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Il paralogismo di Coco

di Giorgio Mascitelli

Alla manifestazione milanese del 25 aprile scorso ( 2017) ha destato disappunto e ironia il cartello portato da un militante del PD  che inneggiava a Coco Chanel come madrina spirituale dell’Europa unita, dati i trascorsi antisemiti e collaborazionisti della celebre stilista che evidentemente  gli estensori del cartello ignoravano. Se torno sull’episodio ovviamente non è per rinfocolare le polemiche politiche che da qualche anno in qua accompagnano la festa della Liberazione, ma perché questa gaffe è il sintomo di un certo quadro di idee diffuse nella nostra società non  solo tra i sostenitori del PD. Nel commentarlo alcuni hanno tirato in ballo l’ignoranza dei tempi e che lo spirito dei tempi abbia qualche cosa a che fare con la vicenda è indubbio, anche se non sarei così draconiano nell’ascrivere a pura ignoranza la genesi dell’episodio.

In primo luogo, infatti, il cartello per Coco non era isolato ma in compagnia di altri dedicati a personaggi famosi, personalmente ne ho visto  uno per Jane Austen e un altro per John Lennon, che, sebbene abbiano condotto vite onorevolissime e immuni da pecche così gravi, con l’Europa unita non c’entravano molto. Diciamo che l’unico criterio che può accumunare insieme personaggi così diversi tra loro in una manifestazione di questo genere è quello di aver goduto di grande successo nei rispettivi campi e nelle rispettive epoche. Insomma essi erano in quel contesto quelli che nel linguaggio pubblicitario si chiamano dei testimonial. Ora è probabile che il meccanismo logico che ha prodotto la gaffe si situi a questo livello: essendo stata Coco una persona di successo e dunque una perfetta testimonial,  non occorreva controllare i dati della sua biografia perché si presume che questo genere di personaggi di successo possano avere idee politiche magari vaghe e anodine, ma comunque sempre presentabili. L’idea di dare una controllata su Wikipedia alla sua vita presupponeva uno scetticismo rispetto alle logiche correnti dell’immaginario e una consapevolezza storica della diversità del passato  che difficilmente si trovano nei contesti sociali odierni.

E’ chiaro che questo tipo di mentalità ha molto a che fare con la dimensione del politicamente corretto. Oggi, infatti, il politicamente corretto si presenta in primo luogo come una serie di affermazioni a carattere eticopolitico che costituiscono una sorta di standard per poter essere ammessi sia nel circuito mediatico mondiale sia in quella che potremmo chiamare la sfera globale della società. Coloro che hanno necessità impellente di esservi ammessi, d’altra parte, sono le personalità di successo o aspiranti tali in tutti i campi dell’umano agire. Se dunque tuttora Coco Chanel resta un’icona internazionale, non potrà che avere avuto comportamenti e posizioni compatibili con quegli standard. Ecco verosimilmente l’errore logico, che senza neanche troppo sarcasmo potrà essere ribattezzato paralogismo di Coco o anche paralogismo numero cinque, causa della gaffe.

La natura di questo paralogismo ci permette di illuminare quella che è la funzione sociale del politicamente corretto. In questo senso è possibile paragonare il politicamente corretto alla morale vittoriana, naturalmente non dal punto di vista dei contenuti normativi ( basti pensare alle prescrizioni sessuali di cui quella era generosissima che in questo sono sporadiche), ma nella sua funzione di indicatore  universale e onnipresente di ciò che è appropriato. Come spiega Franco Moretti ne Il borghese,  nella morale vittorianaciò che conta non è tanto il contenuto del codice ( una prevedibile miscela di cristianesimo evangelico, immaginario ancien régime ed etica del lavoro) quanto la sua inaudita onnipresenza”, che è quanto si può dire del politicamente corretto. Questa sua onnipresenza è dovuta al fatto di essere l’indicatore di appartenenza a una classe o, se si preferisce, a un ceto, quello dei gentiluomini allora, quello dell’èlite globale oggi. Come ieri lo era il vittorianesimo, così oggi il politicamente corretto è funzionale alle esigenze di autorappresentazione ideologica dell’organizzazione produttiva della società. L’enfasi posta sulla lotta contro ogni discriminazione, salvo quelle di status economico e competitività,  è una forma di universalismo necessaria al dispiegamento del mercato globale, non tanto in senso geografico, ma in quello biopolitico nelle vite di ciascuno, come dimostra il contestuale rifiuto di una percezione dei problemi sociali in termini storici.

Ritengo, ma mi potrei sbagliare, che l’abbrivio decisivo per questa diffusione universalistica del politicamente corretto sia stato dato dai grandi concerti evento tipo Live Aid che, a partire dalla metà degli anni ottanta fino a qualche anno fa, hanno contrassegnato la nostra vita pubblica arricchendo di una coloritura di impegno sociale le tradizionali attività di beneficenza del mondo dello spettacolo.

Come tutti i generi mediatici di successo il politicamente corretto genera anche un sottogenere d’opposizione dagli accenti populistici, oggi particolarmente in voga dopo Brexit e il successo di Trump, che rivendica la funzione salvifica di alcune forme di discriminazione  rivolgendosi a un pubblico tradizionalista disorientato dal progressismo globalista e offrendole come succedaneo della lotta di classe ai ceti impoveriti dalla globalizzazione: si tratta di due fenomeni complementari, che partono dalla premessa comune di accettare la subordinazione alle istanze del mercato, allo stesso modo che sul mercato musicale alle stelle più sofisticate della scena pop internazionale si contrappongono cantanti legati a tradizioni locali o a versioni pop meno aggiornate, che però in un singolo mercato nazionale possono avere più seguito dei primi.

Il fatto che i due generi siano complementari non deve però trarre in inganno sul fatto che solo il politicamente corretto è in grado di assolvere a quelle funzioni, fondamentali per il neoliberismo, di elaborazione di un senso individuale nell’interiorizzare i meccanismi di competitività, di “riscrittura etica delle relazioni sociali” ( Moretti) e di fornire un galateo per una vita trascorsa perlopiù in nonluoghi; in breve è solo questo che ha capacità egemoniche. In questo senso allora se la critica del politicamente corretto è un compito primario, esso non può coincidere con l’opposizione ai suoi contenuti, nella maggior parte dei casi difficilmente contestabili per la loro genericità, che è già prevista nel gioco della contrapposizione populista, ma consiste nella capacità di porre al centro ciò che non è dicibile nel discorso politicamente corretto.

( questo articolo è apparso su Alfabeta 2 il maggio scorso, lo ripubblico perché mi sembra che i problemi che sollevava siano ancora più evidenti oggi, g.m.)

 

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1 commento

  1. Sono d’accordo, proprio in questi giorni dicevo a un’amica francese scrittrice che è stata ‘obbligata’ a sottoscrivere il movimento mee- too se voleva che il suo libro fosse accettato dai librai (!!!) , che siamo ritornati , in peggio all’era vittoriana. Almeno lì erano più chiari e non fingevano di essere progressisti e di sinistra

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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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