La Scuola Superiore d’Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano fu fondata per Regio Decreto nel 1882 e da allora ha vissuto una storia prestigiosa, formando grandi artisti e competenti artigiani, adattandosi via via ai tempi che cambiano, giungendo ai giorni nostri con un’offerta formativa che comprende le seguenti discipline: tecniche pittoriche, incisione, restauro, affresco e tecniche murali, mosaico, vetrata, design tessile, illustrazione, fumetto, progettazione grafica.
Peculiarità della Scuola sono la possibilità offerta agli allievi di sperimentare percorsi interdisciplinari, il costo contenuto e l’orario serale, caratteristiche che fanno del “Castello” un punto di riferimento metropolitano per i giovani (e non solo) che vogliono apprendere l’arte nel tempo libero dal lavoro o dagli studi, e a cui son dati gli strumenti per approfondire lo sviluppo amatoriale della creatività ovvero per intraprendere un percorso propriamente professionale.
La Scuola del Castello per necessità statutaria non porta profitto. Forse anche per ciò versa in grave pericolo:
negli ultimi dieci anni il Comune di Milano ha progressivamente negato alla Scuola i fondi che le versava per il telefono, i commessi, le spese di funzionamento, le affissioni.
Nel 2000 la Scuola è stata “cacciata” dalla sede storica, naturale e statutaria del Castello Sforzesco, riducendone gli spazi d’uso ed allontanandola dalla stazione Nord che permetteva a molti allievi di raggiungerla agevolmente dall’hinterland.







Uno sguardo azzurro, sorpreso da una foto tessera. Gli anni – diciannove – che non compaiono sul volto. Ma stanno tutti dentro, e sono molti di più.

Ormai da tre anni una coppia di pipistrelli torna ad abitare una delle finestre della mia casa nell’oltrarno fiorentino. Vivono una parte della stagione nella zona di scorrimento di persiane incassate che si sono bloccate da tempo e che io lascio fare perché si tratta di una stanza in cui non si dorme. E’ la finestra di fronte al mio tavolo da lavoro e vicina all’apparecchio televisivo.
Non sono ancora le sei di mattina, e aspetto il 105 all’altezza di Torpignattara. Ho sonno, sono come al solito un po’ scocciato per questa gestione casuale dei tempi. Vengo dalla terraferma veneziana degli anni Settanta, dove gli orari di autobus e vaporetti erano filastrocche che imparavamo da bambini (cinque-venticinque-quaranta-cinquantacinque, sei-ventuno-trentasei-cinquantuno) e che ci hanno addestrati all’idea che ci sia una correlazione tra i nostri fini (arrivare in orario) e i mezzi (pubblici) per ottenerli. Trasferitomi a Roma a metà degli anni Ottanta, ricordo lo sbigottimento irritato dell’addetto Atac cui mi rivolsi per sapere quale fosse l’orario dello zerouno: “Orario de che? Quanno ce sta, parte”.
di Federica Fracassi e Jacopo Guerriero


Hanno ucciso il giornalista collaboratore di DIARIO Enzo Baldoni. Era andato in Iraq con la Croce Rossa per aiutare una popolazione costretta allo stremo, aveva utilizzato il suo ruolo di volontario per raccontare ciò che gli uffici stampa dei Marines (quelli che i giornalisti Mediaset e RAI usano come fonte principale delle loro notizie) preferiscono tacere. Era un uomo interessato alla vita e forse questo l’ha reso pericoloso.
La riscoperta di Mauro Curradi (Pisa, 1925) è stata una piacevole nota dell’editoria italiana. Scrittore di grande qualità, Curradi è uno dei rarissimi narratori italiani ad aver analizzato e conosciuto il continente africano. In questa intervista avvenuta nella sua confortevole casa romana, Curradi passa in rassegna la sua esperienza africana ma non soltanto. Parla del mondo borghese in cui è nato, del suo rapporto con Aldo Palazzeschi, delle leggi razziali degli anni Trenta. Un affresco completo della sua vita di uomo e soprattutto un’immersione nella sua opera letteraria.