i generi, mescolando cinema, documentario e teatro (Celestini è spesso ripreso come il cantore su un palcoscenico), mescolando riferimenti letterari (Pasolini ad esempio è citato in maniera diretta e indiretta) e risonanze poetiche, sia nella scrittura cinematografica, sia nella costruzione filmica. La giustapposizione di sequenze pur evocative provoca talvolta delle smarginature nel tessuto complessivo dell’opera, in cui si rileva qualche disorganicità: ma sono smarginature dettate da un’autenticità di fondo, da un regista al suo esordio col lungometraggio che ha voluto seguire senza distrazioni il desiderio di raccontare una storia così come l’aveva immaginata. C’è da augurarsi che anche per lui, come recita Celestini alla fine, «dove finisce questo teatro inizia forse il mare, e il mare non finisce».

Mots-clés__Visitatori

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Visitatori
di Federico Spagnoli

Radiohead, The Tourist -> play

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Da: Stella Maris, Cormac McCarthy, trad. Maurizia Balmelli, Einaudi (2023), pag. 15.

Interessante. I suoi visitatori. Chiunque essi siano. Cosa mi può dire di loro? A questa domanda non so mai cosa rispondere. Che cosa vuole sapere? Hanno un nome?
Nessuno ha un nome. Glielo dai tu per poterli ritrovare al buio.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a:  ornellatajani@hotmail.it Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Il gatto di Olivia Wilson

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di Angelo Di Fonzo

Olivia Wilson è italoamericana e da quando è morto suo padre non esce di casa senza pistola. Olivia Wilson porta sempre i tacchi a spillo, anche per buttare la spazzatura. Olivia Wilson ti smonta la mandibola se la guardi sbavando.

Quando l’ho incontrata per la prima volta, ero in gioielleria per comprare un paio di orecchini per il compleanno di mia sorella, e avevo smesso di amare da tempo. Dell’amore ci si dimentica tutto, in fretta, ma per gradi: ci si scorda prima del dolore, di tutto il male, poi dei grandi gesti; finché non rimangono solo le piccole cose e i rimpianti.

La prima interazione con Olivia Wilson fu la sua pistola puntata alla tempia. Ero il suo ostaggio, mi aveva scelto tra tanti: un manipolo di timorosi; io ero insolitamente calmo. Subivo il suo magnetismo, ne ero affascinato. Non aveva senso. Era vestita di nero e indossava un basco alla francese; come tornasse da un vernissage un po’ brilla e avesse deciso di prelevare un po’ di soldi alla vecchia maniera. Aveva con sé un gatto color buio, con gli occhi diafani, che zampettava sul pavimento e faceva le fusa a un ragazzino impaurito, prossimo a un attacco di panico.

Lei si fece riempire un borsone di contanti dalla cassiera. A quel punto notai lui, che mi assomigliava così tanto da causarmi la vertigine dello specchio: il viso livido, scolpito dal gelo nei tratti facciali; lo sguardo assopito, inerte. Tutto il male che portavo dentro riflesso all’esterno. Non eravamo così distanti. Il gatto di Olivia Wilson ci passò di fianco con qualche strusciata ognuno, come trasmettendoci l’un l’altro: riunendoci.

Olivia Wilson mi guardò ancora un po’ mentre puntava la pistola alla mia testa. Non riuscivo a decifrare la sua espressione: un mistero. Intorno c’era chi piangeva, chi soffocava grida di terrore. Olivia Wilson lanciò il borsone pieno di contanti sul pavimento in uno svolazzo di filigrana multicolore e mi disse di uscire con lei. Ero un ostaggio? Così sembrava. Qualcuno avrebbe chiamato i carabinieri, ma aveva restituito i soldi. Quindi che fare? Cosa sarebbe successo? Nessuno sembrava saperlo, la cassiera era interdetta. Nessuno intervenne.

Mi disse di salire in macchina: una Mustang GT nera. Aveva ancora la pistola puntata su di me, al petto. Obbedii: posto del passeggero. Lei salì a bordo, chiuse l’auto e partì. Mi raccontò la sua storia: eventi sparsi della sua vita rocambolesca; senza una logica ben precisa. Il nostro appuntamento al buio. Ne ricavai un quadro astratto. Poi mi disse di suo zio che era andato in Australia a fare il minatore perché era arrabbiato e si era ripromesso che avrebbe picconato giorno e notte nelle cave finché non gli fosse passata la rabbia. Era tornato anni dopo in Italia con la barba bianca e il volto solcato dalle rughe: era ancora arrabbiato.

Non riuscivo a smettere di guardarla, ipnotizzato. Lei non riusciva a smettere di puntarmi la pistola. Dolce Olivia. Sarei morto in pace, con un buco in fronte come terzo occhio per contemplarla ancora. Mi portò in giro per la città e quando sentì le sirene, accelerò facendo un sorpasso dopo l’altro. Rientrava in carreggiata a un millimetro dall’incidente, dal muso dell’utilitaria sul senso di marcia opposto. Una maga al volante, Olivia Wilson. Mi chiese dove abitavo. Esitai un momento prima di rispondere, poi le dettai l’indirizzo. Incespicai sul civico. Si fermò sotto casa mia, mi salutò con un bacio e un morso sulla spalla e abbassò la pistola appena prima che io scendessi dall’auto.

Passai tutta la giornata e anche quella seguente come ubriaco. Mi perdevo nel vuoto, mi distraevo di continuo. In ufficio non riuscivo a concentrarmi e chiedevo di ripetere almeno cinque volte nel corso di una conversazione lunga. A differenza del mio solito, non ero molto loquace. Ero stranito, come intrappolato in un sogno sbagliato. Volevo ritornare lì, da lei; da Olivia Wilson. Rimediai con un buono in libreria per il compleanno di mia sorella, lei ne fu contenta. Non le raccontai dell’accaduto. Non lo raccontai a nessuno. Camminavo per la città, portando a spasso il cane, e la cercavo in tutti i volti, in tutte le strade mi figuravo la sua Mustang GT nera.

Vivevo da solo in un monolocale. Quel giorno rientrando trovai la mia sola finestra blindata da un ponteggio: lavori in corso, murato vivo da ogni visuale esterna. Chiesi al muratore che passava lo stucco sulla facciata del palazzo quanto sarebbero durati. Fece spallucce. Il tempo non esiste. Forse era così da sempre e non me n’ero accorto. Forse mi ero scordato del mondo fuori senza nemmeno saperlo. Così vivevo a parte. Ero separato da tutto, del tutto. Da quando avevo incontrato Olivia Wilson lo squarcio si era fatto più grande, più profondo. Quando andai in bagno per lavarmi le mani, notai che lo specchio era andato in frantumi, senza però perdere il riflesso, che non mancava di tormentarmi, ovunque, dal giorno della rapina. E pensavo e pensavo a Olivia Wilson e a come rincontrarla e dove: dove?

Olivia…

Tutto quel sole. Camminavo per la città come in un deserto di luce, armato di una lanterna che non serviva a nulla in quel bagno luminescente: neon, schermi, colori, forme, multicolore, a ciecare ogni prospettiva; ogni visione di complessità. Mi ritrovai a desiderare il buio per ritrovarmi nel chiaroscuro dei contrasti. Cercavo riparo in un pertugio umido, al fresco, e lo trovai quasi al tramonto in un bar senza insegna dalle parti del molo, scostando una porta di legno scassata e mangiucchiata dai tarli. Un bar in penombra: il proprietario muto nello sguardo, cieco a parole. Ordinai del vino per schiarirmi le idee, o per confonderle meglio, e mentre mi reggevo al bicchiere come al baricentro dell’universo, notai in un cantuccio più buio che c’era anche lui, come al solito imboscato, sempre di sfuggita. Mi aveva lasciato la sua impronta di vuoto, svuotandomi, e non riuscivo a scrollarmela di dosso. La musica era dozzinale, martellante nelle casse. Lui era incollato alla sua birra smunta, con il capo chino e il volto per metà in ombra. Alzai una mano per cercare la sua attenzione, ma non mi vide. Azzardai un saluto a voce, di qualche tono sopra le solite note. Nessuna risposta. Troppa musica. Distolsi lo sguardo da lui, prendendo il filo di un pensiero e perdendo la matassa, e quando tornai a guardarlo non c’era più. Sparito. Mi aveva inquinato ormai. Non c’era verso. Presi posto al suo cantuccio, al tavolinetto umido di birra, e portai il vino smorto con me. Il mio volto si confondeva con il suo nelle lame d’ombra degli angoli storti, quasi a mescolarsi. Lì notai il gatto di Olivia Wilson che si lavava a piccoli colpi di lingua. Mi alzai in piedi e gli feci qualche carezza per farmi guidare, tra le fusa. Il gatto di Olivia Wilson, con il suo pelo di buio e gli occhi diafani, si lanciò a zampate rapide verso il seminterrato del bar e io lo seguii, abbandonando il vino e l’immagine di lui (io) (noi), per le scale cigolanti, nel vuoto dei gradini, per raggiungere una sala da concerto dopo una discesa infinita.

Non c’era più la musica del bar come fosse evaporata di colpo, tra uno scalino e l’altro. Il pubblico era immobile come un esercito di statue. Sul palco c’era Olivia Wilson che suonava il violino e cantava con una voce ipnotica, una melodia distorta che dissociava il corpo e la mente. Di nero sempre, bella più che mai. Persi il senso del tempo, come se il tempo avesse un senso; unico. Cullato da quell’ipnosi collettiva in musica, aspettai la fine del concerto in un limbo, sospeso. Attesi che il pubblico di statue si disgregasse come polvere di gesso e imboccai la scaletta che portava ai camerini.

Pronunciai il suo nome. Quando si voltò non era sorpresa di vedermi. Mi avvicinai a lei con tutta la brama di amarla, ma l’impronta dell’altro (lui) mi spegneva ogni desiderio. Olivia mi sorrise estatica come una santa apocrifa, con estrema grazia, e mi disse che non ero lì per quello. Ma come? Ogni illusione domata dal tempo. E cosa allora? Che senso aveva tutto? Mi disse che c’era qualcosa di importante che dovevo fare. Cosa Olivia? Cosa devo fare?

Ucciderlo: lui, l’altro, (tu).

Diedi un’ultima carezza al gatto di Olivia Wilson prima di andarmene e di dirle addio per sempre. Addio, dolce Olivia Wilson.

Tornai a casa perché sapevo che non l’avrei trovato. Dovevo pareggiare, dare sostanza alla mia ritorsione. La sua impronta mi stava spogliando di ogni forza. Feci i gradini a due a due boccheggiando, con i polmoni scarichi.

Bussai.

Poi ancora, più forte.

Rispose soltanto il vuoto dell’androne, il suo eco. Non c’era, come avevo previsto. Così fu proprio lui ad aprirmi. Gli tremava il viso, quel viso smunto e maligno. Lo uccisi per quel viso, per liberarmene. Era stato incauto. Se si fosse trovato a casa non mi avrebbe aperto o mi avrebbe buttato giù dalle scale. Mi avrebbe salvato comunque.

Non lo avrei (non mi sarei) accoltellato.

Dopo aver finito, con la lama di sangue di un nuovo parto, uscii in terrazza per fumare e vidi un mondo nuovo dispiegarsi davanti ai miei occhi. Mi colpì un raggio di luce e mi scoprii irrorato d’amore e con me tutti: fragole macerate al sole.

Definiamo “bambino”?

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di Alberto Costa

 

Martedì 16 settembre è andato in onda un accesissimo scontro tra Enzo Iacchetti e il presidente della Federazione Amici di Israele Eyal Mizrahi durante il talk show settimanale Cartabianca. Dinanzi a quello che poteva sembrare un banale copione visto ormai mille volte, è però emersa una dimensione eccezionale e terribile del dibattito. A colpirmi è stata non tanto la reazione naïve di Iacchetti – che, non lo nascondo, è stata una boccata d’aria fresca in questo circo di burocrati della comunicazione, dell’incasso e del massacro –, quanto piuttosto la dimensione così sfacciata e pretestuosa dell’argomentare del suo interlocutore. Iacchetti, infatti, pur cercando di trattenere l’emozione e la furia che gli annodavano le parole, tentava di distinguere una dinamica di guerra che si compie tra due eserciti dalla violenza messa in atto da un esercito contro donne e bambini: “…anche i bambini? Avevano il kalashnikov i bambini?” ha gridato infine Iacchetti e Mizrahi lo ha incalzato: “definisci bambino!” Di qui la reazione di Iacchetti che molti hanno visto.

Dunque, se anche volessimo dire che la frase gli è uscita male, che Mizrahi voleva soltanto vincere la contesa e così via, non credo sia eccessivo dire che questa è una frase da cui è difficile tornare indietro e che forse segna lo spirito dei tempi, al di là delle intenzioni di chi l’ha pronunciata. Fermiamoci a riflettere.

L’orizzonte aperto da una richiesta del genere è talmente fosco che si è tentati di considerare quanto udito come l’ennesimo rumore emesso dalla tv, come un ulteriore ronzio che domani sarà fortunatamente dimenticato. Dinanzi a questa richiesta di definizione, invece, sono stato immediatamente risucchiato dalla libreria del mio soggiorno e mi sono messo a sfogliare nuovamente i volumi francofortesi riguardanti il regresso della ragione e la dimensione della vita offesa, come Dialettica dell’Illuminismo e Minima Moralia. Viene la tentazione di imitare Horkheimer e Adorno e cercare di comprendere una frase così terribilmente unheimlich.

Il suo carattere così estraneo, ma intimamente perturbante per un qualsiasi lettore anche occasionale di un libro di filosofia, credo derivi da una similarità. La richiesta “definisci bambino” ricalca infatti la forma della classica domanda socratica “ti esti” o della sua traduzione latina “quid est”. Certo, la reazione filosofica contro la richiesta di definizione ridotta a procedura capziosa è vecchia come la filosofia stessa. Torna qui in mente la pratica venatoria di Socrate nei confronti del sofista nell’omonimo dialogo di Platone, assieme all’esito così problematico e mille volte ridiscusso di quello stesso dialogo. In fondo, il filosofo e il sofista non possono che eternamente trovarsi legati assieme, l’uno come immagine perturbante dell’altro, in una caccia e in una lotta mai concluse. Di fronte alla richiesta “definisci bambino” ci si può di conseguenza sentir chiamare in causa, come un contemporaneo attore chiamato a interpretare la propria parte in questa eterna rappresentazione teatrale.

La mente rumina e, mi scuso per la banalità, ma non ho potuto non pensare che a Gaza e in Cisgiordania si stia palesando un altro vecchio motivo della nostra tradizione, ossia l’ennesima espressione del cuore di tenebra del sistema occidentale-europeo, che ancora una volta presenta le proprie specialità. Per citare solo le principali: occupazione militare territoriale, massacro di popolazioni inermi, delirio del businessman della ricostruzione futura e sadismo attuale del businessman dell’apparato industriale bellico. Forse esagero, ma mi sembra che nell’uscita di Mizrahi si lascino intravvedere, come in una sozza metonimia, i modi di funzionamento dell’attuale sistema produttivo e delle sue articolazioni nel sistema di governance, oltre che nel sistema mediatico. Dinnanzi alle violenze israeliane non possiamo non pensare a quanto dice Conrad, quando mette in bocca a Marlow il rilievo: “tutta l’Europa aveva contribuito a formare Kurtz”[1].

Quello che però non vorrei andasse perduto di questa tremenda uscita del presidente della Federazione Amici di Israele è l’occasione di una reazione razionale. Davanti alla sozzeria rappresentata da questa richiesta di definizione credo sia possibile rimettere al proprio posto il “quid est” (“che cos’è?”) assieme al fratello “cur est” (“perché è così?”). Voglio dire che questo è più che in altri tempi il momento di mettersi a pensare, di riattivare il nesso tra pensiero e prassi e di non farsi meramente investire dall’angoscia trasmessa da quella frase. Allo stesso modo in cui Marlow tenta un bilancio dopo le ultime terribili parole di Kurtz (“l’orrore! l’orrore!”[2]), credo sia necessario per lo meno iniziare a sviluppare non certo un bilancio, ma almeno un’interrogazione.

Comincerei col chiedermi, forse elaborando in più forme la stessa domanda: a) perché ora, rispetto per esempio a dieci anni fa, il dibattito pubblico e la comunicazione delle classi dirigenti occidentali (siano queste capitalistico-finanziarie o legate alle strutture tradizionali della politica) non solo ammettono, ma sembrano costretti dai fatti a utilizzare toni sempre più violenti e inumani? b) Perché proprio ora Israele mostra il suo volto più sanguinario e (anche retroattivamente) si permette di rompere il velo che storicamente ha coperto la sua natura coloniale? c) Perché ora sono la sconcezza e la mancanza (almeno apparente) di buon senso a giustificare e supportare con efficacia il sistema di governance, assieme alla dinamica di accumulazione dell’apparato produttivo in cui siamo immersi? d) A che fine e per scongiurare quale alternativa la violenza e la falsità ora governano, travolgendo qualsiasi vecchia ipocrisia assieme a qualsiasi sede e procedura di mediazione in uso fino a poco tempo fa?

Sia chiaro, non cerco risposte facili del tipo “Trump e Netanyahu sono fascisti”, “i principali partiti di opposizione hanno storicamente agito allo stesso modo”, “vogliono solo più potenza” ecc. Queste sono risposte epidermiche e banali. Riassumendo, direi che il nocciolo dell’interrogazione riguarda piuttosto il motivo per cui questo modo di governare e questa modalità di accumulazione di risorse si impongono proprio ora e in questa specifica modalità. La domanda si evolve inoltre in quella riguardante quale sia il fine e contro quali soggetti queste stesse strategie di comando si dimostrano essere le più efficaci, almeno al momento. Rispondere a queste domande che dal piano morale si spostano su quello del disvelamento tattico e del realismo politico, credo sia urgente.

Infine, nel farmi queste domande non posso non provare anche la vergogna di chi si trova a vivere in pace (almeno al momento) e si sente di poter fare molto poco per tutti coloro che stanno soffrendo in Palestina oggi, così come soffrivano ieri, allo stesso modo in cui si viene a soffrire in decine di altri luoghi al Mondo. Assieme al senso di impotenza però non posso ignorare anche il richiamo che in questo momento storico di tragedia e di pericolo ci può venire da queste righe di Walter Benjamin: “in ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”[3].

Queste righe ci possono suggerire che forse dobbiamo prendere sul serio Eyal Mizrahi: bisogna strappare al conformismo i giudizi, le calunnie, quelli che sinora sono i punti fermi del dominio e impegnarci, teoricamente e praticamente, per definire e dar ragione di che cosa sia un bambino, di descrivere cioè che cosa sia oggi una vittima. Cercare di definire nuovamente chi sia oggetto di violenza e di sfruttamento al giorno d’oggi, di delineare quali siano i limiti, di scoprire come dar voce al soggetto contro cui si scaricano oggi tanti sforzi di dominio e tanto livore e, su questa base, dar ragione delle sofferenze di chi patisce e muore, oggi come ieri. Insomma, reagire, perché, anche se una resistenza democratica e non oscurantista si intravede, il nemico non ha smesso di vincere.

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[1] J. Conrad, Cuore di tenebra, ed. Einaudi, Torino 2016, p. 77.

[2] ivi, p. 108 e ss.

[3] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, n° VI, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 2014, p. 78.

 

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Immagine: Otto Dix, der Krieg

Dietro il vaso

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[ la mia adesione allo sciopero generale di oggi 3 ottobre 2025 è non fermare le parole, non è il silenzio, non il vuoto, ma continuare a parlare, a tenere questo spazio aperto e vivo – o.p. ]

Francesco Hayez Vaso di fiori sulla finestra di un harem [1881]
Georges Bizet[1838-1875] Intermezzo da CARMEN
[Barenboim · Berliner Philharmoniker]

di Giuliano Tosi

Non si può guardare un quadro senza immaginarlo in frantumi.

Nella densa nebbia milanese dei suoi novant’anni, a Francesco Hayez erano rimasti solo due ricordi chiari e distinti della sua infanzia veneziana.

Il primo era popolato di maschere scure e candide scollature.

Dopo Austerlitz, i francesi erano tornati padroni di Venezia e la città si era riempita di sfrenata allegria: teatri e feste, balli e concerti invitavano la popolazione a godere della libertà. Francesco aveva forse tredici anni e, una sera, gli zii, presso i quali viveva, lo portarono a vedere le maschere nel Ridotto teatrale vicino a Piazza San Marco.

Il Ridotto era un turbine di risate e grida, di oro e cipria, verdi rossi e gialli da far girare la testa. Lo sguardo del ragazzo riconobbe i lugubri contorni della baùta, il chiarore osseo della larva, la gnaga miagolante, ma a catturare il suo sguardo fu il nero velluto delle morete, mute e seducenti. Gli occhi di quello che sarebbe stato il più grande pittore di nudo del suo tempo si persero lungo le linee morbide dei corpi femminili discinti, tornarono poi ad accarezzare il velluto nero di quelle guance e si fermarono a cercare negli occhi bui della maschera la promessa di uno sguardo che ricambiasse lo sguardo.

Quando la zia si accorse di quanto stava accadendo, ruppe l’incanto e lo trascinò fuori dal Ridotto. Ma il turbamento del ragazzo era stato profondo. Non solo lo spinse a una fallimentare fuga da casa per tornare di nascosto a spiare quella visione che dava le vertigini, ma addirittura non lasciò la sua anima fino all’episodio che costituiva il suo secondo e più importante ricordo. Poche settimane dopo, Francesco passeggiava solo per le calli in un mattino spesso di umidità. Come gli accadeva di continuo da quella sera, era inquieto e nervoso, come se si aspettasse di veder comparire ad ogni finestra o sotto ogni balcone, sopra ogni ponte o al centro d’ogni campo, dentro ogni barchino di passaggio e perfino sulla superficie verde delle acque, una donna discinta e mascherata dallo sguardo profondo e buio.

D’un tratto una voce alta sopra la sua testa gridò: – Attento!

Guardò in alto e vide un vaso oscillare per un attimo su un davanzale, e due bellissime mani che si sporgevano bianche dal buio e afferravano il vaso.

Tutto si fermò, un’immagine perfetta si compose: il vaso pieno di fiori luminosi, il gesto delicato e forte delle mani, il volto della ragazza che, affondato nel buio, si intuiva appena.

Francesco rimase a bocca aperta, senza respirare. Poi le mani della ragazza scomparvero nel buio e tutto si placò. Al ragazzo scese in corpo un calore quasi amoroso che lo fece pittore.

Nel corso della sua lunga vita, quella visione lo aveva accompagnato, a volte inseguito, forse addirittura ossessionato. Di tanto in tanto l’aveva perfino sognata. E tutte le volte il sogno si concludeva con il vaso che cadeva dalla finestra – vittima di sbadataggine? maliziosamente spinto? – e andava in frantumi. E tutte le volte il pittore si svegliava prima di poter vedere il volto della ragazza incorniciato dalla finestra.

E ora, raggiunti i novant’anni, quella visione è così lontana da dubitare di averla mai vista con gli occhi, da sospettare che sia stata sempre e solo un sogno. Ora, a novant’anni, è giunto il momento di fermare su una tela quel miraggio lontano che gli ha indicato la via.

In pochi giorni febbrili organizza dettagliatamente tutto quanto occorre. Fa costruire nel bel mezzo del suo studio milanese la finestra come la ricorda nella sua immaginazione. Sceglie con cura esasperante il vaso. Riempie ogni angolo con decine di mazzi di fiori diversi. Allestisce un vero e proprio palcoscenico, in cui le luci e le ombre sono perfettamente dosate. Infine costringe la nipote Giuseppina, dalle bellissime mani, a decine e decine di sedute.

Nel quadro che nasce da questo travaglio, le linee della finestra e del vaso sono avvolgenti ed eleganti, i fiori esultanti di luce e di colore, il gesto delle mani delicato e forte come quel giorno.

Ma, se solo lo spettatore si prende il tempo, dopo essersi fatto incantare dal turbine di colori e di luci e di linee sinuose e seducenti, gli accadrà di affondare lo sguardo nel buio dietro il vaso, laddove un volto emerge appena. E lì si perderà.

Quando il dipinto fu concluso, Hayez fu assai reticente nello spiegare perché, senza alcuna commissione, avesse dipinto quel soggetto. Si decise, allora, di proporlo come un quadro esotico, e il titolo, Vaso di fiori sulla finestra di un harem, venne scelto con questa intenzione. Nessuno aveva capito che i tratti orientali dell’opera erano, in realtà, quelli di una città poco lontana, appoggiata sulle acque di una laguna come una ninfea.

L’opera venne accolta assai freddamente e non trovò acquirenti. Hayez, solitamente così sensibile al giudizio altrui, rispose questa volta con un

sorriso e si tenne il dipinto. Negli ultimi mesi di vita lo contemplò ogni singolo giorno, ma a nessuno rivelò mai che lo riteneva la sua opera più importante.

In quella ragazza, che non possiamo vedere e non possiamo non scrutare, Hayez trovava quel che aveva cercato per tutta la sua lunga vita. Per quel pittore, che costringeva i suoi soggetti a sedute estenuanti per rendere tutto scrupolosamente dal vero, ma che al tempo stesso riteneva il verismo un pericolo insito in tutte le arti, quella visione conteneva l’intuizione che il vero non si può vedere, ma solo immaginare, che il vero lampeggia appena in fondo agli occhi vuoti e bui di una moreta.

Si racconta che Hayez, negli ultimi giorni di vita, scaraventasse dalla finestra ogni vaso che gli capitasse a tiro. E rimanesse a rimirare i cocci sul selciato, ignorando beatamente le imprecazioni dei passanti.

NOTA

La storia è nata da una vera e propria visione suscitata dal quadro conservato presso la Pinacoteca di Brera. I due episodi biografici narrati, relativi il primo all’infanzia veneziana e il secondo agli ultimi giorni milanesi, non sono episodi reali, ma scene germogliate dalla visione iniziale. Eppure, strada facendo, leggendo i documenti relativi alla vita del pittore, sono emersi dettagli che hanno reso sempre più “reale” quanto immaginato. Il fatto più sorprendente è che il racconto, seguendo più il suo spontaneo sviluppo vitale che le intenzioni di chi lo stava scrivendo, è giunto alla fine a corrispondere pienamente all’idea sottile e raffinata che Hayez aveva del realismo.

➨ AzioneAtzeni – Discanto Quinto: Francesco Forlani

3

 

Discanto quinto*


È nero, il mare, dall’alto delle colline. La città distesa, addormentata, dalle colline, si specchia. E guarda. Poche luci sul mare. Luci di torcia. Lampade. Lampàras, sul mare. Luzern. Luci. Piccoli coni luminosi sull’acqua scura. Vecchie barche, sul mare. Lampàre. Escono quando viene notte.

Dal racconto ‘Meglio fuggire. Sempre’, di Sergio Atzeni, in I sogni della città bianca.

Lamparas. Barche di pescatori. È una buona notte, per calamari… – L’uomo cerca il bambino, e vede gli occhi che brillano, spalancati sotto l’unica stella. – Non sai cos’è una barca e forse non hai mai visto un calamaro…
-⁠Hai ragione. Ma non è importante. Mi piace ascoltarti. Le parole sono note di un ballo, non bisogna capire…

dal racconto ‘Il demonio è cane bianco’ di Sergio Atzeni, in Bellas mariposas.

 

Call me Càmbara

di

Francesco Forlani

 

Call me Càmbara, ‘o piscaturi, de sta tiritera de pisci, de ratantira de mare, càmbara, càmbara e maccioni – pisciurre’ sparedda e mumungioni, lu pisci lu pisci, sarde e d’alose! de palaje e raje petrose! Sarache, dientece ed achiate, scurme, tunne e alletterate! e lu mari, lu mari blek, nire comm’à minuit però sine lune, sine nu stracce ‘e lumière, comme lu fonde de copa de café nire puríss, et todo aggrummate comme sangre d’accabadora ca si ce vulisse ammuccari nu destine, inda lu mari lo puedes truvari qui isso tenet luz azzorra però t’aisse calà ca cape ambuttunate, comme nu palummari et ci aié affugà in la turmenta et in esta vague de agua salata qubbí ca manco li malloreddus, los macarùns ce poi acalari car l’est fria l’agua, freda et ‘ntussucuse assaje, cum l’onda qui es na chimera avec na criniera de bestia feroz, d’animali cu sfunneche et sine core, nu Mobydick ca nun se cheta et s’arza, et vole à la manera d’un monstre marine con mille cabezas et facie arraggiate.


In fondo al Poetto, alla fine del lungomare, quando la strada lascia la sabbia e si inerpica sul fianco molle delle colline, verso gli strapiombi, verso l’interno, c’è un bar. Un antro di cemento, una scatola, quel bar.


Alors que sti strangers in the night cum accento grave de parada militari et stivalun niri niri, se proménèant sur playa del Puèt, sta plaga de tera et rena, a ruttà satisfaits comme se stivene a déclamar Dante lo vate sine y none, à vummicari indo water du bar collabò in sta noche blek, ca si sbivazzan todo lo que se puede bibir para disalterarse l’anima ‘mbriacarse de bira, cerveza financo in the pockets da jaketa grigiovert, et con palabras qui paraîssent et resonnent à l’orecio come ordres d’execution, d’évacuation de guera pure si sta ricenne na cosa gentille, du tipo: signuri’ quelle heure est’il, ou ‘nnamose à fa na gira a Casteddu e qui domina de alto, de susu o abbascio et toda sta tiritera de gente forestera et nun sta a guardà a protiggiri el pueblo daa verganza et de la mala parata aujourd’hui comme à lu tiempe passate ‘e na vota.

Ogni sera, soldati tedeschi della nato, sulle seggiole, infilano monetine italiane in un grasso jubox, che trasmette canzoni tedesche. C’è anche Puppipepper – sergente – stanotte, nel bar. 

Or ca lo cascione da mosica trasmitti der kommissar, avec el pula Derrick, carabinero daa pista dansante que leas blondassas se strusciàn et las brunetas tambien sur le tapis roulant des notes que le digei’ qui se llama Murgia, et qui nun tene nu sfaccimme e’ mixer pero se spaccia pe mosico solo pecché c’enfila isso le ciento lire into the machine et s’ampressa a ‘ncolumnare sonora llente et qui quannne apparaît la riturnela todo mundo s’attizza s’azzitta, la mosica, s’azzitta, li pisci s’azzittene et pur’io ca sto in do mare abberto et nigro cum barcheta et rizza, ca si pure dicissi na palabra personne me purrìa ascultari de labbasciu, et a lo signo del deto index du diggei de cumannari, que l’est mejo ca futtiri, todo mundo se lanza nella chorale d stadium de Sant’Elia, killu de Giggi rombo de tuono, péccapirse, rah’ di net um – oh, oh, oh Schau, schau, der Kommissar geht um – oh, oh, oh

Puppipepper si spalla di star lì, è strapieno di birra. Stufo di quella compagnia. Corsa sul lungomare, coi finestrini aperti, ché entri il profumo di trixia, ché entri, quell’alito di mare. Ora, Puppi respira. È fresca l’aria. Mette allegria. Puppi accelera. Accelera. La Bmw è un carro di fuoco che corre fra il mare e lo stagno, un delirio di potenza, fra il mare e lo stagno, corre, il re del mondo. 

Et comme toujours a chest’ora de la noche sti surdate ‘nnamurate de cerveza, avec l’Heimat stampat’n front, dans la sueur de l’humiditate du marecage, se scatinino, alors que financo li fenicotteri puri li artri ozëi de la laguna se stanne addurmuti, sti mengoni che col gambéret se so arrifatti la panza y lo pilu, rojo, rojo, mieux que con la parrucchera capera de Stampàxi, et sti prince qui s’assomment su una ciampa sola rubios comme les purpacce arrussate de li homini do nord ca se stann abbruzià allu soleil a la manera de purceddu de tera et de sale, sont spectacular à veerse, però ahora, lu culunnel alemanne s’enfoja à todo gas su carrettera cum bagnola scapputtat ca paraît nu tank de la Panzer divisiuna que s’incuntrasse tozzi tozzi cum la Simca ca tenghe parkiggiata à la darsina, ce facisse nu tapis persano artro que, et moi, moi qui vulisse vivire con Maria sto ‘nmiezz o mare blek tutt’ambuttunate por el frie et cum penzero a chill’ommemmerda do cumpari Savio qui l’ est un’usuraju ch’istrozzat, nu chianchiere susunco, custu mi vìara seghèndi is callònis y che me tene péppalle que l’ata sira pure de sta varchetelle ca se ten cum spudu me vurrià sproprià pe me sdebbitarme de todo cum banda de sgheri et facie chimere et sauvages et le coltel en cana de mi mismo.

A un tratto, tout d’un coup, nel silenzio, la bmw cozza contro qualcosa. Un cane ? Maledetti cani, sempre in mezzo ai coglioni, c’è sempre qualche cane portato fuori a pisciare che attraversa la strada nel momento sbagliato. Veramente soltanto un cane? Eh? Sergente!

Que mo mo l’hommemmerda nun se proméneàt con su compañera vajasse et sciantosa da l’artro lado de lo lungumari illuminato pe mmetà car si li muccusi al di’ s’en vont armadi de fionde à sbrinà les lucioles des lampiun cum petra arsa para putiri mejo derrobbà le borze des fimmine vajasse col vespin 50 truccato a ducento que si fussi el director de la Piagio ce li facissi travaillà in officina, al blek, claro que si, et ainsi, a noche noche, blek sine lune, sine nu stracce ‘e lumière, comme lu fonde de copa de café nire puríss, et todo aggrummate comme sangre d’accabadora ca si ce vulisse ammuccari nu destine, et qu emo mo, mo propte si à la esquierda de la longa istrada del Poett ce stava el bolide de nikilauda, à la derecha un bon kilomètro aropp que l’hommemmerda accumpagnate et sine penzero porque todos los penzeros steven bien assittat in da la varca mea, do pauvre christe piscature sine dineiro, porque todo lo dineiro lo tenia lo chianchiere susunco que en isso momento propte pensette de traversari. Et patapoum patapoum ah le carnage et stìzia tipìghidi, olé .

Puppi, comunque, scappa ».



Chiamatemi Càmbara, il pescatore, di questa tarantella di pesci, della filastrocca di mare, càmbara, càmbara e pesci grossi – pesciolini, sardine e alose! palamite e razze! Saraghi, dentici e acciughe, sgombri, tonni e alletterati! E il mare, il mare nero, scuro come la mezzanotte ma senza luna, senza un filo di luce, come il fondo della tazzina di caffè nerissimo, e tutto raggrumato come sangue dell’accabadora che se volesse abboccarti un destino, solo nel mare lo puoi trovare, perché nel fondo emana una luce azzurra però dovresti calarci dentro la testa imbacuccata, come un palombaro, e annegare nella tempesta e in quest’onda di acqua salata dove neanche i malloreddus, i maccheroni ci puoi scaldare perché è fredda l’acqua, fredda e viscosa assai, con cresta che è una chimera dalla criniera di bestia feroce, di animale affamato e senza cuore, un Moby Dick che non si quieta e riaffiora e spicca il volo, come un mostro marino dalle mille teste e facce arrabbiate.


In fondo al Poetto, alla fine del lungomare, quando la strada lascia la sabbia e si inerpica sul fianco molle delle colline, verso gli strapiombi, verso l’interno, c’è un bar. Un antro di cemento, una scatola, quel bar.

Mentre quegli strangers in the night, con accento greve da parata militare e stivali neri, nerissimi, passeggiano sulla spiaggia del Poetto e in quella distesa di terra e sabbia ruttano soddisfatti, come se stessero declamando Dante, il vate, senza esserne coscienti prima di sboccare nei water del chioschetto collaborazionista, in questa notte nera, bevendo tutto il bevibile per dissetare l’anima, e ubriacarsi di birra, di cerveza, persino riempiendone le tasche della giacca grigioverde. E lo fanno con parole che all’orecchio risuonano come ordini di esecuzione o di evacuazione bellica, anche quando si tratta di dire una cosa gentile, come: «Signorina, che ore sono?» oppure: «Andiamo a fare una passeggiata a Castello?», che da lassù domina dall’alto e dal basso, e tutta questa tiritera di gente forestiera che non si cura di proteggere il Popolo dalla vergogna e dalla cattiva sorte, oggi come allora.

Ogni sera, soldati tedeschi della nato, sulle seggiole, infilano monetine italiane in un grasso jubox, che trasmette canzoni tedesche. C’è anche Puppipepper – sergente – stanotte, nel bar. 

E proprio ora il jukebox trasmette Der Kommissar, con il tipo della Digos alla Derrick che domina la pista da ballo e le ragazze bionde si strusciano, e anche le brune, sulle note che il DJ – uno che si fa chiamare Murgia – e che non dispone nemmeno di un mixer, e lo fa spacciandosi per musicista solo perché infila lui stesso le cento lire nella macchina. E quando appare il ritornello, la sala intera si eccita e tace d’un colpo, la musica si zittisce, i pesci pure sembrano fare scena muta, e anch’io, che sto nel mare aperto e nero, con la mia barchetta; però, anche se dicessi una parola nessuno potrebbe ascoltarmi laggiù. E vedo che, al segno del dito indice del DJ che sa comandare, «che è meglio che fottere», tutti si lanciano nel coro da stadio, come quello del Sant’Elia, quello di Gigi rombo di tuono: rah’ di net um – oh, oh, oh, Schau, schau, der Kommissar geht um – oh, oh, oh!

Puppipepper si spalla di star lì, è strapieno di birra. Stufo di quella compagnia. Corsa sul lungomare, coi finestrini aperti, ché entri il profumo di trixia, ché entri, quell’alito di mare. Ora, Puppi respira. È fresca l’aria. Mette allegria. Puppi accelera. Accelera. La Bmw è un carro di fuoco che corre fra il mare e lo stagno, un delirio di potenza, fra il mare e lo stagno, corre, il re del mondo. 

E come sempre, a quell’ora della notte, i soldati della innamorati della birra, con la parola patria stampata in fronte, sudano l’umidità della palude, si scatenano mentre i fenicotteri e gli altri uccelli della laguna dormono. Quei volatili che con i gamberi son soliti riempirsi la pancia e tingere il piumaggio, di rosa, rosa di un rosa che nessuna parrucchiera di Stampace potrebbe inventarsi come tinta; quei principi barcollanti su una sola gamba, rosa come polpacci lessati, di biondi uomini del Nord arrostiti al sole come si fa con i maialini di terra e sale, sono uno spettacolo a vedersi. Intanto il colonnello tedesco si infiamma e a tutto gas, sulla strada con l’auto decappottabile lanciata a bomba come un panzer, che se urtasse la mia Simca parcheggiata alla darsena, ne farebbe un tappeto persiano, e io, io che vorrei vivere con Maria, sto in mezzo al mare nero, intirizzito, con il pensiero a quell’uomo, il compare Savio, usuraio che mi strozza, macellaio falso e cortese, un rompicoglioni che mi tiene al guinzaglio, e che l’altra sera persino di questa barchetta, che si mantiene con lo sputo, avrebbe voluto spossessarmi per costringermi a saldare i debiti e gli interessi protetto da una banda di sgherri dalle facce mostruose e selvagge, con il coltello puntato alla gola.

A un tratto, tout d’un coup, nel silenzio, la bmw cozza contro qualcosa. Un cane ? Maledetti cani, sempre in mezzo ai coglioni, c’è sempre qualche cane portato fuori a pisciare che attraversa la strada nel momento sbagliato. Veramente soltanto un cane? Eh? Sergente!

E ora quell’uomo maledetto non si trovava a passeggiare con la sua bella volgare e spavalda al buio sul lungomare? Buio perché i ragazzi di quartiere, armati di fionde, avevano spaccato le lampadine dei lampioni per potere indisturbati scippare le borse alle signore in sella a vespe 50 trasformate in duecento, truccate talmente bene che se fossi stato direttore della Piaggio li avrei messi a lavorare in officina al nero, naturalmente. Intanto la notte è nera, senza luna, nera come il fondo di un caffè, nera come sangue rappreso di accabadora e proprio lì, sulla sinistra della lunga strada del Poetto, c’era il bolide del militare tedesco che sfrecciava verso destra, un chilometro più avanti, puntando quell’infame d’uomo con la sua compagna, ignaro, senza pensieri, perché i pensieri erano tutti stipati nella mia barca; io, povero Cristo, pescatore senza denaro, perché il denaro era tutto nelle mani di quel piagnone usuraio che, proprio in quell’istante, aveva pensato di attraversare. E patapoum, patapoum… Ah, che carneficina! Ben gli sta, Olé.

Puppi, comunque, scappa 

 

Epilogo



Il mattino seguente erano stati convocati tutti in questura : militari, proprietari dei bar del Poetto, personale di servizio e perfino i pescatori usciti in mare la notte dell’incidente. Probabilmente proprio questi ultimi che erano soliti mettersi a prua, dunque rivolti alla spiaggia avrebbero avuto la migliore visuale e testimoniare sull’auto pirata che aveva falciato due vite, personalità dell’isola come avrebbe intitolato un giornale, molto locale. Ognuno peró aveva negato di avere notato qualcosa, di avere assistito all’incidente o di avere elementi utili alle indagini in corso, affidate a un commissario originario di Quartu. Anche Càmbara era stato convocato ma si sapeva già che seppure avesse visto qualcosa nulla avrebbe detto. E infatti non disse nulla. Tranne una frase, che alle oreccchie dei più era parsa quasi enigmatica, sciamanica, misteriosa.
Alles klar Herr Kommissar? Tutto chiaro ora, signor Commissario ?

 

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo,
dopo la sua morte,
nella memoria e nelle parole altrui’.
Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn

Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas.

Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui?

Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani.

Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”.

Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.

*

Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia

Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012



Si può seguire il PODCAST su:

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PocketCasts

presque un manifeste #1

0

di Francesco Ciuffoli

une_lecture_italienne_de_l’affaire

***

 

cronostoria degli eventi che hanno portato a questo articolo:

11 | 2008 – 09 | 2011 – 04 | 2018 – 10 | 2024 – 12 | 2024 – 02 | 2025 – 04 | 2025

 

7 date riportanti gli eventi descritti nel testo e quelli più nascosti, personali.

7 saranno anche le sezioni che comporranno dunque questo quasi-manifesto.

 

+ + + + + + + + +

 

indice in cui tradiamo già da ora quanto detto

 

Parte 1

Section 5. La questione rivoluzionaria è ormai una questione musicale

Section 6. Appendice #2. Ai fotografi

Section 10. Workbook

Section 1. 26 indici per un indirizzo

 

Parte 2

Section 8. Piccolo manifesto di una nuova estetica

Section 4. Appendice #1. Ai poeti

Section 2. Il punto di vista estetico

Section 3. Poesia, capanne, skené

 

Parte 3

Section 7. Un epilogo. A tutte le persone che amo

Section 9. A questa cosa mai accaduta, mai appianata

 

+ + + + + + + + +

 

Section 5. La questione rivoluzionaria è ormai una questione musicale
Excursus sulla ritmanalisi come metodo

 

pulsione morte = ripetizione

pulsione vita = affermazione di differenza

/// [Samuele Vitti, appunto in matita su un libro di Massimo Recalcati]

 

***

tutti i miei amici sono stanchi e alcuni di loro vorrebbero ammazzarsi – dicono sorridendo. tutti i miei amici lottano con la ripetizione delle solite azioni nella speranza che i nostri discorsi ci portino a cambiare qualcosa.

tutti i miei amici sono stanchi e alcuni di loro si comportano male con tutti – dicono. tutti i miei amici però sono buoni attendono da troppo che si sblocchi quell’opportunità dei nostri discorsi che ci possa far cambiare.

con la ripetizione delle solite azioni nella speranza che finalmente ci sia una sopra-vivenza. tutti i miei amici

parlano dell’Australia, di Trump, dell’IA, della guerra. i miei amici cercano di non pensarci troppo all’attesa.

 

con la ripetizione delle solite azioni nella speranza che finalmente si possa sbloccare qualcosa nella loro vita. i miei amici sentono che i nostri discorsi non stanno portando come dovrebbe a un’azione efficace, concreta.

 

***

le solite tre questioni importanti per il vivere: il corpo, il tempo e lo spazio.

Quando parliamo di ritmanalisi ci stiamo rivolgendo all’ultimo Henri Lefebvre, il quale – morendo – ci consegna come ultimo testo un potenziale esperimento teoretico tale per cui forse si può trovare oggi finalmente una quadra tra i tre autori: Nietzsche, Deleuze, Heidegger. Per i conoscitori più esperti pensare che non solo sia possibile collegare questi autori simultaneamente ma anche costituire a partire da questo patchwork teoretico un nuovo impianto di teoria e prassi, risulta non solo assurdo ma persino ridicolo. E se invece volessimo per un attimo sospendere il giudizio? Cosa succederebbe?

«Se il qualitativo è virtualmente scomparso a favore del quantitativo [1],

Lefebvre insiste sul fatto che è proprio da tale virtualità che dobbiamo partire [2]:

dallo stabilire una relazione dialettica tra lineare e ciclico, tra potere e resistenza [3]»

 

/// [Borrelli, 2019]

 

[1] Qui per qualitativo intendiamo pulsione di vita e per quantitativo pulsione di morte. Capiamoci meglio:

 

Qualitativo è pulsione di vita, nei termini in cui il soggetto (abitante, situato) nel suo quotidiano, ripetersi dell’identico (ma sempre differente a sé stesso), progredisce. È sempre lui ma è sempre diverso, cambiato.

 

Quantitativo è pulsione di morte, nei termini in cui il soggetto invece nel suo quotidiano, ripetersi dell’identico, si snatura. Si annulla ciò il suo progredire, non è differente in funzione del lavoro. Egli stesso compie (chi più chi meno) tutta una serie di azioni che

 

a livello Capitale (metaforizzandosi in una macchina, Capitale fisso) determinano la sua performatività

[il che fissa il tetto standard – mediano – di azioni che lui dovrà compiere per non essere sostuito]

[ciò a causa della concorrenza dal basso, dove chiunque per un lavoro

concede migliori performance a un costo minore]

 

a livello umano, l’in-differenza, espressa dalla riduzione del corpo (Körper) – nonché del proprio-corporeo (Leib) – a uomo-macchina, uomo-perfomance, uomo-reddività, genera fenomeni di ritorsione psico-fisica. Stress, Ansia, Rabbia, ecc. sono solo alcuni degli effetti, sicuramente quelli più conosciuti dalla psicologia.

 

ricordati: la psicologia è la scienza del mantenimento a livello Capitale della perfomatività umana.

anche nella migliore delle terapie, quello da curare rimani sempre tu e non la società.

[qui non si tratta di pratica, qui si parla di costituzione, ontologia della disciplina]

 

Ricapitolando: pulsione morte = ripetizione /// pulsione vita = affermazione di differenza

 

[2] ripartire dall’umano significa partire dal vissuto, generare come abbiamo detto capanne, spazi di resistenza. resistenza a cosa? all’in-umano. aprire la possibilità seppur limitata di affermare differenza.

[3] Le ripetizioni proprie del tempo lineare: qualsiasi sequenza di fatti identici, le quotidianità inevitabili.

Le differenze proprie del tempo ciclico: affermazioni di differenza, ripetizioni che accrescono l’individuo.

 

Queste dimensioni sono estremamente conflittuali per il proprio corpo, il proprio percepire

 

Se il quotidiano assume troppo spesso una ripetizione solo quantitativa è la morte, la macchina senza freni.

Se il quotidiano assume invece anche una ripetizione qualitativa è il vissuto, l’affermazione, nel movimento.

 

***

 

Il problema della attuale società è quindi da intendere in senso pianificatore politico, economico, nonché urbanistico. La lotta è nelle città, nella realtà urbana anche dove essa sempre più sottratta. Essa rimane.

I poliziotti a Tarnac ci arrivano comunque. Non esistono più i rifugi, il rurale, il sogno dei Tarnac Nine.

 

La questione coinvolge tout court ogni individuo, la relazione con il corpo come unico strumento rilevatore.

Abbandona i dati, non permettere che la rivoluzione possa essere influenzata o determinata da una statistica.

Ogni azione, anche la più banale contiene in sé la sua unità ritmica, la sua capacità di innescare altre azioni.

 

Henri Lefebvre, Elementi di ritmanalisi. Introduzione alla conoscenza dei ritmi, LetteraVentidue, 2020.

***

 

1 – le voci interiori, noi

 

2 – ascolto il rumore interiore, il rumore del quadrato dentro di me

 

3 – il rumore che sento è soltanto il rumore del mio sangue dentro la testa

 

4 – il silenzio delle felci

 

5 – la questione rivoluzionaria è ormai una questione musicale

 

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

 

+ + + + + + + + +

 

Section 6. Appendice #2. Ai fotografi

tre polaroid donate digitalmente

 

Un regalo di Jean-Marie Gleize

 

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*

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Section 10. Workbook

Veloce eserciziario per la prima comprensione

di un discorso atmosferologico

 

da alcuni frammenti selezionati e versificati, presenti

in Tonino Griffero, Atmosferologia. Estetica deli spazi emozionali

(Laterza 2010; Mimesis, 2017).

* * *

 

 

sette anni non sono pochi e la nozione di atmosfera

l’enigma del tempo vale senza dubbio anche per l’atmosfera

nella sua indubbia intermittenza

l’atmosfera: atmos, esalazione, vapore; sphaira, globo, sfera

l’atmosfera del pranzo

i vecchi mobili hanno più atmosfera

un’atmosfera di calore e di fiducia

l’iniziale atmosfera di diffidenza

l’atmosfera dell’ambiente

un’atmosfera di intimità e di socievolezza

 

un’atmosfera di maggiore efficacia / un’atmosfera d’intimità

l’atmosfera in uno spazio / francese o americano

proprio dall’atmosfera complessiva / atmosfera simbolicamente

 

e pur senza saperla definire – sull’atmosfera

quest’indubbia familiarità con l’atmosfera

la domanda ‘che cos’è un’atmosfera?’ ‘atmosfera’ è

un’espressione ora (l’atmosfera può essere

armoniosa o di sospetto

 

‘che atmosfera!’ di solito si esprime

ipso facto di un film al plot / si preferisce (così)

l’atmosfera si dice che ha prodotto

una cordiale atmosfera / L’atmosfera può quindi

 

paradossalmente / riesce grazie all’atmosfera

Non è escluso che sia proprio per questa plasticità semantica

che il concetto di atmosfera / ‘effetto atmosfera’

non nonostante ma proprio per questa sua vaghezza

 

‘the horror, the horror!’, o discetta

sull’atmosfera anche proprio-corporea di un’intera epoca

atmosfera quanto il pregiudizio introiezionistico che privilegia

l’atmosfera – ed ecco una prima, approssimativa, definizione

 

«prius qualitativo-sentimentale, spazialmente effuso, del nostro incontro sensibile col mondo.

Qualcosa che è «cronologicamente all’inizio e obiettivamente al sommo della gerarchia»

 

Percepire un’atmosfera significa perciò cogliere nello spazio circostante un sentimento,

in definitiva la cosa più importante per l’uomo

implicata da ogni successiva precisazione sia sensibile sia cognitiva. Significa essere

afferrati da un di-più, e proprio «a questo di-più, che eccede la fattualità reale

e che tuttavia sentiamo con e in essa, possiamo dare il nome di ‘atmosferico’»

(Tellenbach 1968: 47), ravvisandovi un’eccedenza

rispetto al luogo

gran parte di ciò che «‘resiste’ a un atteggiamento ‘rappresentazionale’»

(Franzini 2006: 72). In breve, una ‘differenza’,

una ‘risonanza’ dello spazio vissuto, che l’atmosfera riempirebbe,

 

ma non come «un oggetto materiale che va a riempirne un altro,

aderendo alla forma che quest’ultimo gli impone»

(Minkowski 1936: 86), piuttosto come una vibrazione

(non necessariamente sonora) in cui si incontrano e addirittura si fondono

isomorficamente e predualisticamente percetto e percipiente.

 

Un di-più e un non-so-che sentiti dal corpo-proprio in un certo spazio,

ma mai del tutto riducibili al corredo oggettuale di tale spazio, donde

il ricorso a formulazioni assai precise pur nella loro natura ossimorica,

come nel caso della ‘chiarezza nebbiosa’ da Goethe attribuita al paesaggio

 

mediterraneo.

 

Un sentimento spazializzato, un di-più in senso più affettivo e proprio-

corporeo che non astrattamente semantico: «in tutti gli ambiti di senso

l’atmosfera è nell’oggetto percepito ciò che non è oggetto ma significato.

 

Il modo in cui il mondo è per noi, ossia quale tipo di relazione abbiamo

col mondo in ogni singolo momento e come ci sentiamo in esso, è cosa

che esperiamo non oggettivamente ma atmosfericamente» (Hauskeller 1995: 101)

 

Un di-più che, infine, sfugge alla percezione ‘analitica’ e quindi ‘immobilizzante’,

poiché «tutto ciò che tocca, la scienza lo riduce all’immobilità, lo trasforma

in una natura morta. Mentre attorno a noi il mondo risuona di mille melodie,

esala mille profumi, è animato da mille movimenti, che fanno vibrare e palpitare

tutto il nostro essere. E noi prendiamo parte a questa vita, così intensa, impalpabile

e sfumata» (Minkowski 1936: 150).

 

II.

 

Una particolare atmosfera (malinconica

Dall’autostrada, un’atmosfera pittoresca

 

un’atmosfera di gioia «per il solo fatto di saperlo vicino» (Augé 1992: 89)

un’atmosfera sui generis e impossibile nel contatto diretto,

l’atmosfera individuata

che resiste alla variazione delle assunzioni e al superamento dei pregiudizi introspettivi

 

una «revisione fenomenologica» (Schmitz 2002b: 36-37)

 

dall’altro attraverso

l’atmosfera stessa

un’atmosfera d’incertezza non è necessariamente un’atmosfera più

incerta di quanto lo sia un’atmosfera dal contenuto certo

 

un’atmosfera intrinsecamente positiva

spetta al momento gurale

complessivo rispetto ai suoi singoli componenti

bosco e alberi

avvertire l’eventuale atmosfera dei suoi singoli elementi

il sorgere di una nuova atmosfera

situazione in termini di atmosfera

un’anticipazione del tema dell’atmosfera

del carattere soggettivo o oggettivo dell’atmosfera

suggestioni proprio-corporee, di un’atmosfera specifica

 

una vera e propria atmosfera all’interno del mondo

immaginari

 

Questa potenzialità degli spazi [si può] chiamare ‘atmosfera

è all’atmosfera suggerita anche

solo dall’immagine sonora di certe parole

 

occorre ribadire che l’atmosfera

 

di inquietudine suscitata dal bosco non

deriva dal pensiero della paura, ma è piuttosto l’immediata irradiazione di

un sentimento spazialmente diffuso e semi-cosale

 

non è il

riferimento a produrre l’atmosfera, ma è l’atmosfera a rendere possibile il

riferimento» (Hauskeller 1995: 139)

 

è un’atmosfera complessiva irradiata dal

nero prima di ogni disamina analitica

 

III. quanto a una certa atmosfera? E cioè a una sorta di sentimento nomade

 

La scialba atmosfera serale

la seducente

atmosfera primaverile, l’aria morbida di una pioggerella in campagna in una

sera d’estate, l’aspra e secca freddezza di una nuova e soleggiata mattina

invernale

 

ottimo esempio dell’atmosfera

una specica atmosfera climatica, l’opprimente calura che in un pomeriggio estivo influenza tutto

l’atmosfera di oppressione (pesantezza e inerzia)

 

  1. paesaggio e atmosfera

 

ammettere che sia il paesaggio sia

l’atmosfera esistono non alla maniera di gatti e tavoli, ossia di oggetti

distaccati, tridimensionali, solitamente convessi e spostabili

indipendentemente dagli altri oggetti, relativamente durevoli e identici pur

nello spostamento, bensì nel modo in cui esistono nuvole e ombre, ma, a

ben vedere, anche entità certamente ben più solide, e tuttavia dai conni

(inferiori) indeterminati e incompleti, come le montagne

 

esponendosi

all’irradiazione della loro atmosfera

 

esso irradierebbe comunque un’atmosfera per ragioni

non proiettive, visto che «quando siamo trasportati all’interno di una

determinata impressione, non guardiamo verso di essa, ma semmai a partire

da essa

 

l’atmosfera che vi avvertiamo

comunque una sua peculiare atmosfera

per favorire l’atmosfera di raccoglimento

la si fiuti, la si aspiri, e che quindi «nell’odore si conserv[i] quanto del passato è imperituro,

l’atmosfericoo» (Tellenbach 1968: 31)

 

sorge(va) nell’atmosfera

l’atmosfera che troviamo entrando in un seminterrato o in una bettola

Per altri «l’odore è […] l’atmosfera stessa

 

comunicazione con l’atmosfera

sull’atmosfera olfattiva

Alla prima atmosfera orosensoriale esperita

condizione di possibilità di ogni successiva atmosfera di fiducia,

Come l’atmosfera, l’odore infatti annulla la

separazione tra soggetto e oggetto

noi annusiamo l’atmosfera di

qualcuno ne costituisce la percezione più intima

 

 

l’atmosfera, infine, è una qualità assolutamente

fenomenica e quindi irriducibile ad attributo di una sostanza

…che ‘crea un’atmosfera’

 

V.

 

spargendosi nell’atmosfera

L’atmosfera sociale, in definitiva,

si vota quindi per un’atmosfera

(politica)

un antico slogan pubblicitario, ‘creano un’atmosfera’

un’atmosfera della cui artificialità

il ruolo dell’atmosfera pedagogica

in modo frontale (atmosfera istituzionale-autoritaria)

 

oppure in cerchio (atmosfera paritetica se non

seminariale)

Al cuore di ogni relazione sociale (e sociosimbolica) troviamo dunque

l’atmosfera

 

l’habitus, l’atmosfera in cui sono immersi i

rapporti sociali può anche oggettivarsi in situazioni sentite inconsciamente

come familiari dal corpo-proprio (mobilio, abbigliamento, cucina)

 

proprio dall’atmosfera rilassante e di condivisione generata

 

una politica d’emergenza

all’odierna endemica atmosfera terroristica

 

atmosfera che fluttua nell’aria di un certo luogo

 

ogni atmosfera è

tanto più profondamente sentita, e quindi ‘conosciuta’, quanto meno è

linguisticamente circoscrivibile

 

Proprio come

l’atmosfera, il genius loci non è

 

condensazione locale di un’atmosfera

 

 

semiclimatica, tanto che si è potuto

dire che «in una città prosaica senza penombre, come Berlino [il demonico]

non riuscirebbe a trovare l’opportunità per manifestarsi» (Goethe 1854, 25:

124 sg.)

 

come ‘atmosfera’, di intonazione d’animo (Stimmung)

 

i modi patologici di assenza dell’aura o atmosfera

 

Daudet sottopone l’idea di atmosfera (aura e ambiance)

 

ci basta trovare conferma della sinteticità passiva, affettiva e proprio-

corporea, attribuita all’atmosfera

 

è fin troppo noto: è l’atmosfera

unica e irripetibile, percepita involontariamente

 

controversa, e l’atmosfera.

 

 

in un’atmosfera calda, in cui

rusticità e genuinità ci invitano a indugiare

in

un’atmosfera fredda

 

Ogni impresa commerciale mira, in definitiva, a darsi una

certa immagine,

[una politica dell’immagine

 

un’atmosfera polisensoriale mediante una

scenografia (assortimento, layout, ecc.)

 

la bellezza è l’atmosfera specifica delle opere d’arte

 

ricondurre a un’atmosfera teorica l’intero ‘mondo dell’arte’,

l’atmosfera perderebbe irrimediabilmente i propri indispensabili connotati

 

un’atmosfera seduttiva nel museo ci seduce

un’atmosfera seduttiva altrove

più di un’atmosfera seduttiva» (Hauskeller 2002: 180).

 

+ + + + + + + + +

 

Section 1. 26 indici per un indirizzo
su Jean-Marie Gleize, Nathalie Quintane e Le Comité Invisible

 

Non sei tu che stai in questo posto, è lui che sta dentro di te

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

* * *

 

Scritto e pensato in vista delle mobilitazioni in diverse città italiane accorse il 22 febbraio 2025 contro il primo se non secondo, terzo passo di un sempre più stretto Stato di controllo (Decreto Caivano – decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 -; Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica – comunicato stampa del consiglio dei-ministri n 122/28135 in rif. Disegno di legge presentato in data 22 gennaio 2024). Il seguente capitolo ripercorrerà alcune tappe fondamentali di ciò che è già avvenuto in Francia, di ciò che sta accedendo oggi in Italia.

* * *

 

  1. Bisognerebbe tornare a Tarnac ancora una volta, respirare la sua aria, far scorrere dentro tutto come se fosse polvere. I polmoni, tanto, ce li siamo già intossicati e le gengive oggi sono nere, sanguinano da un po’.

 

  1. Chiedersi perché bisogna tornare a Tarnac e, prima di tutto, cosa sia Tarnac, in Italia è un punto centrale. Per raccontare Tarnac però, come in pochi altri casi, non si può che raccontare di libri, di rivolta, di poesia.

 

  1. Per raccontare Tarnac, bisogna però partire anche dall’incendio, cioè dalle rivolte nelle banlieue francesi del 2005. Quattro settimane di rivolta, in cui si diffonde anche il primo pamphlet di un comitato anonimo.

 

  1. La storia del «comité invisible», nome degli autori del pamphlet in calce al testo, ha e avrà a che fare con la Francia, con l’uso estensivo del reato di terrorismo e con ciò che troverà il suo culmine proprio a Tarnac.

 

  1. Intanto qualche dato del 2005: 19 notti; 8.720 veicoli bruciati; 2.599 arresti; due adolescenti, Zyed Benna e Bouna Traoré, 17 e 15 anni, morti fulminati, perché inseguiti (probabilmente) da una pattuglia di polizia.

* * *

«all’improvviso la coscienza della costante insurrezione dell’erba ci resuscita»

«dopo aver parlato della piattezza del prato all’improvviso la presa di coscienza della costante

insurrezione dell’erba ci resuscita»

 

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio]

+ + +

 

L’ambiente urbano è qualcosa di più che il semplice teatro di uno scontro: ne è lo strumento. Tornano in mente i consigli di Blanqui, in questo caso a vantaggio del partito dell’insurrezione: ai futuri insorti di Parigi raccomandava di ricorrere alle case affacciate sulle barricate per proteggere le proprie posizioni, di abbatterne i muri per farle comunicare, di distruggere le scale al pianterreno e perforare i soffitti per difendersi da eventuali assalitori, di sradicare le porte per barricare le finestre e fare di ogni piano una postazione di tiro.

/// [Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene]

* * *

 

  1. In quei giorni del 2005, circola un testo; due anni dopo ne segue un altro: L’insurrezione che viene. Pubblicato nel 2007, «vede di colpo impennare le proprie vendite l’anno seguente a seguito di alcuni arresti».

 

  1. Tarnac è un comune francese di 331 abitanti nel dipartimento della Corrèze. L’Affaire Tarnac è la storia dei Tarnac Nine, gruppo francese di 9 presunti sabotatori anarchici, dei loro arresti, della loro detenzione.

 

  1. Il gruppo originale è di nove, 5 donne e 4 uomini, di età compresa tra 22 e 34 al momento dagli arresti. L’Affaire Tarnac durerà 10 anni, terminerà quindi nel 2018, dopo appelli, cassazioni, impicci. Tutti prosciolti.

 

  1. Giorgio Agamben e Luc Boltanski hanno scritto editoriali che denunciano la sproporzione e l’isteria di questa operazione repressiva. Una petizione è stata diffusa e firmata da Badiou, Bensaid, Rancière e altri.

 

  1. Tra le varie accuse, il gruppo in generale era sospettato di essere almeno in parte membro del «comité invisible», ciò portò il procuratore della repubblica a parlare di un’organizzazione, di una «cellula invisibile».

* * *

 

[…]

 

E tutto attorno:

Le telecamere che ruotano, le voci digitalizzate

i controlli della polizia

le pattuglie

l’annuncio di un ritardo, quindici, venti,

quarantacinque minuti un cambiamento di binario

problemi tecnici non specificati.

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio]

 

+ + +

 

Non c’è da indignarsi per il fatto che da cinque anni viene applicata una legge notoriamente anticostituzionale come quella sulla Sicurezza. È inutile protestare legalmente contro la definitiva implosione del quadro legale. Bisogna organizzarsi di conseguenza.

 

/// [Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene]

  1. All’alba dell’11 novembre 2008, un’operazione di grande spettacolo in diretta dalle televisioni. Vengono arrestare 20 persone tra Parigi, Rouen, l’Est e il Centro della Francia; «Taiga» mobilita 150 poliziotti.12. Unità speciali con passamontagna, un paesino occupato da blindati, sospetti trasportati coperti da indumenti e circondati da incappucciati, le immagini che quel giorno si offrono ai francesi proclamano.

 

  1. Messi in relazione a cinque sabotaggi di alcune linee, lungo i cavi di alimentazione dei treni ad alta velocità erano stati messi dei ferri per il cemento armato, che al passaggio avevano provocato il loro blocco.14. La ministra dell’Interno Michèle Alliot-Marie si spertica in dichiarazioni di trionfo. Sarkozy si complimenta con la polizia. Si parla di documenti, di sequestro di materiale e di tracce di Dna, si parla di tutto.15. Allo scadere delle 96 ore di interrogatorio, 9 persone tra i 23 e i 34 anni, vengono denunciate per associazione sovversiva con finalità di terrorismo. Delle 9, 4 vengono rilasciate e 5 vengono incarcerate.

* * *

 

[…]

 

«Il mondo possiede già il sogno di un tempo, adesso deve solo prenderne coscienza per viverlo davvero»

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio]

+ + +

Non c’è da reagire alle notizie del giorno, ma da interpretare ogni informazione come un’operazione in un campo ostile di strategie che vanno decifrate, un’operazione in un campo ostile di strategie che vanno decifrate, un’operazione che per l’appunto mira a suscitare questa o quella reazione. È quell’operazione che va letta come il vero contenuto dell’informazione.

 

Non c’è più da aspettare: una schiarita, la rivoluzione, l’apocalisse nucleare, un movimento sociale… Continuare ad aspettare è una follia. La catastrofe non è qualcosa che sta per arrivare: è già qui. Noi ci situiamo d’ora e già all’interno del crollo di una civiltà. Ed è qui che va presa una posizione.

 

/// [Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene]

* * *

  1. Uno degli indizi considerati più incriminanti, soprattutto all’inizio delle indagini, consisteva nella prova-presenza nell’alloggio del gruppo di un libro di alcuni terroristi anonimi, L’Insurrection qui vient.

 

  1. «Questa storia è suonata […] come un avvertimento […] non credere che le tue (pre)occupazioni (estetiche), […] non siano suscettibili […] di essere rovesciate e usate come prove a carico contro di te» – Quintane, Pomodori

 

  1. Elenco di alcune armi per tornare a TRNC; dal giorno degli arresti il «comité invisible» ha pubblicato altri 2 libri; Quintane ha scritto un libro sull’Affaire Tarnac; esiste anche un documentario su Tarnac.

 

  1. Dopo Tarnac, quand tout déraille, si può anche leggere il libro di Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio, disponibile da questo inverno in versione italiana. Leggere e vedere ciò che succede in Francia significa

 

  1. Comprendere che quello che è successo in Francia ieri, succede in Italia oggi. A differenza dei francesi noi non leggiamo, non torniamo a TRNC. Vediamo solo il ragazzo morto, inseguito dalle gazzelle.

* * *

 

UN ATTO PREPARATORIO…

 

serie di leggi ha costruito un sistema penale d’eccezione che ricorda le leggi scellerate

 

l’accusa di «associazione a delinquere finalizzata al compimento di un reato terroristico»

 

bastano due persone per formare un «gruppo terroristico» e per definire il reato è

 

sufficiente un semplice atto preparatorio. Questo atto preparatorio non è definito.

 

[…]

 

È illusorio chiedere che questo regime procedurale venga applicato in modo meno ampio e meno brutale: è stato concepito proprio per essere applicato così com’è.

 

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio]

* * *

 

  1. Della polizia, ci indigniamo. Questo non è TRNC, noi non sappiamo ancora costruire capanne come dice Bachelard (1957). Noi non sappiamo fare di ogni piano una postazione di tiro come

 

  1. Il Comitato ne L’insurrezione che viene cita Blanqui: «ai futuri insorti di Parigi raccomandava di ricorrere alle case affacciate sulle barricate per proteggere le proprie posizioni, di abbatterne i muri per farle comunicare, di distruggere le scale al pianterreno e perforare i soffitti per difendersi da eventuali assalitori, di sradicare le porte per barricare le finestre e fare di ogni piano una postazione di tiro».

 

  1. Anche Quintane in Pomodori parla di Blanqui: «Ho anche visto (la visione!) scrittori poeti professori che se proprio non maneggiavano la zappa, quantomeno un pensierino a mollare la città per andare a godersi un po’ di più la seconda casa se lo facevano, e di questi alcuni i più coerenti alla fine si riprendevano il loro Blanqui dove l’avevano lasciato nel 1975, o magari invece se lo prevendevano in mano proprio per la prima volta»

 

  1. In Gleize, Blanqui e Robespierre vengono entrambi citati, sono citati poi anche Bachelard e altri autori francesi, però sicuramente viene ricordato di non farci fregare, di fare di ogni piano una postazione di tiro

 

  1. Anche Quintane in Pomodori parla di Robespierre: «noi ci ritroviamo sempre attaccati – attaccati nel senso che a quel lirismo/regime siamo incatenati su quel lirismo/regime ricadiamo in quel lirismo/regime sguazziamo, nel senso che una parte della letteratura di espressione francofona (metropolitana e d’oltremare) in quel lirismo/regime trova un’origine nonché un orizzonte, da lì non si smolla non demorde anzi ci si mettere a dormire sopra ci fa la ruggine sopra.

 

Se ci continuiamo a esprimere nella lingua della Rivoluzione che specie di rivoluzione potrà mai venire fuori se non una rivoluzione della Rivoluzione, una rivoluzione da internista della rivoluzione, una rivoluzione che l’unica cosa che può fare è restarsene lì in intimo colloquio con i vari Robespierre Saint-Just?»

 

  1. Il Comitato Invisibile non cita mai Robespierre, ho controllato,
    ha poco che a che fare con la lingua della Rivoluzione

Il Comitato il dialetto non se l’è mai scelto, il dialetto del Comitato

è il dialetto di chi se l’è trovato come lingua madre

è naturale.

 

Tornare a TRNC è il primo passo di consapevolezza, è l’atto dovuto ai morti e alle uccisioni, siano registrate o meno. Tutte le morti che intendiamo noi sono un atto di soppressione, di violenza, anche quando si tratta di morire di fame o di depressione. La violenza risiede da sempre nelle nostre vite. La morte di un ragazzo è il segnale però, non va sprecato. La miccia è accesa ormai, lo scoppio ci colpirà tutti. Bisogna decidere e decidere bene da che parte si vuole morire, solo questo. La violenza che arriverà anche su di noi, arriverà anche su di voi. Quando dico noi, per adesso, intendo chi a stento arriva a fine mese, chi è emarginato, marginalizzato dal suo contesto, dal suo r-esistere quotidiano. Non vi preoccupate, se ci pensate pochi, tra poco, in queste condizioni, saremo in tanti, più di voi. Perché voi avete reso possibile questo contesto. In Francia l’hanno capito, lo stanno capendo, lo capiranno. In Italia bisogna iniziare a farlo, aprire un discorso. Tornare a TRNC, è però prima della rivolta una questione di sapere, di tenere a mente cosa è successo, avere sotto braccio e in testi tutti gli avvenimenti, le cronache, i libri. Bisogna insomma

 

Bisogna tenere bene a mente, per conoscere,
per combattere il problema

anche oggi, soprattutto oggi nel nostro Paese,

per combattere il problema

 

bisogna fare (davvero) di ogni piano una postazione di tiro.

Dobbiamo (e dobbiamo velocemente) costruire delle capanne
delle capanne nuove, capaci di contenerci tutti, di fornirci più che mai

un rifugio, (un posto da cui far partire la nostra resistenza).

 

  1. C’è un errore di battitura ovviamente, verso la fine

“testi” → “testa”. Penso però sia meglio così.

 

+ + +

Marat, il sorriso di Marat. Diceva che i cittadini sono timorosi e hanno paura soprattutto delle rivolte popolari, perché le rivolte popolari tendono a distruggere la loro felicità dando un nuovo ordine alle cose; quindi parlano solo di tranquillizzare il popolo; e i loro motivi sono validissimi, perché a cosa dobbiamo la libertà se non alle rivolte popolari? È una rivolta popolare che ha fatto cadere la Bastiglia, è una rivolta popolare che ha fatto fallire il complotto degli aristocratici, l’Assemblea nazionale è entrata in funzione solo grazie alle rivolte popolari, è alle rivolte popolari che dobbiamo tutto, svegliatevi, svegliatevi!

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio]

* * *

 

Alcuni dei libri citati qui:

Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2024.

Nathalie Quintane, Pomodori, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2021.

Comité Invisible (2007, 2014, 2017), L’insurrezione che viene | Ai nostri amici | Adesso, Nero Editions, Roma, 2019.

 

Altri autori citati in ordine sparso:

Bachelard, Blanqui, Robespierre.

 

A cui si potrebbero aggiungere per un dibattito presente anche i testi di Henri Lefebvre: La produzione dello spazio, Spazio e politica. Il diritto alla città vol.II, Il manifesto Differenzialista, Ritmanalisi, La rivoluzione urbana. All’interno del seguente articolo sono stati inoltre citati diversi articoli e fonti sull’argomento.

 

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Argento

1

 

Foto o.t.

 

di Angela Maria Galluzzi

Erano arrivati a casa solo da un’ora, ma Lucia era già brilla.
Durante la messa commemorativa la voce del prete era bassa e luttuosa. Per qualche minuto aveva considerato la possibilità di pregare ma l’idea di Dio le era estranea, così aveva trascorso il tempo studiando il programma della funzione. Si trovava in quella chiesa perché l’avevano portata i suoi fratelli.
Lucia si lisciò il vestito sul seno scarno e i fianchi spigolosi, lottando contro l’impellente bisogno di piangere. Tutte le volte che camminava in quella cucina si sentiva triste. Per nessun motivo in particolare, solo perché una volta era vissuta in quella casa. Di lei in famiglia si diceva che era stata una bambina timida e poi una ragazza malinconica.
Attraverso la porta socchiusa le voci dei fratelli le arrivavano come il sottofondo di un film:
“vendere, prima che il mercato crolli”
“e perché poi dovrei vendere?”
“questa casa sta andando in malora”
“non sono io ad avere bisogno di soldi”.
Bevendo quello che restava del Sangiovese, Lucia guardava dalla finestra aperta il tiglio che aveva piantato suo padre.
Appoggiò il bicchiere vuoto nel lavello.
Erano le sette e mezza di un martedì di settembre. C’era ancora luce e si era alzato un vento umido di pioggia. Le carrozzerie delle auto dei suoi fratelli scintillavano sul vialetto di casa.
L’anno prima i suoi genitori erano andati a fare il bagno e non erano più tornati a riva. Era in seguito venuto fuori che altre persone erano già morte in quel lago. Le correnti erano forti e fredde e potevano trascinare a fondo, soprattutto se ci si avventurava alla fine dell’estate, verso il tramonto, quando la luce radente faceva perdere l’orientamento. Lucia aveva assistito da una sedia a sdraio sulla terrazza della pensione dove alloggiavano, al limitare del lungolago. Li stava guardando quando sua madre aveva sollevato in alto le braccia. Era andata sotto poi era ritornata su, aveva colpito l’acqua con i palmi delle mani, era scomparsa. Suo padre aveva allungato un braccio verso di lei, poi fuori dall’acqua come per aggrapparsi al cielo. Aveva aperto la mano che stringeva l’aria ed era scivolato giù. Eppure la madre era stata una nuotatrice, il padre un atleta.
Erano passati due giorni e due notti prima che venissero riportati a riva. I corpi viscidi di fango e alghe. L’addome gonfio e pesante, la pelle grinzosa, le palpebre semiaperte sugli occhi gelatinosi. La prima sensazione che Lucia aveva provato era stata il sollievo che li avessero trovati, che non sarebbero rimasti in fondo al lago per sempre. Nei mesi successivi all’annegamento anche lei si era sentita l’acqua del lago nei polmoni. E ancora le capitava di svegliarsi in preda all’incubo di essere sott’acqua e non riuscire a emergere.
Dalla stanza accanto continuavano ad arrivare scricchiolii di sedie e rumore di passi, frammenti di discussioni:
“sei sempre così arrogante”
“non ti sbagli mai su nulla, vero?”
“lascia perdere”
“ancora con questa storia? Non cambia mai niente”.
Sciacquò il bicchiere.
Una volta anche lei aveva nuotato nel lago. Il suo corpo caldo di sole si era mosso flessuoso nell’acqua lucente. Ora era paralizzata dal terrore di essere trascinata a fondo. Pensò che forse stava impazzendo. La mattina faceva fatica a tirarsi giù dal letto. Uscire di casa era un problema. Provò il desiderio di sdraiarsi sulla graniglia del pavimento, immaginò di sciogliersi. Vide il suo corpo liquefatto impastato con la polvere e lo sporco fra una mattonella e l’altra.
Aveva iniziato a piovere. Le gocce picchiettavano lievi e irregolari sugli alberi. Era un suono che pareva arrivarle dal tempo in cui era bambina. Ora la desolazione la travolgeva. Era una donna di quarant’anni. I suoi genitori erano morti e nella stanza accanto i fratelli litigavano per soldi.
Rimase bloccata accanto al lavello: inerte, le braccia abbandonate lungo il corpo, lo sguardo rivolto alla strada. Sotto la luce livida del lampione le falene disorientate sbattevano e si bruciavano le ali.

 

La settimana seguente tornò nella casa.
Salire le scale, entrare nella stanza dei genitori, essere sola con i loro abiti, le scarpe, gli oggetti, era stato il pensiero fisso dell’ultimo anno. E ora stava succedendo.
I fratelli e le cognate avevano trovato un punto d’accordo: la casa andava svuotata. Un passo in avanti verso la vendita che comunque non era stata ancora decisa.
Lucia si appoggiò allo stipite della porta. Era in preda a un’inquietudine terribile, ma nello stesso tempo una forza viva la attirava dentro la stanza che era luminosa, con le due finestre ad angolo spalancate. Lo smalto bianco delle cornici era screpolato e qualche frammento giaceva sul pavimento.
Le cognate avevano aperto i cassetti e ora stavano spalancando le ante degli armadi.
“Da dove iniziamo?” chiese una.
“Dall’armadio di mamma” decise l’altra.
Lucia deglutì. In quella camera il senso di vuoto era una pietra. I vestiti appesi sulle grucce delineavano la sagoma dei corpi, definivano l’assenza. Nei cassetti le camicie e le maglie erano ben piegate, i guanti appaiati, le cinture arrotolate.
Fece un passo incerto, si fermò.
Le cognate sfilarono abiti, tailleur e cappotti dalle grucce e li accatastarono sul letto; iniziarono a svuotare i cassetti. Alcuni indumenti caddero sul pavimento.
Erano indecise su cosa tenere, regalare, buttare.
Una cognata la vide. “Ah, Lucia. Eccoti, finalmente.”
Lucia non rispose. Si inginocchiò ai piedi del letto, infilò la testa nella catasta di indumenti, si confuse con la stoffa dei vestiti e la lana dei cappotti. Fece una tana che aveva l’odore di sua madre.
Le cognate si fermarono, sconcertate, bisbigliarono fra loro.
“Che succede, Lucia?”
Per gentilezza – in fondo era la figlia – le chiesero “C’è qualcosa che vuoi tenere?”
Lucia tirò su la testa e proprio in quell’istante i suoi occhi si imbatterono in un luccichio. Era un pezzo di stoffa argentato e aveva un fiore di voile verde appuntato sopra con una minuscola spilla da balia.
Tutt’a un tratto sentì un brivido correrle lungo la schiena. Un ricordo le cadde addosso. Una sera, sua madre, avvolta in quel bagliore, profumata di fiori, si era chinata su di lei che dormiva nel suo lettino e le aveva dato il bacio della buonanotte. Lucia aveva percepito un soffio caldo e aveva schiuso appena gli occhi. Aveva udito un bisbiglio “Dormi, tesoro”, e il picchiettare dei tacchi che si allontanavano, come una sequenza di accordi.
Quanti anni avrà avuto? Cinque? Sei?
Lucia sentì una gioia interiore che mai avrebbe voluto né potuto condividere con qualcuno. Fu questione di un attimo, niente di più. Scacciò i pensieri malinconici.
Le sue mani si aprirono un varco in mezzo alla montagna di vestiti, afferrarono la stoffa, sfilarono un vestito da sera di lamé.
Le cognate la guardarono. Erano due donne pratiche, non perdevano tempo.
“È un vestito particolare.”
“Vuoi portarlo a casa?”
“Cosa dici, lo pieghiamo, lo mettiamo in un sacchetto?”
Lucia si strinse all’argento del vestito, si vide riflessa nello specchio appeso sopra al comò: brillava come un gioiello. Un raggio di sole si moltiplicava e si rifletteva sulle pareti della stanza ricoperte da carta da parati a righe bianche e crema, strappava scintille rossicce dai suoi capelli. Il sangue le arrossava le guance. Il suo aspetto fiammeggiante le parve nuovo e interessante. Gli occhi le sembrarono riprendere vita. Con un lampo di sfida scivolò dentro il vestito che sopra i pantaloni e il dolcevita la fasciò come una seconda pelle.
Davanti alla sua figura bizzarra una cognata si lasciò sfuggire “Vuoi uscire così?”
Lucia aprì la corolla del fiore di stoffa verde che era spiegazzato e giaceva piegato sul seno. Si ammirò estasiata allo specchio, le spalle sostenute. “Se ne ho voglia di uscire così? Oh, sì, tantissima!”
Un altro momento e decise di avviarsi verso la porta. Sgusciò fuori dalla stanza, scivolò lungo il corridoio.
Uscì lanciando bagliori argentei nella luce del tardo mattino. Il sole cadeva obliquo dai tetti. Si fermò al cancello, vicino al vecchio olmo. Abbassò gli occhi. La sua ombra era lì, accanto a lei, disegnata nitida. Un’ombra in pieno sole. Una immagine scura che veniva da lei eppure sembrava vivere di vita propria.
Corse in strada, aspettò che il semaforo fosse verde per potere attraversare.

Milano è una vetrina. La mobilitazione per Gaza e gli scontri del 22 settembre

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di Massimo Palma

A Milano il 22 settembre alla manifestazione per Gaza ci sono stati alcuni scontri.

A ben guardare, mentre scattano i primi provvedimenti contro gli arrestati, e si lavora a ulteriori puntate di identificazioni e prese in custodia, quel che è successo a Milano durante lo sciopero generale e il “blocchiamo tutto” in supporto alla Palestina e contro il genocidio in corso, è difficile comprendere perché lì non sia stato permesso quello che è invece stato permesso a Roma, Napoli, o ancora a Bologna (ma solo in parte). Ovvero la pacifica occupazione delle stazioni e delle strade, temporanea e simbolica.

A Milano invece ai manifestanti è stato reso impossibile raggiungere i binari, fermare i treni, le partenze. Le forze dell’ordine lo hanno impedito, creando di fatto una situazione a “imbuto”: il corteo forzava per entrare (anche perché si sapeva che altrove questo era stato “concesso”, octroyé), la polizia respingeva con manganelli e lacrimogeni. La situazione si è fatta sempre più conflittuale e complicata, innescando reazioni e una resistenza di ampie frange del corteo molto vasto che al mattino, nonostante la pioggia, aveva riempito le strade di varie decine di migliaia di persone di ogni età ed estrazione. Il risultato: caos, panico, le porte a vetri rotte, qualche scritta sui muri. La questione in questi casi, al di là del destino dei singoli, è politica: cui prodest? A chi serve? A chi servono gli scontri del 22 settembre a Milano, cui tutti i media hanno dedicato una copertura senza limiti, di fatto provando a “silenziare” la riuscita delle manifestazioni?

Lasciando stare la ricostruzione mediatica per un momento, la critica è arrivata talvolta anche da chi ha organizzato e partecipato alla giornata. Tatticamente, si sente dire, gli scontri sono una mossa sbagliata, spaventano e polarizzano l’opinione pubblica spingendola a prese di posizione più reazionarie, e strategicamente falliscono, perché spostano il focus da Gaza e dal genocidio in corso. Insomma, in sintesi, secondo questa prospettiva gli scontri sono politicamente stupidi, e chi li fa ha la vista corta.

Ma appunto: chi fa gli scontri? La peculiarità degli scontri di Milano è che fin da subito, stando alle ricostruzioni, sono stati disorganici, disorganizzati, in mano a ragazzi non guidati da nessuno e, parrebbe, poco politicizzati. Ed ecco che l’obiettivo della critica, oltre che su quei misteriosi soggetti che la narrazione convoca da decenni apposta per terrorizzare il moderato che in piazza stavolta quasi ci andrebbe, creando quel moral panic inesauribile in Italia – anarchici, autonomi, antagonisti, infiltrati –, si focalizza su un ulteriore, misterioso soggetto: i “maranza”. Qui entra in gioco la categoria scivolosa con cui si definiscono, autodefiniscono, alcune frange giovanili milanesi da anni, ora estesa a tutta Italia. Abiti, musica trap, abitudini ai confini della legalità: questi sarebbero i “maranza”. Ma perché tirarli fuori per narrare il 22 settembre? L’obiettivo politico, nel nominare in questo modo questi gruppi ben poco definibili, è isolare la componente che tra tutte sembra spaventare di più. Si dice maranza ma si legge italiani a metà, perché di seconda generazione e/o di classi basse, e quindi importatori di malcostume, reati, e ora persino violenza politica. È difficile non cogliere l’implicito razzista di questa connotazione.

Che Milano – al centro di enormi polemiche da mesi per il modello di sviluppo elitarista che incarna, dove il centrosinistra ha operato una radicale conversione a destra della propria antropologia –, che Milano – dove si terranno elezioni comunali tra un anno e mezzo, dove chissà, il regime di Sala potrebbe non reggere –, che Milano – dove un modello urbano di espulsione dei bassi sociali dal centro alle periferie ha trionfato –, possa essere il luogo ideale dove creare una situazione di tensione in un’atmosfera già di per sé tesa (siamo al ventitreesimo mese di manifestazioni per la Palestina, nel disinteresse assoluto del governo e delle classi dirigenti) – che Milano sia proprio il posto adatto per gettare benzina e poi godersi l’incendio: questo è evidente.

Ma veniamo al problema politico: come si sta in piazza in una situazione del genere, dove il confine legale è spostato nella direzione del simbolico da una parte, in quella del conflittuale dall’altra? Chi spiega, e a chi, come si sta in una piazza del genere, appena qualcuno, dalle parti di chi ha il monopolio della violenza, va contro le aspettative politiche? (Non legali – perché interrompere un pubblico servizio è illegale, ma nessuno sarà punito a Roma o a Napoli). Chi vede forze dell’ordine dispiegate e poi repressive – moltissimi i gas lacrimogeni impiegati, moltissimi i manganelli usati e sporchi –, schierate e attive per impedire ciò che si sa concesso in altre piazze può scegliere, nell’Italia del “decreto sicurezza”, nell’Italia autoritaria che ha continuato a vendere armi a Israele in questi anni, nella Milano degli sgomberi del Leoncavallo e del centrosinistra scandaloso e affarista, chi vede questo può scegliere di non arretrare nella situazione di conflitto e repressione. Qual è il confine per lo scontento, la frustrazione, la rabbia sociale, la lunghissima attesa che qualcuno si accorga che certi allarmi sulla Palestina sono lanciati da due anni, ma non hanno prodotto nessun effetto politico-economico, mentre la Palestina viene rasa al suolo, con le sue decine di migliaia di vittime accertate e il deserto in costruzione? Cosa è non legale, ma legittimo – sul piano democratico – che accada quando una manifestazione viene repressa? Perché – per l’ennesima volta, una generazione intera dopo Genova, sette anni dopo le lacrime di Nardella per le fioriere – i danni alle cose vengono reputati più importanti dei danni politici, sociali, storici, alle persone? Perché queste persone, mai ascoltate in vita, dimenticate dall’amministrazione che organizza eventi, start-up, hub, vetrine, pubblicità mediatica solo in un certo centro, perché queste persone vengono chiamate subito maranza, e annichilite politicamente, per schiacciarle su una loro genealogia arabo-islamica che non fa che rinfocolare l’islamofobia di cui si macchia da più di vent’anni l’occidente, e che su Gaza è la vera nota dominante dell’immobilismo filo-israeliano? Certo conveniva creare incidenti a Milano – per spaccare il movimento tra buoni e cattivi (sempre mentre un genocidio è in corso), per gettare fette di attivismo cittadino (la salvezza di Milano finora) in pasto alla magistratura e al giornalismo reazionario, per trarne dividendi politici immediati e futuri. Ma bisogna capire cosa si sta nominando quando si abolisce la cultura del conflitto, la si spinge ai margini di ogni gioco democratico, quando si condanna ogni manifestazione che non sia di selfie e sorrisi.

Chi si è scontrato a Milano era arrabbiato per ragioni contingenti (la trappola di una polizia che non fa entrare in stazione, diversamente da altrove), per ragioni politiche (dove ogni movimento di difesa di diritti elementari viene criminalizzato da anni e anni) o per ragioni di una vita intera. Che abbia fatto uso della sua rabbia è una questione politica che va molto al di là dei cori di condanna fin troppo unanimi che giungono da destra (perché le cose valgono molto più di persone e popoli interi) e da sinistra (perché così si rovina la tendenza, il simbolismo e le fotografie di una bellissima giornata di pace mentre altrove c’è un genocidio). È un sintomo, semmai, al di là di ogni convenienza di piccola gittata della nostra piccolissima Italia autoritaria, al di là degli automatismi del nostro immaginario politico da cinquant’anni, di quanto poco si capisca la portata globale di Gaza, in cui ogni sud sa di potersi riconoscere, e ogni nord sa di dover reprimere a ogni costo. A Milano doveva succedere, perché da sempre Milano ha dentro il sud, anche se lo espelle, anche se lo rende invisibile.

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Immagine tratta dal sito InfoPal.

 

Quattro angoli e un caffè

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di Esther Bondi

Non si esce, non si esce, quattro angoli di troppo, non si esce, non si esce, non si vede che uno sgorbio.

Un due tre, i colori degli smalti, due tre quattro, dietro l’altro: davanti forse, non ricordo.

Comunque inutili gli smalti, non di moda, solo porno se le fanno; solo porno hanno colori, unghie lunghe fresche curve, di gioie meno pensano, di gioie non feriscono.

Quattro angoli di troppo, mentre spazzola la spazzola il mascara non si svaluta, non si perde nella moda, solo pensa nuova è meglio di quella vecchia marca.

Un due tre, un davanti l’altro: due tre quattro, sono tette, anche un pene, un due tre, quattro gli angoli di troppo.

 

A colazione rimane, il problema, il caffè: è troppo presto o troppo tardi? Ancora sedici gli anni, un cappuccino, ogni tanto, decaffeinato la sera il problema non si pone, per aperol e prosecco sicuramente da aspettare. Le parole del divieto come stringhe sulla pelle, mi legano alla vita ancora meno che le sberle. Un corpo che si muove dove sento – le mie cose – sento sangue, ancora vita, parole no e ferita:

ho detto no, non sono andata, e madre no, non mi ha creduta;

ho detto no, non ho bevuto, e madre no, non mi ha creduta;

ho detto no, non ho scopato, e padre no, non mi ha creduta;

ho detto no, non ho rubato, e padre no, non mi ha creduta.

 

Poche le parole, quattro gli angoli di troppo, se io è io e loro è no e dominare.

 

Tutto quello che mi vedo rimane nello specchio, quando faccio un altro passo anche me forse scompare. Vedo sera, sera e notte, senza no nel cellulare, altri angoli di troppo, un altro specchio da scappare.

Occhi occhi e bocche bocche, solo un pene e tette troppe, una dietro, l’altra avanti, tante risa e poche fusa.

Smalto rosso peccatore, smalto blu fabulatore, smalto verde mi ricorda che è una cosa da non fare.

Quattro angoli contengono i colori disperati, madre solo “hai potuto”, padre nemmeno mi ha guardato.

Ragazza mora e dopo scura, vedo me, e cambiata tanto: non mi sembra di potere io urlare così tanto. Non ricordo, non mi piace, poi mi piace e poi ricordo.

Non so dire, ai genitori, come è bello congelare: ricercarsi in qualche cosa che non esiste o esisterà, loro guardano e percorrono una me che mai sarà.

Ma lo specchio mi riporta, lo specchio mi sussurra: sono tette, sono tonde, sono labbra, sono forte. Sono un’altra, sono dentro, sono un salto senza terra.

Quattro angoli e mi vedo, brillo spurgo e mi spavento: mi contiene, per lo meno, con le mani tocco lete.

 

Non mi scordo perché ho visto, non rimpiango perché scordo, con la madre non capisce, con il padre non ci provo.

Penso solo, chi ha guardato, se ha provato lo sperato. Io non sento, è tutto asciutto, i quattro angoli sono tutto.

Il problema che rimane è guardare il mio caffè. Madre dice è presto, io mi chiedo lei chi è. Non l’ho vista nello schermo, non ha scopato come me.

Non si mette, padre e madre, in quattro angoli di sé.

Idolina Landolfi: «Ma la mia testa? Dove metterai la mia testa?»

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di Elena Frontaloni

 

I Racconti delle notti di Idolina Landolfi[1]

“Che colpa ne aveva se scriveva, e scriveva, senza sforzo alcuno, così? Ha valore ciò che viene troppo facile?”. Sono righe tratte da Tenebre, un brogliaccio autobiografico inedito di Idolina Landolfi (Roma, 1958-Firenze 2008), scrittrice oltre che traduttrice, critica letteraria, curatrice dell’opera del padre Tommaso e d’altri – due su tutti: Corazzini e Lautréamont. Descrivono quello che, approssimando, si direbbe l’avvio della vocazione alla letteratura da parte di una figlia d’arte e invece Idolina Landolfi racconta più esattamente come un cedere (forse felice, forse di valore: il giudizio è sospeso), a “una parte immemore”, a “una sorta di smemoratezza, di cieco abbandono (vogliamo dire incoscienza?)”: “solo modo, del resto, per osare”, vale a dire per sfidare, con azzardo sornione, dimentico del movente, il “groviglio inestricabile” dei perché insieme alla colpa atavica della letteratura.

Il passo è riportato da Ernestina Pellegrini nella postfazione a una raccolta di racconti fantastici che l’autrice propose ad alcuni editori, e che esce solo adesso per Effigi, a cura della stessa Pellegrini e di Giovanni Maccari. Il titolo della raccolta, assonante con quello dell’inedito sopra citato, quasi fosse lo sbrogliarsi di un filo nero in fuga dal suo altrettanto tenebroso gomitolo di partenza, è Racconti delle notti – battono sotto questo titolo i modelli, assunti e diluiti nel testo, delle Mille e una notte e dei Notturni Hoffmann. La scelta di alcuni temi e il loro trattamento non sorprendono conoscendo altri precedenti libri di Idolina Landolfi, ancora una volta libri di racconti (genere prediletto), dove lune, apparizioni di trasparenze e sibili nel buio, sentinelle, antiche dimore, raccontatori in taverna non si sa se vivi o morti e dormienti per incanto o per scelta vengono spesso convocati dentro pagine colte, coltissime, e però mai grevi o compiaciute: streganti, semmai, in corrispondenza d’amorosi sensi con quelle di Tommaso Landolfi (dagli scintillii sabbatici della Pietra lunare al virtuosismo arreso e antagonista dei diari), nonché capaci creare alchimie tra gli animali e i presagi di Poe, il diavolo narratore Gaspard La Nuit, il seriocomico, spassionato indagare sulle miserie umane delle Operette morali di Leopardi (la costellazione di nomi venne citata da Mario Luzi a proposito di una raccolta del 2004, Matracci e storte).

L’architettura del libro, che peraltro mostra la progressiva emancipazione di Idolina Landolfi, negli anni, da maschere e preziosismi in favore di uno speditissimo mixage di plurimi strati e riflessi linguistici, dà conto della sua finitezza. Sono dieci racconti, si diceva, che dei meccanismi del fantastico dimostrano padronanza assoluta (lo straniamento, il capovolgimento di reale e sognato, la prossimità confusa tra vivi e morti); in più, tutti i racconti si concentrano su vigliaccherie, indifferenze e atti di violenza subìti da donne, ma narrati attraverso la voce di chi sopravvive all’ammutolire di Shahrazād e non sa far altro che rimuginarne le gesta: uomini che di questi delitti miseri e crudeli si sono macchiati; passanti inconsapevoli, però curiosi e volgari; narratori posti come onniscienti ma palesemente orientati e inaffidabili (il rapporto tra credito e critica rispetto all’avvento del soprannaturale sempre a favore del credito), o anche, in indiretto libero, la bigia detentrice del potere di continuazione biologica sociale e psichica per eccellenza, nonché l’idolo polemico di molte scritture di Idolina Landolfi che è la madre de La Vendetta. La notte è sin dai primi racconti, contemporaneamente sia il momento del giorno in cui accade il fatto da cui prende avvio la narrazione (La sconosciuta della Senna, colpevole lezione di anatomia di un medico legale sul corpo di due gemelle); la condizione del luogo, oscuro, in cui avvengono i fatti (Gulliver, storia di una violenza su una bambina da parte di un adolescente che si rivede nel padre innamorato della bambina stessa); l’ora o l’atmosfera che accoglie il racconto del narratore (Dal treno, allucinata confessione di uomo che uccide la fidanzata); lo stato dei personaggi (La gatta nera, rapsodia sull’artista “notturna” e felina Leonor Fini o L’insperabile, storia di una donna che si fa ibernare perché il giovane uomo che ama giunga alla maturità e la scongeli – forse amaro controcanto in prosa all’ultima e unica, anche questa postuma, raccolta poetica di Idolina Landolfi, Non mi destare, amore). Tutti i personaggi dei racconti sono peraltro colti nel confronto con un doppio, un’ombra inquietante e inquieta: tenzone che si risolve sempre a favore del doppio notturno, nell’approdo a uno stato di sospensione tra morte e vita, tra veglia e sonno, tra desiderio di nuova e “segreta vita” e percezione del “lato opaco delle cose”.

Al centro della raccolta, sesto dei dieci testi, c’è la chiave di volta del libro: Notte dell’anno. È la notte di capodanno; in una imprecisata taverna un imprecisato uomo è invitato da altri a raccontare una storia prima che arrivi l’alba, perché nella notte dell’anno le storie diventano vere; l’uomo all’inizio si nega, perché questa è una “fola”, “i desideri non si realizzano, i sogni non si avverano” e “le favole non esistono”. Tuttavia inizia a raccontare in cambio di una bevuta, per testimoniare una mancanza: “se non si è in grado di sconfiggere la morte di una creatura amata non si è fatto nulla, non si vale nulla…” e sulla base di alcuni convincimenti: “i brividi non sono soltanto quelli causati dal terrore […] esiste il meraviglioso in ogni cosa”; inoltre: “i nostri morti siamo noi”. Il suo racconto tratta di una “ragazza”, o meglio di una “giovane donna stregata, che viveva da sola in una vasta dimora decadente”, maltollerata e sfuggita dalla gente intorno, in compagnia di gatti presentati come magici e sensitivi, in realtà dai comportamenti molto realistici. A un certo punto la ragazza abbandona la casa, i suoi gatti muoiono, la casa crolla, e dopo un lungo vagabondare ritorna a vivere, adulta, a un passo dai luoghi della sua giovinezza: riconosce che “la sua vita altrove non era stata vita. E che il nocciolo di lei [il suo vero ‘fantasma’] era rimasto lì, prigioniero”; la donna si avvia verso la sua antica dimora, la luna si districa da una nube che l’ha finora inseguita oscurandola e “inzuppati di luna risorsero accanto a lei la casa, il cortile di ciottoli bianchi, le siepi di rose, il glicine nodoso che da anni, credeva di rammentare, un male aveva stroncato”, insieme ai suoi gatti festanti (Om, Minù, Muzza, Musi, Kali). La storia è conclusa e arriva la luce del giorno: la taverna del narratore e dei suoi compari (è nel frattempo arrivato un altro uomo, ritardatario perturbante, che entra all’improvviso, definendo quella notte adatta a “conciliaboli di streghe”) si mostra quel che è: una stanza vuota, dominio di ragni, ingombra di carte ingiallite, ricettacolo di passeggeri infelici, scrittori-lettori fantasmi.

Oltre al fantastico riccamente tradizionale perseguito da Idolina Landolfi, che trascorre e, rapido, delude tutti i generi (dall’idillio, alla favola, alla “veglia” con narrazione punteggiata di commenti da parte degli ascoltatori della narrazione stessa) e che rannida i suoi brividi e la sua stravolta pietas anche in due brevi righe di descrizione di un sogno o di un paesaggio marino o selvatico, c’è in questo testo centrale della raccolta la tensione etica e filosofica della scrittura di Landolfi, c’è la protagonista moritura tipica dei racconti, la “ragazza stregata” che ha dimestichezza con “le cose segrete”, c’è lo sguardo meschino, fintamente diurno, della “gente” (dei giornali, della famiglia, delle proiezioni egoistiche di sapienza sugli animali); c’è, per finire, “l’autobiografia profonda” (scrive Pellegrini), vale a dire non psicologizzante, scontrosa e pudica, tipica delle pagine dell’autrice, che alcuni potrebbero riconoscere in numerosi tratti della stessa ragazza stregata. Notte dell’anno è dunque la punta del libro, quella in cui si celebra, per bocca di un narratore uomo, il trionfo amaro dei fantasmi scritti; di qui in poi i racconti scendono con sempre maggiore enfasi nel dettaglio dell’inermità e l’ottusaggine dei morti, “che chiedono, chiedono sempre”, e del parallelo orrore che i sedicenti vivi infliggono loro travisandoli, intrappolandoli nei loro ricordi, incontrandoli per caso nelle loro manovre di autoconservazione. Segue infatti il racconto La Vendetta di cui si è già detto, storia con focalizzazione multipla e ondivaga del suicidio di una ragazza, inutile perché la nemica madre lo interpreta col buon senso della sua propria bigia sopravvivenza (e dunque scambia il sentimento del suo fantasma con la paura dei ladri), e subito dopo il racconto di un’altra notte, La notte di Natale, dove Maria, viva, decide di vivere dormendo per incontrare continuamente nel sogno “lui”, un uomo più vecchio intrappolato nel suo amore, già morto, e stare insieme nel luogo in cui i vivi e i morti si incontrano, “smemorato e vaporoso, fatto di piccole cose futili, di figure intravviste con la coda dell’occhio”, luogo nel quale i vivi non possono niente, nemmeno “spostare una sedia”. Infine Maria muore (lo sappiamo dal fatto che “lui” la aspetta per la notte di natale ma “lei” non arriva, mentre il coro della gente glossa le res gestae della morta: era una mondana, conosceva persone importanti, o ancora, no: “era un’isolata, un’asociale”); e la morte in questo racconto non è una catabasi, ma, in linea col Landolfi padre lettore di Leopardi (Nasce l’uomo a fatica, in Viola di morte), un attraversamento, una nuova uscita dal grembo crudele della veglia che sinistramente coincide con lo scorrere della vita tutta verso la stretta della fine del respiro (“è uno spasimo, come quando un nuovo essere si strappa dalla viscere di chi lo ha generato […] un dissidio, un lacerazione; si crea una pervietà nella quale si è forzati a passare, con infinito dolore”). Dal Landolfi padre poeta Idolina Landolfi narratrice prende il “la” e va avanti, dice il seguito: lo strisciare di Maria, che vuole ricongiungersi a “lui”, tra una caverna e l’altra tentoni, l’incontro di “creature con ali brune” che vogliono ostacolarla, con la fanciulla muta che ha impresso in fronte il nome del suo pianeta natale, con luoghi ameni ricchi di fiori e colori dove torna nell’animo bambina e poi ancora l’ingresso in cunicoli bui come “budelli vivi” che la espellono; infine l’approdo in un oltretomba pagano, rovinante e parallelo, da bambina rifinita – timorosa della punizione della madre perché ha deturpato la vita con la morte –, nella “soffitta polverosa della sua casa, con le mura che si sgretolano e certe cavità in cui i piccioni depongono le loro piccole uova” e con “lui”, all’inizio del racconto “padrone di un regno inaudito”, che si mostra “diverso” dalle notti dell’incontro in sogno: stanco, “grande insetto intontito dal sonno”, spalanca le braccia e imbozzola Maria nella sua giacca-ragnatela. Un abbraccio sonnolento, smemorato, dentro una casa in rovina, è quello a cui punta una vita di dedizione e una fuga dentro la vita (o la morte, poco importa), e il narratore onnisciente e orientato rivendica la fatica e la velocità dell’impresa del ricongiungimento col tenero, tenebroso covo dell’uomo nero: “a volte accade, che si faccia più in fretta [a incontrare da morti i morti]; non paia superbia, ma dipende solo da noi”.

Da questa inerme eppur reclamata distinzione quanto a tenacia nel rapido ritorno all’oscuro, prendono il via per contrasto gli ultimi due racconti, Le cose e Nox aevi, che fronteggiano con insistenza e, si direbbe, anche con curiosità il mondo di esseri umani – lavoratori, vicini di casa, malati cronici – all’apparenza poco o per nulla inclini a commerci col mistero diffuso in ogni dove, come invece palesemente a volte appaiono le cose (“a volte, in condizioni di particolare gravità, gli oggetti fanno udire la propria voce. Avviene quando si compiono atti di tale perfidia o violenza da far rivoltare persino la sorda materia”) e gli animali. L’effetto di meraviglia non è attutito da questa ambientazione dimessa e atona, da questo sensibile aumento di voci narranti o commentanti volgari e sciatte, ma viene semmai fatto brillare all’incontro col vero e con la sua cognizione. Così che l’antico busto in terracotta di una donna morta cui il marito impazzito di dolore ha ucciso il figlio prima di chiedere a uno scultore di immortalarla per averla con sé per sempre, scoperto da due facchini-muratori che stanno sgomberandone la casa anni dopo dall’atroce fatto, può trasformarsi in furia davanti ai loro occhi perché aprano la finestra, facciano entrare la luce e le permettano di dissolversi in minuscoli frammenti, mentre ciò che resta del bambino morto, un pugno, rimane a terra, e viene sollevato dai facchini come ciottolo nero e irriconosciuto (“Lo sguardo della statua che avevano creduto assorto in una cara visione è invece scolvolto, perduto, e contiene una muta, fortissima richiesta d’aiuto; che giunge alle loro menti in un ululato, con l’angoscia dei secoli e l’infinito agognamento, la rabbia dell’impotenza. È la finestra sigillata ch’ella fissa, e sembra che l’interno del suo essere tenda a quel varco, a quella fuga”, Le cose). Allo stesso modo, il vicino di casa di una donna cieca e rapitore del suo cane-guida, nonché narratore dell’ultimo racconto, Nox aevi (fine del tempo, fine del mondo, o ancora: la notte della schiuma dei giorni), può domandare, ma solo perché sollecitato dal comportamento del labrador (che istintivamente abdica alla vita da cane padronale, apparentemente più libera, che il rapitore gli vorrebbe consentire – non per buon cuore, ma per proiezione di desiderio di affetto e di libertà –, e torna docilmente dalla sua padrona imperiosa, bisognosa, non vedente, dunque a suo modo notturna): “chi lo ripagherà della pura devozione che assai caro gli costa, del sacrificio della sua breve vita – tanto più breve della nostra? Non ha che questa, e per loro non esiste neppure il paradiso, affermano i preti. È gratuita effusione di sé, un dono gettato al vento… Ma, direte ancora, non è forse così per chiunque viva?”.

[1] Il titolo della recensione è tolto da I. Landolfi, Non mi destare, amore, raccolta di versi di Idolina Landolfi pubblicata postuma nel 2010 con i disegni di Giuseppe Salvatori (Il Bisonte, Firenze, 2010).

Abbasso l’avvenimento, viva Braudel (un programma su Radio 3)

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di Davide Orecchio

Per me (imho, si sarebbe scritto in un’altra epoca) tirare fuori una serie radiofonica su Fernand Braudel, di questi tempi, è un’idea non solo geniale ma molto utile. Lo sta facendo RadioTre su Pantheon, con una serie in quattro puntate (o podcast) ideata dalla Sisem – Società Italiana per la Storia dell’età moderna e curata dalla Commissione Comunicazione coordinata dalla storica Lisa Roscioni, che conduce anche in studio. Le puntate si ascoltano ogni domenica, dal 21 settembre, dalle 18.00 alle 18.30, e si riascoltano al link.

Il programma

Pantheon (leggo e parafraso dal sito della Sisem) è un viaggio nel tempo attraverso la vita e le opere di Braudel, lo storico che ha cambiato il nostro modo di guardare al passato: dalla prigionia durante la Seconda guerra mondiale fino alla grande avventura intellettuale de Il Mediterraneo e della trilogia Civiltà e capitalismo. Il progetto racconta un uomo che trasforma la storia in un orizzonte di “lunghe durate”, di spazi e tempi intrecciati. Italia, Mediterraneo, Europa e mondo diventano così un unico palcoscenico in una narrazione che intreccia biografia e scrittura, pensiero e vita, restituendo la forza visionaria di un grande maestro del Novecento. La prima puntata è già andata in onda. Il percorso proposto dalla trasmissione ripercorre i nodi centrali del pensiero braudeliano: l’elaborazione della nozione di tempi della storia, l’idea di lunga durata come chiave interpretativa delle trasformazioni sociali, il superamento della mera histoire événementielle, il dialogo tra storia e scienze sociali e il ruolo della scuola delle Annales.

Perché geniale e utile?

Beh, il superamento della storia evenemenziale, la messa in mora della dittatura dell’evento è sempre geniale. Se ci pensiamo, un’intera scuola storiografica, sotto la guida di Braudel, provò a frantumare il sedicente caposaldo della storia. Eresia pura. Ma quanto è utile e fondamentale oggi, per chiunque di noi, non solo gli storici di professione, riscoprire ed esercitare la critica dell’evento?, oggi che mai come in passato siamo sopraffatti da una piena di eventi e notizie (a volte false, a volte vere) che ci rincorrono anche quando non le cerchiamo, che ci appaiono sui nostri schermi digitali e SM, che ci torturano e immalinconiscono?

La risposta mi sembra scontata. Stiamo vivendo e morendo in un clima di guerra, di massacro, di dittatori e nuovi fascismi. Esercitare la disciplina della spiegazione, la ricerca delle cause profonde, non dimenticare che siamo immersi in una storia lunga non orfana di un futuro è una forma di emancipazione dalla schiavitù intrinsecamente politica della notizia (vera o falsa, sbandierata o occultata), oltre che dell’evento. Dal dominio della violenza e della guerra. È un’opportunità di essere liberi, non controllati. Immagino che autrici e curatrici di questo programma braudeliano lo abbiano pensato, scegliendo di comunicare ora proprio questo: uno storico e la sua lotta contro l’evento.

La rivolta di Braudel contro l’evento

Attraversiamo tempi di guerra e un tentativo in atto di genocidio a Gaza. Un intero sistema democratico, gli Stati Uniti d’America, collassa e si coagula attorno a un presidente dittatore. Forze neofasciste e post-fasciste avanzano nei principali Paesi europei. Eventi senza spiegazione? Emergenze senza ritegno?

Non è assolutamente casuale che, in Fernand Braudel, la rivolta contro l’evento fosse scoppiata durante la Seconda guerra mondiale.

Come spiega Lisa Roscioni in un passaggio della prima puntata (lo sintetizzo):

… Poi Braudel si arruola, scoppia la guerra, siamo nel 1939. Pochi mesi dopo, nel giugno del 1940, viene fatto prigioniero nei Vosgi, durante la drammatica ritirata dell’esercito francese incalzato dalle truppe naziste. Viene quindi deportato in Germania, a Lubecca, in un campo per prigionieri politici dove resta fino alla fine della guerra. (…) Il tenente Braudel trova il modo per reagire. Si mette a studiare, a leggere, a scrivere. “Ho bisogno di sognare una vita, un mondo migliore”, scrive alla moglie. Ma la guerra incalza. Le notizie filtrano attraverso le radio clandestine, attraverso i giornali, che naturalmente sono giornali tedeschi, giornali nemici. Alcune buone, come ad esempio lo sbarco americano in Normandia nel giugno del 1944. Alcune meno buone, se non drammatiche, che ogni volta angosciano e allontanano la possibilità, la speranza di un’imminente sconfitta tedesca. Lo scontro tra realtà e propaganda, tipico di una guerra, è molto forte. Proprio in quel momento Braudel ha una sorta di rivelazione. Di fatto concepisce un nuovo modo di guardare al passato.

“Tutti quegli avvenimenti – ricorda Braudel – che la radio e i giornali nemici ci scaricavano addosso, dovevo superarli, respingerli, negarli, dovevo gridare Abbasso l’avvenimento. Avevo bisogno di credere che la storia e il destino si scrivessero a un livello più profondo”.

È una svolta fondamentale.

È proprio quando la storia si fa più acuta, violenta, intollerabile che il ragionamento sulla storia fa (è costretto a fare) un salto di qualità, mosso da uno sforzo esistenziale di comprensione del mondo. Penso che questo programma ce lo voglia spiegare.

Manomissione – il nuovo romanzo di Domenico Conoscenti

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 Manomissione (Il ramo e la foglia, 2025)

Cap.  28° – In un dopopranzo d’estate, che estate non è

Preso dai pensieri che mi pulsano per la testa, non mi sono accorto di essere arrivato sotto casa. Infilo la chiave nella toppa del portone. Faccio le scale di casa mia. Apro la porta di casa mia. Entro, richiudo e accendo le luci. Ma è davvero casa mia? È la mia, almeno dovrebbe, ma è come se non lo fosse veramente. Potrei mettermi a osservare questi spazi come una telecamera che scorre lenta, e cercare di ricordare se le cose presenti coincidano con quelle che la mia memoria ha conservato: posizione, forma, dimensioni, colore… Forse Certuni hanno creato una copia quasi esatta di casa per farmi confessare qualcosa che (ancora) non so o farmi impazzire perché invece, senza saperlo, so troppo. Oppure Qualcosa cerca di nascondere, sotto l’apparente continuità del reale, un cambiamento già in corso, in modo che io possa accorgermene solo quando non potrò più fare nulla per impedirlo e nemmeno fuggire, e a quel punto dovrà eliminarmi o inserirmi nell’ingranaggio creato per i suoi scopi malvagi. Quello però che penso in questo istante, in questa casa che dovrebbe essere casa mia, è che tutte le cose (intendo gli oggetti, le pareti, i mobili, la macchina da scrivere, il pavimento, il soffitto, le lampade e le sedie e le stoviglie e i libri e il letto e il divano e gli interruttori e insomma tutte le cose tutte) mi stanno osservando per vedere se è la stessa persona, lo stesso io, anziché un intruso, identico solo in apparenza, quello che è appena entrato.

Fa caldo, tanto per cambiare. Un’umidità greve ristagna per le stanze. Ho un subitaneo accenno di vertigine che però ritorna sui propri passi. Ogni tanto si ripresenta, con lo stesso andamento elastico, ma più a lungo e sempre più simile a un malessere vago e deciso allo stesso tempo. Sento affiorare alla pelle la pellicola di sudore. Socchiudo le finestre, mi butto supino sul letto.

Sdraiato, in mutande, chiudo gli occhi e sullo schermo interno delle palpebre proietto la figura di Gaetano. Gaetano d’estate, dopo pranzo, sdraiato in mutande sul letto, con gli occhi chiusi ma sveglio. Si accosta al mio fianco, poggio le labbra sul suo collo, le nostre mani percorrono i corpi che si vanno assestando in maniera che il mio onori la santa consuetudine delle sue terga… Immagini remote, distanti anni luce, come un filmino amatoriale sgranato, con macchie e qualche salto. Non è questo Gaetano a mancarmi. Perduta col tempo la sua santità, quella consuetudine si era trasformata in sequenze sempre più cupe dov’era evidente infine che quei due non erano più né io né lui, ma controfigure svogliate. Non è questo il Gaetano che mi manca. Non mi mancava negli ultimi anni, quando tutte le notti dormivamo ciascuno nella propria stanza. Mi manca l’intimità domestica e la condivisione delle consuetudini che so che non raggiungerò con nessun altro. Lui che cucina e lascia a me i piatti da lavare, lui che mi dice di sua madre che confonde sempre più i tempi e le persone, lui che ascolta e assorbe le mie insofferenze sul lavoro, che per un po’ mi fa compagnia sul divano mentre guardo un film e poi se ne va a leggere o a telefonare, che si muove per casa prendendo la biancheria da mettere in lavatrice o che sbriga le sue incombenze senza per forza parlare o ascoltare, che non vuole prendere le medicine che gli passo quando sta male, lui che mi fa leggere quello che va scrivendo… Gaetano che semplicemente c’è, c’è ed è con me, anche se non siamo insieme nello stesso posto e nello stesso momento e lui è nella sua stanza o in giro con un amico o è in un’altra città, c’è anche se non facciamo l’amore da tanto tempo e scambiamo frasi sul mondo di fuori ma non più su di noi, noi come persone distinte, noi come coppia e oramai i silenzi sono più profondi e complici e intensi di quello che ci diciamo sulle bollette che stanno per scadere o sui film da vedere o sui racconti letti, immaginati e da scrivere o sui figli, se mai avessimo potuto adottarne…

Sdraiato in mutande sul letto, con gli occhi chiusi ma sveglio, in un dopopranzo d’estate che estate non è, da qualche parte, in un nastro temporale differente Gaetano sta in questo momento aspettando che la mano dell’uomo accanto a lui si poggi sulla sua coscia e resti lì ferma, come un tempo la mia. Vuole accertarsi che il proprio desiderio coincida con quello dell’altro, un desiderio composito, di ombre mutevoli e non tutte condivise allo stesso modo o nello stesso momento, come è il desiderio fra due che si amano. Quell’uomo non sono io. E questo pensiero mi disturba, certo, ma è indolente, è fiacco l’impulso di avventarmi su quell’estraneo, di insultarlo, di scaraventarlo con violenza fuori e mettermi al suo posto accanto al mio Gaetano. Potrei accettare la possibilità di lui insieme a un altro, ma senza vedere quest’altro né conoscerlo meno che mai, se non, forse, a distanza. Potrei accettare perfino di sentirgliene parlare, ammesso che voglia farlo, purché Gaetano ritorni e ci sia, sia il mio compagno, mia madre, mio figlio, il mio ex, il mio complice e amico e consorte. Purché ci sia, anche quando non è in casa o in città o è con quell’altro, purché accetti di esserci nella vita che mi resta, che ci resta da vivere, come due maturi e poi vecchi coniugi o ex coniugi che sanno di potere contare solo su quel partner, perché senza di lui rimaniamo privi della nostra interezza anche se non facciamo più l’amore da tanto tempo né condividiamo più tante altre cose, perché quella è l’unica persona rimasta che ci conosce e ci ha amato e voluto bene e con la quale non è necessario discutere o stare a spiegare le fisime, i rimpianti, i malesseri, le rabbie, i dolori del corpo e gli altri più oscuri.

Sdraiato in mutande sul letto, con gli occhi chiusi ma sveglio, in un dopopranzo d’estate che estate non è ma è come se lo fosse, da qualche parte, in qualche dimensione irreale o reale, da solo o con un altro, se pensa a noi due, Gaetano continua a sentire intollerabile quel nostro rapporto di affetto smisurato e complicità e sostegno infinito e cura, da tempo però amputato del richiamo imprevedibile dei corpi, quel rapporto che, dopo gli anni luminosi della scoperta e del reciproco adattarsi all’altro, aveva conosciuto un graduale diradarsi dei momenti di gioia, sia i nostri, di coppia, che quelli vissuti insieme agli amici, e a nulla erano valsi i suoi tentativi di coinvolgermi per tentare di leggere quanto ci stava accadendo. Forse banalmente ci stava accadendo quello che accade a tutte le coppie immerse nel flusso del tempo. Gaetano però si è sentito lasciato da solo, quasi tradito, nel suo tentativo di opporvisi, frenarlo. E ad un certo momento le mie ragioni, le mie colpe, le mie responsabilità, ma anche le sue colpe secondo me, le sue responsabilità ho iniziato a tenermele dentro, soprattutto l’insofferenza a vederlo ostinarsi in un modo di stare insieme che per lui rimaneva il paradiso perduto, sebbene ci avesse rivelato pure nelle nostre immancabili ombre, nelle nostre durezze e nelle disillusioni. Un silenzio opaco aveva preso a dilagarmi dentro, una paura istintiva priva di spiragli, un dolore vischioso come pece. Forse era rabbia per le sue tacite accuse, forse orgoglio, sì, forse soprattutto fastidio per il suo bisogno di trasformare sempre in spiegazioni, in parole quello che stavamo vivendo, per il suo non accettare e basta senza dovere capire a qualsiasi costo perché non si può capire ogni cosa, rifiutandosi al tempo stesso di ricordare che tutto cambia, al di là della nostra volontà, ci piaccia o no, che l’impermanenza era, è la regola ferrea del mondo sensibile secondo i suoi sapienti buddisti, i quali infatti ci ammoniscono a essere preparati in ogni istante a dire addio ai giorni felici, che abbiano un corrispettivo nella realtà esterna o pulsino solo come miraggi della mente. Alla fin fine era sfiducia nella sua capacità di uscire da sé per comprendermi veramente e comprendere in particolare che anche lui, anche noi eravamo immersi nel flusso rapinoso del tempo. Ma nemmeno adesso, forse, se mai mi chiedesse di parlare, di dire cosa sentissi o pensassi – aveva finito per adeguarsi al mio silenzio, le mie colate di pece avevano raggiunto anche lui – nemmeno adesso penso che potrei dirgli qualcosa. Non a lui. È già difficile pensarlo a voce alta, dirmi tutto fino in fondo, farci i conti con questa rabbia e questa paura abbarbicate e tossiche.

Sdraiato in mutande sul letto, con gli occhi chiusi ma sveglio, in un dopopranzo d’estate che estate non è, o forse sì, in qualche dimensione diversamente reale Gaetano si è rifugiato da qualche parte, scampato al pestaggio brutale dei poliziotti, e scappato da questo nostro rapporto in cui per anni si è sentito morire ogni giorno un poco, fino a quando si è convinto, dopo il fallimento dei suoi tentativi contrari a ogni evidenza, che nulla oramai sarebbe cambiato, e meno che mai tornato come prima. Sembrava che dopo un periodo teso e scontroso, Gaetano avesse accettato lo stato delle cose, vedevo in lui istanti di confidenza e di affetto, che non erano mai mancati, ma ora sotto una luce nuova, più serena. Eravamo tornati a stare bene insieme, certo, in maniera diversa e con ancora più spazi vissuti autonomamente. Avevamo superato il giro di boa. Ma dentro di me sapevo che era quello che avrei voluto io. Dal suo punto di vista era una realtà vera, sì, quel rapporto così solido e tutto nostro che non era mai cessato malgrado tutto, ma era vero altrettanto lo spazio rimasto desolatamente muto alle sue aspettative di un cambiamento, uno solo: l’apertura a condividere ancora momenti di gioia. E la speranza, si dice, è insonne, la rassegnazione è quiete.

In mutande sul letto, forse sullo schermo interno delle sue palpebre Gaetano ogni tanto proietta la mia immagine, come sto facendo io con la sua, ignoro se riproducendo spezzoni d’archivio o sperimentando variazioni inedite o altre del tutto improbabili. Posso dire con certezza in questo momento che vorrei che Gaetano esistesse in qualche realtà, sdraiato su un letto, con gli occhi chiusi ma sveglio, scampato alla brutalità degli agenti. Posso dire che preferirei anche saperlo fuggito dal nostro rapporto, purché vivo e guarito, intanto nel corpo. Mi piacerebbe dire infine che vorrei rivederlo, incontrarlo in questa o in un’altra dimensione, e sarebbe la verità, nient’altro che la verità. Ma non ora. Non ancora, almeno per me che parlo qui adesso.


Domenico Conoscenti (Palermo, 1958) ha insegnato in una casa di reclusione e, in seguito, negli istituti superiori. Ha pubblicato: Qui nessuno dice niente. Un anno di scuola tra i carcerati, Marietti, 1991 (Il Palindromo, 2021); il romanzo La stanza dei lumini rossi, Edizioni e/o, 1997 (Il Palindromo, 2015), edito in tedesco da Berlin Verlag, 1999; la raccolta di racconti Quando mi apparve amore, Mesogea, 2016; il saggio ‘I Neoplatonici’ di Luigi Settembrini. Gli amori maschili nel racconto e nella traduzione di un patriota risorgimentale, Mimesis, 2019; Intimo Paradiso, trenta poesie, con trenta foto in b/n di Angelo Di Garbo, Edizioni del laboratorio poetico di Palermo, 2022.

Da “Campagne”

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di Giancarlo Busso

 

4

La bealera dove fiorivano le nebbie dei campi, dove tutto divorava tutto, nel muoversi degli insetti, nel saltare di anfibi, nel passaggio della libellula saettante a rasoio a salire, per scovare vite libere a danzare. Nel difendere separando con la spada ciò che si consigliava essere il bene e il male, così si allontana la morte dalla sorte, ma la lama immersa nell’acqua si piegava, imprecisa e deforme, ora nel disfarsi in domande, ora nel riflesso di un viso stanco. A pochi passi si udiva un respiro profondo in ciò che si poteva attraversare, fin dentro un gorgoglìo di acque accovacciate alla terra. Pace minacciosa, nauseavi fino a lasciare storditi, nelle ossa, nei corpi, nella ragione persa dentro la follia precisa, inestricabile, della tiepida natura che ci camminava accanto. Dove andava la strada? Come una ragnatela catturava le nostre apparizioni in un tempo limitato dal sistema, nel raggiungere lavori inutili, in una melodia estiva che si faceva sottofondo al rumore delle macchine.

*

5

Il fosso dove i salici fanno ceste, oppure vimine per le belve. Strapparsi questo pezzo di carne. Essere solo peste, imbratto, orribilmente arroganti. Non c’era attesa che non poteva essere rispettata, chi veniva con gli occhi come lune. Dove sei? Non trovo giustificazione al rimanere qui. Non c’era in tutta questa attesa altro motivo. Non si era detto niente se non silenzi fermi. Partecipare a un lungo ritrovarsi in proprietà private, ormai vuote. Essere sepolti nel proprio egoismo. Essere improvvisamente insofferenti, ma servili. Il verbo è ancora attendere, ma già si annuncia l’assenza. Camminare in una direzione, forse, ha senso?

*

7

C’è il motore potente, deve essere il più potente, deve avere forza. Si possono fare giornate di terra in poco tempo, non esiste che non si abbia un. Il trattore è tutto quello che ti chiedono per poter essere, deve essere grande, con grandi gomme, la terra non deve fare paura, la terra deve fare la terra. È il trattore che traina il carro, dentro il raccolto, bisogna raccogliere, raccogliere il sudore che si è seminato, bisogna saper condurre, bisogna far rendere. L’aratro solca, scava, incide, penetra, fa spazio al seme, lo spinge. L’acqua che si è presa nei pozzi, profondi, sempre più profondi, fa germinare il seme. Il seme è vita, non c’è vita senza semina. Non c’è guadagno senza un buon raccolto. Lo sforzo è massimo, il trattore ti aiuta, amplia i tuoi progetti, il trattore è sulla statale, è enorme. Le auto sono piccole, lo superano e fuggono via, il trattore domina ovunque. Il trattore espone la sua motrice, può spostare interi fienili, intere stalle, intere cascine, intere trattorie. Il trattore è l’unica ragione per cui si ara ancora questa tavola di sale.

*

8

Il sismografo è lo strumento di misura, viene utilizzato per registrare i fenomeni sismici. Gli uomini e i vermi si muovono rigirando la terra, alcuni hanno diversi occhi e si completano da soli. Nessuno percepisce la necessità di essere diverso da un uomo e nessuno da un verme, rimangono in simbiosi o dentro la terra o fuori di essa. Il sismografo consente una rappresentazione grafica del sisma. Quindi miliardi di uomini e miliardi di vermi si possono muovere con movimenti sincroni anche nel lungo periodo, spostando intere campagne, intere città, interi continenti, creando vibrazioni sempre più intense, ma non percettibili ai più. Una stazione sismografica è l’insieme di strumentazioni adatte a misurare lo spostamento, la velocità o l’accelerazione del suolo. I vermi e gli uomini raggiungono infine lo stesso obiettivo, la terra potrebbe essere maggiormente scossa o maggiormente ferma, ma mai del tutto priva di movimento.

*

9

L’irroratrice a trattore sparge gli anticrittogamici, sparge il frutteto in una fitta nebbia nodulare. Dotata di cisterna principale a svuotamento totale, emette un sibilo leggero di avvertimento. Da lontano il puzzo è nauseante, potrebbe uccidere se respirato con dovuta frequenza, mangiato con dovuta frequenza, espulso con dovuta frequenza. Tra filari infiniti, labirinti da cui voler uscire e prendere respiro, strisciare via, in km di frutta polposa, forare, scavare, raggiungere il nocciolo, provvedere alla fissione.

*

12

Non c’era più niente che potevamo fare, il nostro sogno era partito, lontano da noi quanto noi da lui.

La terra era un fumetto, disegnato come un fumetto, dentro c’erano anche Dylan Dog e Pippo, un po’ di

veleno, un cancello enorme, forse un portacenere.

Non era per niente sicuro che avremmo ancora avuto il coraggio di scavare qui dentro, come

dentro il ventre della madre, che non aveva più un ventre, era un profondo stratificarsi di coloranti per

ogni sezione, strati fusi di plastiche che si erano abbattuti sulla terra come meteoriti, ma noi

eravamo ancora qui ad interrogarci sulla sua fertilità. La madre ha generato un alieno, un essere in

grado di cibarsi di solo dolore, un immenso moloch che ci osserva mentre lo sterro riprende.

*

14

L’indirizzo era sbagliato, era sbagliato ogni intervento che potesse modificarne il percorso. Attraverso i ponti si raggiungeva il centro abbandonato, ogni strada portava a un’altra strada, i negozi erano chiusi, al posto dei commercianti grandi foto appese alle vetrine spente raccontavano di un tempo di luci, di chiacchiere mattutine, di compere per i pasti giornalieri, ora insegne sbiadite, ora supermercati aperti 24h su 24h in altre periferie. Tutto era precisamente posto in un angolo della pianura, una gran voglia di volare di rondini, persone, macchinari agricoli, verso una migrazione nelle nubi prima del temporale. Pioveva già percolato dentro i secchielli in cortili di pietra sconnessi, nessuno ritornava qui per evitare di uscirne in un luogo impreciso, all’indirizzo sbagliato oppure il navigatore

*

 

31

Ci siamo incontrati in un terreno fuori città, tra mura di discariche, bastioni di ripetitori, il verde in appalto, ci dicono di sbrigarci perché il giorno passerà sopra le povere cose. Deriva da questo, nel testo, una sensazione di improvvisa nausea. Il refrattario modo di fare scrolling, il biasimo continuo di non essere stati annunciati, il riflesso delle nostre ombre nelle pozze. Il costo medio di un loculo, il recupero coattivo per il mancato pagamento, la richiesta di una dilazione. Il rimanere prossimo all’ossario mentre si edifica una cappella di famiglia, in cemento, in marmo, oppure prefabbricata, la soluzione più economica (diritti di segreteria e costi dell’operazione inclusi). La cripta degli dèi, le piramidi, il mausoleo, la necropoli, la tomba a camera ipogea, la tomba alla cappuccina, la tomba a cassone, la tomba a dado, la tomba a edicola, la tomba a fossa, la tomba a grotticella, la tomba a thοlos, il totem di Freud, la teca prima e dopo, l’annaffiatoio di plastica verde rotto, i fiori finti, i fiori appassiti, l’odore acre, la colonna di formiche, il cercare un nome amico,

*

Testi tratti da: Giancarlo Busso, Campagne, prefazione di Marco Giovenale, Fallone editore, 2025.

➨ AzioneAtzeni – Discanto Quarto: Alberto Masala

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Discanto quarto*

    acqua, i miei piedi non hanno incontrato città senz’acqua; senz’acqua negli occhi, senza profumi d’acqua, non potrei vivere? da una fuga di Sergio Atzeni (nella raccolta Versus)    

Noi siamo l’acqua

di Alberto Masala

a Sergio Atzeni

          noi siamo l’acqua
          dei fiumi sognati dall’oceano

Da quando siamo entrati in questo mare
dove le onde sono solo di calore
e ognuna ci debilita lo sguardo
con fragili alluvioni di miraggi
investendoci il cuore
(il mio è di carne fino a prova contraria)
dove scorrono immagini recenti
- come la mano tua sul tavolo di un bar
(volevo solo un buon caffè - zucchero uno) - per godere
delle cose che accadono innocenti

Innocenti…
siamo completamente umani tuttavia
e sempre di ritorno	mutazioni
mentre veloce si prepara per noi la successiva
scena offuscata di macchie	calpestata
da poeti annoiati	coltivando
narcisi	mutilati	dalla loro tristezza
e ho vissuto anche lì ma non mi trovo.

Dunque poesia prosegui
fin dove si confonde l’orizzonte
non sprecare proiettili
dillo ai tuoi mostri
noi non siamo civili
io non proteggo il senso
non mi guardo alle spalle
non ce la faccio
a trasportare la tua tranquillità
le tue celebrazioni	i tuoi rituali...

inoltre	non fa per me 
l’armatura cattolica pesante
mi ferma il canto
rallenta i movimenti
non posso sopportare anche il tuo dio 
che piange sterminando
per dare un senso alla sua perfezione.

E tu che mi volevi compiacente
complice	compromesso	compatibile
(da compatire intendo)
compagno di passione per la luce
ma la tua è artificiale
con gli effetti speciali	creati dal peccato
con fiamme e tutto il resto
sostenuto dall’anima che brucia
nel suo solito inferno di realtà
sempre al momento giusto.
 
          mi sono fatto voce per portare
          questa sobria bestemmia

Cancellami
restituiscimi il nome
che ti hanno consegnato
conficcato nell’anima
scritta sopra il mio corpo.

Ma se ora	lo scrivessero il mio corpo
però a chi importa (forse nemmeno a me)
se aveva voce o tace trascinando
anagrafici errori di percorso
comunque - se lo fanno - che ne scrivano il vuoto
soltanto il vuoto
che abbandono vivente a ogni sequenza.


          poeta è un adattarsi
          persino all’aria fresca


Cosa dirai di me dopo che tutti i mutamenti
mi avranno riempito di difetti
feroci strati di egoismo
utili a far cadere la saggezza
che strappano con urti all'abitudine
lancinanti brandelli della vita	          infastidita
da ogni scricchiolio della certezza.

Ecco - vedi - è la vita	   non ancora pagata
che partorisce incauti verbi	da
un pozzo	non ancora bevuto.

Così la lingua costruisce
l’astrazione insensata 
così la gioia è urgente 
ma solo dove sogno
e così non ci siamo risparmiati
abbiamo attraversato senza colpa
ogni accenno vitale	       ogni dettaglio
che voleva calore	    incognite	       futuro 
in una dipendenza da domande.

Ogni domanda
ci aspetta nella voce che la porta
o sogna di fuggire	vagando in territori
che ancora vogliamo costruire

e ogni volta vuol essere inseguita.
 
E dunque eccomi qui
privilegiato proprietario
di un senso che si sta prosciugando in babilonia
mia madre mia alleata mia sorella
di babilonia ne porto intatto il nome
e le sacre ascendenze
e conseguenze.

             - e tep’andhare?
             - sempre
             - ke-i sa colóra?
             - ke-i sa colóra... keppáre a sa colóra

Proprio come il serpente
anche noi ci muoviamo orizzontali
e ne resta la traccia nel silenzio.


            dunque perché vogliamo mare?


In fondo il lavoro del mare
definisce la nostra solitudine
è ostinato	  incessante	      il suo lavoro
è quello di bagnare gli orizzonti
di farli luminosi per il cielo
mentre risacca sponde
dove prevale lo sgretolamento
insicure	   precarie	      come noi 
generazioni di verità invecchiate
e ne rivendichiamo i corpi
rocciosi erosi e frantumati.

Non ho nessuna predisposizione
non conosco la sponda	e se tornassi
non riconoscerei da dove son partito.

cerco poesie  che siano bocca e braccia
e che le braccia cerchino poesia

Questa domanda
che a volte la bellezza riconosce
che abbiamo provato ad abbracciare 
che	    quando ci appare nuda
noi l’aiutiamo a scegliere i vestiti
quest’ombra
che non è stata corpo
che se lo fosse stata	      ora ne è solo spettro
questa domanda
che non domanda	                 urla
che non avrà mai nome	             consistenza	carne 
è morta	           o forse
ne possediamo scarse informazioni.
 
Dicono che il suo spettro
ogni tanto s’aggiri per l’europa
si dice di un pugno di superstiti
che ancora cercano speranze.

Abbiamo un conto aperto e vogliamo saldarlo
e mi commuove ancora l’internazionale


        a volte è la corrente che ci chiama
        a sostenere il fiume

* pubblicata in: – HORTUS MUSICUS. anno VI, N. 23. Luglio – Settembre 2005. – TABARD. Anno I, n.1. gennaio 2006. – Alfabeto di strade (ed altre vite) – il Maestrale 2009 – (2° ed. 2011) – Alphabet of streets – CC. Marimbo, Berkeley, CA, 2016 – Translated by Jonathan Richman. Edited by Jack Hirschman. qui la versione in inglese

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.

*

Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

Si può seguire il PODCAST su:

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MICAHEL MAIER [1568?-1622] dal trattato di Alchimia ATALANTA FUGIENS [1617]

di Greta Bienati

Mastro Giacomo Albini, medico di prìncipi ed estrattore di quintessenza, nacque in Moncalieri, cinquant’anni prima della Grande Peste, in cui scomparve senza lasciare traccia. Della sua vita, le pergamene raccontano le guarigioni e i viaggi, come andò ambasciatore e quante volte passò le Alpi al Moncenisio e al San Bernardo. Conservano persino le sue ricette, di medicina e di arte alchemica, con tanto di ritratto e di schema della fornace con cui distillare la pietra dei filosofi. Ma nulla è rimasto sulla sua morte, nemmeno un testamento, sebbene molti beni avesse da spartire tra i figlioli. Nulla, se non una storia oscura, col colore e l’odore dell’inferno.

Non è sicuro dove avesse appreso l’arte del polso del Filareto e quella delle urine di Teofilo Protospatario, né dove avesse mandato a memoria i Tegni di Galeno e gli aforismi del divino Ippocrate. Forse fu a Vercelli, prima che la concorrenza di Pavia ne soffocasse l’università, o forse si spinse fino a Montpelhièr, soffrendo la nostalgia del suo Piemonte. Quel che è certo, è che tornò in Moncalieri ricco di libri e di esperienza sugli umori, sulla natura dell’aria e sull’arte dei semplici.

Mastro Albini curava alla maniera dei filosofi arabi: con i vini odoriferi e l’ambra grigia, il fior di zolfo e l’osso del cuore di cervo, la scorza di cedro e la teriaca. E curava così bene che la sua fama arrivò fino a Pinerolo, alla corte del principe di Acaia.

«Ho dolore qui e qui» gli disse il principe con una smorfia.

Mastro Albini lesse il colore della pelle, il ritmo del polso, il sapore delle urine. Poi prescrisse un medicamento che guarì il principe così bene da fargli avere dieci tornesi grossi e la cieca fiducia del nobiluomo. Tanto che, quando il principe decise di inviare alla corte di Savoia il figlio Giacomo, ancora bambino, per prima cosa fece chiamare il giovane medico.

«Sarete i miei occhi e le mie orecchie» disse il principe. «E il custode di mio figlio».

Mastro Albini fece un profondo inchino d’obbedienza, e partì con i suoi libri per Ciamberì, al seguito del giovane Giacomo.

Alla corte di Savoia, però, non si limitò a osservare, ascoltare e vigilare. La contessa Violante, venuta dal Monferrato, aveva complessione delicata, e le ravvicinate gravidanze l’avevano resa debole come un passerotto. Mastro Albini proibì fatiche e bagni freddi, e prescrisse pasti lievi di uova fresche e pane di frumento. I benefici furono grandi, tanto che mastro Albini ebbe in dono dal conte una veste a tre guarnimenti, foderata di pelliccia di scoiattolo. Di lì a poco, però, una nuova gravidanza arrivò a rimescolare gli umori della contessa. Nove lune erano ormai trascorse quando, una mattina di dicembre, madama Violante disse di vedere davanti a sé uno scintillare di stelle.

«È giorno, mia signora» sorrise una dama del seguito, e la contessa sembrò confondersi.

Mastro Albini aggrottò la fronte e si fece portare il pitale: le urine nere gli levarono il colore dalle guance. Fece sedere la contessa, che continuava a guardare davanti a sé come chi non vede, e le tastò il polso con il cuore che tremava.

«Ci sarete al parto, mastro Albini?» chiese la contessa, e mastro Albini fece segno di sì con la testa, senza guardarla negli occhi. Ordinò che la facessero sdraiare, e andò con passo pesante dal conte.

«È bene che madama Violante faccia testamento» disse.

Il pomeriggio stesso, con le labbra bianche e le dame in lacrime, la contessa dettava le sue volontà, dividendo i suoi beni tra i figli carissimi e quello che le sarebbe nato postumo, se mai fosse riuscito a sopravvivere. In un angolo della stanza, mastro Albini sentiva il cuore scuro: più che una diagnosi, gli pareva di aver fatto una maledizione.

A dargli il limite della sua scienza fu ancor di più un’altra tragedia, questa volta alla corte di Pinerolo. Il giovane principe Giacomo, a cui mastro Albini si era tanto affezionato, festeggiava in Ivrea le sue nozze con Beatrice d’Este, venuta da Ferrara carica di speranze e di fiorini d’oro. Banchetti e danze, vino e musicanti, quando, nel mezzo della festa, la sposa crolla a terra e, in pochi momenti, mastro Albini si ritrovò a chiuderle gli occhi.

Così, quando il principe Giacomo si maritò di nuovo, e madama Sibilla concepì l’erede, mastro Albini si premurò di mettere su carta precetti e precauzioni, perché un nuovo fulmine non abbattesse l’albero in fiore. E, nel frattempo, si applicò allo studio di quei filosofi di cui aveva sentito parlare al tempo dell’università, e che promettevano, al posto di mille rimedi, un solo elixir, capace di guarire ogni male e di regalare l’eterna giovinezza. Oro potabile, così lo chiamavano i libri, e raccontavano che depurava e scacciava gli umori superflui, preservando da ogni alterazione e da ogni morbo. A sentire mastro Raimondo, con quello non c’era più bisogno del ripugnante esame delle urine, né del fetore degli escrementi, né di tastare il polso: bastava somministrare il rimedio. E, con l’aiuto di Domineddio, il terzo giorno il malato sarebbe guarito da ogni infermità.

Nella sua casa di Moncalieri, mastro Albini approntò la fornace di mattoni, con la caldaia di rame e l’alambicco con le cinque ampolle, unite in un lungo becco, che occupava quasi tutta la stanza. I fogli d’oro non gli mancavano, per via dell’amicizia del principe e del conte, e per via degli incarichi che le sue abilità di medico e di oratore gli avevano guadagnato in Moncalieri. Né gli mancavano l’acume, la scienza e la fede nei libri, che gli avevano dato prestigio in età ancora verde e con la barba ancora bionda.

Per mesi pestò, amalgamò, calcinò; temperò il caldo e il freddo, alternò il secco e l’umido. Immerso nell’odor di aceto e di acquavite, leggeva e rileggeva le ricette di mastro Arnaldo il Catalano, vegliando sui vasi a forma di zucca dal collo allungato.

Finalmente, una mattina di settembre, con l’aiuto di Dio e forse anche del diavolo, le gocce color dello zafferano si condensarono nell’ultima ampolla. Ora restava da vedere se davvero valevano tutti rimedi di Galeno e di Avicenna messi insieme.

A sperimentare l’elixir dei filosofi fu per prima una serva, affetta da febbre quartana, che l’infuso di corteccia di salice non era valso a spegnere.

Quartana curatur in XII diebus, annotò mastro Albini, ché la guarigione completa era arrivata in dodici giorni. Vide in breve che ne bastavano sette per la febbre quotidiana, e tre per la terzana. Per natura temperato e luminoso, l’oro temperava gli umori e illuminava il cuore, portando la forza del sole nelle regioni vitali. Sottile e incorruttibile, distruggeva gli umori della lebbra e i fumi atrabiliari e tenebrosi del petto e della mente. Curioso di sperimentare su di sé l’elixir dell’eterna giovinezza, mastro Albini si avvide che l’oro dei filosofi faceva digerire il cibo, procurava la quiete nel tempo del sonno e, soprattutto, donava letizia al cuore.

La caldaia ribolliva e la fama di mastro Albini era al suo culmine, quando arrivò da Genova una nuova febbre, violenta e nera, come mai se n’erano viste prima. Poco prima di morirne per aver assistito senza posa i contagiati, mastro Gentile da Foligno aveva attribuito la causa a un soffio pestifero, dovuto a una congiunzione infausta di Giove, Saturno e Marte, che avrebbe richiamato aria nelle alte sfere, per poi riportarla sulla terra impregnata del morbo.

La primavera fredda e piovosa, di quelle che guastavano i frutti della terra e favorivano le epidemie, aveva fatto il resto, e ora la peste dilagava da Roma ad Avignone, da Venezia a Parigi. A migliaia morivano, nelle strade e nelle case, abbandonati per il terrore del contagio, oppure soli perché più nessun vivo era rimasto nel caseggiato. La morte arrivava improvvisa, come la falce sul fieno, e coglieva all’angolo di una via, oppure nel mezzo di una processione della Santa Vergine, a implorare la fine del castigo. Messer Giovanni Villani spirò sulle cronache che andava scrivendo, con la penna in mano e la frase rimasta a metà, a testimonianza della spaventosa rapidità con cui il morbo aveva svuotato Firenze. Nonostante la loro scienza, i medici morivano come gli altri, e quelli che non morivano, fuggivano in fretta e lontano. A meno che non fossero tanto avidi da mettere a repentaglio la propria vita, chiedendo cifre smisurate per entrare in casa dei malati.

Mastro Albini non fu tra i fuggitivi, non per avidità, dato che aveva abbastanza del suo da non dover giocare a dadi con la morte, quanto per fede profonda nella sua medicina color dello zafferano. Convocato d’urgenza dal principe d’Acaia, gli prescrisse il confinamento nel castello di Pinerolo e certe sue pillole di mirra e di aloè, che avevano sempre dato buona prova nelle pestilenze. Poi se ne partì per Moncalieri, dove lo aspettavano i suoi alambicchi, per distillare l’elixir miracoloso.

La via che portava da Pinerolo a Moncalieri appariva deserta e desolata, come desolati e deserti erano i campi che attraversava, con i coltivi abbandonati agli uccelli e i rami piegati sotto il peso dei frutti non raccolti. Lo sguardo poteva correre dalle montagne all’ultimo orizzonte della pianura senza incontrare anima viva, cristiano o animale che fosse, dato che il morbo non faceva differenza. Lontano, come un’isola nel mare dei prati, comparve il profilo del monastero di santa Maria del Buonluogo, e il pensiero di mastro Albini corse alla figlia Verdina, che lì s’era monacata già da qualche anno. La clausura l’avrebbe preservata dal contagio? O, almeno, dallo spettacolo di un’umanità senza più legge né misericordia, dove il morbo aveva allontanato il padre dal figliolo e il fratello dal fratello? Mastro Albini si passò la mano sugli occhi: a tratti, invidiava la povera contessa Violante e madama Beatrice, morte nel mondo di prima, che adesso sembrava ordinato e felice come il Paradiso.

«Fuori i soldi o sei morto!»

L’uomo era sbucato da un cespuglio, e gli si parava davanti con un coltellaccio in mano, a dimostrazione di quanto le strade si fossero fatte malsicure a qualunque ora del giorno.

Mastro Albini non era uomo da perdere il sangue freddo. Vide le guance nere e l’occhio spento e fece con facilità la sua diagnosi.

«Non te ne farai niente del mio denaro» disse. «Tempo due giorni e sarai sotto terra».

Il brigante non si fece impressionare: «Avrò comunque il tempo di ammazzarti e di spendermi tutto alla taverna».

Le labbra di mastro Albini si fecero pallide: «Sono medico. Se non mi ammazzi, posso salvarti la vita».

Il brigante scoppio in una risata d’inferno: li aveva ben visti i medici, con le loro pillole e le loro pozioni! L’unica prescrizione che sapevano dare era di correre a confessarsi, per poi crepare loro prima di tutti.

«E io non ho né voglia né tempo per confessare tutti i miei peccati» sogghignò.

Mastro Albini giocò l’ultima carta: «Non parlo delle medicine dei medici. Parlo della medicina dei filosofi: quella che si dà solo al papa e ai principi».

Il brigante si fece serio. Lo dicevano in ogni piazza che a morire era soprattutto la povera gente, e che principi e cardinali avevano medicine segrete, che guarivano la peste nello spazio di un’ora. E il medico davanti a lui, con la sua toga di lucchesino scarlatto e la sua barbetta a punta, aveva davvero l’aria di un medico di papi e di regine.

«E dov’è questa medicina?» aggrottò la fronte.

Mastro Albini puntò il dito in direzione di Moncalieri.

«A casa mia» rispose. «Saremo là prima di notte».

Il brigante strinse più forte il coltellaccio: «Al primo scherzo che tenti, ti porto con me all’inferno» promise.

Si incamminarono con passo svelto, nel silenzio della campagna. Un corvo rise alle loro spalle, e il brigante bestemmiò una maledizione.

Dritta e monotona, la strada tagliava la pianura come una cicatrice sbiancata dal tempo. Con la coda dell’occhio, mastro Albini badava a tenere la distanza che lo preservasse dal contagio. Il brigante, invece, si voltava ogni tre passi, timoroso che la morte gli fosse già addosso.

Finalmente, mentre il sole già declinava alle loro spalle, arrivarono là dove il Po curva, ai piedi del castello di Moncalieri.

«Dov’è casa tua?» ringhiò il brigante, con il fiato che si consumava a ogni momento.

Mastro Albini fece strada senza una parola fino al portone di un palazzo signorile, costruito con i tornesi grossi del principe e del conte.

«Siamo arrivati» annunciò.

Attraverso i corridoi ormai bui, mastro Albini guidò il suo compagno fino al laboratorio. Aprì la porta, e il brigante fece un salto indietro.

«È la casa del diavolo questa?» sbarrò gli occhi, ché la puzza di zolfo e la luce sinistra della fornace erano chiara roba d’inferno.

Con mano cauta, mastro Albini estrasse dall’ampolla qualche goccia di oro potabile, distillato allora allora dal lungo becco dell’alambicco, lo raccolse in un cucchiaio e lo porse al brigante.

«Poche ore, e sarai guarito» garantì.

Il brigante guardò torvo quell’olio rossiccio, ancora incerto se fosse meglio la medicina dei papi oppure il denaro da spendere alla taverna. Poi afferrò il cucchiaio, chiuse gli occhi, e trangugiò l’oro.

Pochi istanti, e il colore nerastro delle guance si accese di viola. E viola si fecero anche le dita, e le gambe e il corpo intero, come se i vasi sanguigni stessero scoppiando uno a uno. Mastro Albini osservava con la fronte aggrottata: probabilmente il male era ormai troppo avanzato, e il massimo equilibrio dell’oro e il massimo squilibrio del morbo venivano a guerra nel corpo del malato, provocando, anziché la guarigione, una fuga del sangue dall’organismo infetto.

A confermare la teoria di mastro Albini, il naso e le orecchie del brigante presero a sanguinare come nemmeno per un salasso di cento mignatte.

«Ladro! Ladro e assassino!» pianse il brigante, ché il medico lo aveva derubato dell’ultima sera di piacere. Con l’ultima vita afferrò il coltellaccio, e si avventò su mastro Albini, per portarselo dietro all’inferno.

«Fermo!» gridò il medico, cercando di salvare gli alambicchi. Ma già la lama gli apriva la carne, e il sangue si mischiava a quello fuggito dal corpo del brigante.

«Crepa!» urlò il brigante, e trascinò sul pavimento mastro Albini, la caldaia dal lungo becco e l’oro potabile venuto dall’inferno.

Dalla ferita, mastro Albini vide i propri visceri, identici a come li aveva sempre immaginati. La profondità del taglio gli disse che non avrebbe avuto il tempo per chiedere perdono per i propri peccati, ma solo per raccomandarsi alle intercessioni della sua Verdina, che, dal monastero, avrebbe certo pregato per la salvezza dell’anima sua.

Mastro Giacomo Albini da “De Sanitatis Custodia”

NOTA

Medico di corte dei principi di Savoia-Acaja e incaricato del comune di Moncalieri, Giacomo Albini morì al tempo della peste del 1348. Sulla base dei documenti disponibili, il racconto ricostruisce tutto quello che sappiamo di lui, e cerca proiettare la luce dell’immaginazione su quel che non sappiamo della sua misteriosa fine, avvenuta nell’ombra, senza lasciare traccia alcuna.

Bibliografia di riferimento:

Luciana Bona Quaglia, Sergio Tira, Guglielmo di Dia e Felice V antipapa: riflessioni sull’oro potabile, Relazione presentata al IV Convegno Nazionale di Storia e Fondamenti della Chimica (Venezia, 7-9 novembre 1991)

Giovanni Carbonelli, II “De sanitatis custodia” di Maestro Giacomo Albini di Moncalieri, con altri documenti sulla storia della medicina negli stati sabaudi nei secoli XIV e XV (Biblioteca della Società storica subalpina vol. 35, Pinerolo 1906)

Giovanni Carbonelli, Magister Jacobus Albinus de Montecalario (Atti della Società di archeologia, Torino, 1905)

Chiara Crisciani, Oro potabile fra alchimia e medicina: due testi in tempo di peste, Relazione presentata al VII Convegno Nazionale di Storia e Fondamenti della Chimica (L’Aquila, 8-11 ottobre 1997)

Karl Sudhofif, Eine Herstellungsanweisung fiir “Aurum potabile” und “Quinta essentia” von dem herzoglichen Leibarzte Albini di Moncalieri (Archiv fiir Geschichte der Naturwissenschaften 5, 1914)

Benedetto Trompeo, Dei medici e degli archiatri dei principi della R. Casa di Savoia, Torino, 1858

La doppia vita di «Ancestrale» di Goliarda Sapienza

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di Antonella Cilento

C’è sempre un certo fascino e uno scandalo postumo nel constatare la sfortuna in vita degli autori e delle autrici. Facile indignarsi per il mancato riconoscimento di chi non è nostro contemporaneo, come se lettrici e lettori godessero di un’intelligenza superiore a giochi fatti: ma quando la sfortuna in vita di un certo libro o dell’intera opera di chi scrive ci è contemporanea, allora c’è il tempo di accorgersi dei meccanismi sottili, o plateali, che causano quell’invisibilità. A chi oggi legge, consacrato dall’editoria e da altri media, il lavoro poderoso di Goliarda Sapienza, certo non può sembrar vero – o importante – che per ciascun suo libro e per ogni giorno della sua vita qualcosa e qualcuno sia venuto meno.

Ortese e Sapienza: autrici da difendere oltre il tempo

Penso a quando, ormai una quindicina d’anni fa, mi trovai a organizzare un grande evento che includeva una mostra di carte inedite di Anna Maria Ortese e mi sentii dire da persone che l’avevano conosciuta che era una donna discutibile, una profittatrice: occorreva ancora difendere l’autorevolezza assoluta della scrittura di Ortese, dalla quale in tante e tanti discendiamo, quasi vent’anni dopo la sua morte e a distanza di oltre sessanta dall’uscita, ai tempi scandalosa, de Il mare non bagna Napoli.

Così mi pare accada anche per Goliarda Sapienza, che le nuove generazioni hanno l’opportunità di leggere in maniera decisamente meno clandestina di come si poteva agli inizi del millennio e per di più tradotta in tutto il mondo e in opere visive ispirate ai suoi romanzi, dalla serie tv Sky dedicata a L’arte della gioia, romanzo postumo e capolavoro di Sapienza, per la regia di Valeria Golino, al film di Mario Martone, Fuori, dove Goliarda è interpretata da Valeria Golino e che muove i suoi passi da L’università di Rebibbia, romanzo uscito nel 1983, racconto dell’esperienza carceraria che coinvolse l’autrice.

In questi giorni, sull’onda di un successo rinnovato di cui ripercorriamo insieme le tappe fra un istante, esce anche Ancestrale, opera in versi di Sapienza, per i tipi di Einaudi. Ma come spesso accade alle scrittrici, e a volte agli scrittori (ma alle donne segnatamente), la storia dell’edizione è multipla, perché la scoperta di Goliarda poeta era già accaduta, con la prima edizione di Ancestrale, tutt’ora in commercio, uscita nel 2013 per i tipi de La Vita Felice.

Dopo la carestia editoriale vissuta da Sapienza nel corso della sua vita, l’estromissione, subita e poi volontaria, dall’ambiente intellettuale cui pure apparteneva, dopo le fatiche di Sisifo che il marito, Angelo Pellegrino, ha compiuto perché i suoi libri venissero alla luce, ecco che una faglia si è aperta e ne sgorgano, dunque, edizioni plurime. Per onor del vero e risistemazione storica anche del considerevole apparato critico che ora accompagna l’opera di Sapienza, val la pena ripercorrere, perciò, alcune tappe.

Oblio editoriale e riscatto postumo

A volte, e sempre più, accanto all’opera delle donne sono necessarie altre donne: lo racconta proprio Angelo Pellegrino riguardo a L’arte della gioia, che dopo infiniti rifiuti, rimase a giacere nella cassa dei manoscritti di Goliarda nella casa dove i coniugi avevano vissuto, fino a che il marito non pubblicò il libro una prima volta a sue spese. Un libro destinato a non muoversi dagli scaffali, tirato in poche copie, che però, arrivato tramite due agenti, in mani francesi e tedesche, fu riconosciuto da traduttrici e editrici come il capolavoro (parola che oggi si spende un po’ troppo, abitiamo nell’outlet dei capolavori, ma per L’arte della gioia è parola ben spesa) che è.

Quando Goliarda muore nel 1996 a 72 anni (Ortese morirà nel 1998 a 84, salvata dalle tempeste editoriali da Adelphi) neanche i suoi rari libri editi sono reperibili: scompare dimenticata, accompagnata da una ormai lontanissima eco dello scandalo del carcere e della lotta compiuta per le carcerate. Finito di scrivere nel 1976, nel 1998 esce per Stampa Alternativa L’arte della gioia, che lo ripropone nel 2006 con un’edizione corredata di album fotografico, mentre il romanzo si avvia alla fortuna estera che precede significativamente quella italiana. Nel 2008 esce da Einaudi e nel 2009 da Mondadori. Nel 1967 una sua prima prova, Lettera aperta, era uscita per Garzanti e aveva perfino concorso allo Strega: fra le fine degli anni Novanta e il 2017 il libro è poi uscito da Sellerio, da Utet e per ultimo da Einaudi. L’università di Rebibbia uscito da Rizzoli nel 1983 è rimasto introvabile fino al 2006 e adesso è stampato da Einaudi. E così per gli altri suoi libri.

La cassapanca della memoria: la poesia ritrovata

Ma AncestraleAncestrale nemmeno esisteva.

Anche per Ancestrale una donna è stata strategica: Anna Toscano, poeta, fotografa, accademica, curatrice di antologie di poete, scavò con Pellegrino nella cassapanca di Goliarda. Sembrava ne fosse uscito già tutto, al volgere del primo decennio del secolo, e invece ecco le poesie: un libro intero ne saltava fuori, un libro durato una vita. La passione per Goliarda avrebbe avvolto Anna Toscano per oltre un decennio, materializzandosi in saggi, studi, letture pubbliche e in un libro prezioso, Il calendario non mi segue, uscito da Electa, collana Oilà, dove nei panni di Modesta, la protagonista de L’arte della gioia, l’autrice racconta Goliarda, capovolgendo il canone della scrittrice che genera il personaggio: adesso, il personaggio poteva dire chi l’aveva ideata.

Come Anna Toscano ha scritto, l’apertura di questa “cassapanca della memoria” da cui saltava fuori un’intera vita di versi – sicché è certo che Goliarda fu poeta prima che romanziera (il destino della doppia scrittura di alcune, per esempio della biscrittora Maria Attanasio) – si coniugava con la consapevolezza e il dispiacere che, ormai, da quella cassapanca non sarebbe potuto uscire più nulla: quando si ama un’autrice, o un autore, si spera sempre che nuovi inediti ci raggiungano, e invece quella era davvero l’ultima Thule.

Il destino di Ancestrale e lo stigma del disimpegno

Come mai questi versi erano rimasti nell’ombra?

Avevano subito il destino politico de Il Gattopardo (ricordiamo che nella sua prima vita di attrice Goliarda Sapienza era stata fra le interpreti di uno dei gioielli di Visconti, Senso): uno stigma di disimpegno politico. Come poteva la figlia di una grande sindacalista e femminista scrivere una poesia così borghese? A dirlo era stato Mario Alicatadeus ex machina della politica culturale, al regista Citto Maselli, che gli aveva dato da leggere i versi. La grande sindacalista madre di Goliarda era Maria Giudice (Maria Rosa Cutrufelli le ha dedicato un libro notevole edito da Neri Pozza): ma questo in che modo giustificava il marchio del disimpegno? L’arte non è sempre anche un gesto politico, forse il più libero e radicale dei gesti politici, come la vita libera e rischiosa di Goliarda dimostrava?

Anche Cesare Garboli aveva rimandato o rinunciato ad esporsi. (Chi non si espone per noi nel mondo letterario, pur conoscendo il valore che sminuisce, a quale girone dell’inferno è destinato? Ignavi, canto terzo?). Pare che le poesie piacessero, sempre tramite Maselli, anche ad Anna Banti e Roberto Longhi.

Insomma, dalla prefazione, quasi identica, delle due edizioni di Ancestrale firmata da Angelo Pellegrino, è chiaro che dopo aver bussato invano a varie porte, vittima di incomprensione o sottovalutazione, Goliarda rimise i versi nella cassapanca. Scrive Pellegrino che esisteva una “Bloomsbury stalinista fra Piazza del Popolo e via Veneto”, un luogo d’esclusione, come ancor oggi ne esistono (nuovi, diversi, con altre geografie e nuovi protagonisti), luoghi in cui sono affondati altri destini (fra le donne non emerse e non salvate penso a Marosia Castaldi, di cui adesso finalmente si riparla in Lezioni dalle rovine di Davide Bregola, edito da Avagliano).

La voce poetica di Goliarda: radici, famiglia e Sicilia

Fatto sta che, come fa notare Anna Toscano, mettendo nella postfazione all’edizione del 2013 per prima le mani con strumenti critici e sensibilità poetica nell’opera nascosta da mezzo secolo, in Ancestrale c’è intera la ragione poetica, l’idea di letteratura di Goliarda e ci sono le sue radici: proprio Maria Giudice, sua madre, proprio la Sicilia dov’era stata bambina, proprio suo padre, Peppino Sapienza, proprio il senso e il ritmo della parola che l’avrebbe definita anche nella narrazione. Un romanzo in versi prima del romanzo in prosa, il contrario dell’Ariosto di cui negli anni Novanta sarebbero saltate fuori le pagine in prosa precedenti l’Orlando Furioso. Un destino simile ad altre grandi escluse, come la neozelandese Janet Frame.

“Un manuale di scrittura condensato in undici versi, otto infiniti e dieci sostantivi”, scrive ancora Anna Toscano, citando una delle poesie:

Separare congiungere
spargere all’aria
racchiudere nel pugno
trattenere
fra le labbra il sapore
dividere
i secondi dai minuti
discernere nel cadere
della sera
questa sera da ieri
da domani.

Un canone parallelo: affinità con Cavalli, Bertolucci e Ortese

Dunque, Ancestrale pone sin dall’uscita il problema della collocazione di Sapienza nella tradizione poetica italiana: all’apparenza fuori dal canone, perché cresciuta in isolamento, parallela e indipendente a causa del mancato riconoscimento, la sua opera ha molte cifre in comune con Attilio Bertolucci, Patrizia Cavalli, Anna Maria Carpi e anche con la già citata Ortese, di cui i versi uscirono in ritardo e quasi invisibili per Empiria (Il mio paese è la notte, due volumi, 1996). “Consideriamo Ancestrale il romanzo personale, nell’accezione debenedittiana, di questa scrittrice, la testimonianza di come la poesia e la scrittura fossero sì un’arte e un bisogno di bellezza a cui rispondere, ma anche un dono ereditato dagli antenati da non smarrire nonostante l’assedio della vita”, scrive Anna Toscano.

La nuova edizione Einaudi e la lettura di Calandrone

Nella nuova edizione Einaudi, la postfazione è firmata da Maria Grazia Calandrone che su questa scia nota come i versi dedicati a Catania bombardata siano la premessa alle pagine de Il filo di mezzogiorno (1969, ora per i tipi de La Nave di Teseo): “La vita stessa pare un combattimento interminato fra memoria e realtà, dove la memoria ha potenza suprema, superiore a quella delle cose reali, trasfigura le cose del mondo, si sovrappone a esse coi suoi colori e le immagini infuocate”.

La tradizione (la traduzione, il tramandarsi) dell’opera di un’autrice, o di un autore, è un complesso mandala che spesso si perde nel vento. A volte è inevitabile. Questa trama però si tiene insieme anche grazie alla voce di chi riscopre e guida la riscoperta: la nostra memoria e gratitudine di lettrici, e lettori, va anche a chi si fa carico dell’eco delle grandi voci.

La superficie vitrea e convessa del gorgo

1

di Matteo Petraccaro

Michi stende il braccio verso di me e mi chiede di passargli l’accendino. È girato dall’altra parte, e con la mano libera sta reggendo una bottiglia di rosso, una bottiglia da due euro e cinquanta al market di fronte scuola. Ha le braccia rinsecchite e le spalle strette, una lunga serie di vertebre scorticate spalmate sulla schiena e, oltre il colletto fradicio della camicia, una vaga peluria da tarantola e dei capelli biondi tagliati a spazzola; poi un ciondolo appeso al lobo sinistro dell’orecchio e un pezzo di guancia tartassato dall’acne. Dice   passami l’accendino   e allora io sfilo il mio accendino dalla tasca dei pantaloni e glielo passo, e con le dita gli tocco le dita. Michi appoggia la bottiglia su un ceppo, tira fuori una sigaretta e se la mette tra le labbra; si gira verso di me e mi fa un ghigno. Nel frattempo, poco più avanti, Leo continua a imprecare e a bestemmiare, e ci urla di muoverci, dice   muovetevi cazzo   Michi tira uno sbuffo di fumo e dice a Leo di aspettare un attimo e di calmarsi, soprattutto di calmarsi. Scuote l’accendino e se lo fa scattare nel pugno, poi alza il dito dal gas e lascia andare la fiamma.

Calmati adesso arrivo aspetta un secondo cristo

La pioggia trema sulle fronde degli alberi e sulla fronte di Leo, sui suoi riccioli neri come scorpioni.

Cristo santo che peso ai coglioni che sei

Michi fa scattare la fiamma. La pioggia riflette su di noi una luce larvale. Ecco cosa rimane del temporale quando finisce, penso, una sconfinata distesa di fango luminoso.

Stiamo per farlo. Io sto per farlo. Michi sta per farlo. Leo sta per farlo. Leo non ne può più. Sta provando a schiacciare la gatta sotto il ginocchio, ma quella continua a scappargli e a graffiarlo. Ha i polsini della camicia lordati di sangue e i pantaloni tutti tagliati. A lui è capitato il lavoro peggiore, proprio il peggiore.

Leo ci urla di muoverci e Michi affretta il passo. Penso che siamo circondati dai fusti dei pini, che è come se il bosco ci avesse inghiottiti. Il vino continua a rimanere immobile sul ceppo tagliato. L’acqua cola dai rami degli alberi e cade sul selciato e su di noi. La fiamma si dibatte nel ventre del bosco.

 

La benzina s’innesca, la bestia s’infuoca e comincia a urlare. Supera alcuni ostacoli, attraversa una serie di radici e foglie marce, poi scivola su una pietra ricoperta di muschio e si schianta col teschio contro la crosta dura di un albero, collassa sul terreno fradicio del bosco e muore. Una colonna di fumo si alza tra gli alberi. La puzza si spande nell’aria e ci raggiunge. Puzza di merda e di carne bruciata.

Gesù

Leo e Michi corrono verso l’animale.

Gesù

Il mio accendino cade per terra. Rimango da solo. Vedo il beccuccio metallico dell’accendino risplendere nel fango. Mi chino a raccoglierlo, lo pulisco sui pantaloni e me lo infilo in tasca; poi mi giro da un lato e nell’erba lascio cadere uno sputo di vomito. Raccolgo la bottiglia dal ceppo e me l’avvicino alle labbra. Tengo il vino in bocca per un po’; me lo passo sulla lingua e tra i denti, lo faccio sbattere sulle guance e infine lo sputo nell’erba.

Non credevo che l’avremmo fatto fino all’ultimo non ci credevo cazzo

Guarda che roba cristo santo

Non ci credo non ci credo non ci credo

Sta ancora bruciando porca puttana brucia ancora cristo

L’animale ha gli occhi spalancati e la bocca aperta, il pelo raschiato dal fuoco. Sta ancora bruciando. La pelle si consuma uno strato di grasso alla volta. Presto toccherà ai muscoli e più tardi arriverà anche alle ossa. Mi pulisco la bocca con la manica dell’impermeabile e tiro un altro sputo per terra.

Che fai ti fa impressione

È solo l’odore

I bordi delle orbite cominciano a squagliarsi e a colargli sugli occhi. Il fuoco gli ha già mangiato quasi tutta la testa e le orecchie.

Non mi fa né caldo né freddo è l’odore che non sopporto

Passami il vino

Strappo un ultimo sorso dalla bottiglia e gliela passo. Lui la prende per il collo e ci si attacca con voluttà.

Non sembra morto sembra che possa risvegliarsi e scappare da un momento all’altro

Leo strappa un ramo di pino e comincia a frustare il cadavere dell’animale.

Ma non credo che lo farà

Lo colpisce sulla pancia e in faccia; poi lascia bruciare le punte del ramo e glielo getta sopra.

Non credo proprio

Continuo a sbavare nell’erba bagnata e fresca. Michi mi mette una mano sulle spalle. Leo mi passa la bottiglia di rosso. Dice che devo ubriacarmi un po’. Ha le mani che puzzano di benzina. Prendo la bottiglia per la canna e mi ci attacco. Ne tiro giù una sorsata. Michi prende la fiaschetta di benzina e ne fa cadere un filo sul corpo dell’animale. Si alza una fiammata fetida e feroce. Leo è andato nel fitto a raccogliere un po’ di legna. Penso che a breve dell’animale non rimarrà più niente, che ci sarà solamente il fuoco. Chiedo una sigaretta a Michi e gli dico che per me si è fatto tardi e che me voglio tornare a casa. Prendo la sigaretta dalle sue dita luride e mi chino per passare sotto i rami bassi di un pino. Il panorama è umido e frammentato, compresso nelle fasce di luce che passano tra le fronde degli alberi; essenzialmente brullo, fetido, fradicio, coperto di foglie ghiacciate e mosso solo dal vento d’inverno. Passo per le baracche fatte di lamiera e aggiro una montagna d’immondizia alta almeno due metri. Scavalco il guardrail e mi passo una mano sui capelli. Sento l’acqua cadermi sulle spalle e sul collo, oltre il bordo dell’impermeabile. Arrivo alla fermata e mi siedo, e un rigagnolo d’acqua stilla dalle cuciture degli stivali. Il velluto è fradicio, fangoso e chiazzato da alcune macchie di vino. Penso che appena arriverò a casa darò le scarpe a mia madre, e lei si occuperà di portarmele in lavanderia di farmele trovare nella scarpiera morbide e pulite. Sospiro. Alzo lo sguardo al cielo e decido di fumarmi la sigaretta di Michi. Faccio scattare l’accendino. Dalla punta della sigaretta si sprigiona una breve fiammata. La benzina brucia rapidamente metà della sigaretta. Aspetto che il fuoco torni a bruciare normalmente e infilo la sigaretta tra le labbra. Aspiro. Tengo il fumo in bocca per un po’, lo lascio scendere nei polmoni e lo sputo fuori. Alzo lo sguardo in cielo, oltre la curva del centro commerciale e le schiere piatte dei palazzi, dei cinema e delle aziende; oltre il catrame della strada; oltre le nuvole e i vapori dell’inquinamento; oltre la città stessa; oltre lo spazio. Chiudo gli occhi e mi godo la sensazione. Bisogna lasciarsi cadere fino in fondo,  penso, fino al fondo della vita.

 

Ma la vita non cambia. Dalla pensilina vedo i banchi di pioggia viaggiare tra le luci oblique dei lampioni. L’autobus non è ancora arrivato e, cosa ancor più strana, per tutto il tempo che ho passato seduto alla fermata non si è vista neanche una macchina. Decido di alzarmi e di camminare a ritroso per la strada, senza fretta, badando solo a non sporcarmi troppo le scarpe nel fango. Alzo il cappuccio dell’impermeabile e mi metto in marcia. Alla mia sinistra, illuminato appena dai lampioni, oltre il guardrail, il bosco si avviluppa in un vortice di forme sintetiche: fusti fosforescenti e fronde spettrali, ceppi ammuffiti, carte di merendine, cicche di sigarette e improvvisi bagliori di oggetti lontani. Penso a Leo e a Michi.

 

C’è una serie di fanali gialli che fende la pioggia in tutte le direzioni e una figura che ci cammina davanti. Mi paro gli occhi con le mani e provo a vedere di che si tratta. Vedo la figura ingrandirsi e muoversi goffamente verso di me. Sta cercando di dirmi qualcosa, ma non la capisco.

Non la sento può parlare più forte eh può parlare più forte non la sento

Devi andartene via da qua dall’altra parte hai capito dall’altra parte

Finalmente ci troviamo uno di fronte all’altro, sotto la pioggia, lui col cappello calato in testa fino agli occhi, io col cappuccio e le mani infilate dentro le tasche, a tormentare la pietruzza incandescente dell’accendino.

Levati le mani dalle tasche

Va bene

Mi levo le mani dalle tasche.

Da qui non passa stasera se vuoi tornare in città devi prendere la sostitutiva sull’altro lato della strada

Con le dita mi indica un punto.

Per di là vedi

Come mai

Una macchina è andata addosso a un camion c’è stato un incidente

Ci sono stati dei morti

No

Sorpasso l’agente e passo davanti alle luci dei fanali. Butto lo sguardo nella zona recintata, oltre le macchine della polizia e i nastri segnaletici. Ci sono i due veicoli incidentanti e dei pezzi di carrozzeria sparsi qua e là, e mi pare di vedere riverso nella strada il corpo di un grosso animale, vivo, o meglio, semivivo, lacerato da tagli profondi come tubature, che con le gambe scalcia sull’asfalto bagnato e si dispera. Un cavallo, penso. Un cavallo dalle gambe sottili e gli zoccoli ferrati e lucenti, dal folto crine selvaggio e bagnato, dall’occhio vivo, bianco, pieno di terrore. Un cavallo riverso a terra nel suo stesso sangue e nell’acqua, tra le carcasse dei due mezzi, delimitato anche lui nella zona incidentata dal nastro segnaletico fosforescente, cosa tra le cose.

Attraverso la strada e cammino per un centinaio di metri, aggiro l’incidente e, in effetti, comincio a vedere della gente in coda per la sostitutiva. Proprio come aveva detto lui, penso. Sento l’odore di carne e di zuppe salire dal fitto del bosco. Mi fermo in un punto in cui gli alberi si diradano, centocinquanta metri prima della fermata e, dalla strada, intravedo delle bambine che giocano con le pistole – ridono e si sparano addosso. Alcune, le bambine disarmate, dicono: dai adesso fa sparare me non è giusto ora tocca a me sparare hai già sparato tu   Nel frattempo, gli adulti le esortano a smetterla chè è ora di cena e bisogna venire subito a mangiare, e allora le bambine corrono, lasciano le pistole per terra (la scocca metallica delle pistole risplende nel fango, come l’accendino, come gli zoccoli dei cavalli) e scattano verso le voci degli adulti ed escono dal mio campo visivo, e com’erano arrivate se ne vanno, risucchiate dal bosco.

La gente alla fermata è immobile. È martedì primo dicembre e sono le sei e trequarti; fa freddo e aspetto l’autobus insieme a una schiera di persone col viso illuminato dagli schermi dei telefonini. Mi sporgo dal marciapiede e giro il collo a sinistra. L’autobus non arriva; in compenso, altre persone luminescenti stanno percorrendo la strada che ho appena percorso. Penso che sarà difficile trovare un posto a sedere, oggi.

 

Sono seduto sul divano e ho il corpo avvolto nell’asciugamano, ancora umido dalla doccia. Mia madre è in piedi davanti a me. Penso che le somiglio: un po’ per la postura e anche per la forma del viso, credo. Inclino la testa oltre la sua figura e tento di vedere qualcosa alla televisione, senza successo.  Aggrotto la fronte e metto su un aria torva, assorta, minacciosa. Mia madre dice   amore che vuoi oggi per cena   Io le rispondo   carne   Mi alzo dal divano e vado a sedermi in camera, ancora nudo, coperto solo dalla spugna verde dell’accappatoio. Mi siedo davanti al televisore e accendo la playstation. Infilo un disco e comincio a giocare. Dopo po’, mia madre mi bussa alla porta e io dico: avanti   e lei entra con il mio hamburger su un piattino. Lo prendo con la sinistra e ne stacco un pezzo. Il ketchup esce dall’altro lato del panino e ricade sul piatto; fa: plof.  Ha un buon sapore. Sollevo il pane e vedo delle larve camminare sulla superficie grigia dell’hambuger e sbucare dal centro, dal punto in cui con gli incisivi ho trapassato la carne. Squilla il telefono. Metto in pausa e poso il panino sul piatto.

Teo devi venire nel bosco è successa una cosa terribile devi venire subito cazzo oddio non ci credo ti prego Teo vieni non ci posso credere

 

 

 

Chiarezza e distinzione

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di Ezio Partesana

 

Quel che mi fa arrabbiare è la logica secondo la quale più sono forti e terribili le parole che uso più ho ragione; una sorta di sostituzione di un Io privato e sentimentale al ragionamento pubblico e condiviso.

 

Dostoevskij sapeva bene che il diavolo è un uomo semplice: Perché questa inutile vecchia è piena di soldi mentre io, che sono giovane e brillante, devo soffrire la fame?

Per tutta la vita lo scrittore russo cercò di mostrare come fosse difficile il bene e facile il male. Il luogo dello scontro erano la coscienza individuale e la realtà sociale dell’esistenza che i protagonisti dei suoi romanzi si trovano a condurre.

Dostoevskij muore nel 1881, agiato e dignitoso erede di una morale kantiana.

Aveva ragione, oppure il mondo ha superato quei dilemmi e oggi – nella miseria e nel rammarico – è in verità tutto molto più semplice?

“Agisci solo secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere divenga una norma universale” (Kant). L’unica massima che posso applicare allo sfruttamento è la sua abolizione, devo dunque rifiutarmi di lavorare per chi possiede i soldi, la terra e le macchine che servono a produrre quanto l’uomo ha necessità di usare per vivere. Ma anche “sopravvivere”, qui e ora, è una massima che vorrei vedere applicata al maggior numero di esseri viventi possibile.

Il diavolo è un uomo semplice.

Nel 1637 René Descartes pubblica, in forma anonima e congiunto con altri saggi, il Discorso sul metodo; vuole un fondamento certo – “chiaro e distinto” – sopra il quale possa poggiare tutta la conoscenza umana. La certezza deve essere “chiara”, impossibile da confutare a meno di violare il principio di non contraddizione, e “distinta”, vale a dire priva di alcuna ambiguità lessicale o ideologica. Per far questo immaginò uno spirito maligno e potente che lo ingannava su tutto: sensazioni, ricordi, esperienza, logica, conoscenze e fede; una sola certezza restava: Se dubito di tutto allora penso e se penso sono, Cogito ergo sum. Il razionalista Descartes aveva ottenuto la sua certezza, chiara e distinta.

Il demone di Dostoevskij e il diavolo di Descartes proprio non sono della stessa pasta: uno suggerisce risposte, l’altro inganna; uno vive nel cuore, l’altro abita la mente. Quando si uniscono però girano intorno alla cosa stessa sino alla vertigine; nella storia della filosofia occidentale questo balletto ha preso il nome di “dialettica”. La dialettica si oppone, con una certa sua cattiveria, al desiderio (molto umano) di avere un punto fisso come le stelle della fisica aristotelica che non erano così come descritte ma almeno restavano immobili.

In etologia il disorientamento è spesso fatale: migrazioni, sostentamento e cooperazione scompaiono perché non sono più dove dovrebbero essere, ci si inganna; il disastro non riguarda più questo o quell’individuo ma l’intera specie. La lingua tedesca ha un nome per questo stato: Unheimlich, “senza casa”; in italiano “unheimlich” è tradotto con “perturbante” (Freud). La società odierna è perturbante non solo perché costringe folle immense a lasciare la loro casa per poter sopravvivere, ma anche per chi resta dove è e non capisce né domina quel che accade in se stesso e intorno.

Uccidere Descartes e Dostoevskij – e tutti gli altri demoni con loro – è una soluzione. Nessuno può più ingannarti perché il nemico è chiaro e distinto, l’opposizione inconciliabile, l’azione da compiere urgente. È l’antico sogno della Rivelazione: un solo libro, un solo segno, una sola parola “e io sarò salvato”. E come d’incanto ogni cosa torna al suo posto: un Cogito senza dubbio e Raskol’nikov all’inferno. Il contenuto della verità è quasi irrilevante; il sesso, la politica, lo spirito e la natura sono in questo processo pezzi di ricambio universali – simulacra li chiamerebbero gli epicurei, e non esiste migliore simulazione di quella alla quale si finisce per credere con tutto il cuore.

Portare ordine nel Caos è non solo l’imperativo di ogni ricerca ma oramai anche una necessità esistenziale. La lontananza – quasi sempre misurabile in reddito – tra l’esistenza individuale e la libertà di scelta scompare sotto un cumulo di strutture e processi che neanche con la miglior intenzione l’Angelus di Klee potrebbe contemplare. Scriveva Aristotele che la mappa perfetta non esiste perché per contenere ogni dettaglio dovrebbe essere grande come il territorio che deve rappresentare, così ogni riassunto, ogni cartografia, comincia con la rinuncia a qualcosa; affinché la rappresentazione abbia un senso, un valore d’uso, bisogna tralasciare quel che non serve allo scopo e tirare dritti: la distanza tra Londra e Berlino è di mille chilometri, e tanto basti.

Il disegno alla fine non spiega nulla. Il licenziamento è dovuto al mercato, la lunga attesa all’affollamento, la sconfitta alla competizione e la paura, la paura al buio. È tutto vero, se non fosse che oscurità, lavoro, diritti e capitale sono cose che non sappiamo e non possiamo controllare, appena le guardi scompaiono dalla mappa. La riduzione diventa necessaria, il mito è già illuminismo. Il Grande Caos deve essere riconducibile a un unico errore che l’umanità ha compiuto una volta per sempre. Quando il numero delle contraddizioni eccede la quantità che una mente – una anima – può contenere, non fa più alcuna differenza chi si trovi a impersonare il totem della distruzione, purché ci sia la certezza che una volta abbattuto torneranno a scorrere in terra il latte e il miele.

Il principe Myškin è l’«Idiota» proprio perché non vuole, o non sa, seguire il meccanismo di ricompensa che segue ogni raffigurazione di Lucifero. Essere anonimo – sebbene Dostoevskij lo fornisca, nella finzione, di fascino e ricchezza – e “candido come un falco” (Fortini), fa dell’Idiota un uomo non adatto alla convenzione secondo la quale è meglio parlar chiaro e farsi capire da tutti – e in quel “da tutti” è sottinteso anche “da se stessi” – piuttosto che far questione della relazione tra le parole e le cose. L’esistenza non è più, in qualche modo, collettiva, bensì individuale, il “colpevole” è indifferente purché ce ne sia uno da condannare.

Parodia di una riappropriazione, le grida contro immigrati, negri, ebrei, comunisti, soddisfano il requisito fondamentale di dare un nome e un volto alla divisione della lavoro, allo sfruttamento, alla reificazione, che si sono, nel frattempo, prese tutto il potere, lasciando l’individuo attonito di fronte alla domanda sul perché tutto vada così male. Le teorie del complotto – vecchie di almeno due secoli – non sono l’emblema dell’ignoranza ma una risposta razionale alla follia per la quale nessun atto politico sembra essere più razionale, sono un dispiego di cose che non vediamo mediante quelle che vediamo.

Una volta perso l’orientamento, il primo consiglio è sempre quello di muoversi in linea retta fino a trovare l’uscita dalla selva oscura; la logica è ineccepibile, ma non funziona in un labirinto dove l’Intentio recta è proprio il meccanismo dell’inganno. Rassicura però pensare che se solo si scoprisse da dove è entrato il Diavolo, sarebbe facile coglierlo sul fatto e sconfiggerlo, ché il destino del demonio è sempre questo “libero per entrare ma obbligato per uscire” (Goethe). Come nelle rappresentazioni medievali si comincia dalle qualità per risalire poi alla sostanza; così il diavolo è senza cuore, crudele, violento, uccide per diletto e non c’è nulla al mondo che possa redimerlo, neanche un Dio. Il diavolo è il cancro, la causa prima, non generata da uomo e da donna, fonte dello smarrimento di un essere che altrimenti sarebbe di buoni sentimenti e per natura giusto e pietoso.

Al male impersonificato si può sputare addosso meglio che a un contratto triennale di apprendistato, e esercitando la memoria si scopre che nei secoli passati fu sempre il suo maleficio a sviare gli esseri umani. L’ipotesi paradossale di Descartes – quella di uno spirito ingannatore che mi costringesse a dubitare di ogni mia certezza – si è trasformata in una tesi accusatoria in piena regola, con testimoni, precedenti e luogo a procedere. Raskol’nikov aveva ragione, Alëna Ivànovna era solo una vecchia usuraia, dannosa al rinnovamento morale del mondo. Bene ha fatto ha ucciderla.

E della critica della ragione resta solo, come scrisse Adorno, l’alzata di spalle con la quale ogni medico ha da sempre espresso la sua segreta intesa con la morte.