Il cinema russo a Firenze: i film čechoviani di Konstantin Chudjakov e Svetlana Proskurina

di Giulia Marcucci

La seconda edizione del Festival di cinema russo contemporaneo nella cornice di NiceFestival (Direttrice artistica Viviana Del Bianco) si svolgerà dal 5 al 10 settembre; tuttavia, per ragioni ben note, quest’anno la modalità di proiezione sarà in streaming sul portale Più Compagnia con una conferenza stampa introduttiva il 4 settembre in collegamento dagli Uffizi per dialogare con i co-organizzatori russi (il Centro dei festival cinematografici e dei programmi internazionali) e i registi e le registe dei sei film selezionati.
I film sono stati scelti cercando di dar luce alle voci più giovani e promettenti della cinematografia russa odierna – come Boris Akopov, in programma con il pluripremiato Il toro, Ivan Šachnazarov con Rock e Vera Surkova con Pagani –, in dialogo con registi già noti e affermati: Konstantin Chudjakov e Svetlana Proskurina. In attesa di ragionare sui più giovani, qualche riflessione qui su questi ultimi.

Konstantin Chudjakov, classe 1938, è il regista della serie Netflix di successo La via dei tormenti, tratta dall’omonimo racconto di Aleksej Tolstoj e ambientata a Pietrogrado tra il 1914 e il 1919. D’ispirazione letteraria, per numerosi rimandi all’opera di Anton Čechov, è anche il film La fine della stagione, selezionato per il festival fiorentino.
Alle due sorelle protagoniste di La via dei tormenti, interpretate da Anna Čipovskaja e Julija Snigir’, in La fine della stagione se ne aggiunge una terza, Elena (Julija Peresil’d). Anna (Čipovskaja), Vera (Snigir’) e Elena vivono in una dacia presso una tranquilla cittadina sul Mar Baltico. Donatas (Andrjus Paulavičjus), il marito di origini lituane di Elena, è l’unica presenza maschile. Vera fa la ritrattista; Anna canta in un locale.
Un “nuovo russo” (Evgenij Cyganov) affitta per una grande somma di denaro la dacia di Brigitta, la sorella di Donatas, che si trasferisce così a vivere dal fratello. Sebbene sia la fine della stagione, le altre due camere disponibili nella dacia delle tre sorelle vengono inaspettatamente affittate anch’esse: una al giovane Igor’, accompagnato da un punk di nome Schweppes, che si esibisce nella piazza travestito da drago; l’altra a una strana coppia, formata da una giovane donna malata (Natal’ja Kudrjašova, già nota al pubblico italiano per il film presentato nel 2017 alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro Pionieri eroi e per il premio nel 2018 come miglior interpretazione femminile alla settantacinquesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia) e da un attempato marito (Sergej Koltakov) dall’aria losca, Sergej Petrovič.
Il rimando alle Tre sorelle čechoviane è subito esplicitato da Igor’, che sogna di diventare uno scrittore: «Ma siete tre, proprio come in Čechov!»; la cantante ribatte facendogli indirettamente notare che non è originale, mentre Schweppes ammette di non aver mai letto Čechov sebbene ne abbia sentito parlare. E proprio come i prototipi letterari, Vera, Elena e Anna vivono in una piccola cittadina sospesa fuori dal tempo sognando Mosca, la città che hanno lasciato da piccolissime per il trasferimento del padre, un militare sovietico.
Anche Donatas aveva un sogno, che però non si è realizzato: diventare un medico; nella realtà fa il taxista nella piccola cittadina baltica. E l’allusione a Čechov si rafforza per l’atmosfera di fine stagione di questo posto oramai privo di turisti – come Jalta in La signora col cagnolino –, dove non sembra poter succedere nulla, dove non sembra che un’avventura estiva possa trasformarsi in un vero amore. Donatas infatti, altro “portavoce” čechoviano, a proposito della storia nascente tra Anna e Igor’ afferma sicuro che le avventure estive non portano a nulla di buono.
Qualcosa, in realtà, succede anche in questa cittadina baltica a fine stagione, nel micromondo delle due dacie, e sulla trama čechoviana si innesta a questo punto il tempo più recente con tratti della černucha degli anni Novanta: il losco affittuario deve uccidere Boris perché ha osato lasciare la moglie, nonché figlia di un uomo di potere. Per compiere il piano e fare fuori il “nuovo russo”, Sergej cerca la collaborazione di Igor’, che, in cambio di denaro, dovrà aiutarlo nell’esecuzione. In occasione del compleanno di Anna – in Le tre sorelle nel I atto si festeggia l’onomastico di Irina –, si riuniscono tutti attorno allo stesso tavolo: le tre sorelle, Donatas, Brigitte, Igor’, Schweppes, Sergej e la moglie, e per ultimo arriva a sorpresa Boris. Igor’, che a questo punto non ha più intenzione di macchiarsi le mani di sangue, si dirige alla spiaggia, getta in acqua l’arma e poi scappa via, non prima però d’aver chiesto a Anna di raggiungerlo a Pietroburgo. Sergej non si arrende e nasconde dell’esplosivo nella valigia di Vera, che nel frattempo ha promesso a Boris di partire con lui.
Nella dacia esplosa di Brigitte muoiono Boris con le sue guardie e Sergej, che intanto aveva fatto partire la moglie con una valigia piena di denaro. Per questo è diventato un killer, per amore della giovane moglie, pensando di fare la sua felicità con il denaro guadagnato a suon di crimini.
La distruzione e il dolore sono appena accennati, restano in superficie, perché il film termina con l’arrivo di una notizia di vita tanto attesa da Donatas e Elena: lei è incinta; Vera, nonostante la terribile perdita di Boris, si abbandona in una giravolta di felicità trasformando in interrogativa la frase di Sonia dal monologo finale čechoviano di Zio Vanja «vedremo tutto il cielo cosparso di diamanti?», ripetuta poi anche in tono affermativo. Anna, invece, smentisce Donatas: è partita per Pietroburgo lasciandosi alle spalle la pioggia di fuochi d’artificio della sua cittadina festante; come in La signora col cagnolino, dove l’apparente ennesima avventura di Gurov con Anna Sergeevna è in realtà una grande storia d’amore di cui, a conclusione del racconto, non conosciamo tuttavia la direzione definitiva.

Una domenica è il decimo film di Svetlana Proskurina, allieva e assistente del regista leningradese Il’ja Averbach, maestro di drammi psicologici come il film confessione Monolog (Monologo, 1972) o Čužie pis’ma (Lettere altrui, 1975), i cui protagonisti sono medici, accademici, maestre di scuola, in poche parole esponenti dell’intellighenzia degli anni Settanta capaci di analizzare se stessi in un rapporto dialettico con la realtà circostante. Dieci film di finzione all’attivo, dunque, e alcuni documentari, tra cui Ostrova. Aleksandr Sokurov (Isole. Aleksandr Sokurov [2003]) dedicato all’amico Sokurov, con cui Proskurina ha collaborato alla stesura della sceneggiatura di L’arca russa (2002).
Fin dagli esordi nel 1982 con il cortometraggio Roditel’skij dom – e via via con i film successivi girati tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi anni Novanta, e poi di nuovo a partire dagli anni Duemila, dopo una pausa obbligata dovuta alla crisi dell’industria cinematografica degli anni Novanta – la regista dimostra un forte interesse per le relazioni umane e familiari, per i legami tra le persone, tra uomini e donne e tra generazioni diverse. Barbara Wurm (si veda l’articolo The International Film Festival Rotterdam – A Festival of Significance for Russian Cinema. In Focus: Svetlana Proskurina pubblicato su «Kinokultura») ben delinea i tratti principali della poetica cinematografica di Proskurina quando sottolinea l’importanza per la regista del lavoro con gli attori, la riduzione al minimo dei dialoghi, l’impeccabilità delle atmosfere interiori dei personaggi (una lezione evidentemente ereditata dalla scuola psicologica leningradese da cui discende), che Proskurina ottiene sfruttando al massimo tutti i mezzi del linguaggio cinematografico: per esempio i contrasti tra suono e immagine, o un uso di colori caldi in atmosfere cupe (soprattutto nei film degli anni Ottanta-Novanta).
Ma guardiamo ora al presente, facendo però un passo indietro. Il film precedente a Una domenica è Do svidanija mama(Arrivederci mamma, 2014), basato sulla pièce Karenin del giovane drammaturgo e regista Vasilij Sigarev. Karenin è una stilizzazione di Anna Karenina di Lev Tolstoj, in cui la storia dell’adulterio viene raccontata dal punto di vista del dramma interiore di Aleksej Karenin alle prese con i suoi demoni, le sue debolezze e la sua inutilità. Nel film di Proskurina interpretano i ruoli di Karenin e Vronskij Daumantas Ciunis e Aleksej Vertkov, mentre Anna è Aleksandra Rebenok, nella vita moglie di Vertkov.
Vertkov-Vronskij è anche il protagonista di Una domenica, dove interpreta la parte di Terechov, un uomo d’affari ripreso in apertura nel suo ufficio, dopo una scena di sesso con una donna di nome Inna, la stessa Rebenok-Anna di Arrivederci mamma. Quando Inna lascia l’ufficio, sentiamo il rumore dei tacchi allontanarsi mentre la macchina riprende Terechov immobile per alcuni secondi, seduto sulla poltrona. In chiusura di sequenza prende infine un biglietto nascosto sotto il computer su cui si legge «Morirai presto».
La sequenza successiva è costituita da un’alternanza di primi piani del volto e dei piedi di Inna, e poi la figura intera si staglia sullo sfondo di un paesaggio suburbano alle luci dell’alba. La donna si getta dal balcone, ma non muore, uscendo per sempre di scena dopo alcuni brevi momenti ambientati all’ospedale. È Inna stessa a raccontare a Terechov di aver tentato il suicidio perché non sopporta più la voce del marito; e il marito più tardi confessa a Terechov che avrebbe preferito fosse morta. Il malessere di questa prima coppia, Inna-marito, anticipa il fallimento delle altre relazioni nel film: quello di Terechov con la moglie (che appare più avanti), e poi con Maša Kočergin, una donna che lo ama e che gli chiede «portami via da qui» (ma lui risponde distaccato e assente «ma dove, Maša?»).
Terechov riesce solo a dare ordini per distruggere e far costruire sulle ferite della povera gente. E sta appunto in questo destino faustiano il nodo centrale del film: il protagonista è il responsabile del progetto di disboscamento di un’area in cui sarà costruita una grande pista ciclabile, un cinema all’aperto, un caffè alla moda, tutto sul modello di Mosca. È questo un tema abbastanza attuale nella letteratura degli anni Duemila: si pensi al racconto Beton (Cemento) di Aleksandr Snegirev o al romanzo di Roman Senčin Zona zatoplenija (Zona di allagamento) incentrati sul dramma di chi, da sempre, vive a contatto con la natura, nella propria casa, tra i propri oggetti e con i propri animali, e improvvisamente – solo perché si possano compiere progetti irrazionali, costosi e imposti dall’alto – sono costretti o a trasferirsi in asfittici appartamenti o, come fa l’anziano e disperato protagonista del racconto di Snegirev, a murarsi nella propria cosa.
In questo modo di prendere decisioni sulla pelle dei marginali, sentiamo l’eco della decisione improvvisa, irrazionale ed egoistica del professor Serebrjakov in Zio Vanja di Anton Čechov, quando annuncia di voler vendere il podere, senza assolutamente pensare al destino della figlia Sonja, di zio Vanja e della vecchia mamma, che non hanno mai lasciato la campagna e hanno dedicato tutta la loro vita al mantenimento e all’amministrazione di quel podere, mandando regolarmente i soldi al professore. E sentiamo l’attualità delle parole e delle previsioni di Astrov a conclusione del suo monologo sulla riduzione drastica della superficie boscosa nell’arco di cinquant’anni: «Si è distrutto quasi ogni cosa e in cambio non si è creato ancora niente». Per non pensare poi a Il giardino dei ciliegi e alla proposta di Lopachin alla nobile proprietaria decaduta, Ljubov’ Andreevna Ranevskaja, di abbattere quel paradiso terrestre insieme alla vecchia casa per costruirci dei villini da dare in affitto ai villeggianti, e poi alla decisione definitiva di Lopachin stesso di acquistare tutta la proprietà all’asta. E l’accetta usata per abbattere tutti gli alberi risuona quando i vecchi padroni sono ancora presenti, come nel film di Proskurina.
La sequenza dell’abbattimento degli alberi è di particolare intensità: il rumore metallico delle seghe e della gru si confonde con il vociare della gente che tenta invano di fermare uno scempio di cui Terechov tuttavia non è pienamente responsabile: gli ordini da lui impartiti non erano questi, gli alberi non dovevano essere abbattuti ma trapiantati. Intanto la macchina indugia su Terechov: un leggero tremito scuote le sue spalle, mentre la luce gialla dei lampioni illumina il suo volto immobile e indignato; poi con un movimento rapido volta le spalle e, goffo e pesante, si avvia verso il bosco. Qui incontra dapprima una donna che lo aggredisce verbalmente per quanto ha fatto, alla quale lui consegna una busta contenente del denaro (un gesto che Terechov compie automaticamente altre volte nel film). Poi lo sguardo del protagonista si sofferma sofferente su una scena in cui due donne sezionano una pecora e la appendono sopra il fuoco, mentre i loro mariti assistono rilassati godendosi lo spettacolo. Infine, giunto sulla riva del fiume, l’incontro decisivo: Terechov è avvicinato da due bambini del posto che portano addosso – nei loro abiti lisi e nei volti indiavolati – i segni del degrado sociale; il più grande pronuncia suoni strani e incomprensibili.
Il bambino è lo stesso che alcune sequenze prima si era seduto accanto a Terechov durante l’incontro con la figlia, e aveva assistito alla scenata isterica della madre della bambina, accusata di fare errori ortografici troppo gravi per la sua età. Questo bambino, che Terechov aveva cacciato via in malo modo, ora lo colpisce alla nuca con un grande sasso. È l’altro, il diverso, il marginale, come diversi sono i lavoratori asiatici delle scene nel bosco, ripresi sempre a distanza, coloro che Kolja, l’autista di Terechov, definisce «feccia».
La ferita causata dal bambino è però salvifica; preannuncia una risurrezione del fiacco Terechov, specie di uomo superfluo proveniente da un Diciannovesimo secolo di decadenza, ma anche uomo fuori dal tempo – come lo ha definito Sokurov in una lettera a Proskurina dal titolo Un film sorprendentemente russo. Chi in Russia è ancora così russo? pubblicata su «Novaja gazeta» del 20 aprile 2019 – e stanco di vivere accanto a noi.
È lunedì mattina; Terechov dovrebbe essere nell’ufficio del sindaco a discutere di affari e grandi progetti, e invece lo vediamo in una sequenza di primi piani mentre viene traghettato sull’altra riva del fiume a bordo di una piccola imbarcazione. Non indossa più la camicia e la giacca, ma una semplice  tel’njaška (la canottiera a righe dei marinai), e accenna un sorriso d’intesa e comprensione al bonario capitano, mentre bevono insieme, in silenzio, una tazza di tè. Il film termina, però, così come è cominciato, con due figure femminili à la Petruševskaja in primo piano: gli ultimi minuti sono dedicati infatti alla capricciosa madre ammalata di Terechov interpretata dalla grande attrice di teatro e di cinema Vera Alentova (si veda l’intervista del 25 aprile 2020 sul portale Russia in translation). La donna confessa alla badante Anja una verità scottante e lei cerca allora di soffocarla, ma la madre di Terechov muore da sola qualche istante dopo, chiedendo e ricevendo il perdono di Anja.
Il presente asfittico della Russia odierna – fatto di disuguaglianze sociali, prevalere delle apparenze, corsa al denaro facile, relazioni familiari infelici, assalto feroce all’ambiente, tutti temi in tanta parte estendibili a livello globale – è raccontato da Proskurina con uno sguardo arricchito dalla lezione ereditata dai grandi classici russi, e non solo da Čechov (non va dimenticato che l’idea iniziale della regista era di girare un adattamento di Resurrezione di Tolstoj). Quel che più conta però è che in Una domenica ogni allusione letteraria fluisce nella vita e nello scorrere del tempo filmico, risolta nelle inquadrature. Niente rimane pura superficie, e quanto meno il rimando ai grandi testi del canone è esibito, tanto più profondo e nutritivo appare il legame con la tradizione, tanto più autentiche appaiono le atmosfere interiori del protagonista nella fusione con i colori, le luci, i suoni e l’ambiente fotografato, come se si percepisse un immaginario sedimentato che guida dall’alto e fonde passato e presente, unico spiraglio di luce in un mondo prevalentemente oscuro.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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