La quasi morte dell’autore: Near Death Experience

di Alberto Brodesco

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Impiegato di un call center si dirige in tenuta da ciclista verso le montagne per suicidarsi. Sta tutta qui la trama di Near Death Experience, film di Benoît Delépine e Gustave Kervern. A interpretare l’impiegato, in un film in cui gli altri personaggi sono solo comparse, è Michel Houellebecq. Si tratta di una presenza decisiva, che attraversa gli spazi del film conferendo massa alle componenti elementari che strutturano la narrazione. Il corpo di Houellebecq, tutto gira lì intorno: i registi girano il loro film intorno al corpo e a sua volta il corpo gira, ballando sgraziato sulle note di War Pigs dei Black Sabbath. In quasi tutte le sequenze del film lo scrittore francese si rende ridicolo come in questa: quando rimane per interi minuti, impacciato uomo ragno, appeso a una parete di roccia; quando si muove alla Nosferatu proiettando la sua ombra fra le rupi al tramonto; quando infine si disseta con l’acqua di una piscina benché una voce lontana glielo sconsigli. “Me ne frego, sono morto”, le risponde Houellebecq.
L’autore, dunque, è morto. O meglio, per correggere Roland Barthes, è quasi-morto, visto che nemmeno il suicidio gli riesce davvero bene. Houellebecq passa attraverso una “Near Death Experience”, l’esperienza ai confini della morte che i racconti new age illustrano con la figura dell’uscita luminosa in fondo a un tunnel. In un film che affronta il rapporto fra scrittore, autore e personaggio, questa luce fatale sembra essere quella dei riflettori. Houellebecq è l’interprete ideale per ragionare sul tema del divismo letterario, visto che, oltre che sulla forza della scrittura, ha costruito la sua fortuna sulla provocazione, sul piacere dello scandalo, sul gusto dell’antipatia, ovvero sulla confusione tra arte e vita, tra fiction e auto-fiction, tra voce del personaggio e voce dell’autore.

Per suicidarsi in montagna Houellebecq indossa letteralmente i panni del pennivendolo da quattro soldi. La sua divisa da ciclista rossa e bianca porta come sponsor la Bic, produttrice delle più economiche fra le penne. Il distacco dal mondo del personaggio si sovrappone alla catarsi dello scrittore: Houellebecq scompare fra le montagne anche per suicidare il suo personaggio letterario. La sua partecipazione a un film che concentra lo sguardo sulla miseria del corpo nello spazio è un’auto-caricatura, una near death artistica. Avvicinarsi alla morte così, vestito da ciclista marchiato Bic, è in definitiva un modo per ancorarsi al corpo, e quindi per restare vivo, dentro il tunnel, per rimanere scrittore. Come afferma Houellebecq in voice over, i nostri corpi sono tute spaziali che ci consentono di sopravvivere goffamente in un pianeta inospitale.

È davvero stupefacente osservare infine un altro aspetto legato alla sfera del corpo, ovvero come Houellebecq stia assumendo sempre più la forma fisica di alcuni dei suoi progenitori letterari: Céline in primis, poi Artaud da vecchio, poi dei riflessi dai ritratti immaginari di Sade. Questa metamorfosi non è certo frutto di uno spirito di emulazione alla Zelig ma pare rispondere a una volontà totalmente somatica di andare ad abitare il grande edificio della letteratura del Male.
Benoît Delépine e Gustave Kervern scelgono di utilizzare una videocamera obsoleta e a bassa definizione, che monda di tutto il suo potenziale artistico-turistico il luogo in cui il film è girato, la Montagne Saint-Victoire resa iconica dai quadri di Cézanne. Per molti versi i registi si avvicinano all’intenzione del pittore, ne ricalcano il lavoro di sottrazione di paesaggio al paesaggio, nel verso della forma pura, della geometria, manifestando un bisogno di fuga dall’impero dell’HD. La conquista estetica si raggiunge solo nel rifiuto dell’estetismo – altra negazione ostinata, altro modo per restare al riparo nel buio del tunnel.

Near Death Experience, presentato nella sezione Orizzonti alla 71esima mostra del cinema di Venezia, è uscito nelle sale francesi. Non è al momento prevista una distribuzione italiana.

 

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1 commento

  1. Ma la Bic era la squadra di Poulidor, eterno secondo classificato… e così si apre una altra lettura… molto più impegnativa

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Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma è necessario potare pazienza. Se non ricevete risposta, ricontattatemi a distanza di un mese. Il mio giudizio per eventuali pubblicazioni è ovviamente del tutto personale.
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