Una di noi
di Eleonora Tamburrini
Qualche giorno fa in un giornale locale, un titolo che si sforzava di mantenersi anodino (“Una gravidanza a 15 anni”) annunciava nel dettato spicciolo della cronaca la storia di una ragazzina che rimasta incinta senza volerlo di un suo quasi coetaneo, dopo aver programmato l’aborto decideva invece di diventare madre. Il fatto si trovava in cronaca perché a distanza di tre anni la ragazza, che frequenta una scuola maceratese, ha vinto un premio scolastico con un tema sulla sua esperienza. A presa diretta e con apparente indifferenza di fronte ai contenuti della storia, il giornale derubricava la notizia in quello che poteva essere lo spazio delle eccellenze del territorio: una pagella d’oro, un campione di atletica giovanile sarebbero stati probabilmente presentati allo stesso modo, con la stessa felpata, apparente noncuranza. Coscienziosamente e integralmente seguiva il tema vincitore, e con esso la ressa dei commenti virtuali, per lo più elogi alla vita e all’amore che trionfano. Chi vuole, può farsene un’idea qui.
La storia intenerisce, preoccupa, impressiona; e come ogni storia conta per quello che può dire a tutti, oltre il vissuto individuale della protagonista, che andrebbe trattato con delicatezza, e rispettato. Per questo non mi soffermerò su nessun passaggio specifico del tema premiato. Mi sembra però necessario e urgente porsi qualche domanda in più, superare l’impatto meramente emotivo, elaborare le reazioni epidermiche che una lettura come questa può far scattare.
Anzitutto il premio in questione, che a quanto leggo, ha coinvolto studenti di varie scuole italiane. Si tratta di un concorso europeo, indetto dal Movimento per la Vita e intitolato “Uno di noi”, proprio come l’iniziativa che lo stesso Movimento ha promosso con forza in rete e nelle piazze d’Italia e degli stati membri dell’Ue. Con la ratifica del Trattato di Lisbona infatti è entrata in vigore anche l’Ice, Iniziativa dei cittadini europei: se un qualsiasi comitato raccoglie attorno a una proposta almeno un milione di firme, la Commissione europea è chiamata a esaminarla e spiegare perché intenda rifiutarla o darle seguito. Cosa invocano dunque i Pro Life, visto che non possono chiedere l’abolizione delle leggi che garantiscono l’aborto (“garantiscono”, non “sostengono”) su cui soltanto gli Stati membri hanno possibilità di esprimersi e intervenire? È piuttosto semplice: chiedono di estendere “la protezione giuridica della dignità, del diritto alla vita e dell’integrità di ogni essere umano fin dal concepimento in tutte le aree di competenza della Ue”, attraverso il divieto all’utilizzo di embrioni in ricerca e lo stop allo stanziamento dei fondi destinati anche indirettamente alle pratiche abortive, quindi consultori, corsi di educazione sessuale, ong che si occupano di informazione sui diritti riproduttivi e quant’altro. La chiamano la “cultura della morte”, a volte anche con la lettera maiuscola. E d’altronde loro sono per la Vita, e la distinguono da chissà quale altra concezione -sicuramente minuscola – dell’esistenza.
Francesca Spinelli si è recentemente occupata della questione su Internazionale, per cui non mi dilungo oltre e ritorno alla storia da cui sono partita, certa che offra una delle molte angolazioni da cui è possibile guardare al problema. Mi chiedo cioè se sia giusto che un movimento di questo tipo bandisca, in una fase di autopromozione e conseguente raccolta firme, un concorso rivolto alle scuole (il concorso esiste, sempre su temi analoghi, ormai dal 1986, ma questa volta il periodo è cruciale). Mi chiedo soprattutto a che pro e in che misura le scuole pubbliche aderiscano a un premio che non verifica talenti e abilità perché non è un concorso di idee, ma verte piuttosto su un’idea unica e stabilita a monte: una scrittura a tesi data la tesi, aprioristica e calata dall’alto. Per intenderci, se una studentessa o uno studente avessero disquisito sul tema raccontando una situazione analoga terminata con la scelta convinta dell’aborto, credo che al di là della qualità dell’elaborato, questo non avrebbe ricevuto alcun premio. Se la didattica fosse un talk show a questo punto invocherebbe il contraddittorio.
Più ampiamente: può la Presidenza della Repubblica di uno Stato laico concedere l’Alto Patronato a un concorso di questo tipo, dati gli obiettivi dell’iniziativa “Uno di noi”? Può continuare, a trentacinque anni dalla sua approvazione, l’assedio più o meno subdolo alla legge 194? È corretto farlo mettendo in palio premi e viaggi a Strasburgo per studenti, e dunque attraverso la scuola pubblica italiana?
Mi colpisce fino alla rabbia e allo sconforto la recrudescenza (italiana e non solo) dei toni e dei termini del discorso attorno ai diritti riproduttivi. Basta scorrere le pagine e i profili social del sopra citato Movimento per cogliere la pericolosità di una retorica che tenta in ogni modo di porre il discorso in chiave antitetica e manichea. Mi sento veramente anacronistica nel dover sottolineare (ancora!) che non si tratta di una lotta tra fazioni, perché chi continua a sostenere e difendere la legge 194 da questi assalti deprecabili semplicemente abbraccia tutte le scelte possibili e intende garantirle.
Tuttavia la soluzione normativa non basta mai se non le corrisponde un progresso culturale capace di riempirne le maglie larghe. Grazie a questi vistosi interstizi lasciati all’ignoranza e alla vergogna, negli ospedali italiani siamo giunti a una percentuale di obiettori di coscienza che sfiora la media del 70%, fino al 100% di strutture totalmente sguarnite (si veda il recente caso dell’ospedale di Jesi). Sono poi all’ordine del giorno le storie di donne che presa la decisione dell’aborto sono costrette ad affrontare attese, ritardi, trattamenti e approcci giudicanti da parte del personale medico e paramedico, in sfregio della loro condizione di pazienti e di esseri umani; intanto l’Istat testimonia, pur nel brusco calo seguito all’entrata in vigore della 194, un recente rialzo degli aborti clandestini; e vale solo per i dati noti, perché la situazione delle donne immigrate è spesso avvolta nel silenzio più totale.
D’altra parte le alternative alla riprovazione sociale sono spesso il paternalismo e la pietà, cioè cose di cui non ha affatto bisogno un soggetto debole, posto di fronte a una vicenda umana complessa e magari alla ridefinizione della propria identità. Il soggetto in questione e parte lesa è la donna, ça va sans dire, spesso esposta in solitudine al circo mediatico del dolore vuoto di padri e di compagni, o viceversa espunta con tratto fermo dalla questione. Chi è infatti quest’ “uno di noi”? Sicuramente non la donna, che esce di scena di colpo, contenitore muto. E se la donna ha quindici anni, se la donna è una bambina? Forse la Vita da tutelare è solo quella che va dal concepimento alla nascita.
Indigna quindi la doppia morale che si abbatte sulla condizione femminile e in particolare sulle maternità precoci: serpeggia costante il giudizio che le adolescenti sessualmente attive covino in sé una spregiudicatezza che è poi la loro colpa; allora tuonano i benpensanti contro la decadenza sociale, i genitori separati, i vestiti succinti, le nuove lolite. Sotto sotto il concepimento è lo strale e la maternità la fulminea espiazione. Evitata la tentazione dell’aborto, la giovane è madre, dunque improvvisamente santificata assieme al frutto del suo grembo. Uguale e contraria sarà l’accoglienza sociale per una scelta di segno opposto.
La contraddizione è evidente: chi predica la pericolosità di una vita sessuale precoce, firma perché vengano eliminati i fondi, già scandalosamente minimi, destinati a diffondere l’educazione sessuale nelle scuole, l’assistenza psicologica negli ospedali, l’informazione sui diritti riproduttivi nei consultori e nelle strade. Che poi sarebbero anche le uniche pratiche veramente efficaci per ridurre a monte il ricorso all’aborto.
La banalizzazione dei diritti coincide con la loro derubricazione a questione politica secondaria (ai tempi della crisi!) e con una dolosa sciatteria comunicativa. Per questo l’informazione mainstream ne scrive in rubriche separate, riserve indiane rispetto alla nera, quasi sull’orlo della rosa; in tv diventano materia da reality o da sonnolento pomeriggio domenicale. Qui le narrazioni vengono piegate a un’esigenza di consumo: l’esperienza di una donna che ha sofferto diventa l’autopsia di un caso umano e le teen moms personaggi destinati a un pubblico di coetanei (ma temo che il target sia ancora una volta quasi solo femminile). Personaggi, va detto, sradicati come sempre da qualsiasi contesto critico, che da una parte mostrano la durezza del disagio (mentre i giovani padri continuano a vivere da adolescenti, le madri mostrate crescono i figli per lo più da sole con la loro famiglia, tra enormi difficoltà per lo studio e il lavoro); dall’altra neutralizzano gli snodi critici con un concentrato di vecchissima cultura catto-conservatrice per cui un’idea astratta di famiglia stempera ogni frustrazione, lava il peccato e lo stende al sole per tutti noi, a esempio e monito. Non un accenno, ovviamente, alla possibilità della contraccezione, nessun tentativo di fare informazione.
Prima di emettere inutili sentenze, prima di strattonare il singolo caso a bandiera, occorrerebbe chiedersi se ai più giovani (e non solo) sono stati dati gli strumenti per conoscere e se il contorno culturale permette loro di scegliere davvero liberamente; se l’apparato legislativo sta funzionando o se viene vanificato da spinte reazionarie e tentazioni da “pensiero unico”. Questa forma di violenza è molto sobria, ha l’aria perbene di un gazebo per la raccolta firme fuori dalla chiesa la domenica, o di un concorso scolastico con ricchi premi; eppure cova tutti i peggiori germi dell’intolleranza e di quella cultura della colpa che si è abbattuta da sempre soprattutto sulle donne e sulle bambine.
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[Questo articolo è apparso su adamomagazine.wordpress.com il 9 novembre 2013)
Tutto vero: però ricordarlo non basta mai. Ma come dice un amico psicologo…Perchè meravigliarsi- di tutto questo- quando lo stupore umano ( e l’indignazione) sembrano aver meno peso della frutta passata di stagione? Grazie Renata.
mario s.
già, ahimè – ma ringrazierei soprattutto Eleonora Tamburrini, per questo pezzo pieno al contempo di riguardo e di lucidità
hai ragione Renata, la cosa mi è sfuggita! Eleonora Tamburrini ha “scovato” un tema coraggioso e pericoloso. A te il merito di aver sostenuto un pezzo così forte, a lei quello di averlo scritto. Due donne speciali, entrambe! un grazie al cubo!
Grazie! Siamo sul punto di essere donne o ragazze in pericolo.
Mi spiego in Francia osservo da qualche tempo un ambiente pesante.
Gruppo di uomini che cercano di fare passi indietro.
Sono preoccupata. Sono piccoli gruppi, ma attivi.