Arte dell’oblio, Tempo che passa

[Si pubblica qui l’editoriale che Enrico De Vivo ha scritto in occasione dell’uscita dell’ultimo numero di Zibaldoni.]

di Enrico De Vivo

L’Italia, la Romania, Napoli e la Sicilia resteranno esattamente dov’erano l’anno passato. Godranno di sogni ben profondi verso fine quaresima, talvolta avranno le traveggole col sole a picco

– François Rabelais, “Predizione pantagruelina per l’anno perpetuo”

A guardarsi in giro, di questi tempi, è pieno di gente che mostra di sapere come andrà a finire. Potrebbe dirsi, la nostra, un’epoca di astrologhi e di aruspici. Sviscerano le scienze economiche, e ti promettono che prima o poi andrà meglio, basta avere pazienza e fare quello che ti ordinano; sviscerano le scienze politiche, e ti dicono quanti governi buoni e quanti cattivi si avvicenderanno sui troni del mondo; sviscerano le scienze mediche, e ti dicono in che percentuale saremo ancora umani e in che percentuale no, aggiungendo magari la promessa della vita eterna. Scrutano con acume anche le scienze morali, e naturalmente sanno già chi starà dalla parte del giusto e chi invece sarà irrimediabilmente perduto.

Questo eccesso di sapere, quasi uno junk knowledge, veicolato come un virus dalle multinazionali dell’informazione moderna, ci viene propinato da esperti e comparse che sembrano sapere tutto, ma in realtà non sanno niente, come i cibi spazzatura non sanno di niente. Ciechi come i poeti antichi, a differenza di questi, sono stonatissimi: la prova è che quante più cose ci spiegano in tempo reale, tanto più sprofondiamo in qualcosa di irriconoscibile, tanto più ci sentiamo perduti.

È per sfuggire a tutto questo che ci siamo messi in ascolto di un consiglio che Rabelais offre nella “Predizione pantagruelina per l’anno perpetuo”, ottimo antidoto a tutti i deliri di preveggenza scientifica, che presentiamo in questo numero di fine anno in una traduzione inedita di Eolo Lapo Marmigli. Dopo aver fatto, a modo suo, le previsioni per i prossimi dodici mesi, paese per paese, il fine dicitore pantagruelino, mentre ammette di non sapere niente di preciso riguardo a cosa accadrà in Austria, Ungheria e Turchia, suggerisce: “Se dovesse verificarsi il caso che voi ne sappiate qualcosa, farete meglio a star zitti e aspettare il passaggio del Tempo, quel vecchio zoppo”.

Ah, se i nostri aruspici fossero capaci di tanta saggezza! Se fossero capaci di tacere e aspettare il passaggio del Tempo! Invece tutti ansiosi e verbigeranti, instaurano un rapporto sballato con il “vecchio zoppo”, cercando in tutti i modi di ingannarlo per non vederlo (passare). Preferiscono lo sfarfallio della chiacchiera, vestita sempre di nuovo, alla precarietà del silenzio, vestito sempre di vecchio e di oblio.

Con un simile atteggiamento pantagruelino – sempre un po’ bislacco, comico e folle – nei confronti delle cose della vita, deve essere imparentato in qualche modo il curioso invito (“Dimentica tutto quello che hai imparato”) che il maestro Khalaf rivolge al giovane poeta Abū Nuwās, in una storiella araba classica riportata in uno dei libri più belli di questi anni, “Ecolalie”, di Daniel Heller-Roazen (Quodlibet, 2007). “Dimentica tutto quello che hai imparato” vuol dire esattamente: cancella quello che sai davanti alle scorrevoli immagini del mondo, ristabilisci la potenza della tabula rasa, fai silenzio – perché alla base delle attività umane non c’è l’aspetto possessivo o padronale di una sapienza, ma la sua ombra, la sua dimenticanza, molto più ardua e difficile da praticare di qualsiasi mnemotecnica. Soltanto chi si trova nella condizione di aver perduto la (propria) lingua – come la mucca che fu ninfa – può cominciare a scrivere, e forse a intuire qualcosa di quello che è accaduto o sta per accadere. La scrittura, e quella cosa ad essa collegata che, ai tempi di Rabelais e di chi era capace di farsi un baffo di tutto lo scibile e il controscibile, si chiamava ancora “saggezza”, si fonda, infatti, su qualcosa che è molto prossimo allo spossessamento, all’oblio e allo star zitti a guardare il vecchio zoppo che passa.

In questo senso, tutti i testi che presentiamo in questo numero di fine anno di “Zibaldoni e altre meraviglie” – dal racconto di Aldo Gianolio delle ultime tre misteriose note di Anthony Braxton nel corso di un concerto bolognese, alle lettere apocrife in forma di “sonata postuma” di Marco Ercolani; dalle poesie immaginifiche di Walter Kempowski e Franco Arminio, alle ricerche romanzesche di Stefano Zangrando e Ingo Schulze; dalle narrazioni fisiche e gnomiche di Enrico Sgnaolin e del “Novellino”, a quelle metafisiche di Piero Chiaranz, Gianfranco Mammi e Walter Nardon – ci sembrano discreti omaggi a una tale arte, se così possiamo dire, dell’oblio della lingua.

Ma ecco qui la storiella del giovane poeta Abū Nuwās, con la quale, prima di passare al SOMMARIO, auguriamo Buon Natale e Buon Anno a tutti i lettori di “Zibaldoni e altre meraviglie” (www.zibaldoni.it). Il consiglio è di leggerla, o rileggerla, per augurio, qualche minuto prima della fine dell’anno. Qualche minuto o qualche ora dopo la medesima fine del medesimo anno, invece, è vivamente consigliata la lettura, ad alta voce e in compagnia possibilmente allegra, della “Predizione pantagruelina”.

Abū Nuwās chiese a Khalaf il permesso di comporre poesia, e Khalaf disse: “Rifiuto di lasciarti comporre un poema finché non avrai mandato a memoria mille brani di poesia antica, inclusi canti, odi e versi d’occasione”. Allora Abū Nuwās scomparve; e dopo molto tempo fece ritorno e disse: “L’ho fatto”.

“Recitali”, disse Khalaf.

Allora Abū Nuwās cominciò, e arrivò alla fine di questa mole di versi in un periodo di molti giorni. Allora chiese ancora il permesso di comporre poesia. Disse Khalaf: “Rifiuto, a meno che non dimentichi completamente i mille versi, come se tu non li avessi mai appresi”.

“Ma questo è troppo difficile”, disse Abū Nuwās. “Li ho mandati accuratamente a memoria!”.

“Rifiuto di lasciarti comporre fino a che non li avrai dimenticati”, disse Khalaf.
Allora Abū Nuwās si ritirò in un monastero e ivi rimase in solitudine per il tempo che occorse a dimenticare i versi. Tornò allora da Khalaf e disse: “Li ho dimenticati così bene che è come se mai li avessi mandati a memoria”.

Allora disse Khalaf: “Ora vai e componi!”.

*

Predizione pantagruelina per l’anno perpetuo
François Rabelais tradotto da Eolo Lapo Marmigli

Il resto
di Walter Nardon

Double face. Note a cura dell’autore
di Ingo Schulze

Sonata opera postuma
di Marco Ercolani

Atleti
di Franco Arminio

Immàginati un canto
Walter Kempowski tradotto da Stefano Zangrando

L’uomo nel francobollo
di Gianfranco Mammi

Hermann Broch e il romanzo polistorico
di Stefano Zangrando

Ivano e Mariotta
di Enrico Sgnaolin

Jazz oltre la quiete
di Aldo Gianolio

Un altro Novellino/ 4
di Enrico De Vivo

Polvere ellenica
di Piero Chiaranz

www.zibaldoni.it

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3 Commenti

  1. quella battuta del maestro arabo è qualcosa di più e qualcosa di meno di una battuta: è il niente che presuppone e in cui precipita qualsiasi atto creativo nel momento stesso della sua nascita. quale vero atto creativo sarebbe possibile se nascesse da un pieno, da una pienezza di cultura o di sapienza? invece è dal vuoto, dalla dimenticanza – anche della tecnica, pefino della tradizione – che può sorgere qualcosa di nuovo. altrimenti, è solo blanda ripetizione mnemonica di qualhe cosa che è già stato, che è passato, che è morto.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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