Fuori dal raccordo c’è l’Italia

di Gianni Biondillo

E così, anche in questo nuovo romanzo, non ho parlato del Duomo. Sono anni che scrivo di Milano, la studio, la racconto, e mai una pagina, mai una riga dedicata alla cattedrale. È l’unico imperativo che mi sono posto: supera il luogo comune, Milano è molto di più. Questa posizione radicale, ideologica, è la reazione a un modo di rappresentare la mia città nella fiction nazionale. Quando viene rappresentata, ben inteso. Il cinema, si sa, in Italia è appannaggio di Roma. Già fuori dal raccordo sembra ci sia il deserto. Una Roma, per inciso, borghese, tutta Prati-Parioli, con puntate a San Lorenzo o Pigneto se si vuol fare gli alternativi o i popolari. Napoli, l’altra grande metropoli raccontata da Cinecittà (per pura vicinanza geografica, per ragioni logistiche più che artistiche) è sempre stracciona, plebea, violenta ma, non ostate tutto, “piena di umanità”. Mancano solo corni, pizza e mandolino. La cosiddetta “napoletanità” è una maledizione: sembra che un biochimico o un astrofisico non possano nascerci. Solo cantanti, camorristi, nobili e filosofi.

Il resto dell’Italia è ancora più banale: la Puglia è sempre agreste, disseminata di campi di grano e ulivi, masserie candide e mare luccicante. La Calabria è abitata da istinti atavici, preculturali, barbarici, la Sicilia ondeggia fra l’alterigia omertosa e il barocco lussurioso, la Sardegna è etnica ed esotica. Roba da mal di testa. Risalendo lo Stivale non cambia di molto. C’è un generico centro Italia fatto di artigiani e borghi medievali (mai un capannone, mai un’autostrada) con morti che non sanguinano e preti o carabinieri bonari che indagano. Milano poi semplicemente non esiste. L’unica fiction che ho visto ambientata a Milano ha gli esterni girati in Bulgaria. È bastato aggiungere in montaggio qualche ripresa dall’alto del Duomo e il gioco era fatto.

Tutto ciò perché la televisione pubblica è talmente ossessionata dalla politica del palazzo, è talmente ombelicale, che trova naturale intitolare un programma d’approfondimento giornalistico “Fuori Roma”. Come se Bologna, Trieste o Palermo fossero irrilevanti borghi fuori porta, buoni per una scampagnata e qualche appunto sul taccuino, non realtà culturali millenarie. D’altronde ho visto fiction dove abitanti di San Salvario a Torino o iconici cantautori genovesi parlavano con cadenza romanesca senza che nessun produttore si rendesse conto dell’assurdità.

Ma se non ha la fiction, Milano ha la pubblicità. Peggio ancora. A guardare gli spot in tv sembra sia una città abitata solo da bambini biondi dalle vocali spalancate che mangiano snack e attraversano in skateboard attici luminosi, mamme toniche che fanno jogging ai piedi di boschi verticali prima di mettere la lavatrice in funzione e padri incravattati sempre di fretta su macchine che non trovano mai traffico. C’è il Duomo e tutto attorno una selva di grattacieli futuristici. Nessuna periferia, nessun panettiere, neppure una discarica. Se c’è un veneto sembra sempre ubriaco, un romagnolo sempre godereccio, un abruzzese sempliciotto e rurale. Un incubo.

L’Italia è un’altra cosa. Per un po’ avevo sperato ci pensasse la letteratura a raccontarla per quello che era veramente, ma la potenza dell’immaginario televisivo ha fatto danni irreparabili anche nelle patrie lettere. Romanzi consolatori dove Venezia resta inevitabilmente romantica e decadente (che ne sappiamo della vitalità di Mestre? Degli abitanti di Marghera?), Firenze inchiodata senza scampo al suo ingombrante Rinascimento, Milano immersa nelle nostalgie della nebbia, dei navigli, delle case di ringhiera. Che ne è delle imprese tecnologiche all’avanguardia delle Marche o del turismo innovativo della Basilicata? Chi ci racconta lo spopolamento degli Appennini, il dinamismo della piccola impresa cinese, gli investimenti della finanza mediorientale, le frizioni etniche fra vecchi e nuove immigrazioni?

C’è chi lo fa, ovviamente. E molto bene. Autori capaci di toglierci gli occhiali rassicuranti degli stereotipi mostrandoci cosa siamo diventati, cosa diventeremo. Vorrei solo avessero più spazio, più visibilità. Io, per ora, continuo a scrivere di ciò che conosco, Milano, come metafora di un’intera nazione. E poi, chissà, prima o poi entrerò per davvero nella cattedrale della mia città. Per raccontarne l’innegabile meraviglia.

(precedentemente pubblicato su “7” del Corriere della Sera, l’8 novembre 2018)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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