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“Lo spostamento verso il rosso” di Aleksandr Skidan #3

Mark Rothko, “Light red over dark red”

 

 

[Questa è la terza e ultima parte del componimento Lo spostamento verso il rosso di Aleksandr Skidan, tradotto da Elisa Baglioni. Qui la prima e la seconda parte. ot]

di Aleksandr Skidan
a cura di Elisa Baglioni

Ol’ga Egorova detta l’Airone, Museo Blok, fiume Prjažka.[1]

E ancor prima interminabili conversazioni telefoniche.

Dopo l’anfetamina V. crolla dal sonno.
Olga si prepara, sembra proprio che stia uscendo di casa, ma all’ultimo ci ripensa.

Al terzo tentativo Kirill è ancora lì a convincerla.

“Determinazione del numero di Blok”.[2]

Conduce la visita una signora in là con gli anni che indossa pantaloni chiari e una camicetta turchese. Parla con un filo di voce, come in chiesa. Nella camera da letto, a occhi bassi, dopo una pausa ci informa che “sono state scritte molte stupidaggini” sul rapporto tra Blok e sua moglie Ljubov’ Mendeleeva.

I mondi violetti della carta da parati.

La rosa e la croce.

Alla finestra il cantiere navale.

Kirill non ce la fa più e scende di sotto.

(anche nel 1981 (il museo era stato inaugurato da poco) la guida portava qualcosa di turchese, mi pare un vestito attillato. Ma era molto più giovane e alta: una creatura celestiale, con una pelle che lasciava trasparire il sangue delle vene.)

Fuori il sole abbacina ancora.

Al museo è come se facessero un voto di castità. A un grado più alto di dedizione alcune smettono di avere il flusso mestruale e solo allora possono accedere al vero culto. Imparano a poco a poco a levitare. A occhi chiusi entrano nei templi bui della sua anima. I gradi sono in tutto dodici. Al decimo riescono a bloccare il respiro e prendono il nome di Sofia. All’undicesimo lui arriva e beve il loro sangue.

O meglio, sono loro che gli fanno una trasfusione di sangue.

La sbornia svanisce.

Andrej Belyj racconta di come Blok tornando dalle Isole vomitasse lungo tutto il corridoio, fatto che certamente ostacolava lui, Belyj, dal fermo proposito di dichiararsi a Ljubov’ Mendeleeva. Mi viene quasi da compatirlo. Sul serio, sei sul punto di dichiararti, quando arriva Blok dalle Isole in quello stato, che disastro.

E al dodicesimo?

Al dodicesimo cosa?

Grado. Dopo la trasfusione.

Si dirige a piedi verso Šuvalovo.[3]

Perché a Šuvalovo?

Perché lì più che in ogni altro luogo avverte l’arcana volgarità del mondo, che tanto amava.

Amava?

Quasi con la stessa intensità del tacco alla francese.
Immancabilmente pungente.

Nei musei aleggia sempre qualcosa di sepolcrale.

Di cosa è morto?

Di un esaurimento nervoso.

Povero.

Più tardi in un piccolo caffè sulla via Galernaja ci imbattiamo in Andrej Kljukanov che sta leggendo Il té nel deserto.

____________________

Sogno alla vigilia dell’arrivo di G.

Incontro A. in aeroporto e insieme andiamo in città.

Siamo spensierati, rasentiamo la follia.

Poi ci sediamo su una panchina vicino a uno stagno o a un fossato nel parco che allo stesso tempo sembra un giardinetto minuscolo all’angolo tra via Dostoevskaja e via Raz’ežja. A. è alla mia sinistra, alla mia destra c’è Vasja Kondrat’ev col chiodo, i pantaloni, le scarpe, tutto di nero. C’è qualcuno dietro di lui. Vasja cade di continuo in avanti, dondola la testa mentre si piega in due come il bambino di gommelastica [4] e a noi tocca riportare il suo corpo verso la spalliera della panchina, come fosse ubriaco o assopito.

Non si capisce come siamo arrivati qui.

Con la nuca avverto la prossimità della strada da cui ci separa un boschetto (evidentemente illusorio): non può continuare a lungo, bisogna fare qualcosa (intendo col corpo).

A un certo punto noto davanti a me un muro. Compare a poco a poco, quasi che la realtà stessa diventasse più vicina. È il muro della centrale telefonica. D’un tratto inizio a sentire il luogo familiare (fino ad allora eravamo in un luogo non-luogo).

Come se qualcuno avesse messo a fuoco l’obiettivo che uso per guardare.

Non sono spaventato, bisogna solamente raddrizzare V. di tanto in tanto.

Ora A.

Come sempre la sua apparizione è una felicità intollerabile. Credevo (tutti credevamo) che fossi morta, invece eri solo andata via. Per tanto tempo. Perché? Era necessario così. C’intendiamo senza parlare, solo con gli sguardi.

Adorazione.

Come se nell’atto stesso di toccarsi si nasconda la barriera.

Di nuovo, sembra che il sogno sfrutti quello che so a proprio vantaggio, dopotutto il mio sapere consiste in questo, che toccarsi è impossibile.

Ho in mano due cadaveri.

Desidero la resurrezione di A.?

A giudicare dall’insistenza con la quale torna da me, non ci sono dubbi.

Dunque desidero un miracolo?

Follia.

Eppure per questa follia, per questo miracolo esiste un “prototipo”.

Telefonata notturna di A. dall’America.

“Resta che l’organismo non vuole morire che a suo piacimento.

Non un po’ a suo piacimento, e un po’ a quello di un altro: soltanto al suo.”[5]

Un pensiero che non sono stato in grado di pronunciare ad alta voce.

(per un istante mi è sembrato di averla toccata).

2002-2003

______

N.d.T:

1 Ol’ga Egorova, detta Caplja (Airone), è un’artista, regista teatrale e performer di San Pietroburgo, membro nel gruppo Čto delat’, di cui fa parte anche Aleksandr Skidan, che riunisce intellettuali e artisti di sinistra.
2 «Determinazione del numero di Blok»: “Determinazione del numero di Blok nel contesto del numero generale della Letteratura russa come parte del numero generale mondiale” è il titolo della mostra dell’artista e poeta concettualista D.A. Prigov tenutasi al Museo Blok nel 2001.
3 «Šuvalovo»: territorio alla periferia di Pietroburgo frequentato da Blok durante i vagabondaggi notturni e fonte di ispirazione, con la sua atmosfera di negletti e indigenti, di alcune liriche, tra qui la Sconosciuta.
4«il bambino di gommelastica»: protagonista dell’opera eponima di Dimitrij V. Grigorovič, tradotto da Renato Fucini con il bambino di gommelastica e, nella più recente traduzione di M. Favilli, con il bambino di gomma. È un testo per l’infanzia nel quale si narrano le sventure della vita di Petja, bambino di gomma che si ritrova a lavorare come acrobata in un circo (D. V. Grigorovič, Il bambino di gomma, Quodlibet, Macerata, 2020).
5«Resta che l’organismo non vuole…»: la frase tra virgolette appartiene a Freud, che a sua volta viene citato da Derrida nel capitolo Corrieri della morte, in J. Derrida, La cartolina. Da Socrate a Freud e al di là, Milano, Mimesis, 2017, p. 322.

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1 commento

  1. “Il continuum della storia deve saltare in aria”: in effetti questa scrittura di montaggio, storia e allucinazione è davvero dirompente, bellissima

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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