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Che cos’è un classico?

anonimo

di Carlo Carabba

Resistenza del classico è il titolo del primo Almanacco BUR, nuova pubblicazione periodica, in uscita a sessant’anni dalla nascita della collana.

Ha quasi quattrocento pagine, sette sezioni più una breve introduzione e raccoglie i contributi di ventisei autori, ventotto se si contano Valerio Magrelli e Edoardo Sangunineti, intervistati da Federico Condello e Gilda Policastro. E, com’è fatale, è fatto di cose belle e cose brutte. Splendida la sezione “Officina di traduzione”, in cui vengono ritradotti alcuni classici latini – davvero incredibili le poesie di Catullo e la morte di Turno nella versione di Alessandro Fo che mantiene il ritmo della metrica latina. Sono intelligenti e utili i due saggi conclusivi, di Ivan Tassi e Daniele Giglioli, che tracciano una mappa della critica italiana, dal 1949 a oggi e leggere la riflessione di Seamus Heaney sulla poesia pastorale fa bene alla mente e al cuore.

Certo, in tanta abbondanza, non mancano le note stonate, come la mediocre intervista di Gilda Policastro a Edoardo Sanguineti, in cui il Maestro evita sistematicamente di rispondere alle domande dell’intervistatrice, preferendo raccontare aneddoti autobiografici e autoincensanti.

Ma le perplessità maggiori riguardano i momenti in cui viene preso di petto quello che doveva essere il tema dell’Almanacco: il classico e la sua resistenza.

Innanzitutto il lettore si trova davanti a un’ambiguità non chiarita sul doppio significato di classico, che in letteratura può indicare un’opera scritta in epoca greco-latina ma anche, genericamente, un testo molto importante e molto letto, appartenente a un imprecisato canone della letteratura universale.

La prima definizione è chiara e, al più, si può discutere sulle date in cui racchiudere la classicità, la seconda, nella sua vaghezza, pone non pochi interrogativi: chi decide l’ampiezza del canone? Quali testi vanno inclusi e quali esclusi? Ci si deve limitare alla letteratura occidentale? E soprattutto: un classico è tale per propria virtù innata o è stato un circuito di lettori e critici a farne un classico? E in questo caso chi conta di più, lo specialista o il lettore medio?

Per farla breve tutte queste domande potrebbero essere racchiuse nel dubbio fondamentale: “Cos’è un classico?” che è il titolo di una celebre conferenza di T.S. Eliot del 1944, ma anche della prima sezione dell’Almanacco.

L’introduzione di Roberto Andreotti, che è anche il curatore del volume, invece di venirci in soccorso, complica la situazione.

Andreotti cita un pensiero di Sanguineti: “I classici ci interessano perché sono da noi radicalmnente diversi. Sono radicalmente esotici”. E ancora: “Importano perché additano forme di esperienza da noi remote, anche impraticabili, e anche, non di rado, incomprensibili”. Il bersaglio polemico di Andreotti e Sanguineti è quella che Andreotti stesso definisce “malintesa attualizzazione” dei classici, contro il quale contrappone questa idea dell’esotismo del classico e una concezione che lui stesso chiama, forzando un concetto espresso da Heaney, “lettura agonistica” dei classici, l’idea che essi siano dei “formidabili antagonisti” da sfidare. Le idee di Andreotti di per sé sono brillanti e non prive di interesse. Ma si scontrano inevitabilmente con l’esperienza che ogni lettore fa quando prende in mano un classico. Nessuno, tranne forse qualche scrittore particolarmente egotico, legge Guerra e pace per sfidare Tolstoj.

La cosa più curiosa è che i tre autori dei saggi che compongono la sezione (Mario Lavagetto, Alessandro Serpieri e Valerio Magrelli, lascio da parte la già citata intervista a Sanguineti perché non dà contributo alcuno alla questione), arrivano ad affermare esattamente il contrario di quello che è scritto nell’introduzione.

Tutti e tre partono dalla confutazione dell’idea di Eliot secondo cui il classico è esclusivamente il prodotto di una civiltà matura, giudicata unanimemente troppo angusta e colpevole di escludere dall’insieme dei classici un gran numero di indubitabili capolavori. E tutti e tre arrivano, dopo lunghi ragionamenti, a una definizione piuttosto generica e intuitiva di classico. Lavagetto sottolinea il carattere instabile della patente di classicità, così che ciò che è classico per una stagione può non esserlo per l’epoca successiva: “i classici sono i libri che si rileggono e che fanno parte di una biblioteca ideale”, “ si prestano a essere reinterrogati e non sono mai privi di risposte”. Serpieri passa in rassegna una serie di definizioni sull’essenza del classico, tra cui questa, di Hans-Georg Gadamer: “Classico è così una specie di presente fuori dal tempo, che è contemporaneo ad ogni presente”. E Magrelli arriva ad affermare: “La letteratura esiste nella misura in cui si crea un arco voltaico fra lettore e autore – poco importa che l’autore sia vissuto mille anni prima, o abiti dall’altra parte della strada”. L’idea di Andreotti di una distanza del classico, di una sua dimensione esotica, sembra definitivamente confutata. Con buona pace di Sanguineti e dei nemici del senso comune, il concetto di classico che esce dai tre saggi è legato all’attualità perenne, a quella capacità dei grandi testi di farci sentire immediatamente intime e prossime le pene di Saffo, i dubbi di Amleto e i tormenti di Raskolnikov.

Eppure l’idea ovvia e evidente dell’attualità del classico, nella sua genericità, non riesce a soddisfare a pieno. Per fortuna, per sollevare il lettore e risolvere il dissidio apparentemente insanabile tra attualità e inattualità del classico, viene in soccorso Carmine Catenacci, autore di uno dei saggi più belli dell’Almanacco, che difende con argomenti assai validi il tanto bistrattato 300 di Zack Snyder. Scrive Catenacci: “Quando si ha a che fare con un classico, ogni sua ripresa è, a mio parere, tanto più feconda e innovativa, se proprio sfruttando la forza del racconto e dell’immaginario, sa coinvolgere il pubblico e attrarlo dialetticamente verso i significati storici originali e non, al contrario, se semplicemente appiattisce il passato sulla dimensione ovvia del presente. L’arricchimento è nel dialogo, non nell’annullamento di un interlocutore nell’altro”.

In altre parole, il classico si fonda su un movimento dinamico che congiunge attualità e inattualità e, sospeso in modo mirabile tra eternità e caducità, gioca sul senso del tempo, mostrando ciò che del passato si perde irreversibilmente e, nello stesso momento, quelle passioni e pulsioni umane che si ripeteranno finché esiste la specie umana.

L’immagine che viene in mente è quella di un classico della poesia: l’urna greca dell’ode di Keats, le sue figure sospese tra un passato perduto e un eterno presente, al suono di melodie mai ascoltate, note sempre uguali e sempre nuove.

9788817035842

Resistenza del Classico (a cura di R. Andreotti), Almanacco Bur 2010, € 24,50.

[da Il Riformista – 18 dicembre 2009, l’immagine in apice è di Dino Valls]

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44 Commenti

  1. “Nessuno, tranne forse qualche scrittore particolarmente egotico, legge Guerra e pace per sfidare Tolstoj.” Ma – credo – il concetto di lettura agonistica si riferisce a chi scrive; e chi scrive con una certa serietà non può non avvertire il “peso” di Tolstoj.

  2. Ciao Enrico. In realtà il passo di Andreotti mi sembra si riferisca proprio al lettore semplice più che al lettore autore. Poi, un conto è avvertire il peso di un autore o una tradizione, un altro è questa idea di sfida che mi pare fallocentrica in un senso veterofemminista.

  3. Carlo
    Quest’idea della sfida titanica è stata portata avanti, negli ultimi anni specialmente, da Harold Bloom, un critico che spesso non condivido ma che non mi lascia mai indifferente. Devo dire che la sua concezione bellica e aggressiva del canone è esagerata ma non infondata. Non so se tu scrivi, ma se lo fai sono sicuro che ti è capitato d’imbatterti in un brano, poetico o prosastico non fa differenza, e di fremere e pensare: riuscirei, riuscirò mai a scrivere così? Questo stimolo che il grande autore esercita su di noi è anche una sorta di sfida, perchè chi scrive non soltanto per sé coltiva automaticamente un’ambizione, e ogni ambizione innanzi all’apparire di qualcosa di grande può fare due cose: ritirarsi o impennarsi.

  4. Nella plurivoca compresenza dei gusti e delle opinioni, è rassicurante potersi prendere dei mediocri da chi riesca a illuminare concetti in tutta evidenza inediti con tale vigorosa forza espressiva e originalità di argomentazione:

    In altre parole, il classico si fonda su un movimento dinamico che congiunge attualità e inattualità e, sospeso in modo mirabile tra eternità e caducità, gioca sul senso del tempo, mostrando ciò che del passato si perde irreversibilmente e, nello stesso momento, quelle passioni e pulsioni umane che si ripeteranno finché esiste la specie umana.

    Forse prima di attaccare i giganti -ovviamente Sanguineti non la sottoscritta-, converrebbe misurare la propria, di statura. Anche perché nell’intervista in questione quello che CC chiama, con un patetico rigurgito di deferenza, il Maestro, altro non fa che chiarire, a partire dalla propria pluridecennale esperienza di traduttore, il principio di resistenza del classico su cui CC sembra qui voler richiamare l’attenzione (e però con ben scarsi mezzi, a petto delle riflessioni recuperate dai tragici, da Petronio, da Frontone e Aulo Gellio, e recuperate peraltro per lo più a memoria dal Nostro, pure in un periodo di convalescenza da un grave infortunio, come quello in cui ha accettato generosamente di dare il proprio contributo al progetto: retroscena che ci tengo personalmente a svelare); principio sussunto dalla nota massima del “traduttore nostro contemporaneo”, attorno a cui ruota l’intervista: le domande, come le risposte. A CC, invece, sembra più pertinente una mappatura della critica dal ’49 a oggi, all’interno di un discorso teorico-critico sul classico: forse dovrebbe chiarircene la ragione, perché messa così sembra solo una dichiarazione partigiana e incongrua. Ad ogni modo i giudizi estemporanei personalmente (non so ai lettori del Riformista) m’interessano senz’altro meno delle memorie di Sanguineti, specie quando queste possano spaziare dalle traduzioni degli anni Sessanta ai travestimenti del Duemila, ovvero avvalersi di un’attività condotta quasi senza soluzione di continuità e accompagnata da una costante e scrupolosa riflessione teorica, tra l’altro proprio sul concetto di classico. Nel frattempo CC imparava a fare le pagelline: unicuique suum.

  5. Interloquisco, del tutto inutilmente.

    @ Carabba & Macioci, dal vostro scambio vien fuori quello che secondo me è il più grosso problema di Bloom, il cui prestigio ha avuto effetti piuttosto devastanti, a quel che sembra. Il suo concetto di emulazione – che poi è modellato sulla “tecnica” compositiva degli elisabettiani, che assomiglia a quella degli scrittori di teatro del classicismo francese (ma anche Malherbe, per quanto riguarda il discorso sulla poesia, lirica & epica, andava in simile direzione) ed è parente, i tempi sono gli stessi, di certe pratiche barocche nostrali – è in sostanza urtante e offensivo; e soprattutto oscura, con quella specie di violenza che vi s’associa, il concetto più sfumato e complesso di auctor proprio come aggiuntore, come di colui che parte da là dove il predecessore – ma ci vuole, appunto, un ‘canone’ – ha lasciato; pratica e funzione che non necessariamente consiste nell’uccidere il padre, quanto proprio, se si vuole, nell’introjettarlo. Tanto da far pensare che Bloom abbia sostanzialmente frainteso il concetto di auctor, interpretandolo un po’, come dire?, all’americana.

    @ Policastro, non so se in questo caso l’espressione di un punto di vista esterno abbia qualche valore – crederei di sì -, ma per quanto avevo capìto io Carlo Carabba ha detto che mediocre è l’intervista, non tu, e a causa dell’autobiografismo esibito di Sanguineti, non di una tua presunta incapacità.

  6. [anfiosso: ma infatti policastro qui sopra difende sanguineti, non sé stessa. ad ogni modo difendersi (o difendere) da una critica rimarcando la pochezza dell’accusatore non è mai una grande mossa (scusate il giudizio estemporaneo). meglio andare soltanto nel merito.

    nubar a.]

  7. Ah, ecco, adesso lo vedo.
    Per la precisione, Carlo Carabba aveva definito mediocre l’intervista. G. Policastro ha risposto dicendo “prendersi dei mediocri”; anche se poi precisa il riferimento ai “giganti”, tra cui Sanguineti, la sua frase d’esordio può essere riferita a chiunque dei due, e il livore della risposta la dice lunga su chi dei due principalmente fosse da difendere secondo la Policastro. In fondo l’intervista è “sua”, cioè l’ha fatta lei.
    Anche a me sembra illecito quello che la Policastro dice poi, che converrebbe misurare la propria statura prima di criticare. Converrebbe, semmai, misurare la propria statura prima di stabilire di non poter essere criticati.

  8. Scusa Anfiosso, ma a me sommessamente pare di poter dire che, mentre Carabba ostentatamente neppure vuol saper chi sia (ché così fa molto più common reader, dionescampi che qualcuno possa sentir tanfo d’accademia), tu Bloom l’abbia letto un po’ a dispense. I suoi riferimenti, nel concetto di “agone”, sono principalmente Nietzsche e Freud (seppur, quest’ultimo, quasi sempre “agonisticamente” aggredito); e una delle forme codificate dell’Angoscia dell’influenza, in quel libro davvero Magistrale (senza ironia nelle maiuscole, se possibile), è proprio l'”aggiungimento” – mi si perdoni il lessema – nel senso etimologico della parola “auctor”. Non necessariamente, insomma, l'”agone” deve abbattere e cancellare il contendente; anzi, il modello bloomiano ci insegna precisamente quanto siano povere le poetiche e gli autori che, confidando nella linearità aproblematica di quanto definiscono “tradizione”, spensieratamente mettono fra parentesi il confronto concreto, più o meno traumatico, con l’Ombra dei Classici.

  9. anfiosso
    Cortellessa a mio avviso ha ragione. Bloom possiede una visione come ho già detto estrema ma sostanzialmente esatta, ché in letteratura ci si fa spazio col machete e una strenua volontà di respirare nel viluppo di materia, nella giungla che ci annega. Poi, che si tratti d’uccidere o introiettare, poco cambia; c’è sempre un padre – o più padri – da “sdrammatizzare”. Diceva Emerson che un genio sa come prendere a prestito, e ogni genio in effetti fraintende creativamente (Bloom) coloro che l’hanno preceduto. Questo a mio avviso è palese non appena si provi a confrontare determinate linee di sviluppo (che Bloom concepisce come agone) della letteratura. Dove Bloom non mi trova d’accordo è nella divinizzazione di Shakespeare – che pure considero lo scrittore più dotato di sempre – e in certa spiccata anzi smaccata preferenza per la letteratura anglosassone, cui fa da contrappeso un’ostilità abbastanza manifesta nei riguardi della lirica francese (Baudelaire “complessato” dalla presenza ingombrante di Hugo, Mallarmé quasi nemmeno citato, Cèline da cestinare, Rimbaud soltanto riconosciuto nel suo pieno valore, anche se poi Bloom sostiene che la sua innovatività sia stata favorita dall’aver scritto in francese e non in inglese, nel quale idioma avrebbe dovuto assimilare Shakespeare, tanto per cambiare, e poi Wordsworth che già aveva decostruito l’io prima delle ILLUMINAZIONI, eccetera eccetera).

  10. E invece sì, una cosa (tralasciando quell’aver letto a dispense che, se si voleva interloquire, doveva rimanere in punta di dito):

    Non necessariamente, insomma, l’”agone” deve abbattere e cancellare il contendente; anzi, il modello bloomiano ci insegna precisamente quanto siano povere le poetiche e gli autori che, confidando nella linearità aproblematica di quanto definiscono “tradizione”, spensieratamente mettono fra parentesi il confronto concreto, più o meno traumatico, con l’Ombra dei Classici.

    Di là dal fatto che né Cortellessa né Macioci hanno aggiunto alcunché di sostanziale a quello che ho detto, il periodo qui sopra è cortocircuitato, e non di poco. Se chi considera “spensieratamente” la tradizione rifiuta il confronto concreto “con l’Ombra dei Classici”, non è certo a loro che si può attribuire questa volontà di “uccidere”, no?

    Quanto all’intervento di Macioci (già che ci sono), tutto quello che dici è opinabile; io, per esempio, non sento affatto quest’incombere dell’ombra dei classici, non credo affatto che si debba affrontare la letteratura col machete, e continuo a non essere d’accordo con l’idea della letteratura come agone. La trovo un’idea pacchiana, volgare – di là dai suoi gusti, anche se, guarda un po’, ho apprezzato piuttosto il suo inquadramento di Hugo (ma anch’esso letto da me a dispense, quindi non è il caso che ne parli). In cima a tutto, è l’idea di un Canone Occidentale che mi sembra una stronzata.
    Tutto questo è ideologia; come poi Bloom sviluppi il discorso, quali siano i suoi dèi, che si possa talora condividere e talora no è tutta una questione che a me non interessa, dato che le premesse non mi sembrano condivisibili. Ma anche se lo condividessi, sarebbe sempre e solo ideologia. Pare invece, dall’uno e dall’altro intervento – questo forse è il loro vero significato -, che si debba ritenere Bloom come uno che forse taglia un po’ alla grossa ma a cui sostanzialmente si deve dar ragione.
    Beh, per me ha torto.
    E mo?

  11. @ Anfiosso
    Hai controbattuto, ma hai ribadito la tua lettura un po’ grossolana della teoria agonistica di Bloom come “pacchiana”. La quale è invece assai raffinata, complessa, articolata. Ma appunto per convincersi del contrario serve leggere, dell’autore, qualcosa in più del Canone occidentale. Se mi dai l’e-mail ti mando l’introduzione che ho fatto alla nuova edizione, uscita l’anno scorso nella BUR, dove ricollego il Canone non solo all’Angoscia dell’influenza, che di Bloom resta il capolavoro, ma a libri rari e “segreti” come Poesia e rimozione e I vasi infranti dove, anziché “pacchiano”, il nostro può apparire persino irritante, al contrario, per esotericità.
    Altra cosa: chi avrebbe attribuito la volontà di “uccidere” i classici a chi ha un rapporto pacificato con la “tradizione”? Non certo io. Sono, questi, due estremi a mio modo di vedere altrettanto vitandi, alla contrapposizione dei quali proprio il modello di Bloom (sulle cui scelte antifrancesi, peraltro, concordo in pieno con quanto detto da Macioci) consente di sottrarsi.

  12. penso con cortellessa che la teoria agonistica di bloom sia raffinata, complessa e articolata. e che per questo, e come mi capita di pensare spesso ultimamente, sia struggente, come solo i manierismi sanno essere. non credo che il pezzo di carabba si metta di traverso a bloom, nemmeno a un bloom edulcorato, detto questo bloom ne il genio è assolutamente common reader, o no?

  13. Altra cosa: chi avrebbe attribuito la volontà di “uccidere” i classici a chi ha un rapporto pacificato con la “tradizione”? Non certo io.

    Non posso fare altro che invitare a rileggere la frase che ho copincollato.

    Per il resto, grazie, no, non m’interessa.

  14. “Certo che Bloom è ideologico. E mo?”…C’è qualcosa di non-ideologico entro l’idea di classico? Classico è un termine ideologico ed ideologizzato. La prima attestazione è di Aulo Gellio che nelle Noctes Atticae XIX.8.13 dice: “classicus adsiduusque aliquis scriptor, non
    proletarius”. Per proletarius si intende tanto il cittadino non contribuente (come l’adsiduus) tanto lo scrittore di testi di consumo. Mi pare che l’ideologia sia presente già nell’archè…

  15. @ chi
    (anche se fa un po’ Fausto Leali)
    Più che farsi common reader, il Bloom del Genio ha divulgato se stesso in spiccioli, banalizzando e pacchianizzando una delle più originali e utili archietture concettuali del secondo Novecento. Purtroppo.

  16. @ andrea
    (in effetti fausto leali fa parte della mia formazione)
    deduco che la tua concezione di common reader è comunque una argomentativa. il common reader argomenta se stesso non “in spiccioli”. bloom è “anche” ideologico.

  17. @ tutti (ecumenismo di capodanno)

    mosso dai buoni sentimenti che precedono il cenone, confesso di essere felice che il mio articolo abbia offerto il fianco a una serie di ragionamenti sensati e interessanti piuttosto che a insulti di vario genere.

    per rispondere faccio un breve riassunto del mio pezzo, o perlomeno di quello che voleva essere.
    nello spazio ampio e limitato che mi aveva concesso il riformista ho cercato di riflettere sull’almanacco Bur partendo da quella che mi pareva un’aporia strutturale. Nell’introduzione il curatore prometteva un approccio agonistico al classico, ponendo l’accento sulla rottura tra passato e presente, mentre i contributi della prima sezione, l’unica che affrontava il problema da un punto di vista teorico, ponevano l’accento sulla continuità e la comunanza.
    Nella conclusione, com’è ahimé nella mia natura, cercavo di mediare tra le due posizioni, partendo dal saggio di Catenacci, che mi è parso bello.

    Nella recensire l’almanacco mi sembrava giusto sottolineare che si giocava troppo sull’ambiguità tra classicità greco-latina e Classico (la maiuscola qua non è ironica – nel caso di Sanguineti ammetto con Cortellessa che una qualche ironia c’era), ambiguità mai formulata esplicitamente nel libro e che, mi pareva, desse il la a qualche confusione di troppo.

    Detto questo accettavo la natura miscellanea e antologica e fondamentalmente asistematica del saggio e elencavo alcune delle cose che più mi erano piaciute. Per questo, e vengo alla prima risposta, mi è piaciuta più l’ultima sezione sulla critica italiana, per quanto poco legata al tema del classico, che l’intervista di Gilda Policastro che invece era stata inserita nella sezione intitolata “Cos’è un classico?”.

    Capisco l’ammirazione di Policastro per Sanguineti ma mi è sembrato che la stessa ammirazione fosse foriera di guai, dal momento che, alle brevi domande di Policastro, Sanguineti risponde con lunghe divagazioni autobiografiche interessanti, appunto, più per il biografo che per il common reader. Tanto più che tra traduzioni e travestimenti il contributo teorico dell’intervista alla questione mi è parso, ripeto, nullo.

    Del resto non nascondo di amare ben poco Sanguineti, come poeta e come teorico della letterattura. Non credo di non avere il diritto di criticarlo, indipendentemente dalla mia statura poetico-critica, e di affermare, ogni qual volta me ne viene data l’occasione, che penso che Sanguinetti abbia responsabilità gravissime rispetto ai problemi della poesia italiana contemporanea (visto che mi sto dilungato tornerei su questo punto, se interessa a qualcuno, un’altra volta).

    In ultimo, sulla questione capitale del classico e dello sguardo che si volge ad esso, chiuderei con un andeddoto.
    La questione è antica, direi ben precedente a Bloom, tout est bu tout est mangé di Verlaine, querelle des anciens et des modernes, i nani sulle spalle dei giganti di Bernardo di Chartres, il prato delle Muse tutto già mietuto di Callimaco (e con questi riferimenti il tanfo di accademia è assicurato). Penso che l’avversione-emulazione nei confronti dei Maestri riguardi ogni scrittore, ma senza esagerare.
    Un paio di mesi fa ho assistito a una conferenza in cui Baricco sosteneva di avere iniziato a scrivere per distruggere tutta la letteratura prima di lui e auspicava che i futuri autori si metterano a scrivere per distruggerlo.
    Ecco, al di là di Baricco, per quanto io, nel mio piccolo, quando scrivo sento il peso di una tradizione con cui il confronto e necessario, non sento di provare la minima traccia di animosità nei confronti di Gozzano o Leopardi, autori che sento come modelli più grandi di me.

    Vabbè, grazie a tutti e buon anno,

    Carlo

  18. anfiosso
    E’ chiaro che la mia “ansia” letteraria non dev’essere anche tua. La mia comunque si manifesta in un rinnovato slancio “competitivo”, per fortuna; anche se sono abbastanza intelligente da comprendere l’irragiungibilità di certe grandezze. Riguardo al CANONE OCCIDENTALE, secondo me non è una stronzata ma neppure la Bibbia; come ben dice Cortellessa L’ANGOSCIA DELL’INFLUENZA o I VASI INFRANTI sono lavori assai più profondi e sottili. La concezione di Bloom (quella che tu chiami, in fondo giustamente, ideologia) è apocalittica e agonistica all’eccesso, però ribadisco la mia idea: non è rozza né infondata. In fondo anche le figure letterarie più innovative e rivoluzionarie partono da un antecedente, e la catena regge lo strattone di qualunque originalità; il fatto stesso che non sia concepibile un autore incolto testimonia a favore di quello che Bloom chiama agone e che possiamo definire nella sua versione più dolce assorbimento, assimilazione, prolungamento eccetera eccetera.

  19. @Mazziotta
    è proprio la citazione da cui parte una delle risposte di Sanguineti, nell’intervista a mia cura. ma a Carabba (ipse dixit) pare roba da fanatici e da biografi di Sanguineti, e allora buon anno a tutti.

  20. @carlo carabba
    “…penso che Sanguinetti abbia responsabilità gravissime rispetto ai problemi della poesia italiana contemporanea…”
    non sapevo che la poesia italiana avesse dei “problemi”.
    capisco l’inopportunità di porti oggi e qui questa domanda, ma di che si tratterebbe?
    lo chiedo da common reader, quale sono e fui.

  21. O.T.
    una mia amica sostiene che un “classico” è un libro in cui, finite le parole, restano le cose..buon classici a tutti per il 2010, V.

  22. @Francesco Pecoraro

    scusa il ritardo nella risposta, ma ho avuto problemi a connettermi.
    Mi chiedi di spiegare il mio accenno ai problemi della poesia e, pur se in ritardo, sono felice di accontentarti.
    Direi che i problemi di cui parlo si possono far risalire a uno solo: l’assenza, per la poesia, di quei common readers più volte invocati nel corso di questa discussione.
    La poesia oggi si pone come un campo specialistico, la cui fruizione presuppone il possesso di conoscenze tecnico-esoteriche. Da qui la frase che chiunque si occupi di poesia si sente ripetere con frequenza esasperante “Scusa, io la poesia non la capisco”. È un po’ la situazione in cui si trova l’arte contemporanea ma senza il giro di denaro.
    Questo accenno ci porta a un nuovo aspetto del problema: l’assenza di un riconoscimento per il poeta, in termini monetari o di prestigio. Se la mancanza di soldi, si potrebbe obiettare, è antica quanto la poesia (carmina non dant panem), la mancanza di prestigio è fenomeno decisamente recente.
    Il solito common reader (parlo di quel common reader che compra e legge molti libri e ha una buona cultura) non saprà fare il nome di nessun poeta sotto i cinquant’anni e anche i poeti ultracinquantenni più famosi (Cucchi, Magrelli, Patrizia Cavalli) sono pressoché sconosciuti se comparati ai loro analoghi della generazione precedente (Zanzotto, Sanguineti, Alda Merini – per non parlare, andando a ritroso, di Ungaretti e Montale). L’inevitabile necessità del riconoscimento ha causato la tendenza alla creazione di scuole e linee poetiche che funzionano come rifugio – con una certa semplificazione: poesia delle cose al nord e neopostavanguardia al centro-sud. Si assiste così a una produzione poetica fortemente manieristica in cui spesso è difficile distinguere un autore dall’altro. Alcuni hanno parlato di poesia che pare computer-generated, Alfonso Berardinelli ha scritto di sensazione “questa la scrivevo pure io” che coglie il lettore tanto davanti ai lamenti spontaneistici del “poeta della domenica”, quanto alle poesie anodine e impersonali degli epigoni di una tradizione, che sembrano obbedire pedissequamente a regole che riducono l’ispirazione poetica all’enigmistica.
    Per non parlare poi delle insensate dichiarazioni teoriche che accompagnano la produzione in versi: “la poesia deve abitare un non-luogo”, “la poesia deve rovesciare il linguaggio ordinario svelandone la vacuità”, “la poesia è lo spazio bianco tra un verso e l’altro”, che spesso servono a far passare come intelligente il formulatore più che a dire qualcosa di fecondo.
    Ad ogni modo sovente qualche amministrazione comunale affida agli esponenti più accreditati di una delle scuole la gestione di qualche iniziativa poetica, festival o ciclo di letture che sia, in cui felicemente viene ribadita l’inestinguibile vitalità della poesia.

    Questa, in breve, la mia posizione. Come ho già detto altrove, la poesia deve ritrovare la via che porta al lettore, altrimenti è condannata alla vita della specie in via di estinzione, a una vita da riserva.

  23. A me Carlo Carabba piace.

    [Piuttosto, non vorrei esser parso troppo duro con Cortellessa: in realtà la risposta che gli ho dato non è nemmeno ellittica, è imprecisa.
    Il fatto non è tanto che non m’interessa. E’ che sicuramente finirei col lèggere a dispense anche la sua pregevole prefazione; sarebbe peccato, no?].

  24. apprezzo da lettrice comune ma non sprovveduta l’intervento di c. carabba sulla poesia.
    in particolare:
    “la poesia deve ritrovare la via che porta al lettore, altrimenti è condannata alla vita della specie in via di estinzione, a una vita da riserva”
    ciò è tanto vero che preferisco di gran lunga leggere qualche ingenuo poeta della domenica che certa produzione cervellotica (e altrettanto “facile”: basta prenderci la mano) che domina la spoglia scena attuale: apprezzo lo sforzo di dire, mentre negli altri casi lo sforzo di capire, che non perviene a nulla da parte mia, mi fa dubitare che non mi si stia prendendo in giro. preferisco sorridere bonariamente dell’ingenuità che sforzarmi di farmi piacere astrusità messe insieme tirando la monetina, sfogliando il vocabolario mettendoci su il dito a caso.
    ho riletto caproni e raboni in questi giorni, non li leggevo più da anni: ho respirato, ho sentito che le loro parole mi arrivavano, ed erano quasi nuove di zecca. la via, loro, per arrivare al lettore, non l’hanno smarrita.

  25. anch’io tendo a ridimensionare sanguineti, ma non credo che si possa farlo a partire dagli effetti (mancati) come fa carabba, il poeta che non precede o produce il gusto e dunque l’effetto non è tale…osserverei piuttosto che la poesia di sanguineti è in definitiva poco carica semanticamente, e dunque più agevole…è (relativamente) facile raggiungere esiti convincentim, asciutti e densi giocando con le parole, il difficile è farlo scrivendo dell’amore per la mamma…

  26. qualche reazione immediata alla posizione di carabba.

    – il richiamo a un “ritorno al lettore” è probabilmente positivo come atteggiamento estetico e come motto di politica culturale, ma in sede teorica (si fa per dire) mi lascia un po’ perplesso. forse il concetto di “common reader” – che non a caso viene denotato con una espressione anglosassone, che richiama alla mente una realtà sociale e letteraria assai diversa dalla nostra – andrebbe chiarificato. chi è il “common reader” italiano, oggi? io ne ho una idea piuttosto sfumata, e credo parziale. la questione richiederebbe un qualche approfondimento, una indagine sociologica, o se non altro una precisazione. se la questione è posta in questi termini: “necessità di un ritorno al common reader”, allora la questione di chi sia il “common reader” è una questione preliminare da affrontare.

    – per esempio: in italia non abbiamo avuto il simbolismo come corrente maggioritaria (non abbiamo neppure avuto la parte più esoterica del romanticismo). di sicuro non abbiamo avuto esponenti forti del simbolismo. le ragioni (del romanticismo e) del simbolismo per la frattura tra lettore e testo mancano nella letteratura italiana. la letteratura italiana e il “common reader” italiano hanno conosciuto alcuni corollari del simbolismo solo in seconda battuta, nel clima del decadentismo e delle “avanguardie”. forse questo spiega perché alcuni tratti di certa letteratura appaiano come “non sequitur” estetici. mentre in francia si entrava nel simbolismo in italia si usciva dal risorgimento, si doveva definire la letteratura della nazione unita. altri bisogni politici, e, in generale, fortissima connotazione politica delle correnti letterarie dominanti. per es. la figura del poeta come escluso – eppure riconosciuto dalla società – sembra non imporsi in italia, stretta tra risorgimento, unità e prima guerra mondiale. per ciò anche il common reader italiano manca del background offerto dal simbolismo come corrente dominante. non è necessariamente un male ma è importante per la questione della leggibilità e del “ritorno” al lettore.

    questo è solo un esempio. d’altra parte si potrebbe dire che il “common reader” clto, se si è formato in discipline umanistiche nelle università italiane dopo la fine degli anni sessanta, potrebbe essere più preparato a leggere sanguineti piuttosto che simic o walcott (quest’ultimo, en passant, insegna all’università ma dice: “i poeti scrivono solo per i poeti”. di “riserva” in “riserva” insomma).

    – la sensazione del “questo l’avrei potuto scrivere anche io”, è a doppio taglio, perché si può applicare anche a molta della poesia “user friendly”, della poesia “comunicativa”, della poesia che non dimentica il lettore. nel caso della poesia ermetica o sperimentale o ipertecnica e comunque “per iniziati”, il senso del “questo l’avrei potuto scrivere anche io” è determinato dall’apparente o reale casualità e insensatezza del componimento, esprime un senso di aleatorietà. ma anche la poesia “comunicativa” – anche di alto livello – causa non di rado nel common reader la stessa reazione, sebbene per un diverso motivo: il testo appare (quando non è) troppo ‘ordinario’. manca di segnali che ne indichino l’eccezionalità, oppure questi segnali ci sono ma il “common reader” non è in grado di coglierli. la conclusione è, in entrambi i casi, che poesia non “interessa”, non se ne vede il “senso”, la “necessità”, non se ne riconosce la “funzione”. anche la poesia “comunicativa” va intesa per contrasto con quella “ermetica”, e se manca la comprensione della prima, manca la comprensione della seconda.

    – ma in generale: come evitare il senso di “questo l’avrei potuto scrivere anche io”? due possibili punti: (i) il testo deve segnalare la propria eccezionalità: questo è possibile con l’uso di artifici retorici. ma si ricade sempre nello stesso problema: a quali artifici retorici è preparato il common reader italiano? a quali invece è immune? (ii) il testo deve mostrare chiaramente la propria finalità: cogenza o rilevanza dei contenuti, connessione con il panorama dell’arte contemporanea – in estensione, coerenza e ampiezza della visione proposta. ma il senso del “questo l’avrei potuto scrivere anche io” è pur sempre relativo alla natura e alla sensibilità del “common reader” cui lo si ascrive. e se esiste uno sfasamento – storico e culturale – tra il “common reader” e il “common writer”, allora si pone un problema che non si può risolvere con un unilaterale “ritorno al lettore”. a meno che non si voglia abbandonare l’idea che la letteratura e la poesia possano anche indirizzare e informare i gusti del “common reader”, e che il loro sviluppo sia determinato anche – se non precipuamente – da ragioni intime, interiori. non vogliamo finire col chiederci: è davvero desiderabile desiderare di appiattire la poesia sui gusti del “common reader”?

    la prospettiva si può ovviamente anche ribaltare: a quali artifici retorici è preprato il “common writer” italiano? a quali invece è immune? è egli consapevole con il panorama artistico internazionale? è un problema che va affrontato da entrambi le parti, e riguarda la storia della letteratura e della società italiane. etc. ciò detto, credo che usare la categoria del “common reader” in modo acritico possa risultare fuorviante o comunque piuttosto parziale.

    chissà se carabba è d’accordo: occorre mirare a un equilibrio tra le ragioni interne della poesia e le sue ragioni esteriori. il richiamo di carabba non è sufficiente a indicare un indirizzo estetico per la poesia, e forse è meglio inteso come un invito per il “common writer” a tener presente il “common reader” come interlocutore possibile (e assai probabile), e a non dimenticare le ragioni della comunicatività. e in questo è un richiamo di certo benvenuto e, io spero, fecondo.

    saluti,

    lorenzo carlucci

  27. carabba
    La poesia è necessariamente iniziatica, dunque necessariamente elitaria (nel termine “iniziatico” non includo componenti per forza mistiche o esoteriche: anche OSSI DI SEPPIA fu iniziatico). Non accadrà mai che la poesia abbia molti lettori. Mai (per fortuna?). La poesia non è il Grande Fratello, e non è neppure il romanzo. Il problema semmai è l’emersione nel panorama culturale di poeti scadenti piuttosto che di bravi poeti, un problema dunque di merito, e più ancora il problema è la proliferazione (come ha denunciato Berardinelli) di uno sconfinato sottobosco di pubblicazioni a pagamento (naturalmente è il poeta che paga) che confondono e disorientano anche un buon “common reader” il quale non voglia tornare di nuovo e sempre ai classici.

  28. qualche risposta

    @ lucy (ladies first). grazie, penso che il tuo modo di leggere la poesia e il mio coincidano per larga parte e di questo sono molto felice

    @ un signore che passava. sono d’accordo che il giudizio su sanguineti possa essere (forse vada) formulato solo a partire dall’opera di sanguineti. credo però sia da tenere presente che nell’opera di sanguineti hanno un forte peso le dichiarazioni programmatiche e che la sua poetica abbia, letteralmente, fatto scuola. Nella mia riflessione più che rivolgermi al Sanguineti poeta, che pure, ripeto, non amo, pensavo al Sanguineti teorico della poesia e alla scuola sanguinetiana. Molto d’accordo con te, comunque, che è più facile e meno rischioso un calambour che parlare dei propri genitori.

    @ enrico macioci. Lasciamo perdere l’alternativa manichea e ricattatoria Grande Fratello / capolavoro per pochi eletti.
    Che la poesia sia per sua natura iniziatica è storicamente falso. Per secoli è stato un genere di largo consumo popolare e a vari livelli. Un nuovo esempio. Ho sentito il poeta Gregorio Scalise difendere le ragioni della difficoltà e oscurità della poesia, parlando di Petrarca e della nostra necessità di leggerlo con un adeguato commentario. Ecco, Petrarca è proprio l’esempio del contrario, letto per secoli in tutta Europa tanto da galantuomini, dame e istitutrici che da fini letterati. La fruizione popolare della poesia nasce con la poesia stessa e si interrompe, per sommi capi, tra la prima e la seconda guerra mondiale, con le avanguardie storiche e l’affermazione di una poesia di difficile fruibilità. Ovviamente è una ricostruzione frettolosa e parziale, che non vuole sminuire il rilievo delle avanguardie e che trascura il fatto che alcuni poeti sono stati molto letti e amati anche nel 900 da common readers di tutto il mondo (Neruda, Hikmet, alcuni russi, di recente la Szymborska, per non parlare di alcuni poeti del passato che nel 900 hanno trovato una notevole fortuna presso il grande pubblico, come Emily Dickinson).
    Tutto questo per dire che la tua affermazione “la poesia è necessariamente iniziatica” non mi pare solo non condivisibile. Mi pare falsa.
    Detto questo, la realtà delle case editrici a pagamento per la poesia è terribile, è probabile che in molti libri invisibili si celino libri bellissimi. Però è una conseguenza (perniciosa e aggravante) dello stato delle cose, non la causa. La mancanza di lettori porta gli editori a evitare pavidamente di pubblicare libri di poesia e chi scrive si deve necessariamente rivolgere a case editrici piccole o inesistenti, o, per avere più visibilità, deve accettare la poetica di un gruppo, anche a costo di svilire la propria vena migliore.

    @ Lorenzo Carlucci. Dunque, hai sicuramente colto uno degli aspetti portanti del mio appello, invitare chi scrive poesia a non accontentarsi di essere letti solo dagli addetti ai lavori e a fuggire le regole implicite imposte da mode e correnti. Ma in realtà mi pare che il discorso andasse guardato con la prospettiva contraria, a partire dal lettore e non dall’autore.
    Il punto è che un common reader in Italia esiste, indipendentemente dalla mia capacità di tracciarne un profilo esaustivo. Esistono persone che vanno in libreria e comprano libri scritti da autori italiani viventi. E non parlo di libri facili dalla spiccata vena commerciale (Moccia, Volo) o di eclatanti casi editoriali su cui pure varrebbe la pena riflettere (Saviano, Giordano), parlo di libri che vendono in media tra le 5000 e le 15000 copie (quando vanno molto bene), scritti da autori interessanti e letterariamente non disprezzabili, né disprezzati. Libri che sono sempre romanzi.
    Mi chiedo: è possibile per la poesia ambire a qualcosa di simile? Macioci crede di no, io credo di sì.

    Tornando alla prospettiva dell’autore, tutto questo, nella mia idea, non comporta un appiattirsi nell’inseguimento di un common reader becero, ma lo scrivere una poesia che possa interessare a un pubblico non specialistico o esoterico – in senso etimologico non rosacrociano.

    Quanto all’analisi storica, frettolosa, sulla fortuna della poesia in Italia, penso che in Italia, come vuole l’antico adagio, i poeti abbiano sempre goduto di alta considerazione. Negli stessi anni che tu citi (all’incirca gli ultimi 30 del XIX secolo) l’intellettuale italiano di riferimento era Carducci e proprio per la sua attività di poeta.

    E rispetto alla sensazione “questa la scrivevo pure io”, mi pare che Berardinelli le contrapponesse non lo stupore davanti alla perizia tecnica, quanto la sensazione “questa poesia parla di me”. È chiaro che questa formula può essere presa anche in senso riduttivo, ma non penso che debba essere presa per forza in senso riduttivo.

    Un caro saluto a tutti,

    Carlo

  29. gentile carlo carabba,

    temo che non ci siamo capiti, probabilmente mi sono spiegato male o non ho capito le tue risposte. magari ne riparliamo con più calma.

    non capisco quando scrivi: “Ma in realtà mi pare che il discorso andasse guardato con la prospettiva contraria, a partire dal lettore e non dall’autore.” mi sembrava che il tuo problema fosse: come avvicinare la poesia ai lettori? piuttosto che: come avvicinare i lettori alla poesia? insomma mi sembrava un appello a cambiare la poesia e non a cambiare i lettori. che un common reader italiano “esista” indipendentemente dalla nostra “capacità di tracciarne un profilo esaustivo” è molto probabile (in una prospettiva realista…), ma mi chiedo come si possa affrontare il problema di riavvicinare common reader e poesia senza tracciare un profilo esaustivo (nella misura richiesta dalle determinazioni del problema) del common reader.

    non ho detto che il tuo discorso comporta “un appiattirsi nell’inseguimento di un common reader becero”. “becero” lo aggiungi tu. il “common reader”, anche se non è becero, è sempre “common”, e ti chiedevo: secondo te la letteratura deve informare e rinnovare il gusto del pubblico? precorrerlo? esserne in qualche non trascurabile misura indipendente?

    quanto alla ricostruzione storica: io ho fatto un esempio (quello del Simbolismo) per dare una possibile spiegazione di una incomprensione tra common reader e common poet italiani. non ho mai detto che il poeta in Italia non ha mai goduto di fama e potere.

    infine, quanto al “questa la scrivevo pure io”, non so cosa Berardinelli le contrapponesse, ma mi pare che tu la usassi riguardo alla poesia oscura/ermetica. io osservavo che si riscontra lo stesso atteggiamento nei riguardi della poesia chiara/essoterica.

    ciao,
    lorenzo

  30. gentile lorenzo carlucci,

    ti avevo tenuto come dulcis in fundo e in effetti forse le mie parole di risposta alle tue erano frettolose.

    Il problema in effetti è ancipite, si tratta sia di riavvicinare la poesia al pubblico che il pubblico alla poesia. Le considerazioni che andrebbero fatte sono editoriali critiche e poetiche.

    È evidente che inseguire il gusto del pubblico è pratica sbagliata e, in linea di massima, vana (il solito equivoco secondo cui è facile diventare Moccia o la Rowling). Paradossalmente il pubblico, per vie misteriose, mi appare come un rimedio all’isterilimento e alla chiusura in sé delle forme espressive.
    Mi pare che l’autonomia di un poeta, ora che deve rispondere solo ed esclusivamente alla critica specializzata, sia infinitamente minore di quella che potrebbe essere se dovesse rispondere, nel contempo, alla critica e ai nostri emblematici common readers.

    In realtà mi pare che questa vaghezza di gusti common reader non sia un male, nella misura in cui il poeta può rivolgersi a un common reader senza sapere esattamente come esso sia.

    Riguardo all’esempio storico, volevo solo osservare che la tua ipotesi è interessante ma non so se l’incomprensione tra i due common (reader e poet) ha origine nel simbolismo mancato – e nell’assenza di poeti rock-star in Italia (Byron, Rimbaud, Dylan Thomas, Pound, Ginsberg). In Francia, dove il simbolismo trionfava, mi pare vi siano problemi analoghi.
    Restando alle nazioni occidentali (che sono quelle di cui ho qualche, pur vaga, cognizione) mi pare che la situazione migliore sia quella nordamericana, dove tendo a pensare che l’impatto del simbolismo sia stato trascurabile.

    Rispetto alla sensazione “questa la scrivevo pure io”, io avevo a mente Berardinelli e quindi la contrapponevo nel mio animo a “questa poesia parla di me”. Devo dire che però la poesia essoterica mi pare si presti più al commento “che ingenuità” che al “ci riusciva pure mio nipote di tre anni”. Mentre, come scrive Lucy, certa poesia neoavanguardista suscita, almeno in me, la sensazione “questo mi prende per i fondelli”.

    Ma hai ragione quando scrivi che di tutto questo si dovrebbe parlare con più calma.

    Ciao,

    Carlo

  31. gentile carlo,

    grazie per le tue precisazioni. rimandando il tutto a una più ragionata discussione, solo due cose:

    – la tesi per cui si scrive poesia esoterica perché l’autore sente di dover rispondere solo alla critica specializzata non è così evidente. si possono esistere ragioni interne alla logica delle arti (cfr. à nouveau, il discorso sul simbolismo).

    – dici che in francia le cose non vanno meglio. sinceramente non lo so. l’impressione mia e del tutto superficiale è che il lettore colto sia più preparato a certi esoterismi e a una certa poetica.

    – “mi pare che la situazione migliore sia quella nordamericana, dove tendo a pensare che l’impatto del simbolismo sia stato trascurabile.” ehm… scusa ma questo non depone a favore della mia tesi? :)

    – sono d’accordo che “questo mi prende per i fondelli” è da dedicarsi esclusivamente a certa poesia ipertecnica ed esoterica. ma ti assicuro pure che “questa la scrivevo pure io” viene sparata anche contro poesie di tutt’altro tipo. la mia sensazione è che entrambe le reazioni abbiano una radice comune, esprimano lo stesso disinteresse. e in qualche modo questo è in accordo con quanto dici tu: tanto “questa poesia non ha senso” (= “questa poesia non parla di niente”) quanto “che ingenuità” (= “questa poesia parla dei fatti personali dell’autore”) sono forme di “questa poesia NON parla di me”, e dunque in opposizione al desiderabile “questa poesia parla di me”.

    a presto,
    lorenzo

  32. carabba
    In questi giorni non ho connessione. Ti rsiponderò con calma non appena potrò, anche perchè vedo che hai capito poco di quel che intendevo. “Ecco, Petrarca è proprio l’esempio del contrario, letto per secoli in tutta Europa tanto da galantuomini, dame e istitutrici che da fini letterati.” Bisogna vedere cosa ci capivano, e in quanti. E bisogna vedere quel che intendiamo per poesia oggi, 2010. Il concetto (mio) di base è che non siamo antropologicamente pronti a una poesia ecumenica che sia anche poesia profonda, poesia “in contatto” con le corde del tempo attuale. Ancora, al volo: Petrarca è proprio l’esempio di poeta “accademico” che oggi non può più sussistere; tutte le più grandi e tragiche e profetiche figure poetiche moderne (da Holderlin a Baudelaire a Rimbaud a Trakl, Celan, Cvetaeva, Campana, Thomas eccetera eccetera) sono scisse, socialmente mal integrate; e sono mal integrate proprio perchè profetiche. A presto, spero, e con maggiore calma. Internet permettendo.

  33. L’esclamazione «Questo lo facevo pure io» la si sente spesso nei musei d’arte contemporanea, l’ho udita mentre osservavo un quadro di Pollock, eccetera.
    Quando la sento pronunciare (a Roma risuona un Ero bbono pure io) da una parte mi fa ridere, dall’altra mi viene da girarmi e dire Va bene, allora perché non l’hai fatto? Perché sotto quel quadro c’è la firma di Pollock e non la tua?
    Mentre sarebbe molto difficile, lungo, complicato, provare a spiegare perché quella cosa che a farla Eri bbono pure tu, ha invece un senso, anche se, certamente, non un significato.
    Da common reader credo che la differenza tra senso e significato sia cruciale anche per la poesia, perché introduce la questione di cosa vuol dire «capire» una poesia.
    Esistono poesie completamente intellegibili prive di senso e poesie oscure che invece ne sono piene.
    Dipende dalla loro capacità di forare la sostanza isolante che ci separa dal testo e dipende anche dalla nostra capacità di andare incontro al testo con fiducia, concedendogli sulle prime di non farsi capire e cercandone invece il senso, cioè la capacità di risuonare lasciandoci qualcosa che chiamerei (con un certo ribrezzo) un residuo interiore.
    Grazie Carabba e grazie a tutti quelli che hanno preso in considerazione la mia domanda.

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