Due racconti da “Rumeni”

di Anna Lamberti-Bocconi

GIGIO

“Ma che accidenti…”. E’ più una sensazione che altro, una presenza dietro la schiena. Questione di riflessi: mi giro di scatto e lo becco con la mano nella mia borsa; quella mano gliela branco al polso e lui si immobilizza come una bestiola spaventata. “Ma che cazzo fai, stronzetto! Volevi derubarmi?”
Lui zitto, duro, rattrappito nelle spalle. Mi fissa con lo sguardo di un lanciafiamme. Gli spaccherei la faccia.

Luogo: corso Buenos Aires verso Loreto, sette e mezza di sera. C’è in giro poca gente, una controra metropolitana, esistere è un po’ un arbitrio. Io stessa sono stata sputata dal marciapiede, per dire, una specie di protuberanza mobile con le caviglie dinoccolate.
“Ma che cazzo fai, stronzetto! Volevi derubarmi?”. E’ una marmotta, denutrito, pieno di rancore. Quindici anni a dir tanto, se va bene. Che cazzo faccio io. Ho le orecchie in fiamme, mi sono spaventata, le dita che gli stringono il polso mi fanno male da tanto chiuse, su su nei tendini dell’avambraccio sento il crampo.
“Adesso vieni con me”. Lo tiro per il braccio, lui segue. Ha paura, lo sento, e la cosa maledettamente mi dà soddisfazione, e nello stesso tempo mi fa venire da piangere.
Entriamo in un bar. “Ce li hai i soldi?”.
“Sì”. La prima voce che emette. Gutturale, profonda.
“Allora paghi da bere”.
Questa volta sta zitto. Insisto: “Cosa vuoi?”.
“Coca Cola”.
“Bene, allora chiedi due Coca Cole”.
Notare che lo tengo ancora stretto per il polso come un cane, ormai sono irrigidita fino alla spalla. Mollo piano piano.
Così lui dice “Due Coca Cole” al barista, con gli occhi bassi.
“Siediti”.
Ed eccoci a un tavolino di bar vuoto io e il ladruncolo rumeno, la vita come un otto di spade, con due coche davanti, lui che voleva derubarmi e adesso deve pagare, io nettamente malata, con la sindrome di Gesù Cristo, che voglio fare slittare le dimensioni, cambiare l’acqua in vino ma che sia il vino più buono. Che mentre lo punisco gli faccio vedere la mia amicizia.
“Come ti chiami?”
“Gigio”.
“Quanti anni hai?”
“Sedici”.
“Di dove sei?”.
“Romania”.
Ho esaurito le domande. Gigio sta al tavolo chiaramente costretto. Il mio assurdo sentimento affettivo scivola via dal ragazzo prigioniero come l’acqua dalla gomma lucida. Lascio che sul mio viso si modelli qualcosa di sorridente, un bene che non significa nulla; Gigio, inespressivo, mi sostiene lo sguardo e basta. Infine, non so da dove mi viene un’ultima domanda: “Ti piace questa avventura?”.
“No”.
Chissà io stessa cos’ho voluto dire. La tristezza di Gigio mi sta schiacciando. Mi viene in mente una figura vista su “Dylan Dog”, lo scheletro di un angelo morto, con le ossa delle ali.
Mi alzo, decido di liberarlo. “Andiamo”.
Mentre stiamo per uscire, però, ecco che entra nel bar un signore con un cagnolino, e la malinconia abissale di Gigio prende la forma di un sorriso. Il cagnolino è un cucciolo con le zampe grosse, uggiola e fa le feste a Gigio. Miracolo: la gabbia toracica cementata di dolore umano del ragazzo crolla come le sue ginocchia, si accuccia lì per terra anche lui, il cucciolo gli lava la faccia, e Gigio ride e ride dall’altro mondo dentro di sé, il mondo senza persone, senza violenza, il mondo senza il male dove un ragazzo è solamente cane fra cani.
Questa felicità dura un minuto, forse meno, ma fa in tempo a scagliarlo molto più indietro dell’infanzia: ora lo vedo neonato, rugoso senza denti che ride così, alla vita, al latte, al non sapere parlare.
Un minuto, forse meno. Poi il lager della strada ritorna in messa a fuoco, Gigio si rialza, io sono lì di fianco e gli faccio l’ultima domanda perversa: “Sai leggere?”.
“Sì”.
“Ecco allora, tieni”, e gli allungo un biglietto che ho scarabocchiato all’istante, mentre lui trasumanava col cane. C’è scritto: “Non derubarmi più”. Lui lo legge, capisce la frase ma non il gesto, mi guarda vuoto, io anche.
Ciao. Bau.

*

KOSTEL

Non pensavo che un ragazzo così bello facesse cilecca a letto. Venuto da un vicolo sul Mar Nero a una birreria di qui portando un sorriso spavaldo che apre tutte le porte, chi sei dentro, Kostel, quanta paura hai?
Mi sono incapricciata di te da quei tavoli della noia e della birra, non la mia noia e la mia birra: ma quella di tutti, che ognuno va a bere nel tardo pomeriggio, fra il primo e il secondo tempo del proprio horror. Fra il giorno e la sera per molti c’è in mezzo il bar.
Mi piacevano il tuo viso e il modo svelto con cui mi davi il bicchiere, soprattutto quando uscivi dal bancone per portarmelo. Ho gioito quando scherzando mi hai tenuto le mani e poi mi hai chiesto il numero di telefono, ed eri più sincero che sfacciato, mi è parso.
Allora questa sera esco con il barista rumeno. E poi ci baciamo. E poi viene a casa mia. Nell’urgenza che ha di spogliarmi si intuisce già la sua corsa. La bocca è virile ma l’animo è di un ragazzino, you kiss just a-like a man. A me convince la tua bellezza e commuove l’affermazione di vita, ma tu che cosa cerchi? Mi bruci addosso perché sai che bisogna scopare o perché non hai più una madre, un amico, né tantomeno hai mai avuto una donna intera? Per tutto ciò mi stringi come un assetato, mi guardi timido e pazzo, e metti il preservativo quasi con sollievo, così ti stacchi un attimo, come se fossi in autostrada, a guidare un camion, come se fossi padrone di te stesso.
“Piano Kostel, sei bello, ecco, così mi piaci…”. Non faccio fatica ad amarti nel minuto che dura questo lampo, questo quadratino di cioccolata liquefatto all’istante su una lampada accesa.
Kostel viene, ed è talmente cinto d’alloro dagli dèi del bello che non suda, non arrossisce, non si inturgidisce sul collo. Però è mortificato dalla brevità dell’atto, si arrabbia da solo, reagisce male. Offeso si gira, credo che finga di addormentarsi, oppure dorme davvero, per rabbia, per la fine troppo ansiosa del suo momento di riscatto.
Poi si sveglia o meglio si riscuote, fa un viso da duro e si tira su, senza una parola. I jeans, le scarpe da tennis, ultima una T-shirt carina grigia e rossa, probabilmente scelta con attenzione poche ore prima, quel secolo prima quando si preparava a uscire con me.
Così funzionò la mia prima volta con Kostel.
La seconda, cambio di campo, andai io da lui. Su su nel grande palazzo d’epoca, i passi sulle scale di pietra, bella però questa casa, la vecchia Milano che diventa una casbah. Kostel mi aspettava, si era appena alzato. Saranno state le nove e mezza di mattina, e io mi sentivo meglio di molti altri, ero sulla soglia del mio bel ragazzo rumeno che mi apriva la porta contento, calzoni del pigiama e canottiera. Nella piccola stanza c’era anche un altro rumeno, “un amico”, come di solito si usa presentare compari e paesani. Infatti quest’uomo malinconico con la barba malfatta, più vecchio di Kostel, fu amichevole e silenzioso, preparò il caffè, cercò lo zucchero, lo bevemmo insieme e poi se ne andò.
Kostel mi tirò sulla sua branda e per quanto mi riguarda era anche bello essere in due in un letto così piccolo, sentendosi un nucleo vitale di resistenza al vuoto, di desiderio. Anche se nervoso da sempre ora il ragazzo giocava in casa, era meno timido che da me. Mancavano a dargli soggezione o risentimento i miei libri, le mie tre stanze, la mia vita intera ferma dentro un appartamento. Facemmo colazione con la birra, poi me ne andai in lieve vertigine.
Non lo sentii per diverso tempo, lui non mi chiamava e io non passai dalla birreria. Una notte dormivo profondamente e mi svegliò il citofono. “Fammi salire”.
“Ma Kostel, sono le quattro!”
“Fammi salire, allora, ti ho detto!”
“Cosa vuoi?”
“Apri”.
Non ne avevo la minima voglia, mal di testa, alle sei mi dovevo alzare. Gli dissi di no e lui si attaccò al citofono. E trrr, e trrr, svegliava tutta la casa. Decisi di scendere a cercare di calmarlo. Così il buio divenne luce elettrica, la testa una palla d’acqua di stagno, questo essere umano giù sul marciapiede, io sulle scale desolanti. Lo vidi oltre il portone di vetro, come un forsennato, contratto a guardare i citofoni con lo sguardo esplosivo.
Appena uscita mi abbracciò col disordine nel corpo, voleva baciarmi, voleva spingermi nell’atrio e intanto parlare, ma non aveva niente da esprimere tranne quell’urgenza di affermarsi. Al mio continuo rifiuto sbottò, e qui sì che le parole fluirono in urla da una voce non più di uomo ma di bambino disperato e violento, “Dimmelo!”, e mi stringeva e gridava, “Allora dimmelo in faccia! Dimmelo che non mi vuoi perché sono uno straniero di merda!”.
Non era così. Non so se lo capì o no, anche perché era mezzo ubriaco. Comunque riuscii a tenerlo fuori dal portone, e poi alzarmi alle sei lo stesso, come un mulo.
Attualmente, sempre mezzo ubriaco, il bellissimo Kostel mi telefona ogni 31 dicembre chissà da dove, dopo la mezzanotte, a farmi gli auguri di buon anno nuovo. Ha lasciato la birreria; tutte le volte gli chiedo dove lavora adesso, ma non me lo vuole mai dire.

[Anna Lamberti-Bocconi, Rumeni. Romanzo di storie, Stampa Alternativa, 2009. Notizie sul libro, qui]

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27 Commenti

  1. un bel libro, un viaggio turbinoso e picaresco, un reportage di ladruncoli e becchini, bariste e camerire dove la scrittura, incalzante e ricchissima, diventa specchio di una realtà *altra* che irrompe e modifica l’occhio del reporter, Viola

  2. grande ammirazione per Anna e la sua scrittura. Ho letto con piacere questi due racconti e conto di leggere presto l’intero libro. In bocca al lupo!

  3. Brava Anna!!
    Spero di incontrarti il prossimo giovedi 25 al Turro.
    Acquisterò il libro nella tua presentazione e sarà più bello e prezioso, perchè avrà la tua dedica…

    Un abbraccio, Mino.

  4. Davvero contenta che l’eclettica Anna, dopo anni di meravigliose poesie e canzoni, abbia finalmente dato alla luce questo primo e bellissimo romanzo “Rumeni”, dove va giù duro nelle categorie RIMOSSO&PERTURBANTE.
    Effetto bizzarro: non c’è un’oncia di consolazione in un libro come questo, ma sapere che Lamberti Bocconi l’ha scritto mi consola assai.
    Il mondo mi sembra un posto più sicuro.

  5. Trovo particolari questi racconti, e interessante il rapporto tra la narratrice e i suoi soggetti. E’ possibile che mi ricordi la Duras, anche con le differenze di stile?

    Però, cara Anna, con una frase come questa: “Non pensavo che un ragazzo così bello facesse cilecca a letto”, a noi poveri maschietti ci fai venire l’ansia da prestazione! Se poi siamo pure bellocci…

    Comunque è una scrittura da approfondire. Consideralo già comprato.

  6. (my namme mio is Trocu)

    me hanno sparatu
    tre colpe d’e pistula
    e accussì,
    confuso,
    ancora co la musica
    nelle dita
    d’e canzune
    ‘talieneapolitane
    dinto li recchie,
    circavo cu ll’uocchie di scapparu
    cu la fisarmonica
    d’e mea musica tzitana,

    (my namme mio is Trocu)

    due guaglioni cu la maglie
    de la squadre de pallone
    d’o Napoles
    me hanno ‘nfelato,
    currennemo addereto,

    e,
    sparanno
    acca e a llà

    ca me venuta lo fiato gruosso,

    è trasuta
    na cortella
    sopra
    lo fianco
    dentro dentro
    arriavando
    comme viento frisco
    diritto ne’ lo core

    ca meco stavo
    svermenato di paura

    (my namme mio is Trocu)

    e,
    lo core mio,
    criaturo e guaglione,
    come un orologio
    s’è fermato,

    comme nu giocattolo
    s’è scamazzato

    comme ‘na machina
    fusa
    s’è squagliata
    comme la pece

    ca de lo sangue mio
    sentivo ll’addore,
    e, isso,

    guappo, strunzo e assassino

    traseva dinto ‘o naso

    il sangue
    surgeva
    sbucava
    russo russo
    ‘a ‘na strada
    ‘nu viculu
    ‘nu funnacu
    ‘na chiazza

    e lu corpo mio
    ca nun me rispunneva

    si è fatto bianco janco
    e, attuorno attuorno jancu biancu

    le voci de lo popolo
    luntane luntane

    (my namme mio is Trocu)

    li mamme ‘e Montesanto aggradavano
    cu li facce janche: – Lu figlio mio carnale –
    Li pparole migranti d’emigranti azzannanti.

    ninte cchiù, nianco ‘na nticchia,
    nimmanco e nippure

    e cchiù cchiù
    – ‘o criaturo s’è magnato tutt’o pappone –
    nulla di più
    a-blì-blò-o la-lince-la-lance
    tanti sciori ci stanno ‘n Francia

    terra in dove fui sgravato

    ma di sangue
    luntano sono
    de lo mi sangue

    nasciuti

    luntana è la terra mia
    de lo mi sangue,

    e,
    comme diceno ccà,

    ‘nzieme a mme
    è muorto lo mio sciato,

    no cchiù,
    mai cchiù arrisciatato.

    ‘na lacrima di sangue
    ca io stevo di casa
    a vico Lepre Ventaglieri
    nummero…e pagavo
    pe’ nu vascio
    di una sola stanza
    quattrociento
    si quattrociento euro
    a lu mese

    e,
    sunanno pe li strade
    chin’e munnezza
    e pagando
    li quattucientos turnese

    io pure,

    zingaro di merda,

    nu poco ‘e bbene
    l’aggio dato.

    pavato.

    (my namme mio is Trocu).
    Quattucient’anni songo passati
    Ca aggio malepatuto ‘a morte.

    Transit-Scarpantibus

  7. Bellissimi, cara Anna. Li ho letti d’un fiato e non vedo l’ora di presentare Rumeni a Macerata!

  8. belli
    (i bellissimi kostel in versione indigena la buttano più che altro sull’estetica: dimmelo che non mi vuoi perché non ti piace la mia camicia a fiori di merda! se non possiedono una camicia a fiori di merda!, e magari attaccano col lagavulin vel similia alle 7 del mattino: dimmelo che non mi vuoi perché odi gli uomini!:)

  9. sono un pò di parte ma comunque i racconti che ho letto fino ad ora li ho apprezzati molto; sono veri, fanno parte cioè di una realtà di tutti i giorni.
    mi fa piacere sapere che una persona di talento abbia avuto l’occasione di realizzare un proprio sogno nel cassetto!
    complimenti ancora per tutto! Pitù
    libro scorrevole da leggere tutto d’ un fiato, un libro che fa affiorare ricordi veri o immaginari a tutti coloro che vivono le proprie giornate con un pizzico di consapevolezza in più. C.

  10. bello il racconto su gigio, lo scugnizzo napoletano che ruba nelle borsette. Bello anche il racconto su Kostel (da noi in romania si usa Costel con la C, comunque), l’ amante focoso siciliano.
    Ma, stereotipi a parte, i romeni del titolo dove stanno?

    magari ne trovate uno vero a questo link:

    http://www.youtube.com/watch?v=BSlbJ9p1HrA

    purtroppo non parla in francese e quindi quasi nessuno capirà cosa dice

  11. Letti con foga e comprato immediatemente il libro.
    Anna, quando me ne avevi parlato avevo intuito che doveva essere esattamente questa roba qui, che ti piglia alla gola, esattamente come le poesie ed esattamente col tuo tono di voce. C’avevo l’accento un po’ milanese in testa mentre li leggevo, tipo nastro registrato, me li leggevi tu. Secondo me questo accade perchè usi la stessa “penna” quando scrivi.
    Quello che non mi aspettavo era che mi rimettessero in crisi: il primo soprattutto. Mi è successa una cosa del genere qualche anno fa ma la mia reazione a confronto della tua è stata una crisi isterica da violetta attaccata alle tende. Tentativo di taccheggio in stazione, a un quarto alle sei del mattino, roba tipo il Simonelli che urla stile Courtney Love in concerto, “Al ladro, al ladro!” (sic!) coi tremori, la polfer che ferma tutto, lo insegue e lo prende e lo porta sopra “per far due chiacchiere”, io che appena entro e mi dicono se voglio sporgere denuncia mi maledico da solo e attacco piangendo un monologo assurdo ai poliziotti che inizia con “Ma io sono di sinistra” e finisce con “è tutta colpa della Fallaci”. Poi anche a me è subentrato il Gesù (quell’espressione è calzantissima! mi son sentito proprio così!), gli volevo lasciare dei soldi col biglietto “Me li potevi chiedere”. Non ho sporto denuncia e la Polfer m’ha lasciato andare dicendomi: “Si riposi per oggi”. Il casino poi era che il tipo aveva occhi e zigomi d’un sexy che portava via. Avevo qualsiasi forma di identità, moralità e ideale completamente inutilizzabili causa botta d’adrenalina. Nel parcheggio della stazione poi ho messo in moto il motorino e ho fatto il mio primo incidente, perdendo l’equilibrio e cadendo come un perone cotto sullo scooter accanto (ma si è rotto solo il mio parabrezza e mi sono slogato una caviglia). Mentre leggevo mi ripassava tutta la pelle d’oca (oca che sono) addosso.
    Brava, questi due mi hanno colpito e affondato. E aspetto il libro, poi quando torno a Milano PRETENDO dedica.
    Bacioni

  12. Grazie a tutti quanti, davvero e tanto. Sono contenta che anche da questo breve assaggio sia arrivato qualcosa di buono: il perturbante, come nota Francesca, il picaresco, come nota Viola, un po’ di verità, come notano Pioia e C. E grazie uno per uno a tutti per gli apprezzamenti.
    @Mauro: sulla Duras non saprei che dire. Di lei ho letto solo un libro quand’ero al liceo, “L’amante”, ma è anche vero che mi era piaciuto moltissimo. Di certo non è un accostamento che mi offende!
    @Catalin: spero che tu abbia occasione e voglia di leggere il libro per intero, magari ne riparliamo. Anche se – non ci crederai! – tutte le storie narrate sono o vere o ispirate da episodi veri, tengo a dirti che non ho certo inteso raccontare la specificità dei rumeni, che non so neanche se esiste e qual è, e non mi interessava in questo caso. Al contrario, oltre il primo piano realistico, ho preso le persone che mi accompagnano in questo libro nel mio continuo “antiviaggio” per Milano come simboli concreti e universali dell’ALTRO, astrazione inquietante ma del tutto incarnata. I miei rumeni recitano con me ciascuno a modo suo la parte sottile dell’incontro e disincontro fatalmente uniti nel filtro del destino di tutti e mio personale. Volevo scrivere un libro di amore, giovinezza e povertà, e anche volevo tentare un avvicinamento al senso e ai sensi di una città così mia e così metamorfica. E schiumare nudamente con un cucchiaio bucato le cose struggenti che commuovono e si capiscono un po’ solo in sogno o nelle visioni.
    E’ chiaro che ho puntato alto, più di quanto magari saranno i risultati, e ve l’ho appena finito di dire senza ritegno: ma io sono una disperata massimalista, non sono portata all’understatement, e insomma ho cercato di dare il meglio che potevo.
    Infine: Transit. Complimenti a te.

  13. @lamberti bocconi

    auguri per il libro, comunque, mi scuserai per l’ ironia ma vista la spazzatura che negli ultimi tempi è stata riversata in italia sui rumeni ( un’ etnia per sua natura portata a delinquere, scondo le parole del vostro ministro calderoli…) di fronte ai tuoi due racconti mi son sentito un pò come un ebreo che nella vetrina di una libreria scorge il volume “I miei giudei”, scritto da Hans Muller Von Kaiserstadt…

    come minimo l’ ebreo aggrotta un sopracciglio con perplessità…

    in ogni caso non ho ancora letto il libro e non voglio trinciare giudizi affrettati…
    auguri

  14. “E schiumare nudamente con un cucchiaio bucato le cose struggenti che commuovono e si capiscono un po’ solo in sogno o nelle visioni.”
    Ecco, con questa frase rendi davvero l’idea. Sei una grande!
    Lara Lucaccioni

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