Articolo precedente
Articolo successivo

I viaggi di Ulisse – 2

Giuseppe Maria Iacovelli*

 

«Ripartimmo il giorno dopo, appena fatto rifornimento. La rotta per la nostra amata isola passava però da un luogo di cui avevo sentito parlare, le Terre Nere, e volli vederle con i miei occhi. Il nome non è un eufemismo: il mare che circonda l’arcipelago è una distesa di petrolio, dovuto in parte a perdite accidentali di petroliere e piattaforme, in parte a fuoriuscite di stabilimenti estrattivi dei dintorni, che non rispettano alcun criterio di sicurezza. Non vi sono animali che abitino quelle terre, né pesci in un mare che non è più mare, né uccelli in un cielo completamente impregnato di idrocarburi e sostanze nocive. Terribile era il tanfo che la superficie liquida esalava, tutti dovemmo mettere un panno davanti al viso; ma era nulla, meno di nulla a confronto di quel che aspettava i nostri occhi.

«La massa nera non soltanto circondava i dintorni, ma a causa della diversa densità, che creava una sorta di movimento a ondate, era riuscita a spingersi sulla terra, era avanzata gradualmente ma inarrestabilmente sulle spiagge, uccidendone tutti gli animali, e continuava a sommergere gli spazi dove un tempo sorgevano i villaggi, i campi che le popolazioni coltivavano o usavano come pascolo, le foreste che circondavano i villaggi e ricoprivano gran parte delle isole in agonia. Questo rimane oggi, una parte di quelle bellissime foreste ricche di alberi straordinari e piante rigogliose mai viste altrove, liane e arbusti che ormai si stringono l’un l’altro per paura, giacché il petrolio non smetterà mai di avanzare, e prima o poi spargerà il suo buio colore su ogni spazio ancora verde.

«Eravamo testimoni impotenti di una tragedia indescrivibile, che strappò lacrime di dolore e attonimento a uomini che credevano di aver conosciuto ogni specie di nefandezza. Ma niente di quanto vedemmo nelle nostre peripezie poteva paragonarsi a quello spettacolo: in basso un flusso nero, che sembrava pulsare di vita propria, in alto un mondo ancora vivo ma mortalmente assediato. Moriranno tutti gli alberi, i fiori, i pochi animali che ancora riescono a sopravvivere nei boschi, un habitat unico al mondo che sembrava creato dagli dèi per abitarvi e trascorrere il tempo nel piacere, o per accogliervi i più fortunati fra i mortali.

«E quando le isole moribonde saranno sommerse, anche la memoria di ciò che per tanto tempo furono, svanirà; gli uomini che verranno vedranno soltanto un obbrobrio, diranno che quel luogo era maledetto dagli dèi, e troveranno per esso un nome odioso. Così la parola, invece di salvare i fenomeni e garantire la libertà del pensare, confermerà la forza cieca degli atti.

«Proseguimmo come ci aveva indicato il trafficante di armi, sperando di trovare tempo propizio, ma anche questa volta restammo delusi. Una tempesta furiosa, non insolita per la stagione, ci sorprese e spinse le nostre navi completamente fuori rotta. Vagammo settimane prima di avvistare terra, un luogo che non avremmo mai voluto vedere. Nessuno di noi aveva idea della sua esistenza, perché, come poi venimmo a sapere, i suoi costruttori intesero mantenerlo segreto. Scendemmo in spiaggia io e alcuni compagni; eravamo armati, ma che valgono le armi contro ciò che risveglia la paura ancestrale che giace in fondo al cuore umano?

«D’un tratto ci trovammo accerchiati da creature che credevamo esistere solo nella fantasia dei poeti, che la lingua umana non permette di chiamare: uno aveva quattro braccia, un altro due corpi su un torso, un altro era squamoso come un serpente e strisciava senza gambe, un terzo aveva braccia e mani come quelle di un enorme granchio, l’ultimo aveva testa, ali ed estremità simili a un uccello rapace; non appena ci catturarono, l’uomo-uccello volò rapidissimo a informarne i mandanti. Costoro ci attendevano nella sala centrale di una vasta costruzione che fungeva da laboratorio, dove, a compenso per la prigionia e la sorte che ci aspettava, ricevemmo spiegazioni esaurienti.

«“Nei Regni della Miseria e della Sciagura” dissero “sorgono molti laboratori come questo. Vi si svolgono esperimenti genetici e batteriologici proibiti dalle convenzioni internazionali: li finanziano i loro stessi sottoscrittori, impegnati in una gara segreta a perfezionare armi e tattiche alternative all’olocausto nucleare che minaccia pur sempre il mondo, ma che viene prudentemente tenuto come extrema ratio. Le creature che avete visto sono una sorta di supersoldati, ognuno dotato di una specifica abilità. Soltanto il loro apparire, lo avete sperimentato da voi, paralizza il nemico, che resterebbe comunque disorientato dalla tecnica d’assalto: buon per voi che non abbiate opposto resistenza, non sareste durati un minuto. Quando i vostri compagni verranno a cercarvi saranno catturati e potrete rivederli; ma siete destinati comunque a fare da cavia ai nostri esperimenti, come già i molti selvaggi che razziamo nelle terre vicine, o i rari stranieri che per disgrazia giungono qui, come voi”.

«Così restammo prigionieri per mesi, dividemmo con molti sciagurati il rigore della reclusione e il terrore di essere prelevati da un momento all’altro. Venni a sapere che molti degli esperimenti più audaci fallivano, e non oso immaginare lo strazio dei malcapitati. Udii tuttavia di altre ricerche condotte in quel luogo infernale: armi batteriologiche, mutazioni virali, sviluppo di patogeni letali, ma anche progetti di nuovi gas nervini, di sostanze da spargere nell’atmosfera o nelle falde acquifere, della creazione di insetti in grado di svolgere vere e proprie operazioni di guerra o sabotaggio con effetti devastanti, di ordigni che inducono terremoti, cataclismi climatici e altro ancora. Compresi con orrore il grado di sviluppo raggiunto dall’uomo, trasformare la natura in arma e annientare se stesso con lei. Per alcuni dei miei compagni giunse un’ora tremenda: vennero prelevati da quei mostri e sottoposti a esperimenti innominabili; di loro non seppi più nulla, e prego solo che abbiano sofferto il meno possibile.

«Accadde tuttavia quel che i nostri carnefici, prigionieri della loro stessa disumanità, non avevano previsto: il nostro spirito combattivo si trasmise a molti prigionieri, che si dimostrarono pronti a tentare il tutto per tutto, anche a rischiare la vita, pur di sottrarsi al giogo. Organizzammo una rivolta, la lunga pazienza e cautela furono ripagate, poiché riuscimmo a uccidere molti di quei mostri e a incendiare gran parte del laboratorio: ora i torturatori giacciono sotto le rovine del loro mattatoio. I prigionieri liberati costruirono imbarcazioni con cui guadagnare la patria; noi, ridotti a tre navi delle quattro salpate da Ilio, ripartimmo da quel luogo inumano, affranti dalle perdite ma anche sollevati per lo scampato pericolo.

«Dopo molti giorni di mare fummo in vista di una terra che, già in lontananza, appariva deserta e arida. La riconobbi presto, e ne parlai agli altri. Era chiamata in molti modi, la Terra della Pazzia, perché i suoi antichi abitanti avevano preso decisioni folli che ridussero il loro Paese a una landa screpolata, su cui non poteva crescere nulla, o la Terra della Punizione, perché le conseguenze di quelle scelte furono appunto una punizione terribile che condannò quegli uomini a sofferenze atroci e infine a emigrare, o anche la Terra della Vergogna, perché il suo misero aspetto faceva vergognare chiunque la vedesse, ma inorridiva anche il sole che ogni giorno la flagellava con i suoi raggi. E io pensavo si dovesse chiamare proprio così, la Terra Flagellata dal Sole.

«Ma una volta il sole era amico e alleato di questi luoghi, quando i suoi abitanti coltivavano il suolo con rispetto e vivevano dei suoi prodotti: allora il sole splendeva come oggi, ma su un terreno curato che donava abbondanti raccolti, anche tre volte l’anno, assicurando riserve di cibo e surplus per gli scambi. I compagni mi chiesero cosa fosse successo. Non lo sapevo con esattezza, ma potevo immaginare la dinamica dei fatti. L’accumulo di ricchezza dovuto a una fiorente agricoltura favorì il passaggio ad attività di tipo manifatturiero e industriale, che assunsero dimensioni sempre maggiori e innescarono processi trasformativi sia del corpo sociale sia dei costumi e della mentalità. Lo sviluppo progressivo dei mezzi produttivi divenne il vero elemento trainante della vita collettiva, la società cessò di essere il luogo di interazione di forze in equilibrio per diventare la coda di una cometa impazzita che puntava tutto sul progresso tecnico e il concomitante potere economico.

«Così anche l’agricoltura, ormai non più base dell’alimentazione e degli scambi, venne integrata nella produttività scatenata, si adattò a criteri impropri di sfruttamento che favorivano piuttosto i meccanismi del produrre che non il prodotto, sempre più visto nel suo mero controvalore economico; ciò ebbe un costo di cui la società, accecata dalle forme esteriori del benessere e stordita dai suoi infaticabili cantori, non si avvide: il terreno si esaurì, danneggiato anche dall’inquinamento dovuto allo sviluppo, si dovettero importare alimentari dall’estero, cosa che ebbe conseguenze non solo nella struttura economica ma anche in politica. Un tragico paradosso del progresso fu di aumentare la ricchezza circolante nel Paese ma impoverendo strati sociali sempre più vasti, che di fatto restavano esclusi da meccanismi basati su competenze specialistiche e per di più privi di indotto; ciò accrebbe l’esclusione economica e politica, trasformò lo svago in una forma di vita e restrinse il potere decisionale a poche elite, col risultato di accentuare i processi in corso.

«La terra, maltrattata e poi trascurata, subì l’offesa del sole e di condizioni climatiche in via di mutamento: venne punita con desertificazione e siccità senza che avesse colpe, e senza che vi fossero rimedi. Ma finalmente i veri colpevoli furono raggiunti dal castigo. Capirono troppo tardi che non potevano più vivere in una terra arida e improduttiva, e che il progresso cui si erano fiduciosamente abbandonati era stato un’illusione: dovettero emigrare, chi in Paesi vicini chi molto lontano, i pochi benestanti vennero accolti con favore, poiché denaro e sapere non hanno identità, mentre i molti poveri si mescolarono ai poveri, suscitando malumori e contrasti, da cui politici e altri parassiti trassero vantaggio. Di tanta prosperità non resta che un terreno arido e sgretolato, monito pauroso per chiunque antepone il profitto all’umano.

«Navigammo settimane lungo una rotta incerta, fra tempeste che ci disorientavano e bonacce che ci esaurivano, così fummo lieti di avvistare un luogo dall’ampia spiaggia, dove si trovavano edifici vari e molti approdi. Non sembrava pericoloso, alcune piccole imbarcazioni venivano allestite e messe in mare, a prima vista sovraccariche di persone: doveva essere povera gente, pensai, possiamo scendere a terra e trattare. Parlando con alcuni pescatori scoprii che la tranquilla normalità di quel luogo celava una delle piaghe più vergognose dei nostri tempi, la tratta degli esseri umani.

«Le imbarcazioni che vedevo salpare erano cariche di migranti venuti da ogni dove e diretti verso i Paesi del benessere; partivano con ogni tempo o stagione affidandosi alla fortuna, uomini, donne e bambini speranzosi di ottenere un briciolo di quell’opulenza che oggi è la massima aspirazione sulla terra. Gran parte di essi riesce a raggiungere una meta fra quelle agognate, e dopo molte difficoltà si inserisce nel nuovo tessuto sociale e lavorativo, con l’intento di consolidare la propria posizione e garantire ai figli un futuro migliore. E costoro possono reputarsi fortunati e prediletti dagli dèi.

«Non sono pochi infatti quelli che una fine orribile aspetta durante la traversata: anche una piccola tempesta o il freddo prolungato bastano a trasformare quegli esili gusci in bare galleggianti. Nessuno conosce con esattezza il numero dei morti, perché il mare non sempre è disposto a restituire le sue vittime, né ci si premura di contarli alla partenza: proprio questa rappresenta per quei poveri disgraziati il momento della liberazione. Ciò che hanno passato fino al momento di imbarcarsi fa desiderare loro la pur pericolosa traversata come la cosa più preziosa. Questa fu la parte più interessante del racconto dei pescatori, giacché anch’io ne sapevo pochissimo.

«La maggior parte dei migranti proviene dall’interno, che è molto esteso, oppure da Paesi assai distanti; non sono tutti poveri, in patria avevano un’attività, ma un insieme di circostanze li ha spinti a emigrare. A eventi irreparabili, come la desertificazione che sta divorando moltissimi territori cacciandone gli abitanti, si aggiungono il malgoverno per lo più intenzionale di un establishment diviso in fazioni e manovrato da Potenze straniere a proprio vantaggio, il duplice cappio del debito estero e degli aiuti internazionali, messi a punto per mantenere i beneficiati in uno stato di sottosviluppo, i risultanti malessere e tensioni sociali, spesso aggravati da contrasti etnici e religiosi, non di rado uno stato fluido di guerra alimentato dall’esterno e caratterizzato dall’assenza di veri obiettivi strategici che non siano il mantenimento di un caos autodistruttivo utile a quei pochi che lo manovrano.

«Milioni di persone che hanno perso tutto raccolgono i loro risparmi e fuggono; molti non si allontanano da casa, sperano in un prossimo normalizzarsi delle cose e si arrangiano in Paesi limitrofi, una parte invece si mette in viaggio verso i paradisi della ricchezza e del consumismo, e per raggiungerli sono disposti ad affrontare un inferno. Il viaggio infatti, lungo e pericoloso di per sé, si svolge su rotte controllate da gruppi criminali che fanno capo ai governi locali: questi incoraggiano l’emigrazione di strati sociali che arricchirebbero un Paese funzionante, ma che in quello sfacelo pilotato sono un inutile surplus e una fonte di scontento, inoltre, permettendo ai loro accoliti di taglieggiare i profughi, ci guadagnano in consenso e forza.

«E proprio i momenti di rapina costituiscono le vere tappe di un percorso che gli aguzzini impongono alle vittime: dalla partenza fin quasi allo sbarco nessuno si sottrae a minacce, violenze, angherie di ogni genere; chi non può pagare viene segregato e fatto segno a soprusi finché la famiglia non spedisce il riscatto, e non una volta sola, poiché molti sono i territori e gli Stati che i fuggitivi attraversano: e come una rete interstatale si estende il turpe sistema dell’estorsione, che alimenta sia gruppi politici parassitari sia un’ampia sfera criminale che spinge le sue radici fino alla guerra. Ma una volta inseriti nei Paesi ricchi, gli ex-migranti inviano nei luoghi d’origine parte dei loro guadagni sotto forma di rimesse: per colmo d’ironia contribuiscono al bilancio di una patria che non ha esitato a scacciarli, e che dall’iniquità continua a trarre profitto.

«Questo fu il racconto dei pescatori, che infine mi indicarono alcuni edifici fra quelli che avevamo visto, e ci dissero che erano campi di prigionia per fuggiaschi in attesa dell’imbarco; lì dentro si consumavano crimini efferati, solo gli ultimi di una lunga serie, nella complice indifferenza delle autorità locali, corrotte fino al midollo e niente affatto propense a far cessare la tratta dei migranti, per vantaggio sia personale sia politico: nel sistema della globalizzazione i diseredati diventano un’utile arma umana, una massa ad alto impatto da usare contro i propri amici per acquisire peso geopolitico e ottenere maggior considerazione.

«Ripartimmo in fretta, dopo aver fatto rifornimento, diretti verso l’isola che tutti sospiravamo, ma gli dèi avevano ancora sorprese in serbo per noi, sorprese assai più amare di quello che già avevamo patito. Navigando lungo una costa in cerca di approdo vedemmo da lontano un gruppo di donne e ragazzi che tentavano in tutti i modi di attirare la nostra attenzione, come se cercassero disperatamente aiuto. Nessuno sospettò la trappola. Quando ci avvicinammo fummo attaccati da molti barchini che sbucavano rapidi da ogni parte, e la sorpresa favorì gli assalitori, che riuscirono a uccidere molti prodi compagni; gli altri, me compreso, caddero prigionieri. Ci portarono in un luogo segreto della foresta, lontano da villaggi e strade, il quartier generale di un famigerato gruppo di terroristi, noti per il fanatismo religioso e la ferocia.

«Reagirono con compiaciuta sorpresa all’udire che eravamo Greci. “Non abbiamo mai avuto rapporti col vostro Paese” disse il loro capo con un ghigno “sarete voi a inaugurarli tornando in patria come nostri ambasciatori. Infatti ho intenzione di rimandare a casa” proseguì fra le allarmanti risa dei compagni “la metà di voi: ma i fortunati testimonieranno il nostro potere mostrando per sempre le mutilazioni subite”. Gli chiesi perché rinunciasse a un riscatto cospicuo, e perché seminasse tanta crudeltà. Mi rispose: “Un nume ti ha suggerito la parola giusta, uomo di Grecia. Noi siamo seminatori, seminiamo violenza e morte, ma non agiamo per pura crudeltà, come i mostri della tua mitologia; la violenza moderna ha poco di istinto e molto di calcolo, assume già in partenza una certa forma per adeguarsi all’amplificazione dell’apparato mediatico, al quale è predestinata.

«I massacri e le mutilazioni che ci hanno reso celebri come un gruppo musicale, sono la prosecuzione della politica in questi infelici paraggi. Il loro scopo è politico, suscitare tensioni internazionali e pressioni a molti livelli, sfruttando principalmente la ribalta dei vostri media: questi trasformeranno anche le notizie più raccapriccianti in prodotti di consumo, overdosi emotive che scoraggiano la riflessione e inducono assuefazione all’invalso. I malcapitati come voi, non ho bisogno di dirlo, sono semplice materia prima. Ma anche il fanatismo che ostentiamo è strumentale: la truppa crede a quel coacervo di formule imbastito per i semplici, ne traggono la furia necessaria ai nostri scopi, mentre i dirigenti vedono oltre l’immediato, sanno bene dove sfocia il fiume di sangue di cui noi formiamo la sorgente.

«I Regni della Miseria e della Sciagura non sono mai stati tanto utili ai Paesi del benessere come oggi: questi ne ricavano ricchezze materiali, forza lavoro, ritorno d’immagine e strumenti di pressione, i pilastri di quella gigantesca interazione che chiamate globalizzazione, e che altro non è se non una variante dell’eterna politica di potenza. Dovrei chiedere un riscatto per voi? Ma percepisco già un lauto stipendio, e siete proprio voi a pagarlo!”. Diede ordine di condurci al luogo delle esecuzioni, una vasta radura costellata dei simboli abusati della loro fede. Vidi molte donne e bambini, fiere le une di uno status subalterno, iniziati gli altri in tenera età a una vita disumana, tutti ingranaggi inconsapevoli di un sistema insensato. Assistetti impotente all’uccisione dei miei prodi compagni, che ben altro destino avrebbero meritato e che nulla, neanche le acque del Lete, potranno cancellare dal mio cuore, e mi preparai a subire con gli altri le mutilazioni.

«Ma i numi non si erano dimenticati di noi, o credettero che la misura del dolore fosse colma: in quel momento irruppe una pattuglia delle forze locali, che fermò il truculento rituale e impegnò i terroristi in combattimento, dandoci un’insperata occasione di fuga. Tornammo alla nave, giacché una sola, dopo tanti disastri, ci rimaneva delle quattro che lasciarono Ilio, ma nemmeno quella era destinata a toccare la sacra Itaca. Dopo alcuni giorni di mare una tempesta terribile, la più violenta fra le molte che pure vedemmo, affondò l’ultima casa che ebbi in comune con i cari compagni: il mare, nemico giurato degli Achei, si prese uomini che non temettero mai di seguirmi, uomini ai quali non temetti mai di affidare la mia vita o l’esito di un’impresa. Ma non volle me, rifiutò il loro capo, l’unico responsabile della sorte comune, mi lasciò aggrappato a un albero della nave e mi condusse qui, misero avanzo di un’armata eletta, nell’isola beata dei Feaci: io fui destinato a raccontare l’accaduto, voi, o alti ospiti, ad ascoltare».

26Qui Ulisse pose fine al suo lungo racconto. La grande sala del palazzo di Alcinoo risuonava ora di un silenzio ben diverso dal precedente, un silenzio imbarazzato, perfino ostile; e già prima di terminare la sua straordinaria storia, l’acuto laerziade aveva avvertito un crescente disagio nell’uditorio. Non si era ingannato; i principi dei Feaci non erano lieti per quel che avevano udito, e non riuscivano più a nascondere la loro insofferenza.

Fu di nuovo Alcinoo a prendere la parola e a esternare il pensiero di tutti: «Gli dèi, o illustre re di Itaca, hanno voluto farti protagonista e testimone di una storia che non ha eguali, e noi siamo consapevoli del privilegio di averla ascoltata dalla tua bocca. Ma i contenuti di quella storia, il suo senso, non è quello che il nostro orecchio si aspettava. Credevamo che narrassi eventi simili a quelli che abbiamo udito dal nostro cantore, storie di grandi battaglie, eroici assedi, imprese d’armi, tutte nel registro dell’epica, che sa deliziare il bisogno di evasione dei nostri pari.

«Tu hai fatto qualcosa di completamente diverso, che solo in nome della tua fama è stato tollerato: hai raccontato in modo dialettico, mostrando i nessi fra dimensioni lontane e in apparenza estranee fra loro, svelando la falsità del narrare odierno, che riduce i suoi temi a innocui passatempi, e confutando la buona coscienza di chi vive nel privilegio e nel benessere. Hai mantenuto la tua parola, figlio di Laerte, poiché non hai risparmiato di ragionare. Abbiamo imparato come funziona il meccanismo che regge il mondo, quale sia la natura dei rapporti fra popoli e potere, ben oltre i grati ritornelli dell’apologia, e quanto sangue e iniquità si celino dietro l’indegna gioia di pochi, ai quali noi stessi apparteniamo.

«E, a ben considerare, la lezione più profonda del tuo racconto affiora forse più di quanto tu non abbia voluto, mi riferisco alla interconnessione generale dei fatti: anche quelli più diversi o lontani fra loro sono in realtà frutto di una stessa logica che tutti li inanella, quella che spiega l’assetto complessivo del mondo e si prolunga nel nostro vivere quotidiano, finanche nei suoi aspetti più umili e spontanei. Questi ultimi anzi presuppongono il grande lato in ombra delle cose, sono il suo rovescio necessario come esso è il loro.

«Abbiamo imparato, grazie a te, che non si possono raccontare avvenimenti isolati, perché significa solo affidarli a una ricezione emotiva e caduca, la stessa su cui contano i produttori di menzogne al fine di mantenere l’invalso; abbiamo imparato che l’unico modo di comprendere un evento è il comprenderli tutti. Ci hai costretto ad ascoltare quello che nessuno vorrebbe udire, e che pochi, uditolo, crederebbero – nessuno avrebbe potuto osare tanto all’infuori di te! E credimi, prode fra i prodi, alle imprese narrate puoi aggiungere anche questa, che ad esse, quanto a coraggio e valore, è di poco inferiore.

«Ma la novità di oggi non avrà seguito: domani sarai accompagnato a Itaca da una delle nostre navi, provvisto di doni adeguati al tuo rango, mentre noi torneremo a svagarci al dolce canto di Demodoco».

 

 

*Giuseppe Maria Iacovelli,  “I viaggi di Ulisse”, Racconti e favole. C’era una volta il mondo d’oggi, Napoli, Guida, 2021, pp. 479-506.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Oh my bike! Ruote, caucciù e colonie

Come per incanto le ruote delle biciclette dischiudono il sipario degli imperi coloniali.

Per una critica delle evidenze: il femminismo materialista di Christine Delphy

di Marcella Farioli È stato tradotto di recente da Deborah Ardilli il volume di Christine Delphy, L'ennemi principal. 1. Économie...

Belfast città divisa

di Jamila Mascat
Li chiamano muri della pace (peace walls o peace lines), perché quando vennero eretti dall’esercito britannico dopo gli scontri dell’agosto 1969 che inaugurarono i troubles tra unionisti protestanti filo-britannici e repubblicani...

Un corpo che si chiama desiderio. Wittig ritradotta

di Jamila Mascat
VandA ha recentemente ripubblicato Il corpo lesbico di Monique Wittig nella traduzione di Deborah Ardilli, che ne ha anche curato l'introduzione. Qui di seguito l'incipit dell'introduzione e del libro.

Aspettando Pasolini a Ouarzazate

di Jamila Mascat
A duecento chilometri a sud-est di Marrakech - duecento lunghi chilometri che attraversano le montagne dell’Atlante centrale d’inverno ricoperte di neve – si trova Ouarzazate, capoluogo dell’omonima...

Il disagio della decolonizzazione. Intervista a Wayne Modest

di Jamila Mascat
Giamaicano d’origine, olandese d’adozione, Wayne Modest è docente di Critical Heritage Studies alla Vrije Universiteit di Amsterdam e direttore del Nationaal Museum der Wereldculturen, un complesso che...
jamila mascat
jamila mascat
Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: