Democrazia e blasfemia

di Andrea Inglese

 

La notizia è di quelle che ti si appiccicano addosso per tutta la giornata come una iettatura: un professore delle scuole medie decapitato dal solito terrorista dell’ultimo minuto. Se il fatto in sé è inverosimile e nauseante, lo è ancor più la motivazione: il professore è stato ammazzato perché, durante una lezione sulla libertà di espressione, aveva mostrato in classe due caricature di Maometto, diventate tristemente celebri in seguito alla strage della redazione di Charlie Hebdo nel gennaio del 2015.

Nelle settimane precedenti, l’insegnante si era trovato ad affrontare le proteste di alcuni genitori musulmani. Un genitore, in particolare, di un’allieva di tredici anni che aveva assistito alla lezione, ha denunciato l’insegnante alla polizia per aver mostrato in classe “delle immagini pornografiche”. Non soddisfatto, ha postato un video su youtube, in cui dava un resoconto tendenzioso dei fatti, e chiedeva solidarietà ad altri genitori, affinché il professore “voyou” (“delinquente”) fosse sospeso dalle sue funzioni. Il 16 ottobre un ragazzo di diciotto anni, nato a Mosca di famiglia cecena e rifugiato in Francia, aggrediva l’insegnante di geografia e storia di quarantasette anni, e gli tagliava la testa, prima di essere ammazzato a sua volta da una pattuglia della polizia.

Questo assassinio terroristico, in quanto insegnante, mi riguarda particolarmente, perché, quali che siano le condizioni che l’hanno preparato, è un assassinio che mostra in modo inequivocabile il suo obiettivo. Sono stati ammazzati gli autori di vignette blasfeme, sono stati ammazzati ebrei francesi, sono stati ammazzati giovani parigini che assistevano ad un concerto rock o erano seduti ai tavolini di un bar, sono state ammazzate persone a caso, francesi o stranieri, atei, cristiani o musulmani, uomini, donne o bambini. Il terrorismo non va sempre per il sottile. Questa volta, però, si ammazza un insegnante perché fa una lezione di educazione civica, e tratta di temi come la censura, come la blasfemia, come la satira, in una società democratica.

Certo, sulle radio e televisioni francesi, dicono tutti in coro che nessuno si farà intimidire, che la laicità dell’istituzione scolastica non sarà mai messa in discussione, e che anzi la politica fornirà la scuola di ulteriori strumenti difensivi. Per conto mio, se mi trovassi in una scuola media o in un liceo o persino in un anfiteatro universitario con tante allieve velate e tanti allievi di probabile confessione musulmana, non sarei così tranquillo nell’affrontare temi, per altro banali, almeno in certi ambiti disciplinari, come la censura, la satira, la libertà d’espressione, ecc. Avrei paura. Mi ritornerebbe in mente un certo signore, insegnante di storia e geografia, che esce dalla sua scuola e si dirige a piedi a casa, finché un forsennato gli salta addosso, uccidendolo a colpi di coltello. Ma mi basterebbe semplicemente pensare a una fronda di genitori musulmani o all’organizzazione di petizioni, senz’altro inutili. Oppure, in ambito universitario, alla fronda di allievi musulmani. Certo, certo, le paure esistono per essere superate. Certo, nulla di tutto questo potrebbe in fondo accadere. Però intanto la paura c’è, perché il ricordo dell’orrore non si cancella così in fretta. Tra le tante difficoltà che un professore può oggi affrontare, aggiungiamoci questa.

Non è mia intenzione lanciarmi in un’analisi dell’atto terroristico, delle condizioni che l’hanno favorito, del conflitto tra comunità musulmane e istituzioni francesi che di tanto in tanto emerge in maniera plateale. Nemmeno voglio qui trattare dell’islamofobia che alligna in una parte importante della società francese o del “comunitarismo” di una certa parte della popolazione musulmana in Francia. Mi limito, su questo versante, a segnalare un punto. Una delle preoccupazioni della destra, ma anche di certa sinistra moderata, in Francia, è la presenza del velo negli spazi pubblici. In ambito scolastico, questa preoccupazione si traduce, ad esempio, nei tentativi ripetuti per impedire che le mamme accompagnatrici nelle varie attività scolastiche al di fuori dell’istituto siano presenti con il velo. Stiamo parlando di mamme, che si mettono volontariamente a disposizione per accompagnare l’insegnante in un uscita scolastica sportiva, ad esempio. (Attualmente, comunque, le mamme che non svolgono attività pedagogiche, ma di puro accompagnamento, possono essere presenti con il velo. Per ora la destra non è riuscita a imporre la sua laicità pelosa.) Già è più complicata la situazione di una mamma col velo, che si renda disponibile per gestire due o tre ore la biblioteca dell’istituto scolastico. In questo caso, infatti, il velo mammesco entra in contatto con la sacra sfera della pedagogia laica, e le due entità (velo, da un lato, pedagogia laica, dall’altro) sono incompatibili. Ebbene, tutte queste preoccupazioni, tutto questo sospetto per la presenza del velo, per le contaminazioni tra velo e pedagogia, a me sembrano eccessive e, per di più, controproducenti. Le mamme musulmane non di rado sono sulla difensiva, e quindi estremamente polemiche e rivendicative, in quegli ambiti istituzionali, come la scuola, che sono in definitiva più “morbidi” proprio nei loro confronti. Ve ne sono altri di ambiti, come ad esempio la polizia o più in generale l’amministrazione, che mostrano nei confronti del musulmano un atteggiamento ben più aggressivo e diffidente, in particolar modo se vive nei quartieri popolari delle periferie.

Tornando alla scuola, appare insomma irragionevole questa insistenza sospettosa sul velo, come elemento puramente simbolico, laddove altri problemi ben più gravi potrebbero sorgere. E il caso macabro del professore decapitato ci mostra quali potrebbero essere. Se una linea di fronte deve essere messa dall’istituzione laica e democratica, questa dovrebbe salvaguardare innanzitutto la didattica, la libertà dell’insegnamento, nel quadro dei valori costituzionali.

Vengo ora alla questione che ha motivato questo mio intervento. Penso che la ripetizione di formule come “libertà d’espressione” o “diritto alla blasfemia” non spieghino sufficientemente, perché è importante difendere la possibilità di parlare di caricature blasfeme, e di considerare che esse fanno parte, nella loro marginalità e quasi irrilevanza, del tesoro della nostra democrazia. Il filosofo che per me ha messo in luce il nesso costitutivo tra democrazia e blasfemia è Cornelius Castoriadis, che della nozione di “democrazia” si è occupato con grande assiduità sia dal punto di vista storico che teorico. Partiamo, dunque, da una definizione non banale di “democrazia”. Per Castoriadis i regimi democratici non si basano semplicemente su un sistema di norme, ma su di un immaginario collettivo, e su di un sistema di nozioni e valori che lo innervano. Punto cruciale di questo sistema è il concetto di “autonomia”, ossia la possibilità che il popolo ha, senza distinzione di ceto, genere, razza, religione, di istituire la sua propria legge. La democrazia esiste laddove è il popolo che pone a sé, sovranamente e liberamente, i propri limiti. Questo significa che, in una democrazia, le leggi che regolano l’organizzazione sociale non sono né conseguenza di una parola divina né di leggi naturali né di leggi della storia. Naturalmente, giunti a questa frase, già una buona fetta di coloro che si ritengono democratici, son pronti a disertare la democrazia come la intende Castoriadis. L’idea che le leggi della società si fondino non su qualche bel sostrato solido e imperituro, come la natura (il codice genetico), o come l’impersonale evoluzione della storia (la dialettica materialistica), o come l’infinita chiaroveggenza di un Dio, ma si fondino sull’umanità stessa, imperfetta e soggetta ad errori, sulla sua visione del mondo, sulle sue competenze “mondane”, sui significati che essa elabora, ecc., tutto questo non solo non è ovvio, ma non è nemmeno rassicurante.

Veniamo ora alla blasfemia, e alla blasfemia inscritta nel genere della satira, letteraria o illustrata. La satira, dacché esiste, ha sempre come obiettivo gli esseri umani, gruppi sociali o individui. Inscritta, e usata nella satira, la blasfemia è quindi una forma di attacco polemico e critico non a delle entità divine, ma a dei seguaci umani, molto umani, di una certa dottrina religiosa. Nel gioco letterario e artistico della satira, se è davvero portatrice di critica in un senso profondamente democratico, come non ci si ferma di fronte al potere politico così non ci si ferma di fronte al sacro religioso, ossia alla parola divina. Non ci si ferma, perché l’intera società democratica non si è fermata alla parola divina, non ha accettato i dogmi e le verità dei libri sacri, ma li ha messi in discussione, e in modi diversi, attraverso l’argomentazione e la dimostrazione scientifica, ma anche attraverso la satira mescolata alla poesia, al romanzo, al teatro, e anche alla vignetta caricaturale. In democrazia, più in generale, non vale l’onniscente e eterna parola di Dio, ma quella fragile e provvisoria degli esseri umani.

L’assassinio terroristico di questo insegnante mostra in modo chiaro qual è la conseguenza di sconfessare, a monte, la satira volgare, non divertente, di Charlie Hebdo. A valle, le lezioni sulla caricatura, sulla satira, sulla censura, sulle varie forme di critica della nostra tradizione democratica, saranno purgate della satira “cattiva”, per esempio quella che varca i confini della blasfemia. Sembra una questione di gusto, ma come sempre è una questione di autorità. Chi ha l’ultima parola? Il disegnatore che governa sovrano solo sulla sua piccola superficie di carta in un settimanale di genere, o i rappresentanti di una religione, che hanno un effettivo potere su migliaia, a volte milioni, di persone?

Spero, insomma, che l’orrore di ieri, e quello che è già avvenuto in Francia nel passato, ci renda più maturi. Non si tratta più di decidere se ci piacciono o meno le vignette di Charlie Hebdo. Possiamo sempre elaborare una critica della loro politica editoriale o delle loro scelte estetiche. Ma qui la questione principale è un’altra. Riguarda quello che vogliamo a tutti costi trasmettere, come elementi fondamentali della democrazia. Io credo che, nonostante le paure che da oggi avremo maggiormente, satira e blasfemia fanno parte del pacchetto immunizzante contro l’autoritarismo dei dogmi religiosi e politici.

*

Immagine: Albrecht Dürer, La blasfemia, 1494

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8 Commenti

  1. Caro Andrea, apprezzo molto il tono molto riflessivo e le molte facce del tuo pezzo. Vorrei però dire la mia, assolutamente personale, opinione su tutta questa faccenda, sugli aspetti violenti della quale non credo ci sia bisogno, ma meglio dirlo almeno una volta, di prendere tutte le distanze possibili: nulla e nessuno giustifica nemmeno in piccola parte le varie reazioni violente cui abbiamo assistito dalla famosa pubblicazione di Charlie Hebdo in poi. Detto questo, la mia opinione è che prendere in giro, o, se vogliamo usare la parola tipica di questo contesto, fare della satira, sulle religioni e in particolare poi sui loro fondatori sia stupidamente offensivo e dunque molto sbagliato: è inutile nascondersi che la stragrande maggioranza dei popoli della Terra si è data, o immaginata, una qualche forma di religione, monoteista o politeista che sia, o chissà quale altro tipo che io naturalmente non conosco. C’è però, mi sembra, di comune a tutte queste credenze religiose il fatto che esse investono nei loro autentici credenti zone molto profonde del loro essere, zone sulle quali essi non sono disponibili a nessun tipo di satira. Queste zone io vorrei che tutti rispettassero, come una specie di legge non scritta, come quella che rispettava Antigone disobbedendo al potere civile e affrontando con ciò serenamente la morte.
    Il mio ragionare è questo e non tanto il fatto che, in certi contesti come quello che tu ben descrivi, ciò può essere pericoloso perché di estremisti dementi è pieno il mondo (e ciò potrebbe anche essere egoisticamente preso in considerazione!); comprensibilissima peraltro la paura che dici che avresti in situazioni analoghe. La mia opinione è solo che la conclamatissima “libertà di espressione” o “libertà di satira” hanno anche loro dei limiti, soprattutto quando vengono esercitate in un mezzo a larga diffusione, cioè pubblico, tu a casa tua puoi fare quello che vuoi, ovviamente, anche fare la satira di Mattarella che fa la pipì non so dove, ma prova a farla su un giornale pubblico! Ciao.

  2. Caro Antonello,

    ti ringrazio per il tuo intervento, breve ma molto chiaro. Penso che in questi giorni si stiano confrontando nello stesso campo due posizioni come la mia e la tua. Ora, io non credo che sia cosi semplice “esplicitarle”, argomentarle come si deve queste due posizioni. In ogni caso, sento che, pur avendo scritto un pezzo abbastanza articolato, molte cose dovrebbero ancora essere dette, o dette meglio. Ma è chiaro che ci sono due visioni della laicità e secondo me anche della democrazia che si confrontano.
    Qui, in risposta al tuo intervento, aggiungo solo una sorta di approfondimento di quanto scritto più sopra. E una nota di contesto.

    Primo punto. Quando Galilei vuole sostenere che la visione tolemaica è errata, egli non solo si oppone a una dottrina integrata nella visione religiosa della Chiesa di allora, ma anche “offende” i sostenitori di quella visione. Un giovane musulmano che conosco non è convinto dell’esistenza della preistoria, che la terra sia molto più vecchia di quanto dicano i libri sacri è, anche in questo caso, una sorta di offesa. Tutte le volte che le esigenze di una morale laica o di una scienza razionale si scontrano con qualche dogma religioso, tutto il sistema dottrinario ne è scosso (“offeso”), altrimenti non ci sarebbero stati tanti roghi, processi, e persecuzioni. L’opportunismo del cattolicesimo odierno ha messo diversi secoli ad emergere. I nipoti dei Repubblichini si sentono profondamente offesi dalle celebrazioni della Resistenza. Sentirsi profondamente offesi non è secondo me un criterio definitivo, per decidere se una certa cosa si debba fare o no. Ora, la satira ha una storia, e questa storia è intrecciata con le lotte per le verità scientifiche, o almeno per delle verità sufficientemente razionali e comprovate. Satira ed emancipazione sono andate a braccetto nella nostra storia. Forse oggi non ce ne sarebbe più bisogno? I contesti sono cambiati? Quel tipo di “critica” è superflua, inutile, e quindi rimane solo il lato “offensivo” di chi si percepisce come bersaglio?

    Tocco qui il secondo punto. L’islamismo terrorista esiste, è esistito. Dal 2004 fino ad oggi l’Europa ha subito attentati terroristici di matrice islamica. Lo Stato Islamico comincia ad affermarsi nel 2004 e diventa une vero e proprio stato su un ampio territorio. E potrei continuare sulla “realtà” e le attività del terrorsimo islamico in Europa e nel mondo nell’arco di questi vent’anni. Questo terrorismo si basa su delle interpretazioni ideologiche rigoriste della religione musulmana, mescolate a rivendicazioni di tipo politico, ecc. Queste ideologie hanno circolato nelle comunità islamiche reali di diversi paesi europei tra i quali la Francia. La satira fracese, dunque, in particolare quella di Charlie Hebdo non sparava sulla croce rossa. Sparava su una realtà esistente, attiva, da far accaponare la pelle ad ogni cittadino vagamente democratico. Cio’ detto, si puo’ valutare la pertinenza, o l’insistenza, di quel giornale satirico. Il contesto non era pero’ né pacifico né angelico. Quindi, dal mio punto di vista, c’erano motivazioni importanti dietro quel tipo di satira nei confronti della religione.

    Un’utima cosa sul “giornale pubblico”. Nessuno è obbligato a comprare un giornale di satira. Io purtroppo mi devo beccare se sono in Italia i titoloni di quotidiani tipo il Giornale, e qui in Francia quelli di Valeurs actuelles, il giornale in area Front National. La mia battaglia contro di loro la faccio nelle forme tipiche della democrazia: discussioni private, polemiche pubbliche (un articolo), magari attraverso un’azione legale che puo’ o no andare in porto o aver successo.

  3. Ottima risposta, caro Andrea, leggendo la quale anch’io mi rendo conto che la realtà è più complicata di quanto uno possa pensare a botta calda e gli esempi storici poi fanno capire quanto i diversi contesti inducano a pensare cose diverse. L’unico punto che potrei sottolineare è questo: diverso è satireggiare su dogmi e credenze per così dire di contorno a una fede in una persona, o divinità, o quel che è, e invece investire della satira proprio questa persona, che sia Maometto, Cristo, Buddha o chi altro. E’ proprio un po’ diverso. Galileo discuteva (senza prendere in giro) la versione tolemaica del sistema solare che certo era patrimonio della cattolicità, ma non uno di quei dogmi infallibili, tant’è che ora la Chiesa l’ha fortunatamente abbandonato. Del resto, come ho spiegato lungamente una volta su NI, quando Ratzinger era stato invitato a tenere una lectio accademica, anche lì, il migliore non era certo Galileo, semmai il cardinale Bellarmino che probabilmente aveva capito più di tutti gli altri. Il fatto è che il credente vero ha come fondamento indiscutibile della sua fede colui che l’ha fondata, nel senso più forte della parola ed è lui che non può tollerare di vedere maltrattato
    Sulle tue considerazioni sul terrorismo islamico poi non mi pare di aver nulla da aggiungere, soprattutto nell’ambiente francese che certamente conosci assai meglio di me.

  4. Antonello, ti propongo uno spostamento di terreno. Qui stiamo discutendo per argomentazioni e principi teorici, diciamo. Ma puo’ essere interessante spostarsi sul terreno per certi versi più definito e concreto della giurisprudenza. Ho trovato un lungo articolo, un po’ ostico nella forma, ma assai interessante per cio’ di cui parla. L’autore è più vicino alla mie posizioni, ma fa una rassegna oggettiva del modo in cui la girisprudenza italiana (e a volte europea) ha trattato questo confronto tra diritti; la blasfemia, come esercizio della libertà di espressione, e i limiti imposti alla blasfemia, in quanto possibile attacco alla libertà di culto.
    Al di là delle casistiche e dei giudizi, si pone per me la questione delle priorità, che non è mai una questione puramente teorica, ma di ragione pratica. E la priorità qui si discute (e decide), a partire da quanto è più vicino ai principi fondamentali, ossia ai principi costituzionali (le legge fondamentali).
    Ti linko il lungo articolo e t’incollo un passaggio (che forse sarà difficile da leggere “decontestualizzato”).
    http://www.giurcost.org/studi/lollo2.pdf

    Ed ecco il passaggio:

    “Verosimilmente, la dottrina e la giurisprudenza che impostano la questione nei termini del bilanciamento tra interessi di rango costituzionale giungono a tale conclusione valorizzando la dimensione “passiva” della libertà di religione, accostando, cioè, alle tipiche forme costituzionali dell’art. 19 Cost. (professare, propagandare ed esercitare il culto) un’atipica gemmazione della stessa libertà religiosa, da cui scaturirebbe un diritto a non sentirsi offesi. Sennonché, anche volendo tacere dei profili di indeterminatezza di un tale bene (qual è la soglia oltre la quale un’azione blasfema offende la religione? Chi ha diritto a non sentirsi offeso?), convince poco la tesi che considera la blasfemia come una manifestazione potenzialmente lesiva della libertà religiosa, in quanto il sentimento religioso sembra esulare dal contesto dell’art. 19 Cost. Di contro, la libera manifestazione del pensiero, quale «libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari», rappresenta senz’altro una pietra angolare del costituzionalismo moderno e, segnatamente, della forma di Stato democratica, giacché la circolazione delle idee costituisce un presupposto indispensabile della democrazia.”

  5. La questione, mi sembra, è quella della proprietà di uno stato nazionale nei confronti di ospiti necessariamente accolti – per ragioni fra l’altro vergognose: coloniali, fisiche e culturali.
    Non ignoro che i conflitti ideologici e religiosi- accompagnano dall’origine gli stati nazionali. Ma erano sane contraddizioni interne al popolo, per così dire. Invece qui si tratta di presupposti culturali, che convivono, che nulla hanno a che vedere con lo stato nazionale europeo come normalmente si è costituito. Olio e acqua devono stare assieme in un recipiente. L’errore -necessario- è immaginare che simili differenze, legittime tra impostazioni culturali, sociali ed economiche, che sono differenze di lunghissimo periodo e con profonde radici psicologiche, trovino soluzione dentro un contenitore accidentale, venuto dopo, estrinseco a quelle radici. Quindi discussioni, tra noi, fin dove si esprime la libertà di critica o la censura. Ma come si può criticare da dentro una scatola l’atmosfera esterna? I compromessi arrivano ai due estremi: ogni critica è la “nostra” libertà (quella di criticare noi stessi!); oppure alla rassegnata separazione dei colori entro una stessa pentola. Solo gli imperi già hanno trovato la soluzione, nel knut di chi non appartiene ma comanda.

  6. “Ma come si può criticare da dentro una scatola l’atmosfera esterna?”

    Non capisco bene la tua posizione cris. La separazione dei colori nella stessa pentola non è un’opzione auspicabile. In genere, signfica apartheid: il colore più forte fa vivere il colore più debole accanto a sé senza contatti, e prende in mano tutte le leve essenziali di poetere e ricchezza. L’autonomia delle comunità puo’ essere più o meno ampia, ma se va contro l’impianto legislativo nazionale (la carta della costituzione), c’è la guerra civile o una pacifica scissione in due entità statali indipendenti. Negli altri casi si pone ovviamente un problema di gerarchia. Ho citato nel commento qui sopra la riflessione di un giurista. Si puo’ o meno essere d’accordo con la sua posizione, ma il panorama “giuridico” è chiaro. Vi sono due principi in sé egualmente legittimi che possono entrare in conflitto: il diritto alla libertà d’espressione (e dunque forme di espressione codificate culturalmente e storicamente come la satira) e il diritto alla libertà di culto. Ora si tratta di valutare quale di questi due principi sia prioritario rispetto all’altro, più vicino alla legge fondamentale dello stato, ossia la costituzione.
    Possiamo discutere su questo, ma se cancelli questo scenario, e pensi a delle comunità che funzionano in piena autonomia e indifferenza, allora perché non avere la pena di morte in Sicilia, ad esempio; la lapidazione delle adultere a Saint-Denis in Francia, il rogo delle streghe in Vandea, ecc. Innanzitutto la nostra stessa cultura non è cosi omogenea, quindi basta scavare un po’ e si possono reinventare passati celti e padani.
    Cosa sta succendendo negli Stati Uniti? Sta succedendo che la popolazione sta perdendo un terreno di valori comuni che li tiene insieme, malgrado tutte le differenze e i conflitti che si possono immaginare. Questo zoccolo in genere, se esiste, finisce in una carta costituzionale. Se ad un certo punto viene meno, non è il paradiso in terra delle comunità, è la guerra generalizzata di tutti contro tutti. Vi ricordate la ex-jugoslavia, e il termine balcanizzazione?

  7. Caro Andrea Inglese (con cui non interagisco da anni), la frase davvero significativa del testo di Andrea Lollo pubblicato su http://www.giurcost.org/ è questa:

    “A ben vedere, una dose di empatia nell’uso della matita non avrebbe guastato, soprattutto poiché si trattava di un tema che interseca questioni ultime di vita. Ma la blasfemia resta pur sempre una legittima espressione della libertà di pensiero.”

    Quella frase suggerisce due cose fondamentali:

    – esistono ragioni giuridiche per ritenere che la forza dello Stato debba essere indirizzata verso la protezione della blasfemia e non verso la protezione del sentimento religioso declinato come diritto a non essere/sentirsi offesi,

    – ovviamente ciò non può costruire relazioni umane, perché queste si costruiscono soltanto nell’empatia.

    Insomma, non prendere un ragionamento sul diritto, quindi sull’uso della forza, come bussola per ciò che serve davvero al mondo.

    Ciao

  8. Bentornato Andrea Barbieri. Hai ben ragione a sottolineare le due frasi in questione, e questo accentua la complessità dei valori in gioco. E naturalmente apre spazio di critiche nei confronti di chi fa satira. Purtroppo, nel frattempo, la realtà va ancora più veloce delle nostre diagnosi.

    Ci siamo sforzati, a torto e ragione, di leggere il terrorismo islamista in connessione più o meno diretta con l’atteggiamento persecutorio o irrispettoso di certa stampa occidentale, francese. Ieri quello stesso terrorismo ci ricorda che tutto è pre-testo, per la sua propaganda. Anche i rispettosi – e lo dico senza ironia – cattolici francesi. Noi spesso ci dimentichiamo che il terrorismo islamista non ha come obiettivo l’Europa o gli USA, è una faccenda interna al mondo musulmano. Noi serviamo da pretesto. E questo non cancella in nessun caso reponsabilità, colpe, malefatte coloniali e post-coloniali. E’ solo una dato molto chiaro di cui bisogna tener conto.

    “Complessivamente, dal 1990 al 2015, i morti per terrorismo di matrice islamista sono stati 63 mila, dei quali il 95% si concentra nei paesi islamici (60 mila) e il 5% (3,1 mila) nei paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti: questi ultimi sono costituiti quasi totalmente dalle 2.996 vittime dell’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 (Al-Qaida) e dai 148 morti negli attentati terroristici del 2015 in Francia”

    https://www.stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/2205-terrorismo-islamico-la-vera-guerra-non-e-in-europa?

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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