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In attitudine di combattimento e di sogno

di Antonio Moresco

Cari amici,
sono tornato da poche ore dall’Argentina e mi faccio vivo. Ho vissuto diversi giorni a Buenos Aires, in un quartiere di nome San Telmo, un tempo abitato dalle prime ondate di immigrati italiani e ora da quelle di boliviani e peruviani, in un piccolo, indescrivibile albergo fatiscente come quasi ogni cosa e ogni casa e ogni marciapiede di Buenos Aires, a parte alcuni grandi quartieri residenziali irti di grattacieli che ancora esistono, vigilati da poliziotti a cavallo in giubbotto antiproiettile.

Un piccolo albergo che però è a suo modo meraviglioso e che, con i suoi patios e i suoi miseri cubicoli per cucinare e cagare disseminati qua e là lungo le ringhiere fa capire quale doveva essere la vita delle famiglie venute dall’Italia quasi un secolo fa e di cui vi darò l’indirizzo, se a qualcuno capiterà di andare là nel futuro. E che si trova in un quartiere che, se anche a noi può apparire miserabile, con le sue ondate di cartoneros che rovistano al buio nelle immondizie e le portano via a sacchi interi con i carrelli, è ancora un paradiso in confronto ad altri quartieri di Buenos Aires dove non consegnano neanche la posta se no i postini non uscirebbero vivi.

E poi sono stato a Santa Fe, sull’immenso, fangoso Rìo Paranà, largo fino a dieci chilometri, in una regione piena di isole e anse e paludi la cui geografia cambia dopo ogni inondazione, e poi a Còrdoba, a Mendoza, una delirante città vegetale in un’oasi in mezzo al deserto, e poi sulle Ande, fino a 3200 metri d’altezza di fronte all’Aconcagua, dove finiva l’impero incaico, entrando per alcuni chilometri, illegalmente, nel Cile. E poi a Montevideo, una città di impressionante tristezza e abbandono, di fronte alle acque gialle del Rìo de la Plata.

Ho conosciuto alcuni tra i più importanti scrittori e poeti argentini e uruguayani, di cui mi ha colpito la semplicità e l’intelligenza ma anche la malinconia e la situazione per molti versi bloccata in cui si trovano, e che mi ha fatto capire ancora di più che grande, originale, potenziale cosa potrebbe essere quella nazione indiana che stiamo cercando di mettere al mondo.

Questa piccola irruzione emotiva (sono appena uscito da quasi 15 ore di volo sui tropici e sull’equatore, da un’opposta stagione e da un’accecante estate e da un breve sonno per recuperare l’insonnia febbrile del viaggio e il fuso orario, durante il quale mi sembrava che il mio letto tremasse continuamente) per dire agli amici che sono vivo, emotivamente teso, in attitudine di combattimento e di sogno, e che dovremmo davvero cominciare a far nascere questa Nazione indiana di cui abbiamo cominciato a fantasticare, qualcosa che ancora non si è vista, senza vincoli di poetica e di altra natura, gelosi ciascuno della propria libertà e indipendenza eppure capaci, quando occorre e ne abbiamo il desiderio, di cavalcare insieme. Incontrarsi, allontanarsi, perdersi di vista, persino, incontrarsi ancora, seguire ognuno le proprie strade, senza lasciarci logorare nel tentativo di ricomporre e moderare le diversità tra di noi, nello sforzo di mediazione che caratterizza anche i gruppi e le tristi consorterie letterarie di piccolo potere che ogni tanto nascono qua e là nello spazio e nel tempo, ma con qualcosa di indefinibile e libero che ci unisce e che ha fatto sì che ci siamo potuti incontrare, allargandoci moltiplicatoriamente verso l’esterno ma senza perdere la nostra libertà e il nostro peso specifico e baricentro, in questo grande vuoto ed enorme spazio che ci circonda.

Scusate l’emotività e la natura infantile di queste righe.
Un abbraccio,

Antonio
20 febbraio 2003

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