Una nota di Gianni Biondillo sul diario andino di Silvio Mignano
Ho conosciuto Silvio Mignano in una di quelle manifestazioni di provincia dedicate agli scrittori che, ho scoperto nel tempo, sono sempre più un modo non solo per farsi conoscere ai lettori ma anche un modo per conoscersi a vicenda. Io di lui non avevo letto nulla. Silvio, non me l’ha mai confessato, sono certo che già mi avesse letto, ma per evitare di mettermi in una situazione imbarazzante ha fintamente ammesso di non conoscermi. A tavola, dopo l’incontro pubblico, abbiamo chiacchierato un po’ di tutto. Così nel volgere di poche ore è nata una simpatia naturale per questo mio coetaneo dall’accento indefinibile (ed io ho una certa ossessione per gli accenti, i dialetti, le parlate), e dai romanzi curiosi, ambientati in Africa, nel Centro America, in posti così poco usi dalla nostra letteratura… “E’ che sono sempre in giro per lavoro”, mi ha detto, come fosse un rappresentante di chissà quale azienda. C’era anche sua moglie, una bella e dolce ragazza, incinta, che teneva a bada una bimba graziosissima. Si è parlato di figli. Cosa così rara fra gli scrittori che appena ne conosco uno con prole dimentico di parlare di libri e passo immantinente ai pannolini!
“Ma si può sapere che lavoro fai”, gli ho chiesto, ad un certo punto. Quasi intimidito ha ammesso di essere un diplomatico. Prima è stato in Kenia, poi a Cuba dove ha conosciuto sua moglie, ora era a Basilea. A fare che? “Il console”, con un sorriso imbarazzato.







