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LETTERA A UN PROFESSORE SULLO STATO DELL’EDITORIA

di Marco  Alloni

Caro Salvatore Ritrovato,

una volta mi hai detto che la letteratura è morta e non resta che l’editoria. Il paradosso si risolve in modo elementare: la letteratura-prodotto ha soppiantato la letteratura-idea, e lo “spirito di scissione” di cui parlava Gramsci, che è la cifra stessa della letteratura come idea, ha dovuto lasciare il passo allo “spirito di adesione”. Questo non significa che per fare letteratura bisogna oggi abdicare alle idee in quanto tali, ma la natura delle idee portatrici di un afflato scissorio, polemico in senso pieno, non adesive, tale natura è estromessa dall’orizzonte delle attenzioni editoriali. Quali tipi di idee possono allora trovare accoglienza nel circuito della letteratura-prodotto? Le idee il cui “spirito di scissione” sia solo apparente, ovvero serva non già la messa in discussione dell’esistente ma la sua conferma. Persino il marxismo riletto “polemicamente” in chiave anti-capitalistica è funzionale al sistema della letteratura-prodotto: serve infatti la causa speciosa e fasulla del capitalismo come terreno della libertà assoluta, compresa quella di critica. In verità solo laddove il discorso “critico” al capitalismo permette la sua perpetuazione – per esempio subordinando la ferocia anticapitalistica del neomarxismo di Diego Fusaro alla sua vendibilità – esso ha diritto di cittadinanza nel sistema della letteratura-prodotto. Laddove agisce alla radice per la sua dissoluzione, per la sua scissione, esso è respinto. Ovverossia: è accolto solo laddove la “critica” è integrata, neutralizzata dal sistema. La paralisi e l’ostracizzazione della letteratura-idea dovrebbe dunque, a rigore, coincidere con la sua sensatezza. Ovunque si abbia prova di una letteratura che non serve l’autoperpetuazione del sistema capitalistico occidentale, là è il nucleo, la cellula essenziale della letteratura-idea. Ovunque un testo viene respinto o ignorato, là è la conferma della sua verità. Ci si trova così nella contraddizione in termini che il senso pieno della critica abita solo laddove non è esercitabile. Come si esce da una simile impasse? Una soluzione di accomodamento sarebbe quella di accontentarsi di una visibilità gregaria, cioè di una militanza in solitudine o quasi: dentro il sistema ma nelle sue retrovie. È quello che genera, e degenera, nel pensiero radical-chic, inutile in quanto autoreferenziale. È l’opzione disperata che anima la vanità del popolo dei dissidenti insussistenti. Altra opzione più radicale è la violenza. Se l’azione culturale è preclusa dalla logica della subordinazione dell’idea al prodotto, per dirla semplicemente dalla logica del profitto e della mercificazione del pensiero, lo strumento dialettico cessa di essere nella disponibilità dell’intellettuale, e al suo posto si offre solo quello del terrorismo armato. Su scala planetaria il fenomeno è ben compreso da chi non moralizza la storia ma la osserva nella sua dinamica essenziale: contro il sistema occidentale non esiste più politica, tantomeno di sinistra, che sappia proporre alternative al capitalismo monoteistico. Il solo paradigma concesso – e non concesso – all’opposizione è la violenza islamista. Non poteva essere altrimenti e sarà così per un periodo ancora molto lungo, lungo quanto la renitenza delle sinistre storiche a ripristinare una politica di dissociazione reale e non solo cosmetica. Ma nel recinto asfittico delle nostre micro-esistenze il meccanismo è il medesimo: l’esclusivismo autogenerativo del sistema capitalistico-consumistico produce quello stesso risentimento che in scala maggiore possiamo identificare nel terrorismo. Un risentimento del quale un’editoria illuminata dovrebbe riconsocere il potenziale mercantile, di quel “mercato del futuro” che ancora non si vuole osare concepire come concretamente concorrenziale rispetto a quello attuale. È sulla base di questo malcontento strisciante, latente, potentissimo e irrefrenabile che io credo si debba quindi tentare un ragionamento eversivo costruttivo. Poiché esso, paradossalmente, potrebbe generare, oltre alla violenza di cui sarà scaturigine naturaliter, quella revulsione storica dell’idea di profitto che potrà, forse in tempi non brevi, rifondare il mercato democratico della letteratura-idea. Non so se mi sono spiegato, ma l’idea di fondo è: noi dobbiamo agire per costruire un’alternativa di mercato nobile a quello attuale. E il pubblico dei risentiti è molto più vasto di quello che il prudenzialismo conformista dell’attuale editoria vorrebbe riconoscere. Questa intendo io per militanza: avviare, anche da una posizione di subordine rispetto al sistema mercantile in auge, una lotta coerente per creare le basi di un mercato del risentimento.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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