Luca Ricci. È fondamentale avere dei difetti

di Stefano Gallerani 

In pochi mesi, nel 1925, Horacio Quiroga, scrittore uruguiano e tragico, stilò, sulle pagine del settimanale illustrato “El Hogar”, il Decalogo del perfecto cuentista, il Manual del perfecto cuentista e, infine, Los trucos del perfecto cuentista; tre sintetiche emanazioni di un magistero che, tutt’ora, fa di Quiroga uno dei massimi scrittori di racconti del novecento. Da Quiroga, Cortázar sviluppò l’idea della circolarità del racconto – o, più esattamente, della sua sfericità: un sentimento che, tenuto conto dell’intrusione nel racconto del suo autore, “deve preesistere in qualche modo all’atto di scrivere il racconto, come se il narratore, sottomesso dalla forma che adotta, si muovesse implicitamente in essa e la portasse alla sua tensione estrema, conducendola così esattamente alla perfezione della forma sferica”. Che a dirsi – e a citarsi – è facile ma in pratica è più complicato che risolvere un’equazione differenziale in cui la funzione incognita sia un rebus teologale.

Non a caso, William Faulkner riteneva il racconto ben più difficile del romanzo e secondo solo alla poesia, perché, data la misura, come nella lirica non c’è spazio per sbagliare, non c’è la possibilità romanzesca di riprendere fiato o rimediare a dieci pagine scadenti nelle cinque, mirabili pagine successive – cui possono seguire quindici interlocutorie prima di riprendere le montagne russe della tensione per altre venti. Con Roberto Bolaño, poi, dai dieci comandamenti di Quiroga si arriva al dodecalogo, che al secondo punto recita: “la cosa migliore è scrivere racconti a tre a tre, o a cinque a cinque. Se ve la sentite scriveteli a nove a nove o a quindici a quindici” perché (punto terzo) “la tentazione di scriverli a due a due è pericolosa come mettersi a scriverli a uno a uno, e per di più si porta dentro il gioco piuttosto appiccicoso degli specchi amanti: una doppia immagine che mette malinconia”. Tra gli autori consigliati dal cileno, oltre Quiroga, una schiatta ragguardevole: Felisberto Hernández, Jorge Luis Borges, Cortázar e Bioy Casares, ma anche Jules Renard, Marcel Schwob, Alfonso Reyes, Edgar Lee Masters, Pseudo Longino, Villa-Matas, Marías e, su tutti, Edgar Allan Poe. Ma più ancora, Čechov e Raymond Carver, perché (dodicesimo punto) “uno dei due è il più grande scrittore di racconti che abbia dato” il novecento. Pure, entrambi, il russo e l’americano, sono campioni nel medesimo campo da gioco, quello del racconto realistico (lo stesso in cui gioca “Papa” Hemingway), ma l’idiosincratico – e canonico – Harold Bloom invita a non trascurare la corrente di segno uguale e contrario, quella del racconto fantastico, che fa capo proprio a Borges e passa, per metterci un po’ d’Italia, anche per Landolfi. Tra i dieci comandamenti e i dodici precetti, però, probabilmente il numero magico del racconto è nove, come le Nine Stories di J.D. Salinger, tra le massime vette del genere. Quello che è certo, ad ogni modo, è che il racconto, la short-story, di sicuro non è, come spesso si potrebbe pensare, il parente povero del romanzo, anzi. Che poi tra i due possa esistere una relazione e che non è escluso che uno scrittore possa eccellere tanto nell’uno che nell’altro… beh, in questo senso basta sfogliare Maupassant o passare in rassegna la bibliografia di James Joyce e João Guimarães Rosa… L’Ulisse non nasce dopotutto dall’idea di un racconto che avrebbe dovuto far parte di Gente di Dublino? E Il grande sertão cos’è se non un’appendice elefantiaca delle raccolte Sagarana e Corpo di ballo?… E in fondo, non sono forse romanzi sotto vuoto, cioè privati dell’aria della narrazione, i cento micro-racconti di Manganelli che l’autore stesso consiglia di leggere “nelle tenebre esteriori, meglio se allo zero assoluto, in smarrito abitacolo spaziale”?…

Tutte queste cose – e molte altre – le sa bene Luca Ricci, autore, da ultimo, de I difetti fondamentali (Rizzoli). Pisano, classe 1974, Ricci è, tra gli scrittori italiani contemporanei, sicuramente il più fedele al racconto. Fedele quasi al limite, se non del paradosso, probabilmente dell’ossessione. Come autore, certo, ma anche come lettore. Una fedeltà che, al giorno d’oggi, è anche una presa di posizione estetico-ideologica. Ma come, nell’epoca del romanzo per l’estate, del libro di natale, della lettura di pasqua, perché ostinarsi a scrivere raccolte di racconti? I racconti – sembrano dire, nei fatti, gli editori – non si vendono bene, non si possono sintetizzare in una bandella, hanno poco fascino. Come si può costruire un caso, con auspicabile per quanto deprecabile ricaduta commerciale, su un oggetto che per sua natura ha mille facce e almeno due interpretazioni per ciascun lettore di ogni singolo racconto (il che vuol dire che se la raccolta in cui è ricompreso il racconto supera la soglia dei mille lettori, siamo almeno a duemila interpretazioni; se poi i racconti, secondo la regola Salinger, sono almeno nove, le interpretazioni diventano diciottomila)… Come si può, dicevo? Si può, eccome. E I difetti fondamentali sta lì a dimostrarlo. Si può, innanzitutto, perché la letteratura italiana è, storicamente, una letteratura di tradizione, oltre che lirica, novellistica. Una tradizione risalente che, per rimanere al secolo che ci siamo appena lasciti alle spalle, annovera Palazzeschi e Pirandello, Buzzati e Soldati (vincitori, entrambi, del Premio Strega – il premio degli editori! – proprio con due raccolte di racconti), Moravia e Fonzi, Tondelli e Mari. E si può, anche, perché la letteratura egemone dello stesso secolo – il novecento – ovvero quella americana, ha cresciuto molti dei suoi più importanti esponenti a pane e racconti (Fitzgerald, Malamud, e Cheever, tanto per fare solo tre nomi). E si può, ancora, più che per qualsiasi altro motivo, perché il successo di una raccolta di racconti non è frutto di un algoritmo ma solo di un paio di elementi difficilmente clonabili nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte: costanza e bravura. Elementi che Ricci ha coltivato – il primo – sin dai suoi esordi (con i microracconti di Duepigrocoerre d’amore e i racconti de Il piede nel letto) e affinato – il secondo – nei successivi titoli (L’amore e altre forme d’odio e La persecuzione del rigorista), scrivendo un romanzo che non è se non un racconto lungo (Mabel dice sì), un pamphlet narrativo (Come scrivere un best seller in 57 giorni) e inanellando ora quattordici difetti fondamentali. Ma quali sono questi difetti fondamentali, a chi corrispondono? Ciascuno intestato a un prototipo, i racconti di Ricci gravitano tutti intorno a un asse che è qualcosa di più e di diverso che un punto d’equilibrio tematico. Si tratta, infatti, di un sentimento comune più che di un tema: un paesaggio emotivo – quello del mondo che a diverso titolo gravita intorno alla “cosa letteraria” (scrittori, aspiranti tali, editori, giornalisti, mondani culturali sempre meno divini etc.) – che condiziona le esistenze individuali dei suoi protagonisti e connota un’identità collettiva. Per quanto marcata, però, non si tratta, a ben vedere, che di una cornice entro la quale lo scrittore si muove con sguardo rapido e curioso, sarcastico ma partecipe (un po’ alla maniera del Bernhard di A colpi d’ascia, ovvero con lo stesso affetto spietato che si nutre per i propri simili): attento ai riflessi condizionati delle mode (“Il rothiano”), alle piccole manie che creano dipendenze (“Il rifiutato”) e al bozzetto di costume (“Lo stregato” o “La canonizzata”); ma anche all’intrusione del fantastico nella realtà (“Il suggestionabile”, “L’eccitato” o “Il folle”) e alla grammatica dei sentimenti (“L’adultero”, “L’invidioso” e “Il manierista”). Tutti insieme, i suoi personaggi sono spesso ritratti alle prese con speranze elementari, poco favoriti dal destino e molto dall’imprevisto, colti con una partecipazione ironica che non esclude la fermezza del giudizio. Pure, in questi racconti non c’è ombra di satira, bensì lo scarto tipico e non lineare della mossa del cavallo nel gioco degli scacchi: quando prepara una strategia (delineando un setting, dandoci delle coordinate), sotto sotto Ricci già ne elabora una opposta e alternativa che fa provare alla nostra attenzione una vertigine di senso: la ridesta, la porta alla soglia di stanze impreviste. La satira, invece, presupporrebbe una pagina bidimensionale e, per quanto divertente, un po’ scontata, mentre nell’universo di Luca Ricci, perfecto cuentista, così come anche nei suoi libri precedenti, i confini tendono a dissolversi e, con poche parole, alle volte appena con una torsione della frase, a aprire squarci che, delle storie che racconta, ci dicono più di quanto non faccia il loro contesto. Alla fine, le pagine si confondono, lavorano lentamente nella coscienza del lettore, lo mettono come di fronte a uno specchio che gli restituisce l’unica possibile immagine di sé: un’immagine scontornata di cui è impossibile – e forse ozioso – dire se sia fantastica o verosimile; un’immagine che è l’insieme dei difetti fondamentali di cui siamo fatti, perché l’essere umano – come la Letteratura – cos’è “se non una splendida rovina?”

[Finalista al Premio Chiara 2017]
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