La mia segregazione (nuovi autismi # 33)

di Giacomo Sartori

Devo confessare che adesso che sta per finire questa segregazione forzata non mi dispiace, ho quasi timore che finisca. Un po’ perché la mia vita ordinaria non è poi troppo differente, e quindi tutto questo mi è intrinsecamente familiare. Non sono un monaco di clausura, ma nella mia esistenza mi sono ritrovato a essere isolato, ne ho sofferto ma ci ho fatto anche il callo. Mi calmano le lunghe giornate di solitudine, nella concentrazione della scrittura e del lavoro scientifico, seduto al mio sbilenco tavolo adibito a scrivania. Mi appagano le azioni del vivere, la loro ripetizione fatta di minime ma vivide variazioni: prepararmi da mangiare, pulire, fare una lavatrice.
Ho un rapporto di timida e tormentata frustrazione con gli sfrontati piaceri che la metropoli in cui vivo è così brava a sbandierare. Mi inebria passare davanti ai caffè e alle brasserie con i tavolini all’aperto dove gli avventori bevono in compagnia e si divertono ostentatamente, e magari c’è anche il banchetto delle ostriche (adoro la semplicità selvaggia delle ostriche, nonostante i freni etici), e mi rapisce spiare dentro le vetrine dei ristoranti, pensando che mi piacerebbe così tanto entrarci e approfittare di quelle soddisfazioni così invitanti. Mi eccita provare desiderio, e nutrirlo con promesse a me stesso che non manterrò. Nella realtà dei fatti sono sempre stato deluso, le rare volte in cui sono passato all’atto, diciamo così: ho trovato tutto molto caro, non poi così buono, e rovinato da questo o quell’altro elemento triviale, dalla noiosità delle persone. E insomma non ho più avuto voglia di tornarci, in quel locale che mi aveva tanto attirato.
Sono quindi infinitamente più tranquillo ora che tutte quelle micidiali trappole di desiderio sono chiuse. Passeggio – ci vuole una autocertificazione valida un’ora, ma io da bravo italiano un po’ baro – e osservo le serrande abbassate, che mi danno un senso di ordine e di pace. Dentro di me so però che è qualcosa di davvero eccezionale: nemmeno durante la fantomatica Rivoluzione, nemmeno durante l’eroica Comune, e non parliamo dell’occupazione nazista, quando i locali giravano anzi al massimo regime, è successo.
Sono sparite dalla circolazione anche le magnifiche longilinee ragazze e le belle donne, della quale la città è sempre stata molto generosa, anche questo mi da molta pace. Sono probabilmente sfollate nelle loro seconde case, o trasferite in un paradiso disegnato da Botticelli, o semplicemente chiuse nei loro appartamenti, non saprei dire, ma insomma per la strada non si vedono più. Nemmeno una. Le poche persone in giro non sono belle, sono come me (oltre al fatto che mi passano lontano, cambiano marciapiede quando mi vedono, per paura del contagio). A guardarle bene, e questo era vero soprattutto le prime settimane, sono davvero vestite male, fanno pensare alla trasandatezza ginnica dei carcerati. E insomma mi pacifica non essere turbato da nessuna magnifica reginetta, che trasporta magari una ciondolante borsina con il gomito a angolo retto (alla maniera che io dentro di me chiamo “alla parigina”), guardando in avanti come fanno le sfingi, fingendo di non essere cosciente del suo letale fascino. Con l’età mi sono molto calmato, ma questa improvvisa estinzione aiuta le mie inclinazioni più spirituali.
Passeggio più tranquillo, molto contento anche che le automobili siano davvero pochissime, e l’aria sia buona. Cammino tra le case e fantastico di altre realtà e altre vite, che è quello che ho sempre più amato. Dovrei limitarmi al raggio di un chilometro da casa mia, ma pure in questo faccio l’italiano: pur restando nella parte povera della città, spazio molto di più. Quando mi salta il ticchio scatto qualche fotografia con il telefono. Relitti umani sdraiati per terra nella loro sporcizia, fragili fattorini di merci e cibi acquistati sulla rete, o precarie scritte sui muri, inebetite persone sole sedute su una panchina, piccoli ingressi di lerci albergacci, che a differenza di quelli di lusso hanno continuato la loro attività. A volte ne pubblico poi una su un social del quale faccio parte, ricevendo qualche sparuto like. Mai come in questo momento ho avuto la percezione del tirannico conformismo all’acqua di rose che domina su quel social di immagini, mai come ora l’ho percepito come la bacheca di uno sgualdrappato occidente alla deriva, con i suoi gatti e cani, foto di fiori e lussureggiamenti vegetali (siamo pur sempre in primavera), selfie, copertine di libri, immagini di vacanze precedenti al virus.
Non ci sono belle ragazze, ma in compenso ci sono tantissimi animali, e io ho un legame istintivo con le bestie. Loro non mi turbano, mi stupiscono e mi allargano il cuore. Fuori dalla finestra del mio studiolo sembra una voliera, non si è mai visto un tale via via di uccelli. Per le strade sono spuntati molti gatti, i ratti ti guizzano adesso tra le gambe, e lungo il canale non lontano da casa una coppia di cigni ha fatto il suo enorme nido proprio a lato della strada, e si danno il cambio per covare. Nel canale stesso i pesci saltano nell’aria come delfini, tutti contenti che nessuno gli rompa le scatole.
Ma intendiamo, a parte un’uscita giornaliera sto ligiamente confinato nel mio appartamento molto piccolo, dove certo molti altri soffrirebbero. Io però sono figlio di un alpinista, e da ragazzino adoravo i libri di montagna che leggeva mio padre, nei quali si trattava di resistere in condizioni estreme e tendine minuscole, e anzi questo era un modo per confrontarsi con i propri limiti e per migliorare se stessi. Adoravo anche i resoconti che leggeva mia madre delle solitarie traversate oceaniche di Sir Chichester, e anche lì c’erano spazi angusti e aperture metafisiche. Paradossalmente pure nei libri di guerra, da bravo ex-fascista mio padre ne aveva tantissimi, trovavo quella stessa tensione tra sofferenza e appagamento.
Se fosse un veliero il mio appartamento sarebbe un nove metri. E’ piccolo, ma c’è tutto quello di cui ho bisogno, e credo che in uno spazio più grande starei peggio. Nella minuscola cucina la credenza è in un cassone sospeso nel vuoto che sporge dalla finestra: bisogna aprire le ante per accederci. Mi piace fare il cambusiere di me stesso, mi diverte calcolare per quanto tempo posso resistere. Anche se in realtà mangio per lo più riso e lenticchie, quindi con qualche chilo di riserve posso andare avanti a lungo. Vado raramente al supermercato, come approderei a un porto per imbarcare acqua e farina, e poi tiro avanti per settimane. Non devo attraversare l’oceano, devo traversare questo periodo nel quale diverse persone sono all’ospedale e muoiono.
E poi non esageriamo, la solitudine di questi giorni è molto relativa, sono pur sempre accompagnato dalla cacofonia dei social, sovraffollati dalle immagini e dalle parole di tutte le altre solitudini, dalla fitta pioggia di informazioni, dalle interpretazioni che parlano e straparlano del presente, dai grafici e dalle cifre, senza parlare delle centinaia di eventi di rimpiazzo da vedere on-line, dai volonterosi surrogati di realtà sociale, le presentazioni di libri a distanza, le migliaia di filmati e concerti da gustarsi, l’immensità della rete. E ci sono soprattutto le videochiamate, che mi tolgono il disagio del telefono, mostrandomi gli occhi, e le parole dei corpi (i corpi non smettono di parlare) a cui voglio bene.
La vera solitudine l’ho sperimentata, è ben altra cosa. Molti anni fa mi sono ritrovato a vivere in una città africana che era sede della legione straniera e di altri eserciti, e che era in realtà un immenso postribolo. Le strade erano postriboli, i caffè erano sordidi postriboli, e peggio che peggio i ristoranti e il porto: non avevo dove andare. Era troppo caldo per passeggiare, ammesso che si potesse passeggiare: non c’erano vie con marciapiedi, non c’erano giardini, fuori dalle baraccopoli che delimitava quella Gomorra non c’erano coltivazioni (anche se teoricamente ero lì per quello), non c’era natura, solo un infuocato paesaggio roccioso. Avevo uno stipendio, ero lì per guadagnare, ma non avevo lavoro. Il lavoro doveva sempre cominciare, e non cominciava mai.
Avevo una villetta tutta per me, e perfino un grande fuoristrada con il quale avrei potuto andare dove mi pareva, se ci fosse stato qualche posto dove andare. Non potevo telefonare se non qualche minuto ogni tanto, perché i prezzi erano proibitivi. Internet non esisteva, e non avevo televisione. Avevo una piccola radio, che però non sono mai riuscito a funzionare. Passavano le settimane e i mesi, e c’era solo quel vuoto che mi distruggeva, quel sopravvivere senza fini e senza senso, senza contatti con altre persone. Quella di adesso non ha niente a che fare con quell’angoscia che mi stringeva la gola, è la condizione di una persona che ha bisogno di isolarsi per scrivere dei libri, che ha scelto di fare quello nella vita.
Ma certo in parte la prendo così anche perché per me è tutto sommato un buon periodo. Ho risolto dei nodi che mi hanno fatto soffrire per tantissimo tempo, ho incontrato una persona che considero un dono che mi ha elargito qualche divinità: ci parliamo ogni giorno, so che la ritroverò quando ci lasceranno viaggiare. Il mio ultimo romanzo è uscito in autunno, non è stato travolto di petto come è successo a tanti altri libri. E perfino sul piano economico non sono messo malissimo, ho qualche mese di autonomia, un contratto già firmato per un nuovo lavoro scientifico di qualche altro mese. So benissimo che per molte persone ci sono ansie economiche, anche drammatiche, e relazionali, e io stesso, in altri periodi meno fasti, penerei molto di più.
Del resto pure io per qualche settimana sono stato, all’inizio, molto turbato. Provavo una grande rabbia. E anche angoscia, sotto la quale trovavo, scavando bene, collera. Rabbia per la prevedibilità – l’imprevedibile prevedibilità – di quello che succedeva. L’imponente macchina capitalistica entrava in tilt per quei suoi eccessi e quella sua sconsideratezza che io avevo sempre criticato e vituperato, e che per la mia formazione scientifica e il mio lavoro conoscevo meglio di altri. Ora succedeva davvero, e io ero impotente, mi sentivo anzi corresponsabile. Non avevo fatto abbastanza, non mi ero impegnato a fondo, non avevo militato, e anche adesso me ne stavo con le mani in mano. E rabbia perché attorno a me vedevo solo nostalgia del passato, fretta di ritornare a quella pazzia collettiva di consumi e sprechi e materialismo che aveva causato la pandemia, e che certo, se si fosse riaffermata, avrebbe provocato in poco tempo danni ancora più devastanti, con il loro inevitabile corollario di guerre e morte.
Mi dicevo che dovevo cambiare tutto nella mia vita, dovevo militare e battermi. Non potevo limitarmi ai miei inermi studi sulla terra, per quanto potenzialmente benefici possano essere, nella loro piccolezza, per una conoscenza dell’ambiente, non potevo restare chiuso nel solipsismo dei miei testi letterari. Nella foga ho scritto e pubblicato nel mio paese di origine un accorato appello a limitare drasticamente il consumo di carne, come misura concreta per cominciare a venire immediatamente a patti con la cosiddetta natura. Nessuno lo ha appoggiato, nessuno ne ha parlato, erano tutti occupati con la contabilità dei morti e le meccaniche della malattia, le allucinanti risposte del potere, così simili nei due paesi della mia vita. In qualche settimana le libertà personali e le più elementari basi della democrazia erano state spazzate via. Ci si accorgeva che non era poi impossibile che il capitalismo affrontasse davvero un problema ambientale da lui stesso causato, come si era sempre pensato: lo faceva perdendo però per strada la democrazia. Che è un po’ come spegnere il fuoco usando il sangue delle persone. Alla luce dell’esperimento preliminare che stiamo vivendo, l’ineluttabile via del futuro sembra rivelarsi quella. Ne ricavavo altra angoscia, che a ben vedere era rabbia.
Poi un po’ alla volta ho capito che non sono il centro del mondo, non posso essere il suo salvatore, seguo anch’io quello che succede, come tutti. Magari davvero quello che sta accadendo è l’inizio dei rivolgimenti che porteranno guerra e morte, non lo posso sapere. Ho però un piccolo margine di manovra. Ho anch’io paura della morte, come è d’uso nelle nostre società materialistiche, ma posso lavorarci sopra. E a ben guardare qualcosa nel mio piccolo faccio anch’io. Nel mio lavoro ho sempre cercato di fare capire che i terreni sono fondamentali per la sopravvivenza dell’uomo, e che vanno risparmiati e trattati bene. E anche nei miei romanzi i temi dell’ambiente e delle relazioni tra gli uomini sono al centro. E’ già qualcosina, anche se certo cercherò di impegnarmi di più. Adesso so che seguirò quello che succede, e proverò a fare il mio meglio. Per il momento assaporo la mia solitudine, che è sintonia con me stesso e con la morte, e coltivo il mio giardino.

 

(nella traduzione di Frederika Randall, questo pezzo entrerà nell’e-book dedicato alla pandemia che la casa editrice di Brooklyn Restless Books pubblicherà a fine mese, con i contributi di molti loro autori di vari paesi; i ricavati di questo instant book  andranno alla Book Industry Foundation, organizzazione che sostiene le librerie in difficoltà)

 

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6 Commenti

  1. Il vantaggio degli italiani all’estero è che loro restano italiani, provano sempre a fari i furbi, ma il contesto invece non è italiano, e così la fanno franca. Se invece che con i flic te la dovessi vedere con carabbinieri, mi sa che qualche piccolo patema d’animo te lo raccattavi anche tu. Roberto

    • hai ragione! (e guarda che sei responsabile tu con il tuo invito a scrivere qualcosa (anche se poi non ti ho risposto, ma ho pensato 200 volte a farlo) che mi avevi mandato; nel senso che mi s’era messo in moto in cervello, e poi si è presentata questa occasione, e la materia era gi pronta; un abbraccio!!

  2. Quel beau texte!
    J’éprouve la nostalgie de la liberté.
    Nous sommes bâillonnés au sens propre et au sens figuré.
    Et notre rêve de l’Europe?

  3. Et l’écriture est une consolation. Vrai! Un pays de liberté qui n’a besoin d’aucune autorisaton.

  4. quando il pezzo è uscito, e quando sono intervenuto qui sopra, Frederika Randall se ne era già andata, e io non lo sapevo ancora; le avevo scritto il giorno prima per annunciarglielo, e ero un po’ stupito che non mi avesse ancora risposto; la ringrazio per questo suo ultimo regalo, che le è costato fatica e dolore fisico, e che lei stessa sapeva – me l’ha detto lei stessa – sarebbe stata la sua ultima traduzione;
    la ringrazio per tutto quello che mi ha dato (anche un po’ permettendogli di darle, soprattutto negli ultimi tempi), i cinque anni che è durata la nostra relazione sono stati per me un dono; troppo grande perchè possa parlarne qui;

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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