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E non c’indurre in tentazione

Un’interpretazione morale de
La persecuzione del rigorista
di Luca Ricci

di Matteo Pelliti

Con La persecuzione del rigorista (Einaudi, 2008) il trentaquatrenne pisano Luca Ricci si prende una vacanza dalla forma “raccolta di racconti”, i piccoli inferni coniugali descritti nel precedente e fortunato L’amore e altre forme d’odio (Premio Chiara 2007) e ci consegna una storia. Romanzo, racconto lungo sono spesso etichette di comodo e, talvolta, fuorvianti. Qui abbiamo, a prima vista, una storia da raccontare. E l’ingresso in una storia, nella dimensione tipica della vicenda da raccontare, verosimiglianza compresa, è l’ingresso di una onomastica attraverso una toponomastica. Una storia, romanzo o racconto lungo che si voglia dire, ha bisogno di nomi. La vicenda si svolgerà, quindi, a Chiavalle e Chiamonte. La toponomastica fittizia del paesello dell’Appennino, frazione inclusa, arriva alla seconda pagina, ed inaugura di fatto la storia. Un luogo immaginario che, come tutti i luoghi immaginari delle storie, risulta iperrealista perché condensazione di tradizioni letterarie e geografie reali. Ma il racconto è illusoriamente verosimile. Il nome del luogo mima il realismo, il verosimile, mentre il racconto è, al contrario e consapevolmente, fortemente simbolico.

Da qui la natura segreta di apologo morale, quindi la lettura teologica che la storia può giustificare. Ricci è uno scrittore che ama le simmetrie, lo si potrebbe dire “spinoziano”, poiché c’è sempre un che di geometrico nelle sue tesi narrative (vedi le ultime parole con cui si chiude il racconto e la citazione giovannea posta in esergo all’inizio). Il suo linguaggio mira ad un’essenzialità che asciuga le descrizioni, leviga i concetti. L’introspezione psicologica del giovane prete è condotta con una rara capacità immaginativa. L’allegoria religiosa dell’intero racconto, così, vive di una particolare luce metatestuale e metanarrativa: il prete consapevole del proprio essere non-prete e in sfida col mondo morale claustrofobico e semplificato del paesello appenninico. Nessuna concessione, poi, agli effetti speciali. Nessuna parola sprecata, nessuna immagine di troppo. O forse sì: a Ricci si possono contestare alcune, poche, allusioni al quotidiano, al sociale contemporaneo (i videogiochi, il quiz televisivo…) che appaiono pennellate a tratto troppo largo sulla tela finissima, astratta, metafisica, dove va in scena la vicenda di questo giovane prete senza Dio, senza fede.

Potremmo dire, allora, che “La persecuzione del rigorista” è, in realtà, una sottile allegoria sul rapporto tra creatore e creatura: “…e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male“, recita il “Padre Nostro”. Il racconto di Ricci è l’esatto rovesciamento di questa parte del Padre Nostro. Una specie di teorema, geometrico, per rovesciare la preghiera più essenziale della cristianità. Perché Dio dovrebbe indurci in tentazione? Il prete si esercita sul piccolo esperimento sociale di Chiavalle e Chiamonte come un Dio onnisciente e dispettoso: il confessionale diventa tribunale della coscienze, e non a caso è citato dal prete proprio come fonte di onniscienza su un microcosmo, micromondo che è la società malata del paesino. Malata poi di cosa? Malata di umanità. L’uomo è corruttibile per sua stessa natura. Non c’è salvezza, non c’è pietà, non c’è speranza, non c’è carità. Perché non c’è fede. Ricci, talvolta calca forse un po’ troppo la mano nella sua tesi di ottenebramento complessivo delle coscienze (ad esempio il suicidio del maresciallo è un poco posticcio e artificioso rispetto allo scorrere delle cose…). La persecuzione del rigorista è la persecuzione di Giobbe, è la cacciata di Adam: è l’eterna comprensione/incomprensione tra Artefice e libero arbitrio guidato dall’intreccio di paure, speranze e pulsioni.

Dio non ci libera affatto dal male, se mai – scandalosamente – lo consente (la morte del chierichetto, il prete pedofilo, la protervia della gerarchia ecclesiastica…). Il rapporto di superiorità che il prete intrattiene con tutta l’umanità circostante (il “mio” contadino”, dice, dove il possessivo non esprime affettività ma dominio) è proprio quello del facitore/disfacitore di destini. Il contadino è un Adam, ma è un Adam che non vuol mangiare dall’albero della conoscenza: non ne ha bisogno, vive con leggerezza la propria vana infallibilità di rigorista, non vuole sentire il richiamo del serpente (fama, fortuna..). Il suo peccato originale sta proprio nell’essere senza peccato, peccare d’ambizione. Il prete è creatore e demone al tempo stesso: dipana destini con il suo intervento (il maresciallo, la donnetta, l’allenatore e la moglie, il vecchio pretucolo…) nella assoluta certezza della corruttibilità intrinseca all’essere umano. Il contadino/Adam è il perturbante che vive in un Eden autosufficiente (così come la figura del giovane ritardato, “puro” per antonomasia): l’area di rigore, il gesto divino, perfettamente concluso in se stesso, di ogni suo rigore segnato. Non a caso è proprio in questo Eden degli undici metri che il giovane prete consuma la distanza tra Verità e Realtà: insegnare al rigorista a fingere di cadere. Prete e contadino si fronteggiano non in modo proiettivo, ma come vera contrapposizione deuteragonistica e morale. Ci saranno, in questa storia, vincitori e vinti, ammesso che qualcuno possa vincere? Lascio al lettore la scoperta. E all’indice dei libri proibiti il racconto.

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4 Commenti

  1. bel pezzo. autore che mi incuriosisce, il Ricci. grazie. (un refuso, “suidicio” invece di “suicidio”, terzo paragrafo quindicesimo rigo se non sbaglio)

  2. Grazie Andrea! Mi scuso per i vari refusi, ma di solito non uso il correttore automatico, perché altrimenti non posso giocare a inventarmi la parole, e allora… :-)

  3. eheh. all’inizio avevo pensato che fosse “il sudicio del maresciallo…”, cosa che mi sembrava normale, anche se dato il tono del pezzo mi sembrava un abbassamento un po’ così (da noi si dice, “quel sudicio” tipo riferendosi ad una persona…oppure uno che fa panini, “il sudicio”, eh) poi il “rispetto allo scorrere delle cose” mi ha fatto tornare indietro ed ho visto la “i”!!!!
    beh, oltre a giocare con le parole, gioca anche con la bimba, la cui mano ho potuto ammirare sul tuo blog;-)
    ciao!

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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