Articolo precedente
Articolo successivo

I poeti appartati: Nadia Campana

Nota

di

Alida Airaghi

Di Nadia Campana (Cesena,1954-Milano,1985) l’editore riminese Raffaelli ha pubblicato nel 2014 due volumi: Visione postuma e Verso la mente.

Il primo (curato da Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci) raccoglie testi critici rimasti a lungo inediti, talvolta incompleti o allo stato di abbozzo: registrando gli interessi letterari della poetessa romagnola, essi rivelano la sua ricettiva empatia soprattutto nei riguardi della scrittura femminile. Infatti, se le brevi recensioni finali sono dedicate ad alcune letture, spettacoli teatrali ed esperienze didattiche compiute negli anni ’80, è in particolare nei saggi iniziali che si esprime la sua straordinaria competenza critica nei riguardi della parola poetica delle donne.

Se per poesia si deve intendere (come afferma nel testo che dà il titolo al libro, Visione postuma) il discrimine “tra mondo interpretato e assenza del mondo”, comprensione del caos da trattenere in “una misura stretta”, conoscenza che aumenta “il dolore come esercizio” con “furibondi attacchi di malinconia”, e infine “sfracellamento contro gli scogli del quotidiano”, è specificamente nella scrittura femminile che Nadia avverte la possibilità originaria di un’autoesclusione, non solo dalla vita concreta, ma addirittura dal proprio corpo, per una sorta di dissoluzione del desiderio quando questo si scontra con la banalità del reale, e produce stanchezza, “voglia di essere inerti… precoce invecchiamento”.

Nei due testi dedicati a Emily Dickinson, di rara perspicacia interpretativa e introspezione psicologica, si mette in luce essenzialmente la rivoluzione linguistica effettuata dalla poetessa americana, la sua invenzione di un nuovo inglese, di una inedita sintassi espressa nell’utilizzo della concisione, di un ritmo musicale rapido, e di elementi linguistici inediti, che Nadia Campana da esperta traduttrice ben sapeva individuare (predilezione del congiuntivo, arcaismi, tecnicismi, voci dialettali, accelerazioni e pause, soppressione di congiunzioni-pronomi-ausiliari, sostantivazione del verbo, scambio soggetto-oggetto, fusione di metri diversi, sostituzione della punteggiatura con la lineetta…). Una rivoluzione linguistica pagata dalla Dickinson con la sua eccentricità rispetto al mondo, con la devianza dai valori comunemente accettati nel puritanesimo ottocentesco del New England. “La sua goffaggine svela l’estraneità al commercio mondano e una sordità a ogni luogo comune. Ella rifiuta di sostenere la funzione di civiltà che alle donne è sempre stata affidata: quella di seguire le inclinazioni emotive, le regole amorose e cosiddette naturali… sceglie di essere un’asceta”. Orgogliosa della propria “posizione di monade, l’unica cosa che la salda alla storia è la parola”, intuita come luogo di indipendenza e di pace, di autonomia differenziante, di consapevole ribellione alla vacuità della chiacchiera invadente.

Una poesia, quella dickinsoniana, lontana dalla fisicità dei fatti, dalla fenomenicità, dal fascino dell’incontro partecipato con gli altri, e invece tutta protesa verso la vertigine della riflessione, dell’intelligenza delle cose, nella conquista di significati cruciali capaci di oltrepassare psicologia e morale: “La scrittura al posto del corpo, un pezzo di carta al posto di un’emozione toccabile, mostrata”.

Nadia Campana polemizza violentemente contro una critica votata al pettegolezzo, tendente a ridurre Emily Dickinson alla sua biografia, e a descriverla come “una figuretta inerme, schiacciata sotto il peso di una vita vuota, di una nevrosi che la costringeva nella sua cameretta a rimuginare e a rifiutare in contatto col mondo se non attraverso bigliettini fatti passare sotto la porta”. Tale meschinità da rotocalco si intromette nelle vite private in modo ammiccante e indiscreto, insinuando che la verità di un poeta vada cercata al di fuori della sua poesia. “Il mito di un poeta-donna spesso finisce col far passare in secondo piano i valori letterari e l’indagine critica si risolve in una ricerca di disastri emotivi di cui la poesia non sarebbe che una citazione”.

Quale disastro emotivo avrebbe allora portato un’altra grande artista, Marina Cvetaeva, al suicidio? In due saggi Nadia esplora ‒ con un’immedesimazione quasi presaga della propria drammatica scelta finale ‒ il dolore e l’amore che hanno animato e reso eterni i versi della poetessa russa, nella cui morte volontaria sembra iscritto il destino ineluttabile di chi si getta “contro le cose, fuori dall’adeguamento e dalla registrazione, per toccarle con l’incandescenza”.

La dedizione generosa e appassionata con cui Marina Cvetaeva interiorizzava ogni altro da sé aveva qualcosa della sacralità del sacrificio, dell’abnegazione di un’offerta che sa annullarsi, non essendo più desiderio o possesso, ma tenerezza, affetto, fratellanza, sym-patheia priva di qualsiasi opacità.

“La sua scrittura, come la figura tragica del saltimbanco di Zarathustra, compie un ultimo volteggio nel vuoto, come un ultimo dono, senza richiesta di contraccambio né tantomeno di ammirazione o pietà. È già oltre, nel territorio puro dell’aria che le darà nuovamente la forza di uscire dalla deriva del mondo privato e di abbandonarsi a una forza sorgiva”. Forse non è improprio ricordare che Nadia Campana scelse anche lei, il 6 giugno del 1985, un salto nel vuoto, cercando l’infinito.

E sul tema del suicidio, proprio in questi due testi si sofferma con parole che hanno la durezza e la trasparenza del quarzo: “Il suicidio è l’atto di cancellazione del passato, quando il ricordo non si dà se non sotto le forme del fallimento e della stanchezza. C’è una stanchezza anche dell’essere tristi: allora il racconto della sofferenza non trova più dichiarazioni d’amore, fiabe, immagini, se non quella della migrazione nel più puro territorio dell’anima. L’itinerario della mente alla perfezione si svolge ora nella fuga verso la dimora di ciò che non ha forma, di ciò che è semplicemente schiarito e che non deve più misurare il peso dell’avvilimento. Là tutto può essere perfetto, bello, elevato. L’immaginazione non incontrerà alcun ostacolo e il sogno sarà onnipotente e senza difetto”.

Nostalgia di un passato irrecuperabile, malinconia per un futuro che si teme, logoramento del presente, estraneità alla “mascherata” del mondo. Cvetaeva nel suo biglietto di addio scrisse: “Come si dice, / l’incidente è chiuso. //… Con la vita ora sono pari”.

Nadia Campana in una poesia sembra farle eco: “Avendo già avuto a che fare / con la resa, scelgo / le processioni del riposo”.

La sua produzione poetica, quantitativamente esigua, è stata raccolta, con un’interessante introduzione di Milo De Angelis, in Verso la mente; qui si ribadiscono sia l’esigenza di un lavoro assiduo di rinnovamento del linguaggio, sia il continuo richiamo alla morte, temi presenti anche nei saggi critici che abbiamo esaminato (“già veduto già rotolato / già rimandato il corpo sospeso / tra le rocce lacerato”, “è il tempo di arrendersi al contagio / covato dalle solitudini / disarmarsi per le ferite”).

Stilisticamente, questi versi franti e fortemente caratterizzati da simbologie, possono ricordare lo sperimentalismo di Amelia Rosselli, le invenzioni lessicali di Antonio Porta, l’autobiografismo scomposto di Sylvia Plath o di Anne Sexton: “poesia del contrasto”, la definisce De Angelis, perché nei temi si alternano caldo e freddo, nero e bianco, esuberanza e tristezza, sogno e verità, mito e cronaca familiare. Affiorano qua e là colori vivaci, campi assolati, acque di torrenti e mari, uccelli e altri animali, presenze giovani e vocianti; eppure ogni immagine ritorna quasi strozzata da un’invincibile angoscia, un’implacabile e minacciosa inquietudine.

Sempre ricompare quindi l’aspirazione al tiepido riparo di un approdo, all’affettuosità di un abbraccio protettivo: forse quello del padre, perduto nell’adolescenza per un incidente sul lavoro, o quello di un “eroe mattutino e chiaro”: “Per te, io ti, io te sono / che mi contiene nel tremante ricorso / del tuo silenzio vienimi incontro / orizzonte e allarga esso”, “l’estate occupa tutto lo spazio / come te / e lì io ti chiuderò”, “io vengo a farmi in te / vuoto fedele”, “pregavi le cose che davo / se volevo bere / le gobbe dell’oceano / si rifugiavano sotto le tue braccia / quando il sole se ne andò mi nascondesti”.

In una delle ultime composizioni antologizzate, la previsione luttuosa si fa infine scongiuro e preghiera: “il più lento morire dei pulviscoli / capogiro / che occupa molto / mi sento sparire continua / i fianchi trionfano in gara / balzano contro i fondi inermi / nella fretta / neve giovane e sonno resta / dicono scendi mitezza / venissi a temperare la sete”.

I due ritratti fotografici nelle quarte di copertina (entrambi di Giovanni Turci, curatore dei volumi) ci mostrano una Nadia bella e dolce, con i capelli scuri a caschetto e la frangia che le copre la fronte, un pullover a collo alto e una lunga collana bianca. Nella foto più intensa, la giovane donna guarda l’obiettivo con un sorriso sospeso tra timidezza e ironia, quasi rivolgendosi a noi lettori per chiederci: “Avete capito qualcosa del mistero della poesia e della vita? E di me, avete capito qualcosa?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Print Friendly, PDF & Email

2 Commenti

  1. Meraviglioso “ritratto” di una Grande Persona della poesia, che sinora non conoscevo.
    Grazie, cara Alida, di questa straordinaria “recensione”, che davvero ci avvicina – sia pure molto dolorosamente – a Nadia Campana e alla sua Poesia.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Deus ex Makina: Maniak

di Francesco Forlani
Da un po'sto collaborando con Limina Rivista, con delle autotraduzioni dal francese di piccoli assaggi ( essais) letterari pubblicati in oltre vent’anni sulla rivista parigina l’Atelier du Roman diretta da Lakis Proguidis. Dopo Philip K Dick, Franz Kafka, Anna Maria Ortese, Charles Dickens è stata la volta di Boris Vian. Qui una nota a un libro indispensabile.

Overbooking: Eugenio Manzato

Alberto Pavan
Il romanzo narra la vita di Antonio Romani, vissuto tra la campagna trevigiana, Padova e Venezia, tra il 1757 e il 1797, l’anno in cui nella notte del 12 maggio, con Bonaparte alle porte, la narrazione si interrompe con un finale aperto che alimenta nel lettore il desiderio di un sequel.

Les nouveaux réalistes: Pierangelo Consoli

di Pierangelo Consoli
Per questo, quando mia madre divenne Alberta, tramutandosi in qualcosa di più collettivo, io non soffrii tanti cambiamenti, almeno per quello che riguardava la gestione delle faccende, perché erano già molti anni che me ne occupavo. Usciva pochissimo, come ho detto, eppure il giorno dei morti restava, nel suo calendario, un rito al quale non poteva rinunciare.

Colonna (sonora) 2024

di Claudio Loi
15 album in rigoroso ordine alfabetico per ricordare il 2023 e affrontare le insidie del quotidiano con il piglio giusto. Perché la musica, quella giusta, è la migliore medicina che si possa trovare sul mercato. Buon ascolto!

Les nouveaux réalistes: Annalisa Lombardi

di Annalisa Lombardi
Per questa nuova puntata dei nouveaux réalistes, un polittico di esistenze minime perdute tra i massimi sistemi della vita e della storia. Come nei Racconti con colonna sonora di Sergio Atzeni, la voce dei personaggi è incisa sulla musica di fondo delle cose. (effeffe)

Cose da Paz

di Massimo Rizzante
Partiamo da qui: la poesia, l’arte in genere, non ama ripetersi. Ciò non significa che non possa ripetersi. Ecco la mia teoria: quando la poesia non si accorge che si sta ripetendo, la Storia inevitabilmente si ripete. Ciò se si crede, come io mi ostino a credere che, a differenza della poesia di Omero, nessuno studio storico potrà mai dirci qualcosa di essenziale su chi sono stati gli antichi Greci.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: