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For a New Italian Epic

Finalmente è uscita per Mesogea la nuova traduzione in esametri dell’Iliade, curata dal nostro Daniele Ventre. Così ho chiesto alle fantastiche genti di Mesogea l’autorizzazione a pubblicare su NI la prefazione, en entier, del mio antico amico Luigi Spina. Li ringrazio per avercela accordata e a Daniele, auguro una marea di lettori. effeffe


Provaci ancora, Dea!

di
Luigi Spina
Tradurre di nuovo, ancora una volta, l’Iliade? E perché no? Fra i primi traduttori di Omero si può annoverare Platone. Traduceva dal greco al greco, è vero, ma Jakobson ci ha insegnato che anche in questo caso si tratta di traduzione: l’ha chiamata intralinguale (o riformulazione/ rewording) 1 – cioè all’interno della stessa lingua – nel senso che lingua di partenza e lingua di arrivo coincidono. Ma questo non basta. Se coincidessero anche i testi, infatti, allora ci troveremmo di fronte a un Platone, autore dell’«Iliade» (molti ricorderanno il Pierre Menard autore del Chisciotte, immortalato da Jorge Luis Borges).
Nel terzo libro della Repubblica Platone fa inventare a Socrate una classificazione dei generi narrativi. Gli odierni narratologi, a partire da Gérard Genette, vanno, dunque, considerati tutti suoi allievi, visto che la parola greca che usa Platone è dieghesis, ‘diegèsi’, anche se non si diverte a complicarla con ammiccanti prefissi, del tipo di meta-, intra-, extra- ecc. Sostiene Socrate che si può narrare in tre modi: 1) in modo semplice, cioè usando la propria voce; 2) con una narrazione mimetica, imitativa (forse, meglio: rappresentativa): prestando, cioè, la propria voce ad altri, ai personaggi protagonisti delle narrazioni; 3) in modo misto, usando cioè i due tipi in una stessa opera. Poesia lirica, teatro, epica, rispettivamente: questi i tre generi letterari che corrispondono ai tre generi di narrazione. E, per meglio far capire al suo interlocutore (Adimanto) di cosa si tratti, Socrate gli chiede di richiamare alla mente i primi versi dell’Iliade (12-42), dei quali dà subito uno stringatissimo riassunto (anch’esso una forma di traduzione condensata): «in quei versi il poeta dice che Crise pregava Agamennone di liberare la figlia, ma quest’ultimo si fece prendere dalla collera; l’altro, allora, visto che non riusciva nel suo scopo, pregava il dio di punire gli Achei».

A questa sintesi Socrate fa seguire una traduzione più ampia, per la quale sceglie, a dimostrazione della sua tesi, di cambiare la modalità narrativa usata da Omero. Se Omero aveva fatto parlare Crise, riproducendo la sua preghiera agli Achei, ora Socrate ripropone quel plot come se fosse Omero a raccontare, invece di prestare la sua voce a Crise. Ecco che la narrazione, da imitativa o rappresentativa, diventa semplice. Ma non solo. Prima di recitare il suo Omero riformulato, Socrate si preoccupa di premettere: «non userò il metro, ho poca dimestichezza con la poesia». Cade, dunque, per esplicita volontà di uno dei primi traduttori di Omero, la contrainte costituita dal metro, dalla misura del verso, dall’alternarsi di sistemi sillabici a diversa durata di intonazione, che spinge a disporre le parole in un ordine armonico, facilmente percepibile dall’orecchio dell’ascoltatore. L’eufonia del ritmo consente di fare l’abitudine a una cadenza che si ripeterà uguale, con piccole variazioni contenute, nel corso della recitazione del poeta o dell’aedo.
Torniamo, allora, alla domanda con cui ho aperto questa prefazione. Platone mostra, quasi all’inizio della storia delle traduzioni omeriche, che è possibile tradurre Omero prescindendo dal metro. Lo fa per uno scopo ben preciso, interno alla stessa modalità di composizione dell’epica: per uno scopo, potremmo dire, didattico. Vuole insegnare e dimostrare quali siano le sostanziali differenze nel modo, nel come i poeti raccontano le storie degli uomini e degli dèi, non solo nel cosa, e cioè nel contenuto delle storie stesse.

Per fare questo ricorre al poeta per eccellenza della sua terra e, in quell’epoca, della terra conosciuta dai Greci. Il testo omerico, per un parlante la stessa lingua o comunque una lingua ancora comprensibile, può essere manipolato, riformulato, fino a mutarne la veste metrica, la scansione ritmica. Ben altri problemi, all’interno comunque di una dimensione traduttiva, si posero per i non parlanti il greco, a partire dai Romani. Non bastava più il ricorso ai sinonimi, alla torsione di una struttura sintattica, al cambio di tempo o modo verbale, all’uso di una diversa patina dialettale, al cambio di voce narrante.
Quel «dire la stessa cosa in un’altra lingua» che Umberto Eco ha presentato come significato ingenuo di tradurre 2 non è, infatti, operazione consolante e semplice come a prima vista potrebbe sembrare. E si potrà essere (stati) latini o italiani, francesi o inglesi, asiatici o africani, 3 l’Omero tradotto non potrà essere più, necessariamente, l’Omero dei Greci. L’importante, però, è avere una motivazione, un’intenzione. Credo poco nella intentio lectoris e ancor meno in quella dell’opera, se non c’è, forte, una intentio auctoris. E quindi, del traduttore, in quanto nuovo autore di un vecchio testo. Ugo Foscolo, nel presentare il suo Esperimento di traduzione dell’Iliade di Omero (1807), dedicato a Vincenzo Monti, che gli aveva messo a disposizione il primo canto della sua traduzione, decisamente più rapida e fortunata, 4 espone chiaramente l’«intendimento del traduttore»: «Gli uomini nati alle belle arti cercano in Italia una versione corrispondente alla fama di Omero. Il Cesarotti, ingegno sommo de’ nostri tempi, che poteva egregiamente tradurlo, elesse d’imitarlo; e forse fa sospettare che il padre de’ poeti non risplenderebbe nelle sue bellezze natie. Risplende nondimeno in altre lingue, e credo che l’Italia più ch’altre possa assumere le virtù di Omero senza studio di ornarle, e i suoi difetti timor d’avvilirli. Però imprendo a tradurre l’Iliade».

Quasi centocinquant’anni dopo l’esperimento foscoliano, Cesare Pavese riesce a realizzare il «sogno di vedere stampata una versione quasi letterale, a verso a verso, andando a capo quando il senso è finito, dell’Iliade e dell’Odissea». Scriveva così in una lettera a Mario Untersteiner, il grande storico della cultura greca, nei primi giorni del 1948. E fu Untersteiner a suggerire che ad accettare la proposta della casa editrice Einaudi, e a portare avanti il progetto di traduzione, fosse Rosa Calzecchi Onesti, una sua valida allieva del Liceo Berchet di Milano. 5 La lettera con cui quest’ultima invia a Pavese il saggio di traduzione (la cosiddetta Doloneia, il libro X dell’Iliade), solo qualche mese dopo, 6 illustra il metodo seguito, dunque un nuovo intendimento, a metà del secolo scorso: «Mi sono sforzata di lasciarmi guidare da Omero, tentando di rendere in italiano gli stessi effetti che egli crea, con gli stessi mezzi. Solo la disposizione delle parole ho qualche volta cambiato per seguire quella che è più spontanea alla nostra lingua; ma nei collegamenti e nei passaggi mi sono tenuta assolutamente fedele al greco. Quanto al ritmo, la mia intenzione costante è appunto quella di fuggire la monotona cadenza romagnoliana, 7 che non ha nemmeno la giustificazione di riprodurre davvero l’armonia dell’esametro. In questo la massima varietà e mescolanza di spondei e dattili crea un ritmo sempre nuovo, che accompagna in modo appropriato lo svolgersi delle scene, il variare dei sentimenti, gli effetti, insomma, che il poeta vuole creare. Volendo quanto più possibile aderire alla semplicità del testo, alla spontaneità, al modo particolare di creare le immagini, un ritmo, che non è da cercarsi verso per verso, ma che corre lungo tutto l’insieme dei versi, si spezza, si snoda, ricompare ora più, ora meno evidente, ora più ora meno rapido, ora ritardato, nasce da sé. E io l’ho lasciato venire come ha voluto» (corsivo mio). La contrainte del verso a verso, richiesta dal sogno di Pavese, sembra essere facilitata, nelle riflessioni della traduttrice, dalla forza stessa del verso omerico, che trasmette e trasferisce il suo ritmo nella lingua italiana. La traduzione della Calzecchi Onesti venne pubblicata dall’editore Einaudi nel 1950.

Negli ultimi venti anni sono apparse almeno tre importanti traduzioni dell’Iliade, affidate da altrettanto importanti case editrici a raffinati studiosi e interpreti della cultura greca: Maria Grazia Ciani (Marsilio, Padova 1990, poi Utet, Torino 1998), Giovanni Cerri (Rizzoli, Milano 1997); Guido Paduano (Einaudi-Gallimard, Torino 1997). 8 Anche in questi casi, diversi fra loro per intenzioni e modalità scelte, valgono le parole introduttive dei traduttori, che aiutano a inquadrare meglio la loro opera. Scrive Cerri, ad esempio (pp. 95 ss.): «Quando si traduce poesia, soprattutto la poesia antica fondata sulla prosodia quantitativa, si impone sempre una scelta: o si sacrifica l’effetto generale al rispetto dell’omoritmia dei versi italiani (che sono invece di tipo accentuativo) o si opta per un mimetismo più sostanziale, ripiegando però a livello metrico sul verso libero, fino a slittare nella prosa ritmica. Mi sono attenuto a questo secondo orientamento, senza la pretesa che sia il solo plausibile, ma con la speranza di compiere un esperimento che in qualche modo contribuisca alla comprensione del testo. […] Mi auguro che nessuno valuti la mia traduzione in se stessa, per giudicarla dal punto di vista estetico; ma se il lettore, pensando unicamente allo sviluppo del racconto, riuscirà a seguirlo con facilità e con diletto, avrò raggiunto in pieno l’unico scopo che mi ero prefisso».

Daniele Ventre, la cui traduzione il lettore potrà leggere (ad alta voce, raccomanderei, come spiegherò subito) nelle pagine seguenti, non si sottrae all’obbligo di indicare un’intenzione, un intendimento autoriale: «Spesso, però, chi si propone, pur con generosi intenti e ponderosi strumenti teorici, di stilare il manuale del perfetto traduttore, si dimentica di un’altra verità che giace al fondo: il fine ultimo di ogni traduttore è tentare, per quanto possibile, di restituire in qualche maniera al testo di partenza la parvenza di un’opera vivente».
Un’opera vivente dovrebbe essere un’opera che, nelle intenzioni di chi la (rap)presenta, costruisce un suo contesto di ascolto capace di interagire con l’opera stessa. Sbrinare i classici, come proponeva un grande storico dell’antichità, Moses Finley, è un’operazione che, anche se non può riprodurre le condizioni socio-letterarie della composizione, può almeno aspirare a creare una relazione viva di ricezione. Omero va dunque, prima ancora che studiato, ascoltato, e quindi letto ad alta voce. La capacità descrittiva, ecfrastica, dei versi del poeta, l’arte di ‘mettere sotto gli occhi’ i mille volti e luoghi di un tempo passato, trasformando l’ascoltatore in uno spettatore, è, a mio parere, uno dei compiti imprescindibili del traduttore omerico. Ciascuno, ovviamente, sceglie (e ha scelto) la modalità che gli sembra più idonea allo scopo. Daniele Ventre ha scelto di sperimentare di nuovo l’esametro ritmico di tradizione primonovecentesca, con una, a volte maniacale (volendo ricorrere a una connotazione più maligna della ‘pervicacia’ proposta dallo stesso Ventre), ricerca della resa equilibrata, non estemporanea. Consapevole, del resto, della tradizione nel cui solco si inserisce la sua traduzione, Ventre ha voluto richiamare – trasferisco qui la ‘memoria’ di una fortunata formula di Gian Biagio Conte dai poeti ai loro traduttori –, alcune brillanti intuizioni dei suoi predecessori, senza per questo violare le sue contraintes.

Farò un solo esempio, mostrando come, in ogni caso, Ventre arricchisca spesso, in maniera originale, l’esperienza ereditata. Tersite, un personaggio, che posso dire di aver frequentato assiduamente negli ultimi anni, 9 appare nel II libro dell’Iliade. La sua presentazione rimane uno dei tocchi più celebrati della tecnica di Omero (chiunque egli sia stato), anche per la capacità di usare quelli che in termini narratologici (e cinematografici) chiameremmo oggi flash-back e prolessi. La scena è inquadrata con grande efficacia nei versi 211 e 212 (che parafraserò, come Platone, in prosa): «Gli altri, allora, si mettevano seduti, ciascuno fermo al suo posto, ma Tersite era ancora lì, lui solo, a vomitare un fiume di parole». L’ascoltatore/spettatore è subito orientato dalla contrapposizione ‘tutti/uno solo’, arricchita da un’ulteriore polarità: ‘silenzio/strepito’.
E se i soggetti dei due poli (gli altri/Tersite) aprono rispettivamente il verso 211 e il verso 212, quest’ultimo si chiude con due parole polisillabiche (ametroepés ekolóia) che fissano un suono prolungato e disturbante. Vincenzo Monti, il traduttore fantasioso i cui endecasillabi molti studenti hanno mandato a memoria in anni lontani, proponeva (II 273-276):

Queto s’asside
Ciascheduno al suo posto: il sol Tersite
Di gracchiar non si resta, e fa tumulto,
Parlator petulante.

Così traduceva Rosa Calzecchi Onesti:

Gli altri dunque sedevano, furon tenuti a posto.
Solo Tersite vociava ancora smodato.

Ecco invece le tre traduzioni più recenti:

Sedevano tutti, fermi ai loro posti;
Tersite soltanto strepitava senza misura.

(Maria Grazia Ciani)

Tutti gli altri sedettero, si mantennero ai loro posti,
ma Tersite, lui solo, strepitava ancora, il parlatore petulante.

(Giovanni Cerri)

Gli altri sedettero, fermi ai loro posti;
solo Tersite ancora urlava senza ritegno.

(Guido Paduano)

E ora possiamo leggere la traduzione di Daniele Ventre:

Erano gli altri seduti, ormai, contenuti fra i seggi;
solo Tersite berciava ancora, il ciarlone smodato.

Le traduzioni esaminate, come si vede, sembrano rincorrersi, ciascuna, però, con proprie peculiarità lessicali. E se Cerri allude a Monti col suo «parlatore petulante», Ventre riecheggia, nell’efficace clausola «il ciarlone smodato», il «ciarlator dissennato» dell’abate Cesarotti, alla cui ‘riduzione in verso sciolto italiano’ del poema omerico, pubblicata prima fra il
1786 e il 1794 e poi rifatta completamente nel 1795, farò riferimento in conclusione; 10 un recupero che gli consente di mescolare una peculiare scelta verbale (berciava) con una connotazione insieme erudita e fedele al testo omerico. Ciarlone è aggettivo già registrato nel Cinquecento, che richiama la componente -epés dell’aggettivo omerico ametroepés, relativa alla quantità di parole, mentre smodato riproduce l’ametro- greco, la mancanza di misura: di quel modus, cioè, che, come da proverbio, dovrebbe sempre essere in rebus.
La traduzione di Cesarotti, che precedette di pochi anni la versione di Vincenzo Monti, aveva una caratteristica esegetica forte, che emergeva già dal titolo dato alla sua resa definitiva: L’Iliade o la morte di Ettore. Per Cesarotti la morte di Ettore era il soggetto del poema, mentre l’ira di Achille rappresentava solo un episodio secondario. Ne era talmente convinto che non si accontentò della traduzione incipitaria abbozzata per la prima versione: 11

Del figliol di Peléo, d’Achille, o Diva,
cantami l’ira, l’ira fatal che tanto
recò ai Greci d’angoscie […]

Volle, infatti, in consonanza col titolo scelto per la sua opera, proporre come traduzione definitiva una significativa estensione personale:

Del figliol di Peléo, del divo Achille,
Al par nell’odio e nell’amor sublime
L’opra maggior, la memorabil morte
Del Troiano campion, morte che a Troia
Fu d’eccidio final terribil pegno,
Cantami, o Musa […]

L’edizione da me consultata è: L’Iliade o la morte di Ettore, Poema omerico ridotto in verso italiano dall’abate Melchior Cesarotti, Santini, Venezia 1805 (in tre tomi). In realtà anche Monti parla del ‘ciarlator Tersite’, ma solo successivamente, quando ad apostrofarlo così è Ulisse. In una recensione alla traduzione della Calzecchi Onesti, dal titolo Tersite riabilitato?
Quello che colpisce, naturalmente, non è solo il passaggio da Diva a Musa per rendere il greco theá, bensì l’apparizione ritardata – rinviata addirittura al sesto verso – di un termine e di una struttura decisivi per la poetica antica. L’invocazione alla musa divina – figlia di Mnemosyne (Memoria), una e plurale, potremmo dire –, alla sola voce, cioè, capace di comunicare ai mortali, tramite la voce mortale del poeta, presente, futuro e passato, è un momento imprescindibile dell’incipit poetico.
Al punto che un ben noto filosofo di Abdera, il sofista Protagora, forte della sua competenza nella classificazione delle modalità discorsive, era giunto a criticare Omero per aver usato un imperativo (aeide, canta) nel primo verso dell’Iliade. Dire di fare o non fare una cosa, sosteneva Protagora – è Aristotele a raccontarlo, alla fine del capitolo XIX della Poetica – è comunque un ordine, non una preghiera, come quella che un poeta dovrebbe rivolgere alla musa divina.
Ma Aristotele non sembra condividere molto questa critica, che si riferisce in realtà a un dato grammaticale, a un modo verbale, mentre quello che conta nella creazione poetica e nella sua rappresentazione orale è appunto l’intonazione, il modo con cui si fanno ascoltare le parole poetiche.
Proviamo allora, in conclusione, a cercare in qualche traduzione moderna (e non solo) un riflesso di questo dilemma antico. Certo, il primo verso della cosiddetta Ilias Latina (I secolo d.C.) non si discosta da quello greco: Iram pande mihi Pelidae, Diva, superbi. È vero che Bernardino Leo da Piperno sceglie di fare della Musa una collaboratrice di Omero – come ricorda Morani 12 – e scrive nella traduzione del 1573: «Il Magnanimo Achille e ’l suo furore / Ho teco, Musa, di cantar disio», ma un imperativo è un imperativo, nonsi discute, e così troviamo, con poche differenze:

Cantami, o Diva, del Pelide Achille (il famoso incipit della traduzione
di Monti);
Canta, o dea, l’ira di Achille Pelide (Calzecchi Onesti);
L’ira cantami, dea, l’ira di Achille figlio di Peleo (Ciani);
Canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo (Cerri);
Canta, Musa divina, l’ira di Achille figlio di Peleo (Paduano);
L’ira tu celebra, dea, del figlio di Pèleo, Achille (Ventre).

Ho riportato per ultima la traduzione che il lettore troverà in questo volume. Il pronome ‘tu’ introdotto da Ventre non è solo un’esigenza della contrainte metrica scelta. Sembra invece contenere, almeno così l’ho sentito leggendo i versi ad alta voce, una risposta alla critica di Protagora. ‘Tu sola, dea, puoi celebrare, cantare’, sembra suggerire Ventre. Preghiera, ovvero comando che onora, perché si rivolge all’unica entità in grado di portarlo a compimento.
Ma con gli dèi, si sa, è meglio non scherzare troppo; per questo bisogna lasciarli nel primo verso di un poema, senza farsi venire strani pensieri molto poco omerici, come quello di farli scomparire del tutto da una narrazione epica. Ecco perché mi sono permesso di intitolare questa prefazione, non so se usando la modalità del comando o quella della preghiera, certo quella del caloroso invito, Provaci ancora, dea!: provaci ancora a ispirare dei versi, anche quelli di un nuovo traduttore di Omero, quelli di un traduttore del terzo millennio.

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NOTE
  1. Roman Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, «Il Verri», 15 (1965), pp. 98-106 (l’originale inglese è del 1959).
  2. Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003
  3. Richard Whitaker, Translating Homer in an African Context, in Omero tremila anni dopo, a cura di Franco Montanari, con la collaborazione di Paola Ascheri, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002, pp. 523-33.
  4. Homerus, Iliade. Omero, tradotta da Vincenzo Monti, a cura di Vittorio Turri, presentazione di Iginio De Luca, Sansoni, Firenze 1985. La traduzione di Monti è del 1810.
  5. Sulla vicenda editoriale e sui rapporti epistolari tra Untersteiner, Pavese e Calzecchi Onesti, rinvio a Eleonora Cavallini, Cesare Pavese e la ricerca dell’Omero perduto (dai Dialoghi con Leucò alla traduzione dell’Iliade), in Id. (a cura di), Omero mediatico. Aspetti della ricezione omerica nella
    civiltà contemporanea, D.u.press, Bologna 2007, pp. 157-75, e soprattutto ad Annalisa Neri, Tra Omero e Pavese: lettere inedite di Rosa Calzecchi Onesti, «Eikasmos», 18 (2007), pp. 429-47.
  6. 31 maggio 1948: ivi, p. 436.
  7. La traduzione di Ettore Romagnoli, in esametri ‘barbari’, fu pubblicata a Bologna nel 1924.
  8. Sulle traduzioni omeriche in Italia, particolarmente approfondito è il saggio di Moreno Morani, Per una storia delle versioni italiane dell’«Iliade», «Orpheus», 10 (1989), pp. 261-310. Sulle traduzioni italiane degli ultimi anni del secolo scorso, si veda Maria Luisa Chirico, Una nuova traduzione dell’Iliade, «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», 60 (1998), pp. 149-66.
  9. Luigi Spina, L’oratore scriteriato. Per una storia letteraria e politica di Tersite, Loffredo, Napoli 2001
  10. L’edizione da me consultata è: L’Iliade o la morte di Ettore, Poema omerico ridotto in verso italiano dall’abate Melchior Cesarotti, Santini, Venezia 1805 (in tre tomi). In realtà anche Monti parla del ‘ciarlator Tersite’, ma solo successivamente, quando ad apostrofarlo così è Ulisse. In una recensione alla traduzione della Calzecchi Onesti, dal titolo Tersite riabilitato? («Il Nuovo Corriere », 22 novembre 1950), Tommaso Fiore sottolineava la maggiore umanità della nuova traduttrice rispetto ai suoi predecessori nel rendere gli offensivi epiteti omerici (ringrazio Annalisa Neri e Federico Condello per avermi fornito il testo della recensione).
  11. Nell’edizione citata alla nota precedente, il problema è trattato nel tomo I, pp. XXXXIII e nel tomo III, p. 189.
  12. Morani, Per una storia delle versioni italiane dell’«Iliade», cit., p. 266.

12 Commenti

  1. Bellissima l’idea del lettore ascoltatore, l’Iliade come l’Odyssée hanno vocazione
    alla lingua viva, tradizione della poesia non della letteratura silenziosa, ma della lettura spettacolo sulla frontiera della favola, della poesia, della tragedia ( una parola di ritorno, di memoria, soprattutto nel Odyssée
    una parola magica o di coro tragico).
    Nel Odyssée c’è una parola del lutto molto bella,
    con un ampio velo buoi sul verso,
    un canto propio dell’emozione tragica.
    Ho avuto bisogno di molto tempo per amare l’Iliade, quando ero dall’inizio
    incantata dal Odyssée. Quando si trova una traduzione bella, non significa fedele di parola a parola, il testo emerge dal limbo. Testo irragiungibile della letteratura, toccato dalla sacralità diventa canto a portata di chi vuole imbarcarsi.

  2. PER MARCO ROVELLI,

    L’articolo mi ha datto la voglia di leggere l’ultimo libro di Aldo Nove.
    Ho nella mia biblioteca La plus grosse baleine di Lombardie in francese e mi rammento l’invenzione, l’infanzia, brani esilaranti.
    Ho anche Sperwoonbida con testi brevi moderni, violenti, sessuali.
    Ti mette il mondo odierno nella mente, chiasso, colori fulguranti.
    Ho letto anche una storia della giventù cannibale ( movimento neto in Italia in 9O). Forse questo movimento di breve vita ha avuto echi nella letteratura
    attuale.

    Dunque lunga vita al libro di Aldo Nove!

  3. Ho anche un altro libro di Aldo Nove parlando delal Svizzera, ma non mi viene in mente il titolo. Di ritorno a casa lo cerco.

  4. In riferimento al post sull’ultimo libro di Aldo Nove, volevo dire che chiudere i commenti non mi pare una bella mossa. Ragazzi, decidetevi: o li chiudete definitivamente o li rendete accessibili solo agli amici degli amici,. Laddove però si presuppone viga una certa democrazia dovreste imparare a tollerare commenti stupidi, superflui, dileggianti ecc. ecc.
    Non è per niente un buon segno questo. Un libro si difende da solo.
    Altrimenti fate come Il Primo amore. Diventate un blog di sola lettura e buonanotte.

  5. Altrimenti uno può pensare che le punzecchiature di rotowash e compagnia bella abbiano raggiunto il segno…
    Io il libro di Nove l’ho letto. Comprensione e compassione per la sua vicenda umana, ma se un libro così l’avesse scritto un esordiente, l’avrebbero cestinato immantinente.

  6. Massimo in un blog collettivo quale NI ogni redattore decide come vuole dei suoi post. Quello su Nove non è il primo e non sarà l’ultimo coi commenti chiusi. Non capisco questo massimalismo manicheo: o questo o quello!
    E questo, e quello.

  7. @ Gianni

    E vabbé… se ogni redattore decide come vuole. Non è massimalismo manicheo: è che a volte non ci si raccapezza. Gli è che mi stavo divertendo e sono rimasto a bocca asciutta, ecco…

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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