Proust contro Cocteau

[È uscito per Archinto Proust contro Cocteau di Claude Arnaud (trad. di Anna Morpugo); pubblico qualche estratto del capitolo intitolato L’incontro, ringraziando l’autore e l’editore. ot]

di Claude Arnaud

Cocteau non ha mai saputo dove avesse visto Proust per la prima volta. Era stato forse in rue de Bellechasse, a casa di Mme Daudet, vedova dell’autore delle Lettres de mon moulin? Nella residenza di parc Monceau dell’acquerellista Madeleine Lemaire, «la donna che ha creato il maggior numero di rose dopo Dio», dove s’incontrano pittori e aristocratici? In quella di Marie Scheikévitch che riunisce il fior fiore della cultura o, come sembra più probabile, da Mme Straus, vedova del compositore della Carmen?

A meno che sia successo sui divanetti rossi di Larue, il ristorante dove si cenava dopo uno spettacolo, prima di finire da chez Maxim’s…

I baffi neri già attraversavano il viso olivastro di Proust, tra il suo sguardo di gazzella e il suo sorriso stanco. Ma aveva i capelli a spazzola o la riga in mezzo? Era ancora glabro e pallido «come un uovo di Pasqua» o aveva già quella strana barba nera che lo faceva assomigliare alla salma del presidente Carnot? («La metteva e la levava con la rapidità dei fantasisti di provincia quando imitano gli uomini di Stato», dirà Cocteau.) Divenuto nel frattempo la memoria dell’ambiente che cominciava a descrivere, Proust sembrava occupare retrospettivamente con la sua presenza ogni salotto.

Si era alla fine del 1909 o agli inizi del 1910, questo perlomeno sembra certo. Cocteau aveva ventun anni, Proust quasi quaranta. L’incontro deve essere sembrato loro naturale quanto ovvio, visto che né l’uno né l’altro ha ritenuto utile descriverlo. Probabilmente le parole piene di ammirazione di Reynaldo Hahn, il musicista più amato dai salotti, e le confidenze di Lucien Daudet, figlio di Alphonse, che erano le persone più vicine a Proust, avevano dato a quest’ultimo l’impressione di conoscere già Cocteau: ne avevano tanto vantato la prontezza intellettuale, la disinvoltura sociale e il tatto nell’esercitare l’impertinenza!

Entrambi ammirati in egual misura, Hahn e Daudet figlio già trattano «il piccolo Marcel» con le attenzioni dovute al genio ancora lontano dall’essere tale, agli occhi di Parigi. Che importa se la musica del primo è già suonata ben oltre i confini dell’Europa e se l’eccentricità del secondo spinge regolarmente Proust a dirsi influenzato dal suo stile? Sono loro a celebrarlo in una città che continua a vedere in lui un semplice cronista mondano fatto per descrivere all’infinito le feste del conte di Montesquiou sul «Figaro», o uno di quei fortunati dilettanti assai più bravi a commentare l’opera degli altri che a produrne una propria.

Malgrado due anni prima Proust abbia annunciato pubblicamente di volersi dedicare alla scrittura e abbia pubblicato le poesie, i pastiches e ritratti dei Plaisirs et les jours, non è stato convincente. È da così tanto tempo che parla del suo work in progress – è al suo terzo tentativo – che la cerchia di Mme Cocteau arriva a dubitare dell’esistenza stessa di questa grande opera, vedendovi null’altro che un pretesto per interminabili telefonate e altre inopportune inchieste genealogiche. Quando non riduce Proust a uno snob che ostenta insopportabili pretese letterarie per potersi infiltrare nel loro mondo.

Fu probabilmente Lucien Daudet a presentargli Cocteau, dopo essersi fatto cantore precoce dei suoi talenti e avergli offerto quel po’ di fiducia in se stesso che ancora gli mancava. Ritenendo che il suo ambiente fosse migliore di quello di Proust, figlio di un’ebrea che grazie al matrimonio con un professore di medicina cattolico si era «ripulita» fino a un certo punto, Daudet aveva presentato il ragazzo che aveva undici anni meno di lui senza risparmiarsi. Meno complicato oltre che meno gaffeur, con un gusto più sicuro rispetto a Proust, che si accontenta di mobili orrendi e di un abbigliamento approssimativo, Cocteau era stato subito ricevuto nel salotto di sua madre. Per quanto il luogo fosse rimasto immutato dalla morte di Alphonse Daudet, la risonanza di Tartarin de Tarascon e del Petit Chose continuava ad attrarvi il fior fiore dei vecchi letterati, e il giovane Cocteau vi aveva presto ottenuto la propria investitura. Impaziente di diventare un personaggio, oltre che un poeta, si era messo a rivaleggiare con Lucien Daudet, quell’amico squisito dal quale prenderà l’abitudine di sottolineare le frasi alzando l’indice, come il San Giovanni Battista di Leonardo, quasi le sue visioni folgoranti gli venissero dal cielo.

Ora, Proust ha sempre apprezzato l’intelligenza sintetica, la sensibilità esacerbata e il discernimento letterario di «quel bel giovane con i capelli arricciati, inamidato, impomatato, imbellettato e incipriato» come lo descrive Jules Renard. Abbastanza acuto da influenzare le opinioni di un ambiente di cui padroneggia perfettamente gli ingranaggi, Daudet figlio, tuttavia, non si mette troppo in vista. Per quanto Proust lo incoraggi a scrivere, ritenendolo assai più dotato di sé, raramente avverte l’esigenza di pubblicare. Privo di ambizioni, a dispetto di un reale talento come pittore – allievo di Whistler, lascerà un eccellente ritratto di Montesquiou – sperpera i suoi doni come fosse un nababbo. Dal momento che ogni forma di impegno interiore minaccerebbe quel distacco aristocratico che egli intende opporre a tutto, questo giovane ricercato preferisce circondarsi di persone «che lo fanno dannare», salvo poi «morire di noia» quando non ha più speranza di incontrarne qualcuna. «Gli uomini che vedete sono eroi, ierofanti, semidèi, donne, fate, principesse, sante», aveva proclamato il Sâr Péladan ai visitatori del sesto salon della Rose-Croix del 1897: se la nascita avesse consentito a Lucien Daudet la fortuna di essere tra loro, sarebbe stato appagato. Vittima di quell’«eccesso di un gusto da proprietario terriero, magari dilettante del giardinaggio» di cui Proust, dopo averlo amato invano, parlerà con quel suo affetto perverso, si accontenta di reggere il leggiadro ombrellino dell’ottantaseienne Eugénie, vedova di Napoleone III…

Proust era appassionatamente andato in cerca del giovane Lucien Daudet, dei suoi grandi occhi castani e delle sue lunghe ciglia, del suo senso dell’assurdo e delle sue doti di imitatore. Comunicando con eguale snobismo masochista – «Quando ceno fuori amo stare a capotavola, è la prova che sono a casa di gente per bene», dice Daudet –, condividono incontenibili esplosioni di risa notturne, che li elettrizzano e li lasciano estenuati. Dal momento che Daudet desiderava solo i ragazzi del popolo, la frustrazione aveva finito per esaurire le attese di Proust, ma la complicità era sopravvissuta alla delusione.

[…]

Il clamore suscitato dai Ballets Russes funse da catalizzatore all’incontro. Scoprendo Nijinsky e Karsavina alla prova generale delle Danze polovesiane del principe Igor insieme a Lucien Daudet, Cocteau tesse ovunque le lodi di questa troupe giunta dalle steppe. Conquistato dall’eccitazione suscitata dai russi, che paragona all’elettricità che circondava l’affaire Dreyfus, Proust fa dei balletti di Djagilev, popolati di sultani e di etère, l’espressione ultima dei sogni orientali della sua galassia amicale. Con le sue arie da principe persiano, Cocteau conferisce un ultimo tocco asiatico al profilo da emiro di Daudet-il-piccolo o ai modi da «ragià vestito all’europea» che assume lo stesso Proust quando, sotto la barba nera, indossa i suoi sparati bianchi.

L’entusiasmo di Cocteau si volge dapprima a Nijinsky al quale Proust preferisce la Karsavina, che riaccompagna nella notte, «livido, educato e timido come un fantasma». Ma entrambi subiscono il fascino esercitato dalla personalità feudale di Djagilev, con le sue sonore risate, i suoi intrighi bizantini, i suoi mostruosi rancori. Baritono mancato e musicista abortito, l’impresario riesce a imporre a tutti la propria volontà con esplosioni di collera degne di Ivan il Terribile. Con un sadismo che sfocia nella comicità, Djagilev finisce per imporsi come un oggetto di scherzosa venerazione. 
Convinto com’è che ogni essere sia animato da un fuoco sacro, Proust continua a interpretare la Parigi di Haussmann alla luce degli antichi miti. Nelle duchesse del Faubourg, vede divinità mascherate degne della regina di Saba, e negli energumeni delle Halles nei quali a volte s’imbatte all’alba, vede lontani eredi di Ercole, con le loro clave insanguinate. Ma gli piace anche disfarsi di questi eccessi, come del ricordo della propria ossequiosità pubblica, dissezionando questo campionario umano con quella crudeltà tinta di derisione tipica della cultura omosessuale dell’epoca.

Con una buffoneria capace di «far piangere un pezzo di marmo», a detta del loro amico Jacques Porel, anche Cocteau si diverte a mettere in ridicolo i vertici della società che insieme incensano nei salotti. Una volta consumato il «delitto», il loro massimo piacere consiste nel risuscitare le vittime con imitazioni ancora più feroci, così da garantirsi un controllo «postumo» su questi modelli dilaganti, come farà Proust trasformandoli in metafore letterarie superiori. A meno che non sia Lucien Daudet, che imita il suo amico Marcel in modo esemplare, a contraffare a sua volta quest’ultimo quando imita Djagilev…

Proust agiva di fronte a un nuovo interlocutore come di fronte a un estraneo, a detta di Lucien Daudet. Si sforzava di capirlo, poi si metteva a parlare la sua lingua, per evitare di umiliarlo. Dal momento che questa lingua in generale era più rozza della sua, imparava presto a padroneggiarla. Ma Cocteau si avvale del suo stesso genere di idiomi e le sue espressioni sorprendenti lo affascinano. La sua «conversazione piena di trovate» riesce a scatenare quelle risate che lui trattiene con la mano, prima di imbrattarsene la barba, scoppiando a ridere come «dietro il ventaglio di una donna», Cocteau dixit. Questi momenti di ilarità lo aiutano ad attraversare la notte, unico luogo ormai che abita con un piacere garantito, quando non lo riportano ai giorni in cui credeva ancora nella vita. Giudicando Cocteau «intelligente e dotato in modo davvero notevole», vanta a tutti l’estensione dei suoi doni e la presa dei suoi occhi «ammalianti». Non sono così numerosi, gli scrittori divertenti; Proust e Cocteau ebbero subito la fortuna di suscitare l’uno nell’altro il riso fino alle lacrime.

[…]

 

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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