L’informità innominabile di Calasso

di Domenico Talia

Abitiamo luoghi, tempi e condizioni inafferrabili. Definizioni diverse sono state tentate per qualificare questa epoca e la società che la affolla. Società liquida, mondo globalizzato, post-moderno, post-storia. Tutti tentativi che descrivono soltanto parzialmente e dunque imperfettamente il loro oggetto. Viste incomplete di una materia complessa che sfugge alle teorie consolidate, ai tentativi di sistematizzazione.

Roberto Calasso nel suo ultimo libro pubblicato nell’anno appena passato, spiega come non sia il caso di azzardare una nuova definizione e sceglie la rinuncia alla nominazione. L’innominabile attuale (Adelphi, 2017) è un testo che raccoglie note e tesi sul nostro attuale che inquietano, più volte spiazzano, scartano da percorsi già noti e tolgono la terra da sotto i piedi a chi crede di avere certezze sul presente. Le argomentazioni di Calasso discutono l’informità del nostro mondo, sostanza in gran parte sfuggente, privo di punti fermi, spogliato da storiche mediazioni, mancante di stabili e chiari riferimenti sociali, in una parola «innominabile».

Il protagonista sferzato da Calasso è l’Homo saecularis, forma susseguente ma involuta dell’Homo sapiens. Essere che ha smarrito il senso del sacro, che vive soltanto per se stesso e in se stesso e mancando di ancoraggi trascendenti difetta di un reale sistema di riferimento che gli possa fornire punti fermi su cui poggiare la propria esistenza. Le tesi di Calasso hanno il limite di apparire perentorie e prescrittive, talvolta regressive e conservatrici. Tuttavia, scuotono dalle fondamenta il nostro presente. Nel leggerlo può capitare di avvertire la sensazione di sentir parlare Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina. Ma questa è soltanto una percezione letteraria. In più, le categorie con cui valutare il libro di Calasso non possono e non devono essere quelle del secolo scorso e delle sue ideologie totalizzanti. Non aiuterebbero a entrare in ragionamenti che, per quanto dolorosi, al bisogno possono essere usate per esplorare la nostra contemporaneità.

Il libro si compone di tre parti, l’ultima delle quali occupa poco più di una pagina e riprende un foglietto di Baudelaire che descrive il sogno del crollo di una grande torre quando ancora questa costruzione non si chiamava grattacielo. Le altre due discutono l’informità del mondo affrontandola tramite modalità e momenti differenti. Nella prima parte i protagonismi sono i neo-secolaristi del nostro tempo: turisti, terroristi, il popolo digitale e digitatorio e altre specie umane odierne. Nella seconda le note si susseguono illuminando momenti storici e protagonisti dell’Europa degli anni che vanno dal 1933 al 1945, quando «il mondo stesso aveva compiuto un tentativo di autoannientamento». Il legame tra le due parti è la mitomania di una società che, cercando un potere sempre più potente, rischia l’autodistruzione, il raggiungimento del nulla semantico, la perdita di senso dell’esistere che si esaurisce nel visitare luoghi stranieri senza volerli realmente conoscere, nel consumare beni inutili, nel farsi trasportare dal grande fiume digitale o nel seminare terrore nei luoghi dell’Occidente blasfemo per dare significato al proprio esistere.

Le riflessioni di Calasso sono dedicate alla debolezza della società secolarizzata che è entrata nel nuovo millennio senza avere coscienza di sé, dei suoi valori fondanti, senza un vero sentire “spirituale”. Una società che sembra vivere fuori da ogni trascendenza, è esterna a qualsiasi elemento sacrale che potrebbe darle senso, direzione, sostanza superiori al potere che ogni modello sociale oggi insegue. La critica che molte pagine del libro sostengono in maniera non sistematica ma con profondità è diretta all’essere umano che si gratifica nel diventare gitante, settario o consumatore digitale e si tiene lontano da ogni cosa che sorpassi i limiti dell’esperienza. Un essere che popola una società che si specchia esclusivamente su se stessa, vive di autopromozione, dell’affermazione compulsiva di sé e manca della capacità di immaginare sensi e significati universali. Una società dove vince il continuo contingente, l’inconsistente insensato, il terrore come significato e infine la morte come rapporto di potere.

È un libro carico di concetti densi e sfuggenti allo stesso tempo. Opera che cerca di raggiungere le radici del senso del vivere ma non potendolo/dovendolo necessariamente trovare prova a spingere chi lo legge a entrare in una dimensione necessaria per riflettere sul soprasensibile che il nostro mondo nasconde ogni giorno. Un mondo informe, elusivo, non concettualizzabile. Opposto alla necessità che emerge dalle note di Calasso: credere in qualcosa che dia senso ad una società che “si ciba” di se stessa come soffrisse di una patologia autoimmune.

Una parte delle note è dedicata al ruolo dell’universo digitale e del controllo dei dati che riguardano le vite di tutti. Il governo dei dati porta al governo della società e fa nascere una nuova di pratica del potere che indebolisce la già fragile democrazia che governa l’Occidente e che, per la visione “vedica” di Calasso, si configura come una «concatenazione di procedure» che si assoggetta alla «procedura di codifica universale» rappresentata dalle tecnologie digitali che promuovono il formale, puntano al totale automatismo e annullano il pensiero (elemento chiave del libro, ancor più del potere). La critica di Calasso è anche alla scienza e ai suoi rappresentanti colpevoli di operare a servizio dell’Homo saecularis sviluppando “protesi” per il suo agire sconnesso a causa dell’assenza di pensiero.

I temi che il libro addenta sono molti e rilevanti. Talvolta si ha l’impressione che la visione sia di aristocratico distacco, tuttavia il tentativo del libro è di introdurre elementi di riflessione che tanti non avvertono o tacciono e questo dà al testo di Calasso un ruolo efficace e atemporale. Tra le tante importanti citazioni che il libro contiene, è utile citare l’agghiacciante poscritto della lettera di Walter Benjamin a Magarete Steffin: « … la Società Viennese del Gas ha sospeso l’erogazione del gas agli ebrei. Il consumo di gas da parte della popolazione ebraica comportava perdite per la Società del Gas, perché pur essendo i maggiori consumatori non pagavano le bollette. Gli ebrei utilizzavano il gas preferibilmente a scopo di suicidio.» Questo post scriptum di Benjamin serve a ricordarci che non è sufficiente comprendere bene il passato (dopo che sia accaduto), ma è sempre urgente riflettere per afferrare il presente evitando che le atrocità come questa citata nascano ancora da adesioni senza riserve a un sistema totalitario. Consiglio sempre valido, anche oggi che siamo di fronte ad un totalitarismo dei consumi che nasconde una morale che facilmente illude e apre spazi enormi all’assenza di pensiero e di critica.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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