Dare figura alle cose. I disegni di Lorenzo Mattotti

di Daniele Barbieri

Quando diamo un nome alle cose aumentiamo il nostro controllo su di loro, o almeno la nostra sensazione di controllo. Finché non ha nome, un asfodelo è un’erba come un’altra; anche se magari ho imparato ugualmente a distinguerla, e pure ne ho appreso alcune proprietà alimentari. Ma è l’avere un nome che la rende davvero qualcosa che io controllo: la pianta è una cosa di natura, il nome è una cosa umana, mia e scambiabile. Quando quel nome può essere inserito in una sequenza di parole governata da consuetudini grammaticali (quantomai umane, perché quelle davvero non hanno un corrispondente diretto in natura) può essere articolato in racconto, il quale è un’ulteriore, notevole, acquisizione di controllo, perché il racconto istituisce dei nessi, umani, tra gli eventi del mondo: così noi possiamo pretendere di conoscerli, e in qualche modo, almeno un poco, di dominarli.

Se poi la sequenza di parole si articola in argomenti, in dimostrazioni, è nata la ragione, lo strumento di controllo del mondo più potente che abbiamo. La ragione può mettere in piedi la scienza, che organizza il mondo secondo categorie razionali, quindi di linguaggio, quindi umane. Quando l’asfodelo si trasforma in asphodelus ramosus, il controllo sul mondo, grazie al semplice nome, è diventato enorme: là dove il nome comune nomina una cosa tra le altre, quello scientifico evoca l’appartenenza a una tassonomia, e la tassonomia evoca a sua volta un’intera disciplina che organizza razionalmente il sapere.

Questo meccanismo favoloso, che ci ha reso quello che siamo, ha però un prezzo. A mano a mano che la parola specializza il proprio controllo sul mondo, e l’uomo aumenta il proprio potere e le proprie possibilità di sopravvivenza, sempre più perde una dimensione di sintonia, di contatto, di Stimmung nei confronti di ciò che gli sta attorno, natura e cultura compresi. Ci sentiamo di colpo soli, potenti ma soli. La dialettica tra controllo e sintonia caratterizza dunque tutte le culture umane, ma diventa particolarmente acuta in quelle, come la nostra, in cui il controllo razionale è ormai vincente e pervasivo. I movimenti ambientalisti, animalisti, o anche solo la necessità di fare una gita in campagna, non nascono in una cultura sostanzialmente agricola, come è stata la nostra fino a qualche secolo fa.

Senza arrivare a questi estremi, credo che la poesia sia nata, già agli albori della storia della parola, per riportare la sintonia nella parola senza perderne davvero i vantaggi. Attraverso la poesia, la parola non perde la propria umanità, ma acquisisce un sovrappiù di naturalità, di sintonia con i flussi del mondo. Attraverso la poesia, io posso, almeno per qualche momento, sentire di avere il controllo del mondo senza perdere la sintonia con esso: i metri, i ritmi, le rime e tutti i fenomeni fonetici e prosodici, ma anche quelli di ricorrenza semantica, che caratterizzano la poesia, per quanto a loro volta umani, non richiedono comprensione (specie nel loro rapporto con la parola) ma semplice sintonizzazione, come quando si balla. E, come quando si balla, questa sintonizzazione avvicina tutti i lettori/ascoltatori, e li avvicina anche ad altri ritmi, magari naturali.

Naturalmente, non è la poesia l’unica strategia di sintesi tra comprensione e sintonizzazione, e non è ormai solo la parola a poter costruire discorsi, e quindi controllo del mondo. Una volta che il racconto è nato, le immagini hanno imparato a evocarlo, a ricostruirlo nei propri termini. L’invenzione della geometria ha potuto sovrapporre uno spazio umano, razionalmente controllato, allo spazio del mondo. La combinazione delle due tecniche nell’invenzione della prospettiva rinascimentale ha costituito un progresso straordinario non solo nella storia dell’arte, ma nella storia della conoscenza e della stessa futura scienza. Alla fine di questo processo, l’immagine finisce per essere uno strumento di controllo narrativo o razionale del mondo, potente quasi quanto la parola, benché differente.

Di conseguenza, il bisogno di ripercepire la sintonia con il mondo ha caratterizzato anche la dimensione visiva, e tutta la nostra storia dell’arte ci mostra le variazioni su questo intreccio straordinario di controllo e sintonizzazione.

Sono stimolato a queste riflessioni dalla visione di un volume di disegni di Lorenzo Mattotti, Città, incroci, amori e tradimenti (Logos 2022). Per una prima, lunga parte, i disegni rappresentano una coppia di amanti (tema già più volte percorso da Mattotti), poi appare la performance musicale, e la città, e poi la danza, agitata, sfrenata, sino a trasformarsi in una serie di risse, e poi di litigi, di angosce, di solitudini, di visioni naturali; poi c’è una serie di ritratti, e alla fine di nuovo gli amanti, ma come nel momento della reciproca scoperta, magari immersi nella città.

Le immagini non sono ordinate narrativamente; nessuna storia le attraversa, se non allusivamente, come si può capire dalla descrizione che ne ho dato. Ciascuna di loro, tuttavia, racconta molto intensamente un momento di una storia, che possiamo molto facilmente riconoscere (anche solo, al limite, dalle mie sommarie descrizioni tematiche). Ma i medesimi temi ricorrono più volte, alcuni moltissime volte. Forse la storia che vi appare è grosso modo la stessa, ma le immagini sono diverse, talora diversissime: a volte sono differenze di tecnica, di colori; altre volte solo differenze di inquadratura. Il racconto è dunque rilevante, certo, ma è ben lontano dall’esaurire le ragioni di interesse.

Poi ci sono le geometrie. Non sono solo le linee, implicite o esplicite, di assonometria e prospettiva, in quanto principi grafici di organizzazione del mondo. È, semmai, che in Mattotti continuamente le linee che costruiscono le figure sembrano rimandare a un’organizzazione geometrica del piano, a una ripartizione razionale dello spazio (benché comunque complessa, non regolare).

Sin qui, il disegno di Mattotti sembra davvero evocare uno straordinario controllo sul mondo, e certamente questo controllo lo possiede. La situazione narrativa, la tecnica dei pennini, dei pennelli, delle matite, con una scelta antinaturalistica dei colori, e infine la geometria: tutto quanto di più umano, controllante, ammirevolmente cognitivo si possa immaginare. Tanto più che la complessità con cui questi elementi vengono messi in gioco è a sua volta ammirevole. Le immagini di questo libro sono altrettanti capolavori strutturali, altrettante umanizzazioni cognitive del mondo.

Ma se si fermassero a questo, le sentiremmo fredde quanto una formula, espressive quanto un solido platonico. Il fatto è che, proprio come accade in poesia, dove l’accostamento di due organizzazioni diverse, come il discorso verbale e l’organizzazione formale, produce singolari e affascinanti potenzialità di sintonizzazione, anche qui il racconto visivo si trova a interagire in maniera inquietante con la ricostruzione grafica e geometrica del mondo. Una dopo l’altra le figure vibrano, ci impongono una sintonia, una compartecipazione intensa.

Ma poiché un tema narrativo è presente in ciascuna di queste immagini, questa sintonizzazione ci conduce quasi a immergerci in loro, a convivere con le emozioni, che non sono più soltanto mostrate o raccontate (anzi, in verità, non sono affatto mostrate, e di conseguenza nemmeno raccontate) ma diventano intensamente vissute. Come in una straordinaria raccolta di poesie, la sequenza di disegni di Mattotti ci porta a vivere con intensità tutta una serie di emozioni, tenere, violente, sfrenate, contemplative, incerte.

Descrivere le cose, attraverso i nomi o i disegni, aumenta certamente il controllo che abbiamo su di loro, ma è qualcosa diverso dal viverle; anche e soprattutto quando le cose descritte sono emozioni. Fare arte è invece utilizzare questo spazio umano del controllo (la parola, il racconto, l’argomentazione, ma anche le regole metriche, il disegno, le geometrie…) per ritrovare la sintonizzazione senza perdersi nella natura (ovvero disfarsi, morire). L’artificio non è meno importante del suo superamento, né viceversa: in questa dialettica sta il senso di ciò che percepiamo come bello.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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