Profugo / richiedente asilo / diniegato / clandestino: sequenze dell’identità migrante

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di Davide Biffi

Cosa ne è della persona quando tutto il suo senso di sé, della sua storia ed esperienza, è in balia di etichette che ne riducono l’umanità?

A seguito delle rivolte negli Stati del Nord Africa, dall’inizio del 2011 sono giunte in Italia circa 62 mila persone, prevalentemente dalla Libia e dalla Tunisia. Venti di loro, cittadini nigeriani giunti dalla Libia via mare, furono inviati in un centro di accoglienza creato appositamente a Limbiate (MI), dove tra il 2011 e il 2012 lavorai come educatore. La ricerca etnografica da me portata avanti in quell’occasione, assieme alla mia esperienza in corso da aprile 2014 con i richiedenti asilo inseriti nel progetto di assistenza legale dell’Arci Monza e Brianza nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum, sono alla base di questo intervento, dove analizzo come la procedura di riconoscimento di protezione internazionale contribuisca sia alla costruzione identitaria del richiedente asilo, sia alla percezione e alla produzione di categorie sociali all’interno del discorso sulle migrazioni forzate. Per un migrante che viene ‘smistato’ da una categoria all’altra, cosa significa essere oggi richiedente e domani diniegato, poi ricorrente e alla fine, forse, clandestino?

 

1. L’Emergenza Nord Africa

Inizierei con alcuni fondamentali elementi di periodizzazione. Due sono le fasi migratorie che hanno contraddistinto la cosiddetta Emergenza Nord Africa (anche detta ENA): da gennaio ad aprile 2011 durò la fase degli arrivi tunisini; da maggio iniziarono gli sbarchi provenienti dalla Libia.
L’allora governo, con a capo Silvio Berlusconi, dichiarò lo stato d’emergenza con un decreto datato 12 febbraio 2012. Inizialmente, l’emergenza fu gestita da un commissario straordinario nominato dal Governo, individuato nel prefetto di Palermo.
Tra febbraio e marzo 2011 proseguirono gli arrivi di migranti tunisini. Il governo decise di sospendere i trasferimenti dei migranti da Lampedusa ed in breve tempo nell’isola si creò una situazione insostenibile di sovraffollamento, complice anche la chiusura del centro di identificazione dal 2009.
Dopo alcune settimane il Governo decise di riaprire il CIE di Lampedusa e di trasformare in un CARA (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) un residence nella città di Mineo (Catania), dove vennero trasferiti i richiedenti asilo già ospitati in altre strutture dell’isola.
Nello stesso periodo il governo iniziò l’evacuazione dei migranti dall’isola di Lampedusa. I migranti furono distribuiti in varie tendopoli sparse in Sud Italia, create per rispondere all’emergenza: Manduria, Kinisia, Palazzo S. Gervasio e Santa Maria Capua Vetere. I siti, ad eccezione di Manduria, furono trasformati in CIE.
Il 5 aprile 2011, il governo decise di concedere la protezione temporanea con un permesso per motivi umanitari della durata di 6 mesi ai cittadini tunisini arrivati in Italia tra il 1°gennaio 2011 ed il 5 aprile 2011. Ciò permise a migliaia di tunisini di raggiungere il resto dell’Europa, con grande irritazione della Francia soprattutto.
Da aprile 2011 iniziarono gli sbarchi dei cosiddetti “libici”: migranti di varie nazionalità africane ed asiatiche provenienti dalla Libia, oltre ad una minoranza di cittadini libici. È del 7 aprile 2011 il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che dichiarò “lo stato di emergenza umanitaria nel territorio del Nord Africa per consentire un efficace contrasto dell’eccezionale afflusso di cittadini nel territorio nazionale”, in seguito al peggioramento della situazione umanitaria in Libia ed al riversarsi di migranti in Tunisia ed Egitto.
Il 13 aprile 2011 il governo emanò una nuova ordinanza con la quale venne affidata al sistema centrale della protezione civile il compito di pianificare le attività della sistemazione dei migranti sul territorio dello Stato.
In un secondo tempo, il Presidente del Consiglio affidò al dipartimento della protezione civile il compito di attuare un piano per l’accoglienza e stabilì che ogni Regione avrebbe dovuto nominare un soggetto attuatore del citato piano. Da quel momento in poi, dunque, al Ministero dell’Interno (che ha competenza in materia di migrazioni forzate e gestione dei CARA) si affiancò un sistema di accoglienza straordinario gestito dalla protezione civile.
Il piano mirava a garantire la prima accoglienza e ad assicurare l’equa distribuzione dei migranti su tutto il territorio nazionale (ad eccezione dell’Abruzzo, alle prese ancora con l’emergenza terremoto).
Con la caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011 la situazione non cambiò. L’emergenza nord Africa venne prorogata dal nuovo governo Monti sino alla fine del 2012. Nel frattempo numerose associazioni chiesero al governo il rilascio di un permesso per motivi umanitari a tutti coloro che giunsero in Italia sull’onda delle rivolte nei paesi nord africani (1) .
Dopo settimane di silenzio da parte del governo, il 31 ottobre 2012 una nota informativa del Ministero degli Interni, la n.400/C/2012 denominata “Superamento emergenza nord Africa. Istruzioni relative alla nuova funzionalità predisposta nel sistema VESTANET C3 – gestione emergenza nord Africa” comunicava le modalità per richiedere il rilascio di un permesso di soggiorno in favore dei soggetti arrivati nel periodo dell’emergenza nord Africa e già diniegati dalle commissioni territoriali. Dopo questo provvedimento calò il silenzio fino al 28 dicembre 2012.
Il Ministero degli interni emanò un documento a ridosso della scadenza dello stato di emergenza in data 28 dicembre 2012, denominato “Flussi migratori dal Nord Africa, il 31 dicembre prossimo terminerà la fase emergenziale.” Il documento non comunicava come sarebbe proseguita l’accoglienza. La competenza, dal commissario straordinario della protezione civile, passava ai prefetti di ogni singola provincia.
Venivano concessi altri due mesi di assistenza, fino al 28 febbraio 2013. Il 28 febbraio l’Emergenza Nord Africa e l’accoglienza dei migranti cessarono ufficialmente.

Oggi, a più di tre anni di distanza da quei fatti e da quella modalità di gestione dei flussi di ingresso e dell’accoglienza dei migranti, ci troviamo nelle stesse condizioni, con la replica di ciò che fu l’accoglienza durante ENA. Si può affermare che quel tipo di accoglienza, sperimentata in ENA, sia oggi divenuta sistematica e non più emergenziale.

Io mi sono trovato a lavorare nel centro di accoglienza temporanea di Limbiate come educatore. Il luogo in cui i richiedenti asilo ospiti erano alloggiati era una parte di un ex complesso dedicato all’internamento psichiatrico, il famoso ospedale di Mombello, uno dei più conosciuto nel ‘900 in Lombardia.

L’ubicazione del luogo rispondeva di fatto ad una volontà di segregazione e separazione dal resto del corpo sociale. Posto ai confini del territorio comunale, in un’area limitrofa ad una zona oggi industriale e commerciale, trasmetteva un senso di lontananza e separazione dal resto del mondo. La volontà di segregazione non era esplicita ma l’ubicazione del luogo rendeva limitata la mobilità e soprattutto le relazioni con il resto della comunità. La condizione dei richiedenti asilo ospitati a Limbiate ha alcuni elementi in comune con la situazione descritta nelle analisi che la letteratura sulle migrazioni ha realizzato sui luoghi di accoglienza e detenzione dei migranti, partendo dalle analisi sulle istituzioni totali e sulla concezione del potere governamentale e del disciplinamento dei corpi. Le connessioni principali che ho rilevato con le analisi di Goffman interessano il funzionamento della strutturazione del servizio e le relazioni con lo staff che lavorava all’interno del centro di accoglienza, mentre le connessioni con le analisi di Foucault riguardano la diffusione del potere disciplinare tra i vari soggetti delegati al controllo delle vite dei migranti ospiti da parte del potere centrale –quello statuale – e la concretizzazione dell’espletamento di questi poteri autonomi sui corpi oggettivizzati dei migranti.

Il richiedente asilo nel corso dell’iter burocratico subisce e contemporaneamente agisce sul sé attraverso un processo di ri-negoziazione identitaria (2) . Anche la fisicità della struttura in cui vive, unita alle sue regole e dinamiche, contribuisce al processo di assoggettamento del richiedente asilo.
In Goffman questo concetto è esplicitato chiaramente: “dal momento in cui il processo di spoliazione dell’istituzione totale agisce sull’internato, indebolendo la relazione che egli ha con il proprio sé, è il sistema dei privilegi che gli fornisce una struttura su cui fondare la propria riorganizzazione personale” (3).

Un altro aspetto che meriterebbe un’approfondita analisi, ma che toccherò superficialmente, è il livello di formazione degli enti e degli operatori incaricati della gestione dei richiedenti asilo. Questo aspetto è stato (ed è tuttora) uno degli elementi critici della vicenda ENA. A fianco di enti e personale con esperienza pluriennale nel settore dell’accoglienza di migranti e/o richiedenti asilo, si sono ritrovati enti del terzo settore ed albergatori senza alcuna esperienza specifica né formazione sul tema. Questo è avvenuto a causa dell’affidamento diretto di risorse per l’accoglienza extra bandi pubblici, attraverso la regia della protezione civile nazionale.
Oggi lo stesso meccanismo è riprodotto sotto la regia delle Prefetture, che hanno come obiettivo primario la “sistemazione” dei migranti sul territorio nazionale dove registrano la disponibilità di posti letto, indipendentemente da chi sia l’ente che li gestisce e con quali competenze in materia.
Questa necessità di posti letto ha portato ad una situazione fortemente eterogenea sul territorio nazionale, che a grandi enti del terzo settore con esperienza pluriennale, affianca piccoli enti, singoli albergatori, associazioni, privati. Ciò di per sé non significa che finire in un centro piuttosto che l’altro sia meglio o peggio per il migrante; voglio sottolineare, invece, la grande eterogeneità dell’accoglienza, che varia da luogo a luogo.
Appare quindi evidente che non esista un vero e proprio sistema, ma una serie di contesti di accoglienza differenti l’uno dall’altro. Ciò porta una grande differenza nella qualità dei progetti di accoglienza e dei servizi offerti ai richiedenti asilo.
Manca un sistema di controllo centrale che vigili e verifichi la qualità del servizio, come cioè vengono impiegate le risorse economiche destinate a questi progetti.
Ciò che, a distanza di mesi dal lavoro all’interno della struttura di accoglienza di Limbiate, apparve chiaro a noi operatori fu l‘improvvisazione della strutturazione del servizio offerto ai richiedenti asilo che è emersa come tratto distintivo dell’accoglienza, unita alla solitudine in cui ci trovammo noi operatori a dovere affrontare sia emotivamente che pragmaticamente la situazione.

 

2. La procedura di richiesta protezione internazionale: un percorso di ricostruzione del sé.

 

Dallo sbarco alla verbalizzazione in questura.

Il primo passo che porta alla richiesta di protezione internazionale è la presentazione della domanda di asilo. Per quanto riguarda i migranti oggetto di questo articolo, la richiesta di asilo politico fu compilata al momento del loro arrivo in Italia nel porto di Lampedusa.
La comprensione dell’atto che venne compiuto dai migranti appena sbarcati fu scarsa. I migranti compilavano i moduli che venivano loro consegnati affidandosi alle indicazioni della polizia e degli operatori sociali presenti al momento del loro sbarco in Sicilia. Nessuno di loro conosceva realmente le conseguenze di quell’atto. Nessuno di loro aveva pianificato la fuga dalla Libia, ma erano state le circostanze della guerra a costringerli a fuggire. Tutti in Libia lavoravano, vivevano da anni e non immaginavano il loro futuro in Europa.
Al momento dell’arrivo, la procedura di identificazione attuata dalle forze dell’ordine prevede che ogni migrante venga fotografato e gli vengano prese le impronte digitali. In questo modo il richiedente asilo è “intrappolato” in Italia fino alla fine dell’iter di richiesta di protezione internazionale, sulla base del famoso regolamento Dublino. Non può uscire dall’Italia né chiedere asilo in un altro stato europeo, poiché vige il principio della richiesta di protezione nel primo Stato di approdo.
Successivamente viene rilasciato dalla questura competente un tesserino plastificato con i dati identificativi del migrante e la data di sbarco in Italia.
Nel cammino di ri-costruzione identitaria del soggetto-richiedente la data di sbarco assume un valore fortemente simbolico, come a significare una ri-nascita, un nuovo inizio.

Stephen, 27 anni: “Voi mi avete salvato, l’Italia mi ha soccorso in mezzo al mare. Ora devo dimostrarvi la mia gratitudine. Datemi un lavoro, pagherò le tasse al vostro Paese, lavorerò per voi! Io ora sono italiano, perché mi avete salvato ed avete avuto cura di me.”

Joshua, 28 anni: “quando eravamo in mezzo al mare non sapevamo se saremmo sopravvissuti. Poi è arrivato un elicottero ed abbiamo capito che ci avrebbero salvati. L’Italia ci ha salvato, ci ha aiutato. Ora devo dimostrare al Governo che vi sono grato. Questo è il mio nuovo Paese!

La condizione giuridica dei migranti subì una prima ed importante mutazione: da immigrati clandestini (essendo entrati in Italia senza i documenti necessari) divennero richiedenti asilo in seguito alla compilazione della richiesta di protezione internazionale. Un cambiamento di non poco conto, vista la differenza di trattamento tra le due situazioni amministrative. Nel primo caso sarebbero stati mandati in un CIE e quindi espulsi; nel secondo caso, quello che si verificò, avrebbero seguito il percorso di cui parlerò tra breve.
Dopo lo sbarco e le operazioni poc’anzi descritte, i migranti vennero smistati nei vari centri d’accoglienza d’Italia. In un primo momento vennero trasferiti presso la tendopoli di Manduria, in Puglia. Successivamente, dopo circa un mese, vennero trasferiti in autobus presso il centro di accoglienza di Limbiate.
I primi incontri con la burocrazia milanese a cui i richiedenti asilo furono sottoposti dopo pochi giorni dal loro arrivo al nord furono il fotosegnalamento e la verbalizzazione della loro richiesta di protezione internazionale in Questura. Nello stesso momento i richiedenti asilo compilarono il modulo per la richiesta del permesso di soggiorno, della durata di sei mesi, che automaticamente viene concesso a chi fa domanda di protezione internazionale. Questo permesso non prevede la possibilità di lavorare. Questa fu una delle prime disillusioni dei richiedenti asilo. Per i primi sei mesi di accoglienza, quindi, è vietato per legge lavorare, per lo meno legalmente.
La verbalizzazione (modello C3) è un’operazione che avviene negli uffici della Questura, dove un agente di polizia, coadiuvato da un interprete se necessario e se disponibile, trascrive la dichiarazione del richiedente asilo sui motivi della sua richiesta di protezione internazionale.
La verbalizzazione è un momento importante nel percorso di costruzione dell’identità del richiedente asilo. Durante la verbalizzazione è il migrante che prende la parola, anche se inserito in un colloquio standard, che ha un fine specifico, cioè quello di provare se sia o meno un vero richiedente asilo. E’ un momento di autonarrazione, seppur limitata, la prima che gli viene richiesta e concessa dall’apparato burocratico che lo ha preso in carico.

 

Dall’intervista in commissione alla risposta alla domanda di protezione internazionale.

Dopo la verbalizzazione della richiesta di protezione internazionale venne fissata la data di audizione presso una delle commissioni territoriali competenti, diffuse sul territorio dello Stato (Attualmente istituite presso le Prefetture delle città di Torino, Milano, Gorizia, Roma, Caserta, Foggia, Bari, Crotone, Siracusa e Trapani).

L’attesa dell’audizione può essere anche superiore agli otto mesi. In questo lasso di tempo il richiedente resta in attesa di una risposta sul proprio destino.
Questo periodo dovrebbe essere speso in progetti di formazione (linguistica, professionale) ma spesso è tempo speso in nulla, data la scarsità di risorse destinate a progetti di accoglienza e la difficoltà con cui vengono implementati dagli enti gestori.
Nel nostro caso tentammo di organizzare dei corsi di alfabetizzazione, ma la scarsa partecipazione e le risorse limitate del progetto, soprattutto in termini di personale, non ci consentirono di organizzare un corso all’altezza delle necessità dei nostri ospiti.
Per i migranti nigeriani di cui tratto in questo articolo la risposta alla domanda di protezione internazionale fu, per la stragrande maggioranza dei casi, un diniego.
Il diniego fu un momento di rottura. Nella ri-costruzione identitaria fu una battuta di arresto forte, perché mise in discussione il processo di rinegoziazione del sé che fino a quel giorno ogni singolo richiedente asilo stava attuando, più o meno inconsciamente.
Il diniego cambiò radicalmente l’atteggiamento dei richiedenti asilo nei confronti di noi operatori del centro, del sistema di accoglienza in cui si trovavano e dell’immagine dell’Italia che si erano costruiti nel corso dei mesi.
È interessante analizzare come avvenne la comunicazione della risposta. Il diniego fu notificato presso gli uffici della questura di Milano. Vennero convocati tutti i richiedenti asilo ospiti di Limbiate, accompagnati da noi operatori che avevamo avuto poco prima la notizia dai funzionari della questura. A noi era stato comunicato perché, secondo il funzionario della questura, avremmo dovuto assisterlo nel caso i richiedenti asilo avessero inscenato delle proteste, una volta ricevuta la comunicazione del diniego, visto che erano i “nostri ragazzi”.
Il funzionario addetto parlò in inglese e comunicò a tutti, secondo una formula di rito che “la Commissione non ha concesso a nessuno lo status di rifugiato politico. Avete però il diritto di fare ricorso entro trenta giorni lavorativi a partire da oggi, i vostri operatori vi spiegheranno come fare.
Mentre parlava, il funzionario scandiva le parole con un inglese elementare ma chiaro. Più volte chiese ai diretti interessati se stavano capendo ciò che stava loro comunicando, ed i richiedenti risposero affermativamente.
Subito dopo la comunicazione orale il funzionario chiamò uno ad uno i richiedenti asilo, per firmare la notifica e consegnare a loro una copia di essa. Contemporaneamente il richiedente asilo consegnava il permesso di soggiorno di sei mesi che non poteva essere rinnovato.
Da un punto di vista legale, i richiedenti asilo, ora dei “diniegati”, avevano il diritto di restare in Italia per trenta giorni dalla data di notifica del diniego, dopo di che avrebbero dovuto andarsene dal territorio dello Stato. Presentando ricorso alla decisione della Commissione Territoriale avrebbero potuto restare in Italia (non in un altro paese europeo) fino all’esito del ricorso.
Dal momento del diniego i richiedenti asilo erano privi del permesso di soggiorno, che gli era stato ritirato negli uffici della questura. L’unico documento che la questura aveva loro rilasciato era la notifica del diniego, fisicamente un foglio formato A4. Questo provvedimento non comportava immediatamente l’obbligo di lasciare la struttura di accoglienza.

 

3. Sequenze Identitarie

È possibile analizzare il percorso di un richiedente asilo (lo stesso discorso potrebbe valere per un altro “categoria” di migrante) seguendo le variazioni semantiche di ogni termine che definisce lo status amministrativo nel corso dell’iter durante la sua permanenza in Italia.
Ad ogni termine che definisce il migrante corrisponde una precisa condizione esistenziale ed un preciso momento della sua vita: profugo, richiedente asilo, diniegato, ricorrente. Queste sono le categorie sociali che i migranti limbiatesi coinvolti in ENA attraversarono fino al dicembre 2012. Questa classificazione è puramente teorica. Le definizioni sono degli idealtipi, applicabili anche per i casi che rientrano attualmente nell’emergenza Mare Nostrum.
I diretti interessati passarono inconsapevolmente da un’etichetta all’altra, senza rendersi pienamente conto che ogni cambio amministrativo e quindi di categoria comportava (e comporterà) delle conseguenze specifiche relative ad ogni status.
A queste definizioni se ne possono aggiungere altre due, che sono gli opposti esiti che si prospettano alla fine del loro iter amministrativo: clandestini o rifugiati.
Analizzando i comportamenti dei migranti nei vari momenti della loro permanenza in Italia, la percezione dei richiedenti asilo fino al momento del diniego e comunque prima del responso delle Commissioni Territoriali, era quella di essere già rifugiati e non di essere in attesa di una risposta.
Questa convinzione derivava dal fatto che, agli occhi del soggetto e per certi versi de facto, la condizione del richiedente asilo inserito prima in ENA e poi in Mare Nostrum era già simile a quella del rifugiato.
La percezione del soggetto era quella di essere un individuo degno di protezione con una storia propria non paragonabile a quella di altri migranti, in quanto costretto a fuggire, senza aver scelto di venire in Italia.

Santos, 20 anni: “Noi non siamo come gli altri immigrati. Noi siamo rifugiati, perché scappiamo da una guerra. Il vostro Governo ci sta aiutando, mentre agli altri immigrati non spetta nulla.”

Elvis, 23 anni: “…Vedi, sul mio documento c’è scritto asilo politico. Significa che sono rifugiato, che non sono come gli altri immigrati. Io ho dei diritti, il governo ha una cura particolare per me!

Continuando l’analisi delle etichette applicate dal sistema amministrativo, dopo aver ricevuto il diniego dalla Commissione Territoriale l’identità del richiedente si trasforma: diventa un diniegato. Se prosegue l’iter presentando il ricorso diventa un ricorrente, altrimenti diventa automaticamente (dopo 30 giorni dalla notifica del diniego) irregolare, perciò clandestino.
Dal punto di vista del migrante, il cambiamento dello status da richiedente asilo a diniegato è un passaggio destabilizzante, che rimette in discussione totalmente il percorso seguito dal momento dell’ingresso in Italia.
Allo stupore per aver ricevuto un diniego si aggiunge la mancanza di senso di ciò che sta accadendo dal punto di vista legale e di significato per la propria vita: “Ho fatto tutto quello che mi avete chiesto di fare, perché ora non mi date un permesso?“.

Stephen, 27 anni: “Io non capisco. Se guardo tutto quello che ho passato nella mia vita…ringrazio Dio di essere ancora vivo. Ho perso tutto, sono solo al mondo ed ora sono qua: Dio vuole così. Però non riesco a comprendere. Il governo non mi vuole dare il permesso: va bene, Dio provvederà a me.”

Il momento del ritiro del permesso di soggiorno che avviene in questura al momento della notifica rimise in gioco interamente il percorso fino a lì seguito dai migranti di Limbiate.
Da un punto di vista psicologico è un momento devastante. Il migrante si presenta in questura con la speranza, se non la certezza, di ottenere un riconoscimento alla propria sofferenza. Quando però gli viene formalizzato il diniego, lo stupore è totale. Il colpo inferto è durissimo, gravido di conseguenze sul sé e sulla relazione con il Paese ospitante.
Un diniegato, se non presenta ricorso oppure dopo l’esito negativo di un ricorso, dovrà lasciare il Paese che per lunghi mesi, spesso anni, lo ha tenuto in stand-by, in attesa di una risposta. Sono evidenti le conseguenze sulla quotidianità di una persona che dall’oggi al domani, si ritrova ad essere diniegata ed irregolarmente soggiornante, cioè clandestina: perde tutti i diritti. È formalmente fuori dal sistema, non esiste più.
Cambia totalmente il rapporto con la Legge, con lo Stato e tutte le relazioni formali con i vari enti. Secondo la legge attualmente in vigore, la Bossi Fini, diventa un reo. Colpevole di essere diventato clandestino.

 

4. Come vive un diniegato la sua condizione? Essere un negative.

Tra i richiedenti asilo limbiatesi, dopo il diniego, si diffuse l’autodefinizione di “negative“.

Abel, 20 anni: “Io non sono niente, sono un negative ora. Il governo e voi non mi volete dare un permesso: cosa sono senza un permesso? Non posso fare niente: no lavoro, no casa…niente. Devo solo stare qui ad aspettare…se già mi hanno dato una risposta negativa, come faranno a cambiare idea con il ricorso?

Essere un negative ha significato per i richiedenti asilo limbiatesi intraprendere il percorso del ricorso. Ciò ha comportato una serie di azioni e di pratiche che hanno plasmato la quotidianità dei migranti, il loro tempo e la loro vita per un certo periodo.
I richiedenti asilo di Limbiate vedevano nella comunicazione dell’esito della richiesta d’asilo la fine del loro percorso di precarietà esistenziale, vedevano quel momento come normalizzante, come la ripartenza di una nuova vita, poiché erano certi che avrebbero ottenuto una forma di protezione internazionale.

Santos, 20 anni: “Noi avremo il permesso di soggiorno. Dopo tutto ciò che abbiamo sofferto il Governo ci darà un permesso con cui poter lavorare e fare una vita normale in Italia. Non diteci che non avremo il permesso: ci infastidite e non è di buon augurio. Noi avremo il permesso!

Stephen, 27 anni: “Quando avrò nelle mani il permesso cercherò un lavoro ed una casa. L’Italia è il mio nuovo Paese, voglio fare una famiglia qui. La Nigeria non esiste più per me, cosa torno a fare?“.

Abel, 20 anni: “Quando avrò il permesso me ne andrò da questo centro. Cercherò un lavoro, una casa e non avrò più bisogno dell’aiuto di nessuno“.

Il diniego li costrinse ad abbandonare ciò che avevano immaginato: niente più uscita dal centro di accoglienza, niente lavoro (fino al momento dell’arrivo del nuovo permesso di soggiorno non avrebbero potuto lavorare), niente ricerca di una casa. Insomma, niente autonomia.
Il diniego è vissuto come una bocciatura: fare tutto da capo. È facile immaginare lo stato d’animo di chi “ha fatto tutto ciò che gli è stato detto di fare”, adattandosi ad indossare la maschera del “buon rifugiato” senza ottenere i risultati sperati.
Il diniego si insinua nell’intimità del richiedente, perché gli comunica che, sentita ed analizzata la sua storia, non lo ritiene meritevole di protezione. Il diniegato non comprende tale mancanza di merito.

Santos, 20 anni: “Cosa vuole il Governo per darmi un permesso? Cosa devo provare? Non basta ciò che ho raccontato alla Commissione?

Abel, 20 anni: “Quello che ho vissuto nella mia vita non è bastato. Tutta la mia famiglia non c’è più, cosa vuole che faccia il Governo?

Stephen, 27 anni: “Se sono in Italia, se sono fuggito dal mio villaggio è perché ero in pericolo. Uno che scappa non ha il tempo di portare con sé le prove del pericolo che stava vivendo…non bastano le mie parole al Governo? Perché non mi credono? Era meglio morire in Libia o nel mar Mediterraneo.

Per un migrante che passa da una condizione all’altra, cosa significa essere oggi richiedente e domani diniegato, successivamente ricorrente ed infine clandestino? Nella quotidianità di un operatore sociale, come è possibile costruire percorsi di inserimento nei territori se la condizione soggettiva di chi si ha di fronte cambia in continuazione e radicalmente?

La reazione dei limbiatesi fu di totale incomprensione del meccanismo. La domanda usuale che ponevano a noi operatori era: “Perché a me, perché accade così, qual’é il senso?“. “Perché l’Italia non mi dà un permesso di soggiorno con il quale posso vivere normalmente, cercarmi un lavoro e non avere bisogno del governo? Perché?“.
Il mutamento in pochi mesi della propria condizione, descritto dalle categorie lessicali prima citate, causò frustrazione, rabbia, delusione, senso di impotenza, distacco da parte di chi era stato costretto a vivere una quantità di stati emotivi contrastanti, dove speranza e delusione, gioia e disperazione si sono susseguite (e si susseguiranno) senza sosta. Il tutto inscritto nella pelle di un’esistenza impotente, che non può: non può opporsi agli eventi, ma solamente subirli portando sul proprio corpo e nella propria coscienza i segni di questi continui ed incontrollabili cambiamenti.
Può esistere una forma di resistenza da parte del soggetto su cui si applicano i poteri sottesi al controllo dei fenomeni migratori, oppure si è destinati a subire cercando una strategia di sopravvivenza?
Una delle risposte è stato il ri-adattamento continuo al mutare della situazione. Il migrante deve sopravvivere e per sopravvivere deve adattarsi: non può permettersi di fallire.
Allora si accetta tutto, anche l’incomprensibile, e si va avanti perché, citando,

Joshua, 28 anni: “Se Dio vuole così, un motivo ci sarà“.

Resta solamente la speranza che, se un senso non lo si vede però c’è, esiste nella volontà di “dio”. Esiste perché il proprio corpo migrante, ancora vivo nonostante tutto, ne è testimonianza.

Abel, 20 anni: ” Dopo tutto quello che ho vissuto, se sono ancora vivo lo devo a Dio.”

Darlington, 30 anni: ” E’ Dio che decide tutto. Lui ha deciso che io finissi qui, che sopravvivessi al viaggio.”

Ogni migrante troverà la propria strategia di adattamento, che gli permetterà di continuare a vivere come meglio riuscirà. Il migrante è costretto ad adattarsi, è costretto a trovare il giusto canale per entrare in relazione con il sistema di accoglienza e gli attori che si muovono sullo scenario, pena l’espulsione dal palcoscenico.
In quanti modi si vive dunque la condizione esistenziale dell’essere rifugiato? Tanti quanti sono i rifugiati.
La delusione è cocente. Credo che il sentimento di delusione dei diniegati sia frutto principalmente della mancanza di riconoscimento sostanziale della persona che si cela dietro le categorie identitarie collettive (profugo, richiedente, ecc.).
Il diniego è personale e colpisce direttamente l’intimità del soggetto che lo subisce. Il diniego dice “tu non meriti la protezione”.
Serve a poco spiegare ai richiedenti, con le argomentazioni che circolano tra gli addetti ai lavori, che “ai nigeriani non danno la protezione perché non c’è ufficialmente una guerra, mentre per chi viene da Etiopia, Somalia, Eritrea e Darfur è più facile ottenere una forma di protezione”.
Se è vero che le Commissioni Territoriali tendono a non concedere forme di protezione ai richiedenti asilo provenienti da alcune nazioni, allora il diritto soggettivo alla base della richiesta di protezione è ignorato, con buona pace della Convenzione di Ginevra.
Come possiamo spiegare ai richiedenti asilo che vengono valutate le singole storie, quando invece si hanno provvedimenti sommari ed omogeneizzanti in base alle nazionalità di provenienza? È proprio questo il non riconoscimento delle biografie dei richiedenti asilo nigeriani di Limbiate.
Questa è la modalità di operare delle Commissioni che induce, per esempio, Peter, 33 anni, ad affermare:

Voi non volete i nigeriani. A tutti danno i permessi, a noi no.”

Stephen, 27 anni: “Noi siamo cristiani e non ci volete dare i documenti, perché sapete che siamo persone pacifiche. Se non concedeste ai musulmani i permessi, loro vi farebbero la guerra“.

Queste affermazioni sono diffuse tra i richiedenti asilo ed entrano a far parte anch’esse del discorso sulla migrazione forzata creando (falsi?) miti.

 

5. Alcune considerazioni conclusive.

Definirei illusoria la situazione vissuta dai richiedenti asilo che ho incontrato nel corso del mio lavoro e della mia ricerca.
I richiedenti che hanno vissuto ENA e che stanno vivendo in questi mesi Mare Nostrum, chiamati oggi profughi (termine che per il diritto italiano non ha una definizione precisa, ma alimenta efficacemente un immaginario collettivo in preda alla paura ed alla diffidenza) si sono trovati per mesi in una condizione di assistenza e tutela che solitamente è vissuta da una piccola parte degli aventi diritto in quanto richiedenti protezione internazionale.
Con il diniego (e con la pioggia di dinieghi in tutta Italia) e con la chiusura di tutti i progetti straordinari di accoglienza creati per ENA nel febbraio 2013, il richiedente che già di fatto godeva di una parte dei diritti del rifugiato inserito nei progetti di accoglienza SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), si è trovato (o si troverà per coloro che ora stanno vivendo l’accoglienza di Mare Nostrum) a non essere più un soggetto da tutelare, bensì un soggetto da allontanare dal territorio dello Stato o, se titolare di qualche forma di protezione internazionale, dovrà provvedere da sé alle proprie esigenze, oppure tentare di entrare nel circuito SPRAR, con poche possibilità di riuscita.

Che ne sarà di chi oggi è accolto sotto il cappello Mare Nostrum, quando l’ennesima emergenza verrà ufficialmente chiusa? Che ne è stato delle decine di migliaia di richiedenti asilo giunti con ENA nel 2011? E che ne sarà di chi arriverà dalla fine ufficiale di Mare Nostrum in avanti? E ancora, dove sono, come vivono in migranti che hanno vissuto per mesi nei progetti di accoglienza? Qual è stata l’efficacia di questi progetti?

Domande a cui nessuno ufficialmente risponde, se non singoli ricercatori o giornalisti che compiono piccole ricerche a carattere locale.
La situazione esistenziale del richiedente asilo era ed è precaria: legata ad una decisione di una commissione che pretende di essere un mero momento tecnico di verifica della verità dei fatti, nella quale poco conta il parere ed il vissuto del richiedente stesso e nella quale il richiedente è costretto ad aspettare i tempi di altri che decidono a proposito del suo futuro.
Questa decisione mette in gioco totalmente il destino del migrante: avere o non avere il riconoscimento della protezione internazionale significa perdere o acquisire tutti i diritti. È una decisione che si situa sulla soglia dell’inclusione o dell’esclusione totale.
Il migrante subisce questa decisione, con poche possibilità di cambiare la scelta della Commissione. Il richiedente asilo di conseguenza ha pochi margini di azione ed in quei margini deve continuamente reinventarsi e rinegoziare la propria identità e la propria quotidianità. È una condizione esistenziale, quella di richiedente asilo o del ricorrente, vissuta tra gli spazi di possibilità di vita consentiti dalle legge e dai regolamenti sull’immigrazione e dalle situazioni di accoglienza, in un alternarsi di certezze ed incertezze, con la difficoltà di immaginarsi un futuro.
Tutto ciò accade nel corpo, nella mente e nel tempo di un soggetto che ha vissuto una serie di situazioni traumatiche che lo hanno portato in Europa, lontano da casa, dagli affetti, dal suo mondo.
L’approdo in Europa ben presto si mostra non come la fine delle proprie sofferenze, ma come una delle tappe di un cammino lastricato di difficoltà.
Il richiedente asilo o il ricorrente a volte è in grado di leggere gli avvenimenti e le decisioni prese da altri sul suo destino e lì riesce ad innestare e rinegoziare la propria esistenza e la propria identità. Non è detto che tutti i richiedenti o i ricorrenti siano però in grado di leggere la situazione che stanno vivendo. Direi anzi che molti non siano in grado di comprenderla appieno.
Troppi e troppo lontani sono i meccanismi da comprendere per poter accedere ai significati di ciò che sta accadendo nel qui ed ora. Troppo soli sono spesso lasciati i richiedenti asilo di fronte a leggi e regolamenti complicati e contorti, non alla portata di tutti.
Alla base dell’approccio europeo al fenomeno migratorio, teso a limitare gli ingressi di cittadini extracomunitari, c’è una forte contraddizione.
Da una parte le tecniche di gestione del fenomeno che riconduciamo alle cosiddette “migrazioni forzate” hanno l’effetto di negare le biografie e le individualità creando categorie collettive quali “richiedente asilo”, “diniegato”, “rifugiato”, “ricorrente”, “clandestino”, “profugo” che prima ho descritto. Dall’altra, l’istituto del diritto d’asilo dovrebbe tutelare il soggetto in quanto unico, valutare la singola storia, il singolo bisogno di tutela.
In realtà, prevalgono meccanismi di azzeramento delle biografie e quindi annullamento del diritto soggettivo, a favore di una logica che tratta le migrazioni come un fenomeno sociale collettivo a-storico da gestire sistematicamente, partendo dal presupposto di smascherare i falsi richiedenti asilo e puntando a tutelare le frontiere (significativa in questo senso una delle dichiarazioni del Ministro degli Interni, Alfano, dell’agosto 2014: “Grazie a tutti quelli che, facendo il proprio lavoro, ogni giorno difendono la bandiera italiana, la frontiera europea, e salvano migliaia di vite.”)
Non c’è spazio per l’analisi dei motivi storici per cui i fenomeni migratori esistono, è meglio tacerli.
Il diniego agisce sull’individuo, non riconoscendolo in quanto unico e mettendo in discussione il suo percorso di ricostruzione identitaria. Nello stesso tempo, il diniego agisce sul gruppo di appartenenza (“Noi, i richiedenti asilo nigeriani”), aggregandolo maggiormente in un sentimento di unità, contrapposto al gruppo di chi ha negato loro il permesso (“Voi, il Governo italiano”).
Questo si è verificato puntualmente nel momento del diniego, quando noi operatori fummo percepiti con ostilità, come parte di quel sistema che negava possibilità di vita in Italia ed Europa.
La percezione dei diniegati è che il governo li accusi di non aver sofferto a sufficienza e che di conseguenza non meritino la protezione internazionale.
Per le Commissioni Territoriali il problema è la verità delle storie raccontate in udienza. Il fatto che i richiedenti asilo non riescano a provare ciò che raccontano di per sé non significa che ciò che affermano sia falso. La mancanza di prove è però vista dai commissari come un punto a sfavore dei richiedenti asilo che vengono percepiti come potenziali truffatori o approfittatori.
Le categorie identitarie legate alla situazione giuridica in cui si trova il migrante diventano delle etichette dense sia di significati simbolici sia di prassi di esistenza.
L’uso di queste categorie da parte degli “addetti ai lavori” crea parallelamente un discorso e delle pratiche sulla migrazione forzata la cui somma diventa un insieme di saperi e prassi sociali.
In questo scenario si muovono operatori sociali, giuridici, forze dell’ordine, enti caritatevoli o confessionali, enti amministrativi, associazioni e movimenti politici che raccontano la loro parte del discorso sulla migrazione forzata e, ovviamente, i migranti. Parlando del tema delle migrazioni forzate da tali presupposti, si può affermare che il processo di richiesta di protezione internazionale sia anche e forse soprattutto un processo di ri-costruzione identitaria agìta da una molteplicità di attori, poteri e tecniche che si muovono in maniera non coordinata, ma prevalentemente autonoma, sul modello del potere governamentale foucaultiano.
Questo dispiegamento autonomo di poteri si concretizza e realizza nella quotidianità del soggetto migrante, obbligato a districarsi in un reticolo di prassi.
Da una parte sul migrante agiscono forze esterne, rappresentate da tutti quegli attori che a vario titolo si occupano di migrazioni, dall’altra il soggetto agisce sul sé, essendo egli stesso con il suo corpo protagonista della migrazione.
I modi in cui le forze endogene e quelle esogene agiscono sul sé del migrante non sono classificabili una volta per tutte, in quanto variano continuamente. Se, da un lato, le variabili soggettive sono ampiamente differenti, dalle forze esogene ci si aspetterebbe una pianificazione rigida con pochi margini di manovra.
Invece, il soggetto cerca e spesso riesce ad inserirsi nelle maglie della legge, dei regolamenti e a modificarli a proprio vantaggio. Il migrante non subisce passivamente la situazione che sta vivendo, ma crea degli spazi di azione, più o meno limitati, attraverso momenti rivendicativi che possono essere individuali o di gruppo.
Nel caso dei richiedenti asilo ospitati a Limbiate, ho potuto osservare, come ho cercato di descrivere in questo intervento, lo iato tra la produzione delle categorie sociali ad opera della rete di soggetti e dei processi che governano i fenomeni migratori e l’autopercezione dei richiedenti asilo della propria condizione giuridica ed esistenziale. La scrittura e lo studio critico di microeventi quotidiani, tipici del metodo etnografico, all’interno di un piccolo centro di accoglienza gestito da una grande cooperativa sociale (invito a dare il giusto peso anche al risvolto economico dell’accoglienza, una manna dal cielo per le cooperative ed i loro lavoratori – compreso il sottoscritto – in un momento storico caratterizzato dal taglio di molti servizi socio-assistenziali) della provincia Brianzola, unito alla studio di ciò che è stato ENA a livello nazionale (e ciò che è Mare Nostrum oggi), mi ha portato a riflettere sull’inadeguatezza di un sistema di accoglienza che, si può definire, di accoglienza respingente, che non accoglie, sperpera risorse pubbliche, crea marginalità e , secondo le leggi vigenti, autori di reati (i clandestini).
Sistema che lascia una domanda fondamentale senza risposta, oltre ad una serie di altre questioni aperte: che ne sarà delle persone dette “migranti” quando finirà l’ennesima emergenza?

 

 

Note

1) Si veda la petizione “Diritto di scelta” lanciata dalla piattaforma web MeltingPot.
2) Manocchi, Richiedenti asilo e rifugiati politici. Percorsi di ricostruzione identitaria: il caso torinese, Franco Angeli, Milano 2012.
3) Goffmann E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 2003, p. 76.

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6 Commenti

  1. Grazie a Davide Biffi per questo testo lungo, ma meritevole. E’ un bene leggere di immigrazione in modo così preciso, senza ricorrere a generiche categorie retoriche, sia positive quali accoglienza integrazione umanità, sia negative come autodifesa, respingimento e sicurezza.

  2. Grazie a Davide Biffi per il suo lavoro e per lo sforzo di renderlo pubblico e fruibile. Sulla questione dell’azzeramento delle biografie si aprono molte questioni irrisolte che ho a cuore da tempo. In particolare i tecnicismi lessicali sulla migrazione sono categorie standardizzate a livello internazionale per mettere un po’ d’ordine nella congerie di casi che si presentano alle autorità giuridiche. Il fatto è che, come giustamente si dice qui, queste provocano un livellamento delle narrazioni e un annullamento delle biografie, provocando il disfacimento totale dei narratori di quelle storie di vita. Coloro che hanno riflettuto sulla costruzione dell’identità e sull’auto percezione del sé sanno bene quanto sia importante il processo di messa in narrazione della propria esperienza individuale. Per una persona che scappa da una situazione di conflitto, o che sfugge da una persecuzione politica, o ancora che ha subito violenze e torture l’autobiografia diventa un’ancora fondamentale contro la disgregazione del sé. Purtroppo queste etichette giuridiche con le quali i migranti si trovano a confrontarsi incasellano le loro storie in un quadro oggettivo. L’individuo perde lo statuto di soggetto legittimo della propria narrazione. Diventa cioè un oggetto narrato da se stesso. Credo che questo processo si palesi più chiaramente quando si tratta di medicalizzare l’autobiografia per far emergere un evento traumatico, che solo un tecnico della salute, in questo caso psichiatrica, può avallare. Ed è così che alle già molteplici categorie oggettivante della persona e dell’identità di migrante – profugo, richiedente asilo, rifugiato, clandestino – si aggiunge la nozione psichiatrica del trauma. Questa diagnosi è diventata silenziosamente ma progressivamente una condizione dell’accesso al diritto di asilo, consegnando nelle mani dei professionisti della salute il potere di definire una nuova nozione di cittadinanza. Ora, nel rispetto del ruolo fondamentale che i medici, gli psicologi e gli psichiatri svolgono nella nostra società, credo che questo possa essere un ulteriore tema – qui mal abbozzato – di riflessione e di ricerca.

    • grazie gloria per il tuo contributo.
      quello che dici è la realtà dei fatti. vedo nel mio lavoro con i richiedenti asilo che noi operatori siamo “spinti” dalla continua ricerca verso la produzione di prove, documenti, perizie che legittimino davanti alle commissioni territoriali le richieste di protezione. tra la’ltro in alcune città, come milano per esempio, queste prove documentarie che i migranti presentano, sono scarsamente tenute in considerazione.
      è evidente che si fondano sulla pelle dei migranti la tensione di chi, da operatore ed attivista sa che l’unico modo per restare legalmente in Ue sia provare una particolare situazione di disagio e la tensione politica di stringere le maglie degli ingressi e “difendere” i confini.
      è interessante quello che dici sul richiedente che si rende oggetto della sua narrazione, è un concetto azzeccatissimo a parer mio.
      sul tema della salute mentale connessa alla migrazione per fortuna ci sono persone ed enti che lavorano bene e portano avanti una riflessione importante. mi sento di citare il Centro Fanon di torino ed il Naga Har di milano.

  3. Però chi è denegato non diventa clandestino, perché può ricorrere e tutti ricorrono, vincendo molto spesso il ricorso. Inoltre per l’ENA del 2011 è stata studiata di fatto una sanatoria, nel dicembre 2012 tutti i denegati hanno avuto modo di presentare una revisione della domanda a cui è seguito il permesso umanitario, la cosiddetta procedura Vestanet.

  4. la questione richiedenti asilo esiste da ben prima di ena 2011, chi ha ottenuto un documento con ena è una parte del fenomeno. è vero, chi è passato per ENA ha ottenuto un permesso. però questo permesso scadrà, hanno rilasciato permessi di 2-3 anni. e poi, che ne sarà di queste persone? lo stesso sta accadendo con gli sbarcati dal 2013 ad oggi. i dinieghi stanno arrivando alla grande.
    nella mia analisi ho inserito il termine e l’idealtipo del ricorrente, quindi è ben presente questo aspetto. ciò detto non è scontato che il ricorso porti automaticamente ad un permesso, anzi è molto difficile.
    quello che mi premeva sottolineare è la circolarità, se così si può dire, di questo sistema che non ti permette di sentirti tranquillo, “tirare il fiato”, perchè la condizione amministrativa che si vive non è mai irreversibile. con l’ovvio portato esistenziale che questa situazione di precarietà causa nei soggetti coinvolti.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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