di Andrea Inglese
(Questo articolo è uscito in una versione più breve su il manifesto del 7/9/07.)
Di fronte ad una società che in pubblico come in privato, per strada come nei palazzi, manifesta in modo sempre più disinvolto e massiccio un atteggiamento xenofobo, qualcuno di tanto in tanto reagisce, ricordando a sé e agli altri che l’italiano, per primo, ha vissuto l’esperienza dell’emigrazione e ha sofferto di tutti i mali che ad essa si accompagnano: sradicamento, sfruttamento, discriminazione. Lo ha fatto nel 2002 anche un giornalista, Gian Antonio Stella, scrivendo un libro dal titolo assai esplicito: L’orda, quando gli albanesi eravamo noi. Ma questo, come altri esempi, sembrano non modificare un dato di fondo: il fenomeno migratorio che ha coinvolto 27 milioni di italiani tra il 1876 e il 1976, per non parlare dei flussi migratori pre-unitari, rimane ancor oggi non solo ai margini della memoria collettiva, ma persino di quella storiografica. È uno specialista in materia come Matteo Sanfilippo a ricordarlo, nell’introduzione del volume collettivo Emigrazione e storia d’Italia (Pellegrini, Cosenza, 2003): “il pregiudizio contro l’assunzione dell’esperienza migratoria nella storia nazionale è comune a tutte le storiografie dell’Europa occidentale e nasce da una triplice damnatio memoriae: per i nazionalisti (compresi i nuovi micronazionalismi a base regionale) chi è partito, ha abbandonato la patria; per le sinistre ha abbandonato la lotta; per i cattolici ha infine messo in pericolo la propria fede, specie se si è recato in paesi protestanti come gli Stati Uniti o la Germania”.