Hamburger

di Giancarlo Maria Costa

E mentre me ne andavo – e me ne andavo col treno perché la famiglia di B. stava diventando una specie di famiglia povera e povera stava diventando la mia che era una famiglia come quella di B – mentre, dicevo, andavamo via da Gela, io e B., avevamo le parole dei nostri papà nelle orecchie, parole dette ogni sera prima di andare a dormire. Le parole venivano pronunciate dopo Indietro Tutta ed erano: tu da qua devi andartene.

Fu trasportando le valige pesantissime da un sedile all’altro di un bus per la Germania che B. che era un gigante alto quasi due metri mi disse ma che cazzo c’hai messo dentro le tue valigie i cadaveri ? E solo dopo diversi anni, tornando a quella partenza, dentro le valigie io pensai che si, c’erano i cadaveri, c’era la mia città e c’ero io che avevo respirato e dovevo avere addosso l’odore insopportabile della decomposizione anche se allora credevo di avere la vita in ebrezza – una vita di appena diciott’anni – la decomposizione era la luce della mia ebrezza

Io B. e gli altri avevamo diciotto anni nel 1993. Nel 1993 c’erano un sacco di bancarelle di vestiti al mercato di Gela e i vestiti per i ragazzi della sala giochi Nevada le madri li compravamo al mercato del martedì. Invece all’ospedale io e papà c’andavamo l’indomani e c’erano un sacco di metastasi, metastasi che sembrano tramonti, pensavo, tramonti di persone che non sarebbero risorte come mia madre che era già malata da prima che nascessi tant’è che come un cagnolino chiamavo mamma le cose rimaste al suo posto e cos’era rimasto al posto di mia madre?

Al posto di mia madre erano rimaste un un mucchio di cose che erano male – cose come le pistole sparachiodi o le ciminiere del Petrolchimico – e in mezzo, mi dissi, in mezzo c’era stato il nascere nella carne e adesso carne ero io, carne macinata con le ossa e il sangue, perché io ero figlio della città di petrolio che era sangue e di rovine come ossa.

Mia madre era distratta come distratto è il ventre della terra, ma lucente e oscura come un velluto nero. Era la madre di un sacco di assassini e niente era più semplice che capire gli assassini fratelli miei, ragazzi che indossavano vestiti El Charro e guardavano Beverly Hills 90120 e solo dovevano salire su una moto Enduro e uccidere altri ragazzi per continuare a guardare.

Nel mentre la terra sotto il bus scorreva come un fiume e giuravo che non sarei più tornato a Gela e il Nord era la terra promessa e la terra promessa era la giovinezza e indietro restava un mare sensuale, un mare profondo e ostile dove i cani nella notte come sospesi a mezz’aria abbaiavano dietro al bus.

Credono di poter fermare il bus e dissi a B.: ti rendi conto quanto sono coglioni i cani che abbaiano al bus? B. a quel punto disse che il bus prima o poi si sarebbe fermato e i cani sarebbero stati convinti di aver cambiato il mondo. Allora guardai B. e gli chiesi se aveva portato una cassetta con i Modern Talking. B. mi mostrò la cassetta e mi chiese se in Baviera avremmo mangiato i migliori hamburger della nostra vita, dopo mi raccontò che una volta in Germania c’era stato da suo cugino e aveva mangiato hamburger molto alti, hamburger alti almeno tre dita, disse, e lui era più che altro per quel tipo di panini e mi chiese se secondo me c’erano hamburger più grandi di quelli e io gli dissi che c’erano hamburger molto più alti di quelli McDonald, che sono piccoli, e ne servono sette o otto per saziare la fame di un ragazzo di Gela.

– anche se di quelli del Burger King, di quelli ne basterebbero cinque – mi disse – però se mi dici che a Baden Baden invece con due hamburger ti sazi ti credo. Sarà un viaggio lungo ma ne varrà la pena, l’importante è che dormiamo. –

Io sugli hamburger non mentivo, veramente avevo pensato di non mentire mai agli amici e che mentire agli amici fosse sbagliato. Questa era la regola dei ragazzi della sala giochi Nevada. Non rubare la donna a un amico. Non mentire. Prestare le sigarette. Farsi i fatti propri. Non rullare a bigliardino.

Quasi ogni mattina Io B. e gli altri giocavamo al videgioco Golden Axe oppure a Extreme Soccer mentre il pomeriggio giocavamo a biliardo e fumavamo erba fino a sera, io ero al quinto livello di Golden Axe, il livello in cui Ax Battler può salire su un dinosauro, quando B. disse vado a fumare mezza canna e torno e quando tornò le moto Enduro erano ferme davanti l’ingresso e i due ragazzi con i rayban erano saliti sopra il tavolo del biliardo e il gestore della sala giochi Nevada, un pedofilo di nome Nenè Connery, disse che buttana miseria fate su quei tavoli? ma nessuno potè sentirlo perché la musica era troppo alta e i ragazzi con i rayban uscirono il fucile a canne e una pistola revolver, una pistola di quelle che io e B., durante ricreazione all’Istituto Chimico, dicevamo: cazzo sarebbe bello averla.
Era autunno e c’erano tutti i miei amici: Jason Cosenza che si è preso le pallottole nelle budella sopra i coglioni e Brandon Lauretta, e Dylan Scicolone con buco nello sterno. Poi c’era Marylin Di Dio con il ferro nella pancia e nelle cosce ed era quella più viva, ma viva come una marionetta, come una marionetta era quando nella sala giochi colava la carne dei miei amici dalle pareti e io strisciavo fra i tavoli e i vetri rotti e sussurrano: amore mio sei vivo? E Marylin era viva ma si muoveva a scatti ma non capiva più d’essere Marylin Di Dio, né una ragazza di Gela, e io stesso non riuscivo a capire cos’era lei e cos’ero diventato anch’io.

Poi vennero i poliziotti. Mi afferrano per il collo come un gatto mentre fissavo le pareti. Nella stanza del commissariato ( una stanza che per me adesso è sospesa nella notte accanto alla luna) mi domandarono cosa avessi visto. Io rimasi zitto e alla fine dissi che avevo visto proprio un cazzo. Loro dissero ragazzino è importante, non avere paura, ti mandiamo lontano, però dicci cosa hai visto. E io dissi un super minchia ho visto, un grande cazzo di nessuno e niente. Allora il poliziotto X diede un calcio al cestino dell’immondizia e il cestino si rovesciò per terra. Dentro il cestino c’era un poster dell’attrice porno Fili Houtman tutto accartocciato e io dissi allo sbirro: c’hai ancora da farecon quello? E loro dissero va bene basta più per ora fallo riposare al ragazzo ma quando stavano per uscire io, non so perché, chiamai lo sbirro e dissi :Io non ho visto però ho sentito dissi. Allora loro si voltarono perplessi e mi vennero vicini, si misero in ginocchio alla mia altezza e chiesero: cosa hai sentito?

E io dissi: ho sentito così… you’re my fire, the one desire..belive when i say, i want it that way. …

Dopo rimasi solo. Ero solo e continuavo a cantare.

Solo nella stanza continuavo a cantare. Cantavo un sacco di pezzi inventando le parole. L’ultimo pezzo che ho cantato: Memories dei Netzwerk. Le parole dicevano : you know my world, this is my right, you can take my love but not my life. Non conoscevo l’inglese e non avevo idea di cosa volessero dire. Io, B., Marylin Di Dio, Jason avevamo ballato questa canzone in una discoteca che si chiama Pasta Club. Scoppiai a piangere. Ripensavo ai pezzi di carne dei miei amici sulla parete della sala giochi Nevada. Prima o poi, pensai, avrei dimenticato e pregavo chiunque di fare in fretta, perché mentre dimenticavo, c’era da vivere ed ero come inseguito, sentivo che presto sarebbe toccato a me, che sarei scomparso e sarebbero scomparsi i bare i lidi in riva al mare, gli amici come B. e i bus verso la Germania, il Petrolchimico deserto l’avrebbe spazzato via il vento come erba secca.

B. sul bus si era messo a dormire e russava. Io ogni tanto gli davo un gran calcio alla caviglia, allora lui su svegliava e si addormentava subito con la bava alla bocca . Sul treno per il nord ascoltammo, Be my lover dei La Bouche, Rythm of the Night di Corona, Around the World (la la la la la) degli ATC. Via via che il Bus avanzava sentivo un po’ di fastidio allo stomaco, non saprei dire se dovevo cacare, rimasi a lungo con questo dubbio e poi compresi che doveva essere la separazione, il modo in cui avveniva di separarsi dalle cose e il modo in cui le cose erano state assorbite.

Poi arrivò The Colors Inside dei Ti.Pi.Cal. B. agitava il capo segnando il ritmo. Il testo parlava di un colore che hai dentro, un colore nascosto come un cielo segreto

Poi arrivò la mia piccola Marylin, gli ultimi gironi di liceo e le passeggiate a ridosso delle rovine, davanti al mare e al Petrolchimico.

Sono nata nel posto sbagliato disse Marylin.
Il posto era il posto che l’avrebbe ammazzata presto, una discoteca chiamata Pasta Club, il liceo, un lungomare, il pomeriggio a casa dei genitori di Marylin con Super Vicky su un tv color da dieci pollici, la casa dove aveva aperto le gambe mentre sua madre pregava Padre Pio spolverando l’atrio miserabile con incredibile dedizione.

Me ne andavo dalla città senza vedere ed essere visto. A B. lo dissi. Dissi mi mancava Marylin. e B. mi disse di non pensarci.
– e come faccio a non pensarci?come si fa a dimenticare le cose successe? – chiesi
– Per esempio devi pensare che ora ti scopi un’altra, che andiamo in una città diversa, fai così fratè, pensa che ora vengono le cose belle, la vita è fatta di cose belle e cose brutte e quindi le cose belle devono succedere tutte adesso…

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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