Apocalisse e altre visioni

di Maria Grazia Calandrone 

 

La poesia di Alessandro Celani usa le lingue del mondo in versi sciolti, mescola il verbo della scienza anatomica a quello dell’industria e del canto d’amore. L’impasto linguistico che ne risulta è il distillato di un desiderio onnivoro, decisivo e profondissimo: il poeta vuole abitare un’unica realtà, che abbracci ogni elemento vivo e morto, conosciuto e sconosciuto. Però la lingua è anch’essa provvisoria, fatta per essere dimenticata, anche quando si tratta di poesia, cioè – come confessa Celani – di una forma altissima ed estrema di resistenza al dolore. Così suggeriscono i versi «Metti in un sacco cento parole / dimenticalo / Ecco il tuo dono». Il dono è la dimenticanza di sé e del proprio tesoro, il dono è oltrepassarsi e, ancora più intimamente, non provare alcuna commozione per il proprio passato, per la persona che siamo stati.

La poesia di Celani è infatti asciutta, breve, a volte brusca, come il gesto di chi asciughi di nascosto una lacrima e intanto sorrida, col sorriso un po’ storto che hanno quelli che sanno il mistero del provvisorio e sono quasi liberati, ormai, dalla zavorra del futuro. Il poeta qui canta la coscienza di qualcosa che definisce «cisterna delle voci», espressione echeggiante e corale di un’umanità che prende forma nel tu amoroso e, soprattutto, nelle instancabili dediche ai figli, corpi amati e futuri, corpi attoniti ancora e quasi ancora insensibili e ignari, come la coccinella abbarbicata «al vetro alluminoso del vagone». Perché Celani arriva a insinuarsi nel pensiero animale, ad assumere lo sguardo radicale delle piccole bestie o dei monti vastissimi che digradano a valle e allora la sua voce si solleva fino a diventare siderale, l’occhio che guarda vede il mondo e se stesso da un’altezza straordinariamente rarefatta, pur chiamato nel gorgo del tempo dall’odore carnale del grano, dall’«odore anfibio delle mucose», dai baci umani e anche da «tettonici litigi», perché niente è escluso, niente viene radiato o estromesso dalla poesia. Non serve edulcorare, se la poesia è nello sguardo. Ma la distanza è grande, le parole cadono distillate da una distanza grande come la notte e l’incertezza, per raggiungere quello che si ama.

Le parole sono fatte per desiderare e quelle di Alessandro Celani desiderano raggiungere soprattutto chi non le comprende, perché l’amore è più grande delle parole e l’invocazione più umana e vera è che le parole, anziché letteratura, siano suoni di bestie. Versi animali, più che versi poetici, versi di un corpo che ora è la sua essenza, la sua limpida, mera, nera, opaca essenza biologica e chiede solo di essere visto: «Vieni qui facciamoci vedere». Basta con le metafore. Che adesso sia la vita a chiamare la vita. Proprio da qui, dai versi di un libro chiamato Apocalisse, da queste pagine tanto riservate quanto spudorate.

E che il corpo venga lasciato al morso delle formiche, che il corpo si dissemini nell’esistente, che sia bosco e sia mare e sia dimenticanza, perché «la vicinanza è una forma d’immortalità» e «gli amati non muoiono». Celani sembra dunque concludere il suo canto, doloroso e concreto e luminoso come una scaglia di cemento toccata dalla luce di una stella, con la scoperta – stupefatta e meravigliosa – che chi è amato non vive nei ricordi, vive nel corpo stesso di chi lo ama.

 

Trova nei libri parole da poco
gelsomino anima e dolore
Ai bambini dirai
queste sono lucciole
nella fresca notte del tempo
Sapranno che è segno di andare
saprà il te perduto nella luce
che vicino è il ritorno

 

*

 

Tieni fra i denti la parola morte
come un fiore di oleandro
Sdràiati nella polvere
salgono gli antenati sui fianchi
essi vivono nelle schiere degli insetti
non puoi sapere dove
se il ragno la formica o l’ape
Porgi il polso viola di sudore al loro morso
è lì che germoglia il tempo e rifiorisce
Così ci videro in un giorno di luglio
congiunti nella carne e noi
puro desiderio
Eccomi pronto al mio viaggio
alle cicale affido i linguaggi
le parole e i nomi
alle formiche laboriose
il corpo

 

*

 

Ricordi i giorni spesi
a far niente senza colpa
i paradisi perduti
ancora prima d’esser presi?
Ed ora tocca a noi
col tempo che svanisce
e la voce fatta impura
togliere la mano e fare una figura
l’uno dell’altra
immobile silente
addormentata cura

 

*

 

Alessandro CelaniApocalisse e altre visioni, Aguaplano, Perugia 2021

 

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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