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Avviso agli studenti / 3

di Raoul Vaneigem

SMILITARIZZARE L’INSEGNAMENTO

Lo spirito da caserma ha regnato sovrano nelle scuole. Vi si marciava la passo, ubbidendo agli ordini dei sorveglianti ai quali non mancavano che l’uniforme e i galloni. La configurazione dell’edificio obbediva alla legge dell’angolo retto e della struttura rettilinea. Così l’architettura si impegnava a sorvegliare le trasgressioni con la rettitudine di un’austerità spartana.

Fin negli anni sessanta, l’istituzione educativa rimase impastata delle virtù guerriere che prescrivevano di andare a morire alle frontiere piuttosto che dedicarsi ai piaceri dell’amore e della felicità.

 

Una tale ingiunzione cadrebbe oggi nel ridicolo ma, a dispetto della mutazione cominciata nel maggio ’68 e del discredito nel quale è caduto l’esercito di un’Europa senza conflitti (ad eccezione di qualche guerra locale in cui disdegna di intervenire), sarebbe eccessivo pretendere che sia caduta in desuetudine la tradizione dell’ingiunzione vociferata, dell’insulto abbaiato, dell’ordine senza replica e dell’insubordinazione che ne è la risposta appropriata.

L’autorità quasi assoluta di cui è investito il maestro serve piuttosto all’espressione di comportamenti nevrotici che alla diffusione di un sapere. La legge del più forte non ha mai fatto dell’intelligenza altro che una delle armi della stupidità. Molti arricciano il naso, sicuramente, per il fatto di non avere che il diritto di tacere. Ma finchè una comunità di interessi non situerà al centro del sapere le inclinazioni, i dubbi, i tormenti, i problemi che ciascuno risente giorno dopo giorno – cioè quel che forma la parte più importante della sua vita -, non vi sarà che l’obitorio e il disprezzo per trasmettere dei messaggi il cui senso non ci riguarda veramente in quanto esseri di desiderio.

“Prima lavora, ti divertirai in seguito” ha sempre espresso l’assurdità di una società che ingiungeva di rinunciare a vivere per meglio consacrarsi a una fatica che distruggeva la vita e non lasciava ai piaceri che i colori della morte.

Ci vuole tutta la stupidità dei pedagoghi specializzati per stupirsi che tanti sforzi e fatiche inflitti agli scolari portino a risultati così mediocri. Che cosa aspettarsi quando il cuore è assente? Charles Fourier, nel corso di un’insurrezione, osservando con quale cura e quale ardore gli agitatori disselciavano i sanpietrini di una strada e alzavano una barricata in qualche ora, notava che per la stessa opera ci sarebbero voluti tre giorni di lavoro ad una squadra di sterratori agli ordini di un padrone. I salariati non avrebbero trovato altro interesse nella faccenda che la paga, mentre la passione della libertà animava gli insorti. Solo il piacere di essere sé e di appartenersi darebbe al sapere quell’attrazione passionale che giustifica lo sforzo senza ricorrere alla costrizione.

Perché diventare ciò che si è esige la più intransigente delle risoluzioni. Ci vuole costanza e ostinazione. Se non vogliamo rassegnarci a consumare delle conoscenze che ci ridurranno al miserabile stato di consumatori, non possiamo ignorare che, per uscire dall’imbroglio in cui si è impantanata la società del passato, dovremo prendere l’iniziativa di una spinta nel senso opposto. Ma come? Vi si vede pronti a battervi e a schiacciare gli altri per ottenere un impiego ed esitereste ad investire le vostre energie in una vita che sarà tutto l’impiego che farete di voi stessi?

Noi non vogliamo essere i migliori, noi vogliamo che il meglio della vita ci appartenga, secondo quel principio di inaccessibile perfezione che abolisce l’insoddisfazione in nome dell’insaziabilità.

FARE DELLA SCUOLA UN CENTRO DI CREAZIONE DI VITA, NON L’ANTICAMERA DI UNA SOCIETA’ PARASSITARIA E MERCANTILE

Nel dicembre 1991 la Commissione europea ha pubblicato un memorandum sull’insegnamento superiore. Vi si raccomandava alle università di comportarsi come imprese sottoposte alle regole concorrenziali del mercato. Lo stesso documento auspicava che gli studenti fossero trattati come dei clienti, incitati non ad apprendere ma a consumare.

I corsi diventavano così dei prodotti, i termini “studenti”, “studi”, lasciavano il posto ad espressioni più appropriate al nuovo orientamento: “capitale umano”, “mercato del lavoro”.

Nel settembre 1993 la stessa Commissione recidiva con un Libro verde sulla dimensione europea dell’educazione. Vi si precisa che, sin dalla scuola materna, bisogna formare delle “risorse umane per i bisogni esclusivi dell’industria” e favorire “una maggiore adattabilità di comportamento in maniera da rispondere alla domanda del mercato della manodopera”.

Ecco come lo zoom insudiciato del presente proietta come futuro radioso la forza esaurita del passato!

Una volta eliminato quel che sussisteva di mediocremente redditizio nella scuola di ieri – il latino, il greco, Shakespeare e compagnia -, gli studenti avranno finalmente il privilegio di accedere ai gesti che salvano: equilibrare la bilancia dei mercati producendo dell’inutile e consumando della merda.

L’operazione è sulla buona strada perché per quanto si dicano diversi, i governi aderiscono all’unaminità al principio: “L’impresa deve essere impostata sulla formazione e la formazione sui bisogni dell’impresa.”

 

Delle nuove leve per gestire il fallimento

 

 

 

Non è inutile precisare, per aiutare alla comprensione della nostra epoca, attraverso quale processo lo sviluppo del capitalismo sia sfociato in una crisi planetaria che è la crisi dell’economia nel suo funzionamento totalitario.

Ciò che ha dominato, dall’inizio del XIX secolo, l’insieme dei comportamenti individuali e collettivi, è stata la necessità di produrre. Organizzare la produzione tramite il lavoro intellettuale e il lavoro manuale esigeva un metodo direttivo, una mentalità autoritaria, se non dispotica. Erano i tempi della conquista militare dei mercati. I paesi industrializzati depredavano senza scrupoli le risorse delle nuove colonie.

Quando il proletariato iniziò a coordinare le sue rivendicazioni, subì, a dispetto della sua spontaneità libertaria, l’influenza autocratica che la preminenza del settore produttivo esercitava sui costumi. Sindacati e partiti operai si danno una struttura burocratica che avrebbe finito per ostacolare le masse laboriose con il pretesto di emanciparle.

Il potere rosso si stabilisce tanto più facilmente perché riesce a strappare alla classe sfruttatrice porzioni dei benifici, tradotte in aumenti salariali, miglioramenti del tempo lavorativo (la giornata di otto ore, le ferie pagate), vantaggi sociali, (sussidio di disoccupazione, mutua).

Gli anni ’20 e ’30 spingono al suo stadio supremo la centralizzazione della produzione. Il passaggio del capitalismo privato al capitalismo di Stato avviene brutalmente in Italia, in Germania, in Russia, dove la dittatura di un partito unico – fascista, nazista, stalinista – impone la statalizzazione dei mezzi di produzione.

Nei paesi in cui la tradizione liberale ha salvaguardato una democrazia formale, la concenrazione monopolistica che attribuisce allo Stato una vocazione padronale si compie in modo più lento, sornione, meno violento.

E’ negli Stati Uniti che si manifesta per la prima volta un nuovo orientamento economico, votato ad uno sviluppo che trasformerà sensibilmente le mentalità e i costumi: l’incitamento al consumo infatti diventa più forte della necessità di produrre.

A partire dal 1945 il piano Marshall, destinato ufficialmente ad aiutare l’Europa devastata dalla guerra, apre la via alla società dei consumi, identificata ad una società del benessere.

L’obbligo di produrre a qualunque prezzo cede il posto ad un’impresa addobbata con gli ornamenti della seduzione, sotto la quale si nasconde nei fatti un nuovo imperativo prioritario: consumare. Consumare qualunque cosa, ma consumare.

Si assiste allora ad un’evoluzione sorprendente: un edonismo da supermercato e una democrazia da self-service, propagando l’illuzione dei piaceri e della libera scelta riescono a minare – in modo più sicuro di quanto lo avrebbero sperato gli anarchici del passato – i sacrosanti valori patriarcali, autoritari, militari e religiosi che un’economia dominata dagli imperativi della produzione aveva privilegiato.

Si misura meglio oggi quanto la colonizzazione delle masse lavoratrici, attraverso l’incitamento pressante a consumare una felicità secondo i propri gusti, abbia rallentato la stretta dell’economia sulle colonie d’oltremare e abbia favorito il successo delle lotte di decolonizzazione.

Se la libertà degli scambi e la loro indispensabile espansione hanno contribuito alla fine della maggior parte dei regimi dittatoriali e al crollo della cittadella comunista, hanno svelato assai rapidamente i limiti del benessere consumabile.

Frustrati da una felicità che non coincideva propriamente con l’inflazione di gadgets inutili e di prodotti adulterati, a partire dal 1968, i consumatori hanno preso coscienza della nuova alienazione di cui erano fatti oggetto. Lavorare per un salario che si investe nell’acquisto di merci di un valore d’uso aleatorio, suggerisce meno lo stato di beatitudine che l’impressione spiacevole di essere manipolati secondo le esigenze del mercato. Coloro che subivano l’officina e l’ufficio durante la giornata ne uscivano solo per entrare nelle fabbriche meno coercitive ma più menzognere del consumabile.

I falsi bisogni prevalendo su quelli veri, questo “gadget qualunque” che bisognava comprare ha finito per generare a sua volta una produzione sempre più aberrante di servizi parassitari, orditi intorno al cittadino con il compito di rassicurarlo, inquadrarlo, consigliarlo, sostenerlo, guidarlo, in breve di inglobarlo in una sollecitudine che lo assimila a poco a poco a un handicappato.

 

Si sono visti così i settori prioritari sacrificati a vantaggio del settore terziario, che vende la prorpia complessità burocratica sotto forma di aiuti e portezioni. L’agricoltura di qualità è stata schiacciata dalle lobbies dell’agroalimentare che producono in eccesso surrogati di cereali, carni e verdure. L’arte di abitare è stata sepolta sotto il grigiore, la noia e la criminalità del cemento che assicura le entrare dei gruppu di affari.

Per quanto riguarda la scuola, essa è chiamata a servire da riserva per gli studenti d’élite ai quali è promessa una bella carriera nell’inutilità luvrativa e nelle mafie finanziarie. Il circolo è chiuso: studiare per trovare un impiego, per quanto aberrante sia, si è riallacciato con l’ingiunzione di consumare nel solo interesse di una macchina economica che si blocca da tutte le parti in Occidente – anche se gli specialisti ci annunciano ogni anno la sua trionfale ripresa.

Ci impantaniamo nelle paludi di una burocrazia parassitaria e mafiosa in cui il denaro si accumula e circola in circuito chiuso anziché investirsi nella fabbricazione di prodotti di qualità, utili al miglioramento della vita e del suo ambiente.

Il denaro è ciò che manca di meno, contrariamente a quello che vi rispondono i vostri deputati, ma l’insegnamento non è un settore redditizio.

Esiste tuttavia un’alternativa all’economia di deperimento e al suo impossibile rilancio. Allontanandosi dal fossato che si scava sempre di più tra gli interessi della merce e l’interesse di ciò che vive, l’alternativa propone di riconvertire al servizio dell’umano una tecnologia che l’imperialismo luvrativo ha disumanizzato, fino a farne – nel caso della fissione nucleare e della sperimentazione genetica – delle temibili nocività. Essa esige di accordare la priorità alla qualità della vita e a quelle attività di base che l’assurdità del capitalismo arcaico condanna precisamente a cadere a pezzi sotto i colpi di continue restrizioni di bilancio: l’abitazione, l’alimentazione, i trasporti, l’abbigliamento, la salute, l’educazione e la cultura.

Una mutazione si mette in moto sotto i nostri occhi. Il neocapitalismo si prepara a ricostruire con profitto ciò che il vecchio ha rovinato. A dispetto delle resistenze del passato, le energie naturali finiranno per sostituirsi ai mezzi di produzione inquinanti e devastanti.

Come la rivoluzione industriale ha suscitato, dall’inizio del XIX secolo, un numero considerevole di inventori e di innovazioni – elettricità, gas, macchina a vapore, telecomunicazioni, trasporti rapidi -, così la nostra epoca esprime una domanda di nuove creazioni che prenderanno il posto di ciò che oggi serve la vita solo minacciandola: il petrolio, il nucleare, l’industria farmaceutica, la chimica inquinante, la biologia sperimentale… e la pletora di servizi parassitari dove prolifera la burocrazia.

 

La fine del lavoro forzato inaugura l’era della creatività

 

 

 

Il lavoro è una creazione abortita. Il genio creatore dell’uomo si è trovato preso in trappola in un sistema che l’ha condnnato a produrre potere e profitto, non lasciando altro sfogo al suo rigoglio che l’arte e il sogno.

Ora, questo lavoro di sfruttamento della natura, cos’ spesso esaltato come la potenza prometeica che trasforma il mondo, ci consegna oggi il suo bilancio definitivo: una sopravvivenza confortevole le cui risorse ed il cui cuore si consumano nel circolo vizioso del profitto.

Come potrebbe un lavoro cos’ inutile e così nocivo alla vita non esaurirsi a sua volta? Ieri procurava l’automobile e la televisione, al prezzo dell’aria inquinata e dei palliativi di una vita assente. Oggi resta solo un salvagente aleatorio di una società paralizzata dall’inflazione burocratica, dove niente è più garantito, né il salario, né la casa, né i prodotti naturali, né le risorse energetiche, né le conquiste sociali.

In un’atmosfera resa oppressiva dalla rarefazione degli affari, la diminuzione del lavoro è evidentemente sentita come una maledizione. La disoccupazione è un lavoro svuotato. Una stessa rassegnazione vi fa attendere un’elemosina come il lavoratore attende il suo salario dedicandosi ad un’occupazione che lo annoia (anche se ormai giudica imprudente confessarlo).

Mentre tutto va alla malora sul fulo di una disperazione ispirata dall’autodistruzione planetaria economicamente programmata, un mondo è là, lasciato all’abbandono, un mondo che bisogna restaurare, spogliare delle sue nocività e ricostruire per il nostro benessere, come se, spezzandosi, lo specchio delle illusioni consumistiche avesse messo la felicità alla nostra portata, dopo averne mostrato il falso riflesso.

Diminuire il tempo di lavoro per meglio distribuirlo? Sia pure. Ma in quale prospettiva e con quale coscienza? Se l’obbiettivo dell’operazione è, per i più, aumentare la produzione di beni e di servizi utili al mercato e non alla vita., in cambio di un salario che ne pagherà il consumo crescente, allora il vecchio capitalismo non avrà fatto altro che recuperare a suo profitto ciò che finge di abbandonare al profitto di tutti.

Al contrario, se la stessa pratica ubbidisce alle sollecitazioni di un neocapitalismo che cerca nell’investimento ecologico un’arma contro l’immobilismo di un padronato senza immaginazione, mancherà soltanto una resa di coscienza perché il salario garantito e il tempo di lavoro ridotto aprano a ciascuno il campo di una libera creazione e la libertà di ritrovarsi ed essere infine se stessi.

Perché, a dispetto dell’occultazione che intrattengono intorno ad essa le burocrazie della corruzione e le mafie affariste, esiste una domanda economico-sociale che va controcorrente rispetto alle grida di soccorso del disastro ordinario. Essa reclama un ambiente che migliori la qualità della vita, una produzione senza oppressione né inquinamento, dei rapporti autenticamente umani, la fine della dittatura che la redditività esercitt sulla vita. Sta a voi – e alla nuova scuola che inventerete – impedire che la creatività, obiettivamente stimolata dalla promessa di impieghi di utilità pubblica, si inrappoli nell’alienazione economica, tagliandosi fuori dalla creazione di sé.

Se vi dimenticate di ciò che siete e in quale vita volete essere, non sperate in un altro destino che quello di una merce buona da buttare appena superata la cassa.

 

Privilegiare la qualità

 

 

 

A forza di obbedire al criterio della quantità, la corsa al profitto scade nell’assurdità della sovrapproduzione. Produrre molto aumentava ieri il plusvalore dei padroni, che non esitavanop a distruggere le eccedenze di caffé, di carne, di grano per impedire un abbassamento dei pressi sul mercato.

Lo sviluppo del consumo, toccando un più vasto settore della popolazione, ha permesso di assorbire in una certa misura una cescente quantità di merci concepite piuttosto a scopo di guadagno che per il loro uso pratico. La qualità di un prodotto è stata considerata con tanta più disinvoltura in quanto non era questa a determinare il livello delle vendite, ma la menzogna pubblicitaria di cui era rivestita per sedurre il cliente. Ma a forza di lavare sempre più bianco anche la menzogna finisce per logorarsi. Offesa dall’eccesso di disprezzo, la clientela ha finito per recalcitrare. Si è mostrata critica, ha rifiutata di ingoiare ciecamente quello che il cucchiaino dello slogan gli infilava ad ogni momento negli occhi, in bocca, nelle orecchie, in testa.

Molti hanno dunque deciso di non lasciarsi più consumare da un’economia che se ne infischia della loro salute e della loro intelligenza. Esigendo la qualità di ciò che viene loro proposto, scoprono o riscoprono la loro qualità di esseri, la loro specificità di individui lucidi, che era stata occultata da quella riduzione allo stato gregario provocata e intrattenuta dalla propaganda consumistica.

Ma, mentre gli organismi di difesa dei consumatori organizzano il boicottaggio dei prodotti snaturati da un’agricoltura che inonda il mercato di cereali forzati, di ortaggi concimati, di carni provenienti da animali martirizzati in allevamenti-lager, sembra che nelle scuole ci si rassegni a vedere la cultura avviarsi sulla stessa strada della peggiore agricoltura.

Se gli uomini politici nutrissero nei riguardi dell’educazione le buone intenzioni che proclamano a ogni piè sospinto, non dovrebbero mettere in opera tutto per garantire la qualità? Tarderebbero forse a decretare le due misure che determinano la condizione sine qua non di un apprendimento umano: aumentare il numero di insegnanti e diminuire il numero di allievi per calsse, in modo che ciascuno sia trattato secondo la sua specificità e non nell’anonimato di una folla?

Ma, apparentemente, l’interesse ha per loro una connotazione più economica che semplicemente umana. Se i governi privilegiano l’allevamento intensivo di studenti consumabili sul mercato, allora i principi di una sana gestione prescrivono di stivare nello spazio scolastico più piccolo la quantità minima di teste, modellabili dal minimo personale possibile. La logica è pefetta e nessuna società protettrice degli animali insorgerà contro il consumo forzato di conoscenze sottoposte alla legge della domanda e dell’offerta, né contro gli usi da mercanti di cavalli che regnano sulla fiera del lavoro.

Rassegnatevi dunque al partito preso della stupidità che implica lo stato gregario, perché per educare una classe di trenta allievi non vedo che la sferza o l’astuzia.

Ma non invocate l’impossibilità materiale di promuovere un insegnamento personalizzato. Gli sviluppi delle tecniche audiovisive non potrebbero permettere ad un grande numero di studenti di ricevere individualmente ciò che un tempo apparteneva al maestro di ripetere fino a memorizzazione (ortografia, grammatica elementare, vocabolario, formule chimiche, teoremi, solfeggio, declinazioni…)? Oppure di verificare come in un gioco il grado i assimilazione e di comprensione?

Così liberato di un’occupazione ingrata e meccanica, l’educatore non avrebbe più che da dedicarsi all’essenziale del suo compito: assicurare la qualità delle informazioni globalmente ricevute, aiutare alla formazione di individui autonomi, dare il meglio del suo sapere e della sua esperienza aiutando ciascuno a leggersi e a leggere il mondo.

Informazione al massimo numero di soggetti possibili, formazione per piccoli gruppi. Al centro di una vasta rete di irrigazione che dreni verso ogni allievo la molteplicità delle conoscenze, l’educatore avrà finalmente la libertà di diventare ciò che ha sempre sognato di essere: il rivelatore di una cretività di cui non vi è nessuno che non possieda la chiave, per quanto nascosta essa sia sotto il peso delle passate costrizioni.

 

 

 

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1 commento

  1. La diminuzione del numero di studenti per classe è senza dubbio il primo obiettivo da porsi se si vuole cambiare metodologia pedagogica.

    Questo significa però maggiori investimenti in infrastrutture scolastiche, maggior numero dei docenti e quindi incentivi economici per chi intraprende quel curriculum di studi, maggiori corsi di laurea con possibilità di dedicarsi all’insegnamento, e maggiore organizzazione del sistema scuola.

    In altre parole, la spesa pubblica per l’educazione andrebbe aumentata in un modo enorme, inedito.

    Sappiamo bene come ciò sia possibile solo diminuendo altre spese pubbliche.
    Auspicando un mondo radicalmente socialista, le spese pubbliche che necessiterebbero di questo inedito aumento penso siano quelle per
    -la sanità (diritto alla salute)
    -la scuola fino all’Università (diritto all’istruzione)
    -il lavoro (diritto al lavoro ossia a vivere una vita decente, non solo a sopravvivere).

    Il punto è, ripeto: quali altre spese pubbliche dovrebbero essere diminuite per consentire questo?

    E poi: che cambiamento determinerebbero le possibili soluzioni sul sistema capitalistico globale? Oppure, in altre parole: è possibile un cambiamento del genere in una economia capitalistica globalizzata?

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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