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[1938-1940] ILIO BARONTINI “vice-imperatore” dell’Abissinia

Cartolina “ricordo” dell’Impero Coloniale

di Orsola Puecher

In questo 25 aprile 2018, che ancora pervicacemente mi sento in dovere di “commemorare” contro il rigurgito di tutti i fascismi e razzismi, manifesti o striscianti che siano, nel raccontare l’avventurosa e straordinaria missione di sostegno alla resistenza etiope compiuta dal 1938 al 1940 da Ilio Barontini [Cecina, 28 settembre 1890 – Scandicci, 22 gennaio 1951] forse sta la sola speranza di rimediare, almeno in minima parte, alla vergogna dell’avventura coloniale in Abissinia del 1935, una delle macchie più infamanti e meno conosciute del regime mussoliniano, fra armi chimiche e stragi di civili degli italiani brava gente. Barontini antifascista della prima ora di matrice anarchica, poi socialista e in seguito comunista, combatté nella Guerra di Spagna, in Etiopia, in Francia e in Italia, con quello spirito internazionalista di aiuto ai popoli oppressi, oggi di difficile comprensione, considerato un po’ romantico e obsoleto, ma che fu una componente decisiva per la sconfitta del nazifascismo in Europa.
Parlare di antifascismo essendo dalla parte giusta, pur scavando in dolorose memorie, in un dolore che si trasmette di generazione in generazione, porta prima o poi sempre a una sorta di pacificazione, a un senso compiuto del sacrificio delle vittime, in cui l’anello si chiude nel giudizio del tempo e della storia. Avere invece nella propria famiglia chi combattè dalla parte sbagliata, trova più difficilmente una cura alla vergogna, alla colpa, spesso al desiderio di nasconderla, di seppellirla. Cosa che successe fino agli ’90 anche alla stessa nazione italiana, quando si scopersero interi dossier taciuti e sepolti nell’archivio del Foreign and Commonwealth Office inglese sulle atrocità commesse in Abissinia e nei Balcani. I criminali di guerra italiani riconosciuti colpevoli, circa 750, dal ⇨ “Registro Centrale per i Criminali di Guerra e i Sospettati per la Sicurezza” dell’ ONU, in Jugoslavia, in Etiopia, non furono mai estradati e processati nei paesi dove li avevano commessi, non furono mai puniti, bensì dimenticati, nascosti sotto il tappeto. Il paese dei misteri non si smentisce mai.
Qualche anno fa nei commenti di un post per il Giorno della Memoria pubblicai il link a un documentario della BBC del 1985, acquistato dalla RAI ma poi mai trasmesso, ⇨ Fascist Legacy, l’eredità del fascismo, che parla di questo crimini e del loro insabbiamento. Mi colpì molto il commento di ⇨ Antonio Sparzani:


sparz il 29 gennaio 2011 alle 12:37
ho guardato con crescente dolore e rabbia i documentari linkati da Orsola, che ancora ringrazio, memore, con crescente raccapriccio, dei racconti gloriosamente guerreschi che mi faceva mio padre, mitragliere reduce appunto dalla guerra di Libia, e in particolare in Cirenaica. Non c’è limite alla vergogna che ogni tanto dovrebbe sommergerci. Lo ripeto con un dolore smisurato.

 
Alla festa di Nazione Indiana dello scorso settembre durante il dibattito ⇨ Scrivere la Storia, ⇨ Anna Tellini ha fatto un intervento su questo tema, che egualmente mi ha molto colpito:

Orecchini “souvenir” coloniale
Sono venuta sfoggiando, si fa per dire, questi orecchini, che vengono dall’Africa, dalle colonie africane, perché mio nonno, mio nonno materno, di indefessa fede sabauda, si era ben turato il naso rispetto a Mussolini e al fascismo e, militare di carriera era andato a fare il governatore nelle colonie africane. Allora il fatto è che io e mia sorella morta non abbiamo mai parlato di questo nonno, a nessuno e non credo che sia un caso. Per noi era una specie di macchia, questo nonno che era andato a governare e chissà cosa aveva fatto e di cosa s’era reso complice, già con la sua stessa formazione militare. Adesso che praticamente sono rimasta solo io della mia famiglia, mi è scattato un qualcosa per cui o mi libero da sola, o non ho più nessuna speranza. Quindi ecco vi dico che questo è un prodotto del colonialismo. E due anni fa ho avuto un raptus incontenibile e ho dovuto fare un viaggio in Etiopia. Dove mio nonno, appunto, faceva… e sono andata quasi quasi all’inizio in Etiopia sperando che qualche etiope di passaggio mi sputasse in un occhio: “Tu sei la nipote di… il mio prozio ha sofferto per…” Invece, forse sono stata molto molto fortunata, ma mi sono imbattuta in persone sorridenti molto pacificate, loro, beate loro rispetto agli italiani, perché io avevo delle remore, una coda di paglia. Non gliene poteva importare di meno e non solo, durante un viaggio scomodissimo, lunghissimo, per strade dissestate a un certo punto abbiamo fatto una sosta nel nulla, perché in quel nulla c’era un piccolo cimitero di soldati italiani, appunto, quindi immaginate di vedere un piccolo cimitero circondato dal nulla per chilometri e chilometri e chilometri, che nessuno aveva mai desiderato devastare, anzi tenuto alla perfezione proprio, come in Italia non potremmo mai vederne. Ed era un cimitero di soldati italiani di quell’epoca e quindi adesso io nell’ingresso di casa mia, ho appeso incorniciati i due diplomi militari di mio nonno, ma questa è un’altra storia… voglio dire che io non credo che potrei mai scrivere, anche se fossi una scrittrice, cosa che non sono, non potrei mai scrivere un romanzo storico, su una storia del colonialismo italiano, avendo avuto questo nonno.
 
Cimitero militare italiano di Adigrat

 
Perché non restino solo un senso di dolore profondo, irrimediabile, un paio di pregevoli orecchini di avorio con due aspidi impressi e un faticoso percorso di pacificazione individuale, bisogna di nuovo interrogare questa storia lontana, quasi dimenticata e i suoi protagonisti.
 
Mezzo milioni di uomini, l’intera flotta aerea, carri armati, artiglieria pesante fino a sguarnire le riserve della madrepatria furono mandate in Etiopia da Mussolini nel ’35 alla conquista dell’Impero Coloniale Italiano. Una via di mezzo fra il voler rinverdire i fasti dell’Impero Romano e una “campagna di civilizzazione” che avrebbe dovuto portare benessere, trasferendo milioni di italiani nei nuovi territori, servì solo a nascondere le difficoltà, la disoccupazione e la pesante situazione economica interna.

   
   

Una campagna che si pensava di risolvere in poche settimane, dovette fare i conti la strenua resistenza etiope, con ingenti perdite di uomini da entrambe le parti, fino ad arrivare, con l’illusione di velocizzare la conquista, all’uso di armi chimiche, fosgene e iprite, vietate dal Protocollo di Ginevra del 1926, che anche l’Italia aveva sottoscritto.
Le usò dapprima il Comandante Supremo Generale Badoglio, poi sostituito, perché non abbastanza efficiente, dal Maresciallo Graziani, che compì l’opera, il tutto con ordini diretti del Duce, come si evidenzia dal fitto scambio di dispacci 1:


 

MINISTERO DELLE COLONIE
TELEGRAMMA IN PARTENZA

 

Roma, li 27 ottobre 1935   

 
Segreto
 
S.E. GRAZIANI
MOGADISCIO
 
12409 – Sta bene per azione giorno 29 stop Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico et in caso di contrattacco.
 
Mussolini

MINISTERO DELLE COLONIE
TELEGRAMMA IN PARTENZA

 

Roma, li 28 dicembre 1935-XIV   

 
Segreto M.P.A.
 
S. E. Maresciallo BADOGLIO
MACALLE’
 
15081 – Dati sistemi nemico di cui a suo dispaccio n. 630 autorizzo V. E. all’impiego anche su vasta scala di qualunque gas et dei lanciafiamme (.)
 
Mussolini

MINISTERO DELLE COLONIE
TELEGRAMMA IN PARTENZA

 

Roma, li 19 gennaio 1936-XIV   

 
M.P.A. su tutte le MM. PP. AA.
 
Maresciallo BADOGLIO
MACALLE’
 
790 – Manovra est ben ideata et riuscirà sicuramente stop Autorizzo V. E. a impiegare tutti i mezzi di guerra – dico tutti – sia dall’alto come da terra stop. Massima decisione (.)
 
Mussolini

MINISTERO DELLE COLONIE
TELEGRAMMA IN PARTENZA

 

Roma, li 29 marzo 1936-XIV   

 
Segreto
 
M.P.A. su tutte le MM. PP. AA.
 
S. E. BADOGLIO
MACALLE’
 
3652 Segreto. Dati metodi guerra nemico le rinnovo autorizzazione impiego gas qualunque specie et su qualunque scala.
 
Mussolini

L’iprite contenuta in bombe C.500T, che esplodevano ad un’altezza di 250 metri, si spargeva in minute goccioline in un’ellisse di 500 metri per 100, depositandosi sulla pelle di uomini e animali, provocando profonde ed estese ustioni, che gli Etiopi, non sapendo bene da cosa fossero provocate, non capivano nemmeno come poter curare adeguatamente.

   
   

Ignobilmente anche gli ospedali da campo della Croce Rossa internazionale venivano attaccati e bombardati, per tema che fossero covi di spie inglesi.

   

La campagna di propaganda raggiunge vertici inauditi di sessismo, con la malsana idea di una donna indigena faccetta nera disponibile a qualsiasi sopruso. Viene attuata una capillare distribuzione di confezioni di preservativi alle truppe, vietati e riprovati in patria per altro, perché potessero fare tranquillamente i loro comodi di virili conquistatori.
 
Colonialismo razzista e sessista

 
Con il radicarsi di un razzismo profondo, di cui ancora patiamo le conseguenze, ma allegro e condito da canzoncine goliardiche, tali da far passare la missione per una divertente scampagnata erotico/esotica, una fra le campagne coloniali più feroci della storia procedette nell’entusiasmo generale.
Persino Topolino di Walt Disney viene arruolato in Topolino va in Abissinia [1935], che diventa uno dei maggiori successi del momento, atroce scenetta musicale comica di tal Fernando Crivelli, in arte Crivel, cantante e autore di hit molto in voga come Maramao perché sei morto.

Tra le tante nefandezze del testo, con la sua tipica vocetta stridula da cartoon, fra le oscene risate dei commilitoni Topolino, valente soldato volontario coloniale, impaziente di combattere, sciorina il vero spirito della missione:
 

Mi sono armato da solo. Ho la spada, il fucile, una mitragliatrice sulle spalle e mezzo litro di gas asfissiante nella borraccia.
Appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento.
Ho molto premura. Ho promesso alla mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe.
A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della sua Balilla.
A mio zio un vagone di pelli, perché fa il guantaio.

 
Ilio Barontini in esilio in Francia dal ’31, per sfuggire alla polizia fascista, dopo aver valorosamente combattuto nella Guerra di Spagna, assumendo il comando delle brigate internazionali durante la vittoriosa battaglia di Guadalajara, è tornato in Francia dal 21 giugno del ’37.
 

Ilio Barontini, foto segnaletica del Casellario Politico Fascista

 
Nel libro di memorie Dario Ilio Barontini scritto insieme a Vittorio Marchi [Editrice Nuova Fortezza Livorno, 1988], la figlia Era delinea la complessa figura di un uomo contemporaneamente portato verso ogni esperienza di resistenza, di lotta politica e partigiana, ma anche modesto, schivo e obbediente alle direttive del Partito. Un piccolo imprenditore borghese che avrebbe potuto starsene tranquillo a Livorno a occuparsi della fabbrica di pipe di radica di famiglia, ma che invece per 16 anni della sua vita abbandona affetti e famiglia per la causa:
 

Anche in Africa Barontini va perché ce lo comandano, quindi niente arditismo o avventurismo. [Pag, 197]

 
Con la valutazione che una sconfitta di Mussolini in Etiopia avrebbe potuto essere l’inizio della fine della dittatura, dopo l’iniziale intenzione di aprire un nuovo fronte con l’invio di brigate internazionali come in Spagna, si decise invece di aiutare la resistenza etiope insieme a inglesi e francesi.
Barontini è tornato a Parigi dove organizza i volontari spagnoli, quando gli viene affidato il compito di occuparsi della missione in Abissinia. Francia e Inghilterra decidono di aiutare i patrioti etiopi. Armi e aiuti passano attraverso il Sudan sotto controllo britannico.
 

 
Ilio Barontini parte per l’Africa Orientale nel dicembre del ’38. La missione era stata preceduta da contatti con Di Vittorio, Grieco, Berti, la segreteria del Negus e le autorità francesi. Ha il compito di organizzare la guerriglia contro gli invasori e la propaganda antifascista fra militari e coloni italiani.
Mussolini ha conquistato tutti i villaggi e le città più importanti, la ferrovia Addis Abeba-Gibuti e controlla le principali vie di comunicazione, ma i ¾ del territorio etiope sono ancora governati dagli indigeni in nome di Hailé Selassié. In molti fortini italiani i rifornimenti devono essere paracadutai, perché certe zone non possono essere attraversate.
 

Gli Arbegnuoc, patrioti etiopi

 
La rivolta non è localizzata in un punto, ma su tutto il territorio. Gli Arbegnuoc, i patrioti etiopi, si procurano armi togliendole agli italiani, spesso arrivano fino alle porte della capitale e alle loro azioni corrispondono ritorsioni e rappresaglie violentissime da parte di militari e polizia fascista.
La missione di Barontini è molto difficile,
 

… per decisione del nostro partito, in accordo con il governo repubblicano spagnolo, mi fu proposto di recarmi in Abissinia per condurvi e meglio organizzare il movimento partigiano, ciò come diversivo militare contro il fascismo e come politica nazionale rispetto ai popoli coloniali.
Accettai e partii alla fine del 38; organizzai in Abissinia un vasto movimento partigiano, organizzai un governo provvisorio di patrioti, diffusi in due lingue un giornale ebdomadario – La voce degli Abissini- Feci ritorno dall’Abissinia ai primi del 1940…
2

 
Nell’estate del ’39 viene raggiunto da Anton Ukmar ex ferroviere sloveno di Gorizia conosciuto in Spagna, da Bruno Rolla, comunista di La Spezia, dal colonnello francese Paul Rober Mounier e dal segretario del Negus Lorenzo Talzar.
Barontini arriva attraverso Egitto e Sudan con le credenziali di Hailé Selassié trascritte su fazzoletti di seta per sfuggire al controllo nemico.
La prima tappa della missione è Kartum in Sudan, dove contatta le autorità abissine in esilio. La seconda tappa Gadareff, città distante dal confine etiope 80 chilometri. Da lì a piedi entra in territorio etiope.
Barontini si fa chiamare Paolus, Ukmar è Iohannes, Rolla è Petrus, nomi presi dagli apostoli per avvicinarsi meglio al religiosissimo popolo etiope, sul quale i preti copti avevano un ascendente fortissimo.
Barontini addestra e organizza battaglioni e formazioni mobili di oltre mille uomini. Fa propaganda fra la popolazione e mobilita in poco tempo un esercito di 250.000 combattenti e un governo provvisorio di 9 ministri.
Esercito, polizia e bande fasciste gli danno la caccia, hanno messo una taglia sulla sua testa, ormai la sua fama si è sparsa ovunque, abituato alla lotta clandestina non si ferma mai nello stesso posto e fa continue riunioni con i capi della guerriglia.
 


Hailè Selassiè nel 1941 con il capo della chiesa copta Gabre Guirguis

 
I Ras delle varie tribù sono in lotta per la successione al trono del Negus e dicono che l’imperatore, che è Londra in esilio, mentre loro rischiano la vita ogni giorno e il popolo muore di fame, ha rubato le riserve auree del paese.
Barontini intuisce che deve informare il Negus e così Hailé Selassié lo nomina vice-imperatore di Abissinia e gli affida il compito di dirimere le lotte interne alla resistenza. Quando si diffonde la notizia, la gioia è generale, il prestigio che Barontini si era conquistato sul campo era enorme, quasi mitico, i Ras cessano le lotte interne. Barontini riesce perfino a pubblicare un giornale in due lingue “La voce degli Abissini” che gli etiopi spargono clandestinamente ovunque si trovino gli italiani, in accampamenti e caserme, fra i coloni, e fra la popolazione.
Il ricordo di Paulus, della sua capacità organizzativa miltare e politica, ma anche della sua ironia e sagacia toscana, è ancora oggi molto vivo fra i veterani etiopi:
 

ADDIS ABEBA – «Sì… c’era un italiano che ci insegnava a sfottere i fascisti… in italiano». A riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki. «Lui stava col nostro esercito, Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c’era la taglia col suo nome». Che faceva? «Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini, a gridare a squarciagola». Cosa urlavate? «Le vostre mogli se la spassano con i gerarchiiii!». E poi? «Gridavamo in eritreo, agli ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!». Abboccavano? «In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come lepri in una gola tra i monti. E lì c’ era l’ imboscata».
da ⇨ La Repubblica, Paolo Rumiz “I guerrieri rasta e l’impero di latta” 4/30/2006

 
La missione dura fino al giugno 1940 nel Gondar e nel Goggian, dove Barontini ha costituito il nucleo principale dell’esercito di liberazione, riuscendo pienamente nell’intento di mantenere un altro fronte aperto, che impegnasse e sfiancasse truppe e milizie fasciste. Termina poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Aiutati dagli inglesi gli etiopi riprenderanno tutto il loro territorio. Gli italiani saranno costretti a ritirarsi e a rimpatriare. Nel ’41 il Negus ritorna in patria.
 


 
Il ritorno di Barontini e dei compagni è drammatico, gli altri due sono gravemente malati. Raggiungono il Sudan fra mille difficoltà, si perdono per 10 giorni nella giungla senza viveri, sono attaccati da bande che ritengono trasporti un tesoro. Raggiungono il confine dove a riceverli c’è il comandante Alexander. Dal Cairo, si imbarcano su di una nave della Croce Rossa per Marsiglia. Barontini torna in contatto con il partito, gli altri invece vengono arrestati e internati nel campo di Vernet, dove si confondono con gli altri fuoriusciti italiani. Solo pochi giorni dopo Parigi sarà in mano ai tedeschi.
 
Barontini con Walter Audisio

 
Dalla Francia Barontini riuscirà a tornare in Italia clandestinamente dopo l’8 settembre, dove, assumendo il nome di battaglia di Dario, organizzerà e dirigerà la resistenza in Emilia Romagna fino alla Liberazione, portando avanti l’intuizione che la lotta partigiana dovesse diventare una lotta di popolo, dalle isolate azioni gappiste nelle città, alla guerriglia in montagna, unendo soldati sbandati, reduci dalla Spagna in una larga compagine ideologica.
Insegna a gappisti e sappisti le tecniche militari perfezionate sui numerosi fronti di guerra, dalla costruzione di bombe a mano, bombe a scoppio ritardato, a come far deragliare un treno. Con il lungo impermebile sgualcito porta sempre con sé una vecchia borsa, dove fra i pochi oggetti personali della sua vita vagabonda non mancano dei candelotti di dinamite. Decorato con la Bronze Star dal generale Alexander, gli fu conferita la cittadinaza onoraria della città di Bologna. L’Unione Sovietica gli attribuisce il prestigioso Ordine della Stella Rossa. Nel dopo guerra continuerà la sua carriera politica nel Partito Comunista, con modestia e dedizione. Non ebbe e non cercò troppi riconoscimenti alle sue straordinarie imprese. Ma è motivo d’orgoglio e di consolazione sapere dell’esistenza di uomini come lui, che si contrapposero alla vergogna estrema del fascismo italiano in ogni luogo e con ogni mezzo. Nel ’51, quando è senatore, Barontini disgraziatamente muore a soli 61 anni in un incidente stradale causato dalla nebbia con altri due compagni di partito. Il suo funerale sarà seguito da una folla enorme.
 


 
 

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NOTE
  1. A.Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 2007, pp. 38-42
  2. Era Barontini, Vittorio Marchi Dario Ilio Barontini [Editrice Nuova Fortezza Livorno, 1988] pag. 193

12 Commenti

  1. straordinario racconto cui poco c’è da aggiungere; come tutti i 25 aprile degli ultimi anni un grazie infinito a Orsola che, al contrario di me, ha invece avuto in famiglia persone che combatterono dalla parte giusta.

  2. Grazie per tenere vivo il racconto di quella parte di storia che non viene raccontata, anzi celata. Solo con un analisi veritiera e obbiettiva della sua storia, un popolo può guardare al proprio futuro ed ambire alla giustizia.

  3. Grazie Orsola, molto istruttivo; documenti e immagini di straordinario interesse, grazie davvero

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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