Ovidio – Metamorfosi – Libro I

traduzione isometra di Daniele Ventre

LIBRO I

L’animo spinge a narrare di forme che in corpi diversi
mutano; questa mia impresa, poiché foste voi a mutarle,
voi sostenetela, dèi, e dal primo inizio del mondo
riconducete continuo fin nella mia epoca il canto.
Prima che il mare e la terra e il cielo che copre ogni cosa
fossero, un unico volto ebbe in tutto il cosmo natura,
quello che dissero caos: una grezza massa indistinta
e nulla più che un gravame inerte e raccolte in un punto
le discordanti semenze degli esseri male aggregati.
No, non ancora sul mondo spandeva i suoi lumi un Titano,
né riparava i suoi corni una Febe nuova crescendo
e non pendeva la terra nell’aria diffusa all’intorno
equilibrata nei suoi gravami e nemmeno sul lungo
margine dei continenti stendeva le braccia Anfitrite;
anzi, per come era lì sia la terra e il mare sia il cielo,
era malferma la terra perciò, non guadabile l’onda,
priva di luce anche l’aria; a nulla restava una forma
sua, l’una all’altra poneva ostacolo, già, ché in un corpo
unico il freddo lottava col caldo e con l’umido il secco,
col duro il morbido e ciò che ha peso con quel che non pesa.
Questo conflitto fu un dio, migliore natura, a sedarlo.
Già, ché dal cielo le terre spartì, dalla terra poi l’onda,
scisse anche il limpido cielo dall’etere caliginoso.
Come spartì gli elementi e dal cieco ammasso li tolse,
postili in luoghi diversi, li avvinse a una pace concorde;
priva di peso la forza dell’etere cavo, infocata,
si sollevò, si creò nelle somme altezze il suo luogo;
resta per sua leggerezza e luogo a lei prossima l’aria;
d’esse più densa attirò grossolane essenze la terra
e dalla sua gravità fu compressa; invase le estreme
sponde accerchiandole l’acqua e serrò la solida sfera.
Come dispose così, chiunque egli fosse dei numi,
e ripartì la congerie e spartita in membra la avvinse,
sin dal principio alla terra, perché diseguale non fosse
in ogni parte, assegnò d’un’enorme sfera l’aspetto;
quindi ai marosi ordinò di spargersi, ai vènti d’alzarsi
rapidi, e di circondare e accerchiare coste di terre;
anche le fonti egli aggiunse e gli stagni immensi e poi i laghi,
quindi recinse di ripe contorte i ruscelli in declino,
quelli che in parte si assorbono in essa a seconda dei luoghi,
parte pervengono al mare e raccolti in una distesa
d’acqua più libera, battono a spiagge e non più contro ripe.
E le pianure le fece aprire e le valli abbassarsi,
boschi coprirsi di frondi, innalzarsi monti rocciosi;
come due fasce dal lato di destra e altrettante a sinistra
si ripartiscono il cielo e di esse è più ardente la quinta,
sì, così in numero uguale divise la massa ivi inclusa,
l’occhio del dio, e altrettante regioni hanno in terra uno spazio.
È inabitabile per la calura quella che è in mezzo;
due l’alta notte le occulta; piazzò fra le due altrettante
e diede loro equilibrio, frammistavi al gelo la fiamma.
Sopra di quelle sta l’aria, che è tanto più grave del fuoco,
quanto del peso di terra è più lieve il peso dell’acqua.
Anche le nebbie in quel luogo, in quel luogo ancora le nubi
volle fissare e quei tuoni che smuovono gli animi umani
e con i fulmini quelli che portano folgori, i vènti.
Il costruttore del mondo a questi non diede che sempre
imperversassero in aria: a forza ora a quelli si oppone,
per come ognuno dirige su vario tragitto il suo soffio,
che non dissolvano il mondo; tale è tra i fratelli contesa.
Euro si volge all’Aurora, ai domini dei Nabatei,
verso la Perside, ai gioghi esposti alla luce, al mattino;
vespro e le sponde che sono scaldate dal sole al tramonto
sono vicini di Zefiro; il cielo delle Orse e la Scizia
a dominarli fu Bòrea che abbrivida: per le continue
nubi e la pioggia la terra contraria è bagnata dall’Austro.
Sopra ogni cosa poggiò, luminoso, privo di peso,
l’etere, scevro com’è di qualunque scoria terrena.
Tutto egli aveva così già diviso in limiti certi,
quando le stelle che a lungo da oscura caligine oppresse
eran rimaste, ecco presero a splendere ovunque nel cielo;
e perché l’onda non fosse orbata dei propri viventi,
tennero gli astri e le forme di dèi la dimora celeste,
l’onde si aprirono a offrire una casa ai lucidi pesci,
belve ne accolse la terra e la mobile aria gli uccelli.
Altro più sacro animale, e più d’alto ingegno dotato,
non c’era ancora, un vivente che avesse dominio sugli altri:
l’uomo spuntò, o che l’avesse forgiato da un seme divino
quell’artigiano degli enti, principio d’un mondo migliore,
o che la terra recente, appena influenzata dall’alto
etere, avesse serbato i semi del cielo congiunto.
Terra frammista con acque piovane ne aveva plasmata
il figlio d’Iàpeto, a effigie dei numi che reggono il tutto;
mentre si volgono proni alla terra gli altri animali,
fece che il volto dell’uomo si alzasse e scrutasse nel cielo
e comandò che drizzasse lo sguardo a mirare le stelle.
Ecco, la terra, che rozza era stata e priva di volto,
si rivestì, tramutata, di nuove figure d’umani.
Aurea nacque per prima un’età che fede e giustizia
le venerò senza vindice o legge e per sua inclinazione.
Pena e paura non c’erano e non si leggevano in bronzo
fisso proclami a minaccia, né supplice folla temeva
labbra di giudici, senza mai vindice vissero in pace.
Dalle sue vette reciso a vedere mondi lontani,
pino non era disceso ancora nel limpido mare,
né conoscevano lido diverso dal proprio i mortali.
Fosse precipiti ancora non c’erano intorno alle rocche;
tromba di bronzo diritto o corna di bronzo ricurvo
non ne esistevano, o elmi o spade, e le genti sicure
senza bisogno di armati godevano placida pace.
Anche la terra, illibata, immune al rastrello, da sola,
non mutilata da vomere alcuno, arrecava ogni bene;
gli uomini, paghi dei cibi creatisi senza forzarla,
racimolavano i frutti dell’arbuto e fragole al monte
e le corniole e le more aderenti agli aspri roveti
e quelle ghiande cadute dall’albero grande di Giove.
La primavera era eterna, gli Zefiri dolci di brezze
calde blandivano fiori che nacquero senza alcun seme;
subito ancora la terra inarata offriva il frumento,
non rinnovato imbiondiva di gravide spighe il podere.
Fiumi di latte scorrevano e fiumi di nettare insieme
e gocciolavano biondi i mieli dal leccio in rigoglio.
Quando Saturno però fu mandato al Tartaro oscuro,
e sotto Giove fu il mondo, comparve la stirpe d’argento,
meno pregiata dell’oro, più bella del bronzo rossigno.
Giove contrasse gli spazi alla primavera ancestrale
ed attraverso gli inverni e i calori e gli iniqui autunni
e primavera fugace, forzò in quattro termini l’anno.
La prima volta ecco l’aria, bruciata da torridi ardori,
s’arroventò, poi la ghiaccia pendé condensata dai vènti;
la prima volta dimore si eressero: case le grotte
furono e fitti cespugli e verghe legate con fibre;
la prima volta sementi di Cerere in solchi prolissi
furono sparse e giovenchi gemerono oppressi dal giogo.
Poi subentrò, dopo quella, per terza una prole di bronzo,
fiera assai più di natura e più incline alle armi crudeli,
né tuttavia scellerata. Fu l’ultima ferro spietato.
Subito si scatenò nell’età di vena più vile
ogni empietà, ne fuggì pudicizia e il vero e la fede;
poi subentrarono in luogo di quelle le frodi e gli inganni
e le violenze e le insidie, la rea bramosia di possesso.
Vele spiegavano ai vènti, né bene in quel tempo il nocchiero
li conosceva; carene, che a lungo sulle alte montagne
si ersero, presero a correre a pelo di incogniti flutti;
e con un lungo confine sollecito l’agrimensore
segna la terra comune come aria e splendore di sole.
E non soltanto le messi e alimenti debiti al ricco
suolo venivano chiesti, in grembo alla terra si scese
e le ricchezze che aveva celate e nascoste fra l’ombre
stigie ne furono estratte, un’esca di scelleratezze.
Ecco che il ferro nefasto e l’oro più infausto del ferro
vengono fuori e ne nasce la guerra che d’ambi si sfrena
e che solleva con mano cruenta il clangore dell’armi.
Della rapina si vive né all’ospite l’ospite è fido
e non il genero al suocero, è raro anche il bene fraterno.
L’uomo prepara la morte alla moglie e questa al marito;
mescolano le matrigne spietate il tremendo aconito;
prima del tempo anche il figlio fa il conto degli anni del padre.
Giace sconfitta pietà, la Vergine, lei, fra i celesti
ultima, Astrea, si partì dalla terra intrisa di stragi.
A che del suolo non fosse più certo anche l’etere immenso,
dicono poi che i giganti minassero il regno celeste
e cumulassero i monti levandoli in alto alle stelle.
Ma il padre, l’onnipotente, infranse l’Olimpo scagliando
folgori, quindi riscosse il Pelio dall’Ossa al di sotto.
Come cedendo alla mole crollarono gli orridi corpi,
inumidita dal sangue profuso dei figli la terra,
dicono, venne pervasa, animò quel tiepido sangue
e perché poi rimanesse una traccia della sua stirpe,
lo tramutò nella specie degli uomini; tale semenza
disprezzatrice dei superi e fiera era anch’essa violenta,
tanto ebbe brama di strage: puoi intenderli nati dal sangue.
Come dall’alto ebbe vista ogni cosa, il padre Saturnio
si lamentò ripensando ai convivi orrendi del desco
di quel Licàone, non noti ancora, e da poco accaduti.
Ire tremende provò nell’animo, degne di Giove,
quindi raccolse il concilio. Né indugio fermò i radunati.
Passa sublime una via, palese nel cielo sereno,
lattea è il suo nome, ben nota qual è dal suo stesso candore.
Questo è il cammino dei superi al soglio del grande Tonante,
alla regale dimora; a destra e a sinistra le sale
delle gloriose deità si affollano, schiusi i battenti.
Abita il volgo distinto per luoghi; in quel soglio i celesti
sono padroni e superbi vi posero i loro penati.
Questa è la casa che se si concede audacia al mio dire
non temerei a chiamare la reggia del cielo spazioso.
Come si furono assisi i superi al trono di marmo,
egli in un luogo più alto, poggiando allo scettro d’avorio,
fece ondeggiare tre volte e quattro sul capo la chioma
terrificante, con cui muove il suolo il mare e le stelle.
Dunque con simili accenti spiegò la sua voce indignata:
“Per il dominio del mondo io non ho provato più angoscia
sin da quell’epoca in cui ciascuno dei piedi di serpe
si preparava a sferrare gli artigli sul cielo asservito.
Anche se poi quel nemico era truce, eppure da un solo
corpo e da un solo principio nasceva l’intero conflitto;
ora per tutte le terre a cui intorno Nèreo risuona
devo distruggere il seme mortale: io lo giuro sui flutti
inferi sotto la terra che scorrono il bosco di Stige!
Tutto ho dovuto provare, ma tanto è riottoso alla cura
che va reciso di spada, non leda la parte sincera.
Ho sotto me i semidei, ho le ninfe, rustici numi,
e così fauni e poi i satiri e ancora i montani silvani;
se non vogliamo degnarli ancora d’onore celeste,
diamo che tengano in pace le terre che abbiamo concesse.
Ma ritenete, o superni, che siano abbastanza al sicuro,
se contro me, che posseggo e dominio il fulmine e voi,
ha teso insidie Licaone, per sua crudeltà già famoso?”
Ebbero un fremito tutti e con insistente veemenza
chiesero chi poté tanto: così, quando sorse empia mano
contro il cesareo sangue a spegnere il nome di Roma,
dall’improvviso terrore di tanta rovina sgomento
il seme umano rimase e ne inorridì tutto il mondo;
né meno grato a te giunse, Augusto, l’affetto dei tuoi,
di quanto fu il loro a Giove. Appena con voce e con mano
ebbe calmato i clamori, mantennero tutti il silenzio.
Spento il clamore, sedato dal gesto imperioso del sire,
Giove riscosse il silenzio di nuovo con queste parole:
“Egli pagò la sua pena, non datevi questo pensiero;
vi svelerò a che si giunse e quale ne sia la vendetta.
Era venuta alle nostre orecchie l’infamia dei tempi;
desiderando smentirla, discendo dal sommo d’Olimpo
e sotto umana sembianza io, un nume, attraverso le terre.
Enumerare che grado di colpe abbia ovunque scoperto
è lungo indugio: la stessa infamia era meno del vero.
Ero passato oltre il Mènalo, orrendo di covi di belve,
quindi oltre i picchi del freddo Liceo, al di là del Cillene:
poi del tiranno d’Arcadia raggiungo le case, i palazzi
inospitali, allorché trae notte il crepuscolo tardo.
Diedi segnali che un dio giungeva e la folla si indusse
a venerarmi; deride Licàone prima i pii voti,
quindi proclama: “Con netto discrimine voglio provarlo,
se è dio o mortale: né il vero sarà revocabile in dubbio”.
Medita di trucidarmi con morte improvvisa, di notte,
preso dal sonno; gli piace siffatta esperienza del vero;
poi, non contento di ciò, a un ostaggio che la molossa
stirpe gli aveva mandato, segò con la spada la gola,
subito quindi bollì semivive in acqua le membra,
parte; altra parte però ne arrostì ponendola al fuoco.
Quando me n’apparecchiò la mensa, io con vindice vampa
scaraventai sul padrone il palazzo, degni penati;
egli atterrito ne fugge, venuto ai silenzi dei campi
ulula, invano si sforza a parlare, ed ecco il suo volto
alla sua rabbia si impronta per brama d’eccidio consueto,
contro le greggi si volge e tuttora è sazio del sangue.
Gli si tramutano in velli i vestiti, in zampe le braccia
e si fa lupo, ma serba vestigio del vecchio sembiante;
resta la stessa canizie, la stessa violenza nel volto,
brillano identici gli occhi, è l’aspetto suo di ferocia.
Solo una casa è caduta; non solo una casa era degna
d’essere estinta: aspra Erinni governa dovunque le terre.
Li crederesti votati al delitto! Paghino tutti
subito il fio come han già meritato (tale è il decreto)”.
Plaudono alcuni a gran voce al dire di Giove e all’irato
recano stimolo, gli altri si aggregano dando l’assenso.
Ma l’estinzione del seme umano procura dolore
a tutti quanti, si chiede che forma verrebbe alla terra,
se di mortali sia priva, chi mai coprirebbe di incensi
l’are, se intenda lasciare le terre a sbranarsi alle belve.
Questo si chiedono (avevano a cuore gli eventi a venire),
ma il re dei superi vieta tremare e promette una stirpe
da prodigiosa radice, diversa dal popolo antico.
Già si accingeva a incendiare di folgori tutta la terra;
ma paventò che da tutti quei fulmini l’etere sacro
fosse pervaso di fiamme e che l’asse immenso ne ardesse:
anche ricorda com’è destino che venga il momento
in cui la terra, in cui il mare e l’infranta reggia del cielo
si incedierà, soffrirà straziata la mole del mondo.
Sono riposti quei dardi che mano forgiò di Ciclopi:
piace una pena diversa: il seme mortale fra l’onde
perderlo, precipitare dall’etere tutto le nubi.
Prima di tutto rinchiude negli antri d’Eolia Aquilone
e così tutte le brezze che fugano nembi addensati,
poi sfrena il Noto. Ecco il Noto volare con ali piovorne,
cupo com’è di nerigna caligine il volto spietato,
grave di nembi la barba, scorre acqua ai capelli canuti,
siedono in fronte le nubi, gli inondano le ali e la faccia.
Come con mano robusta addensò le nubi incombenti,
nacque fragore: ecco densi dall’etere piombano i nembi.
Nunzia qual è di Giunone e cinta di vari colori,
Iride d’acqua si intride, alle nubi reca alimento.
Sono abbattute le messi, si perdono grazie implorate
dal contadino, il lavoro di tutto un lungo anno è per nulla.
Né del suo cielo contenta è l’ira di Giove e lo aiuta
anche il ceruleo fratello, con le onde prestate in ausilio.
Convoca i fiumi quel dio; entrati che furono in casa
del loro principe, questi esclamò: “D’un lungo discorso
ora non c’è più bisogno: sfrenate le vostre potenze;
questo bisogna! Schiudete le case e agitando la mole,
abbandonate del tutto le briglie alle vostre correnti!”
Sì, così ingiunge: essi partono e schiudono ai fonti le foci
e si rivolgono al mare con impeto senza più freno.
Egli batté di tridente la terra: ecco allora che questa
n’ebbe tremore e dischiuse le vie ai tumulti dell’acqua.
Corrono i fiumi in aperta campagna invadendo ogni spazio,
con i poderi gli arbusti e con i pastori le greggi
portano via, e le case e coi loro arredi i sacrari.
Se resisteva una casa e se intatta aveva potuto
reggere a tanta rovina, ecco un’onda, cresta più impervia,
a ricoprirla, le torri spariscono oppresse dal fango.
Già non avevano più distinzione il mare e la terra:
tutto era mare e perfino al mare mancavano sponde.
Chi si rifugia su un colle, chi siede in un gozzo ricurvo
e muove i remi nel luogo in cui già spingeva l’aratro:
altri al di sopra dei campi, d’un tetto di villa sommersa
naviga, un altro sorprende un pesce sull’alto d’un olmo.
L’ancora al prato in rigoglio s’infigge, ove sorte la guidi,
contro sommersi vigneti si sfregano curve carene;
dove smagrite caprette un tempo pascevano l’erba,
ora in quei luoghi le foche deformi distendono i corpi.
Fan meraviglia foreste e città e dimore sott’acqua
alle Nereidi, i delfini invadono i boschi e sugli alti
rami si aggirano e intanto percuotono e smuovono i tronchi.
Nuota fra pecore il lupo e l’onda trae fulvi leoni,
l’onda trascina le tigri; né forze di fulmine al verro,
giovano né per il cervo travolto i veloci garretti,
e ricercando gran tempo le terre a cui possa posarsi,
piomba nel mare con l’ali sfinite il volatile errante.
Anche sui tumuli vinse l’immensa violenza del flutto,
e si frangevano nuovi marosi alle cime dei monti.
È la più parte rapita dall’onda; e chi l’onda risparmia,
con la mancanza di vitto lo stroncano lunghi digiuni.
Gli Àoni dalle campagne dell’Eta la Focide esclude,
terra ferace, finché fu terra, ma in quella stagione
tratto di mare e distesa spaziosa dei subiti flutti.
Con le due cime alle stelle un impervio monte vi sorge,
a cui è nome Parnaso, i suoi picchi vincono i nembi.
Qui, dove Deucalione (il resto fu il mare a coprirlo)
con la compagna di letto viaggiò in legno angusto approdando,
rendono onore alle ninfe Coricidi, dee di quel monte,
e alla fatidica Temi, che allora il suo oracolo vi ebbe:
uomo migliore di lui, o più innamorato del giusto
non esisté, o altra più di lei timorata dei numi.
Giove, allorché ricoperta di liquidi stagni la terra
e di già tante migliaia superstite solo quell’uomo
e di già tante migliaia superstite sola lei vide,
privi di colpa ambedue e ligi ambedue degli dèi,
schiuse le nubi, disperse le nuvole con aquilone,
rese visibili il cielo alle terre e terra da cielo.
L’ira del mare non monta, deposto il tricuspide dardo
placa i marosi il sovrano del pelago, sù chi in profondo
era rimasto, coperte di porpora innata le spalle,
egli richiama, il ceruleo Tritone, e comanda che soffi
nella sonora conchiglia e che i flutti e i fiumi trattenga
al concordato segnale: la buccina cava egli prende,
tortile buccina, quella che in largo da stretta voluta
vortica, quella che appena trae l’aria nel mezzo del mare,
riempie del suono le sponde che giacciono sotto i due Febi;
sì, così, come al dio tocca le labbra di madida barba
roride, come risuona al soffio le debite note,
ecco, da tutti i marosi di terra e di mare è sentita,
quindi i marosi da cui è sentita, tutti li frena.
Subito il mare ha una sponda, un alveo li ha in sé i fiumi in piena,
e si ritirano i fiumi, si vedono colli affiorare,
Sorge la terra, ricrescono i suoli e decrescono i flutti,
dopo una lunga giornata le selve palesano nudi
vertici, ma fra le frondi trattengono il fango residuo.
Ecco che il mondo tornava; ma appena lo vide deserto
e desolate le terre giacere in profondi silenzi,
Deucalione scoppiando in lacrime a Pirra si volse:
“Ah, mia sorella, mia sposa, superstite unica donna,
che la comune semenza, l’origine degli antenati,
poi anche il letto a me unisce, e uniscono adesso anche i rischi,
noi sulle terre, su quante ne vedono l’alba e il tramonto,
noi siamo tutta la gente; il resto è in potere del mare.
Questo conforto perfino alla nostra vita non resta
saldo abbastanza; le nubi spaventano ancora il mio cuore.
Quale sarebbe, se tu senza me ti fossi sottratta,
alla rovina, il tuo animo, o misera? Come potresti
sola soffrire l’orrore? Con quale compagno dolerti?
Sì, poiché io (credi a me), se avesse anche te preso il mare,
ti seguirei, moglie mia, e avrebbe anche me preso il mare.
Ah, se con l’arte paterna quei popoli io li potessi
ricostruire e soffiare respiro all’argilla plasmata!
Ora rimane soltanto in noi due la stirpe mortale.
Questo ai superni è piaciuto: restiamo esemplari dell’uomo!”
Disse e piangevano entrambi. E vollero ai numi celesti
volgersi, chiedere aiuto per mezzo di sacri responsi.
No, non v’è indugio: s’accostano insieme ai Cefisidi flutti,
pur se non limpidi ancora, ma resi già al corso consueto.
Poi, non appena di stille si furono aspersi, a libare,
tanto le vesti che il capo, rivolsero i passi ai sacelli
della deità venerata, i quali mostravano il tetto
bianco d’ignobile muschio, di fuoco eran privi gli altari.
Solo a toccare i gradini del tempio, i due proni lì al suolo
cadono, imprimono baci sul gelido sasso, sgomenti,
quindi “Se a giuste preghiere” implorano “sanno addolcirsi,
vinte, le divinità, se si piega l’ira dei numi,
Temi, di’ l’arte con cui riparare il danno del nostro
genere, al mondo sommerso, dolcissima, reca il tuo aiuto!”
Vinta è la dea e fornisce un responso: “Uscite dal tempio,
quindi velatevi il capo e le cinte vesti sciogliete,
della gran madre le ossa gettatevi dietro le spalle!”
Stettero a lungo stupiti: a voce il silenzio lo ruppe
Pirra per prima e a responsi di dea rifiutò di obbedire,
chiede con pavido labbro le accordi il perdono, ha timore
di sparpagliare quelle ossa e offendere l’ombra materna.
Quindi rimeditano le parole oscure di arcani
ciechi del dato responso, le pesano l’uno con l’altra.
Il Prometeide però calmò la Epimetide a voci
placide e disse “O è fallace la sollecitudine in noi,
o (sono pii, non consigliano alcuna empietà quei responsi!)
Terra è la gran genitrice: le pietre nel corpo di Terra
indica, credo, come ossa; ci impone gettarle alle spalle”.
È la Titania all’augurio del proprio consorte persuasa,
ma la speranza è nel dubbio: così diffidavano entrambi
d’ammonimenti celesti; ma che nuocerà poi tentare?
Ecco, discendono: velano il capo, hanno tuniche indosso,
gettano dietro, sui passi, le pietre a quel modo che è imposto.
Rocce (chi lo crederebbe, non fosse il passato a provarlo?)
di rigidezza e durezza prendevano allora a svestirsi
e ammorbidire le moli, e molli ad assumere forma.
Subito, appena cresciute, appena più mite natura
le tramutò, come incerta può scorgersi, ma non del tutto
netta, la forma dell’uomo e quasi cavata dal marmo,
non abbastanza sbozzata, ben simile a rozza figura:
pure la parte di roccia che intrisa di qualche umidore
era, nonché di terriccio, è conversa all’uso di corpo;
quanto n’è saldo e non può piegarsi, è mutato nell’ossa,
quella che vena fu già, restò col medesimo nome,
tanto che in piccolo spazio per cenno dei numi le rocce
che gettò mano di maschio assunsero forma di maschi,
mentre da lancio femmineo le femmine riebbero vita.
Ecco perché siamo dura progenie ed esperta d’affanni,
testimonianza rendiamo del seme da cui siamo nati.
Gli altri animali la terra secondo le forme diverse
li partorì di suo impulso, da che s’asciugò il vecchio umore
sotto la vampa del sole e gli stagni molli di fango
furono secchi all’arsura, e i fertili semi degli enti
alimentati da zolla feconda o in un grembo di madre
crebbero e consolidandosi assunsero qualche figura.
Sì, così quando rilascia i campi il settemplice Nilo
madidi, quando ritira il corso nel pristino letto,
e si riasciuga per l’astro etereo il limo recente,
i contadini voltando le zolle vi trovano bestie
innumerevoli e alcune fra queste ora appena cresciute,
proprio al momento di nascere, ne vedono altre incompiute,
tronche nei loro segmenti, e spesso in un unico corpo
ha preso vita una parte, altra parte è semplice terra.
Già, non appena hanno assunto equilibrio umore e calore,
germinano, da quei due elementi nasce ogni cosa,
e poiché il fuoco è nemico dell’acqua, un acquoso vapore
crea tutto quanto e concordia discorde equilibra i suoi frutti.
Poi, non appena fangosa di fresco diluvio la terra
si riasciugò per i soli eterei e i l’arsura profonda,
innumerevoli specie creò; nelle antiche figure
ne riplasmava una parte, e in parte formò nuovi mostri.
Certo non volle così, ma te pure, immane Pitone,
generò allora; e tu drago ignoto alla gente novella
desti terrore: uno spazio tanto ampio occupavi del monte.
Contro di lui il dio arcere, che ancora i suoi dardi letali
non adoprò che sui daini e sui caprioli fuggenti,
quasi svuotò la faretra, e con mille frecce l’oppresse
e massacrò –n’era effuso alle nere piaghe il veleno.
Non cancellasse la gloria del gesto il passare del tempo,
egli allestì giochi sacri in un celebrato certame,
che si chiamarono pitici, in nome del drago domato.
Li chi fra i giovani avesse trionfato o col pugno o col piede
o con il disco, dai rami dell’eschio otteneva corona.
Lauro a quel tempo non c’era, e di tutti gli alberi dunque
Febo cingeva le tempie graziose di lunghi capelli.
Dafne Penia per Febo fu prima passione, che a lui
non comminò cieca sorte, ma un’ira crudele d’Amore.
Delio, superbo del drago sconfitto, da poco l’aveva
visto piegare le corna dell’arco accostandone il nerbo
e “Che ci fai con quest’arma possente, o lascivo fanciullo?”
disse: “No, simile peso alle nostre spalle conviene:
dare alle bestie alte piaghe e darne ai nemici è da noi,
chi col pestifero ventre coprì tanti iugeri, noi,
noi l’abbattemo con frecce infinite, il tronfio Pitone.
Tu con la fiaccola tua sii contento d’essere l’esca
di non si sa quali amori e non aspirare al mio onore!’
Disse a lui il figlio di Venere: “O Febo, il tuo arco trafigga
tutte le bestie e te il mio; quanto ogni altra forma vivente
la cede a un dio, della mia la tua gloria è tanto minore”
disse così, poi fendendo il cielo, agitando le penne,
alacre sulla giogaia di Parnaso ombrata ristette,
dalla faretra ricolma di frecce estraeva due dardi
per due dissimili effetti: una fuga e l’altra crea amore.
Quel che lo crea è dorato e di punta aguzza rifulge,
quel che lo fuga è smussato e in punta allo strale ha del piombo.
Questo alla ninfa Peneia il dio lo scagliò, con quell’altro
giù fin nell’ossa trafitte ferì le midolla d’Apollo;
perdutamente egli amò, d’amante ella fugge anche il nome,
solo le latebre delle foreste e le spoglie di fiere
intrappolate ha graditi, rivale di Febe illibata,
d’infula cinge i capelli acconciati senza ornamento.
Molti l’avevano chiesta, ma quei pretendenti li spregia,
le che non soffre e non ha marito, aspre selve percorre
che sia Imene e che Amore, che sia il connubio non cura.
Spesso le disse suo padre: “Un genero, figlia, mi devi”,
spesso le disse suo padre: “Creatura, mi devi i nipoti”;
ella che come un supplizio rifugge le torce nuziali,
di verecondo rossore soffuse le guance graziose,
e con le tenere braccia stringendosi al collo del padre
“Dammi, carissimo padre” esclamò “Che d’una perpetua
verginità io sia paga! Ciò diede a Diana suo padre”
Egli senz’altro esaudisce, ma a te la beltà non permette
quello che vuoi, la tua grazia alla tua preghiera si oppone:
Febo ama e brama il connubio con Dafni e l’ha appena veduta,
quello che brama, lo spera, la sua previsione lo inganna,
come le stoppie leggere si bruciano còlte le spighe,
come le siepi son arse da torce, che a caso un viandante
troppo vicine vi tenne o che lascia prima dell’alba,
sì, così il dio tra quei fuochi bruciò, così in tutto il suo petto
arde e alimenta col suo sperare uno sterile amore.
Mira le chiome che senza ornamento cadono al collo
e “Che mi importa? Son folte” si dice. I suoi occhi egli vede
simili a stelle guizzare di fuoco, egli vede i suoi baci
che non gli basta aver visto; ne loda le dita e le mani
e le sue braccia e ben più che a metà i suoi omeri ignudi;
quel che è nascosto lo crede migliore. Ella fugge più svelta
d’aura leggera e ai richiami del dio che la invoca non resta:
“Ninfa penea, te ne prego, sta’ qui! Non ti inseguo nemico;
Ninfa, sta’ qui! Così al lupo l’agnella, al leone la cerva,
e così all’aquila sfuggono in trepido volo colombe,
e al suo nemico ciascuno: se io seguo te, è per amore!
Misero me! Che tu prona non cada, ah, non segnino spini
le gambe tue di ferita non degne, io non causi a te danno!
Aspre i sentieri su cui ti avvii: te ne prego, più piano
corri, trattieni la fuga, più piano ti inseguirò anch’io.
Guarda a colui cui tu piaci però: non un uomo dei monti,
non sono io un pastore, io d’armenti e greggi non sono
l’irto custode quaggiù. Non sai, temeraria, non sai
tu da chi fuggi e mi fuggi perciò: me la Delfica terra,
me Claro e Tenedo e anche la reggia di Patara serve;
è genitore mio Giove; quel ch’è e che sarà, quel ch’è stato,
s’apre per me; sulle corde per me dànno i canti armonia.
Vola sicuro il mio dardo, ma più del mio dardo sicura
è la saetta che aprì nel mio cuore vuoto una piaga!
La medicina fu mia invenzione, al mondo son detto
il guaritore, è soggetta a me la potenza dell’erbe.
Con nessun’erba, ahi, ahimè, si riesce a sanarlo l’amore,
l’arti che giovano a tutti non giovano al loro padrone!”
Altro diceva e però la Peneia in trepida corsa
fugge e si lascia alle spalle con lui le parole incompiute:
bella anche allora sembrò; snudavano i vènti le membra,
e le smovevano i veli soffiandovi contro i rabbuffi,
dietro spandeva soffusi la brezza leggera i capelli,
cresce beltà nella fuga. Però non più oltre sopporta
perderne il giovane dio le blandizie, e come ammoniva
lo stesso Amore, ne segue con passo incalzante le tracce.
Come un segugio di Gallia, se vede una lepre in un vasto
campo e alla preda ha puntato col passo, essa cerca salvezza;
simile a chi sta per giungere a segno, uno spera d’averla
presa oramai, ne tallona col muso proteso le impronte,
nell’incertezza è quell’altra, se sia catturata, e dai morsi
già si sottrae, lascia indietro le fauci vicine a toccarla:
per la speranza il dio è lesto così, la fanciulla al timore.
E tuttavia lui che insegue sorretto dal volo d’Amore,
è più veloce e non dà respiro, anzi incombe alle spalle
della fuggiasca e sul crine effuso sul collo le spira.
Ella perdute le forze è pallida e vinta da affanno
per la sua rapida fuga, alle onde peneidi guardando
“Padre, soccorso!” gridò “Se voi acque un nume celate,
cambia e stravolgi l’aspetto per cui sono troppo piaciuta!’
[Cambia e stravolgi l’aspetto che fa che io resti oltraggiata.]
Greve un torpore, al finire del voto, occupò le sue membra,
d’una sottile corteccia si vestono i molli precordi,
e come frondi i capelli rampollano e in rami le braccia,
già così lesto il suo piede aderisce a pigre radici,
ha per suo culmine il viso: quel solo splendore in lei resta.
Anche così l’ama Febo e poggiata al tronco la destra
sente che trepida ancora il petto alla nuova corteccia,
e come membra stringendo perciò fra le braccia quei rami
preme sul legno i suoi baci; ma il legno dai baci rifugge.
Dunque a lei il dio “Poiché tu non puoi diventare mia sposa”
disse, “il mio albero,.sì, diverrai! Avranno per sempre
te il crine mio, te la cetra e la mia faretra, te, lauro;
Tu seguirai i condottieri del Lazio, ove lieta una voce
canti il trionfo, ove scorga i lunghi cortei Campidoglio;
presso le porte d’Augusto tu stesso fidissima scolta
sopra i battenti starai, veglierai la quercia nel mezzo,
e come giovane è sempre di intonsi capelli il mio capo,
abbila sempre anche tu perpetua una gloria di frondi!”
Disse Peana: l’alloro coi rami formati da poco
acconsentì, parve muovere il culmine come una testa.
C’è nell’Emonia un boschetto, che ovunque circonda intricata
selva: lo chiamano Tempe; il Peneo per quella, sgorgando
dalle radici del Pindo, si volge con onde spumose
e con tonante cascata solleva foschie circondate
da un fumigare sottile e la sommità delle selve
bagna di stille e col tuono ben più che i dintorni affatica:
ecco la casa, ecco il letto, ed ecco i sacrari d’un grande
fiume, e in quei luoghi abitando in un antro aperto fra rupi,
leggi imponeva egli all’onde e a ninfe abitanti fra l’onde.
E si radunano là i populei fiumi da prima,
né sanno più se allietarsi col padre o se dargli conforto,
e lo Spercheo circondato di pioppi e l’Enipeo irrequieto,
tanto l’Apidano antico che l’agile Anfriso e l’Aea,
subito quindi anche gli altri, che ovunque il loro impeto muova,
versano giù dentro il mare i flutti affannati in meandri.
L’Inaco solo non c’è, nascosto nel fondo d’un antro,
l’acque di lacrime accresce, miserrimo, e piange sua figlia
Io come fosse perduta: non sa se ella goda di vita
o si ritrovi fra i Mani; ma lei che mai più non ritrova,
crede che più non esista e teme nell’animo il peggio.
Giove l’aveva veduta, allorché tornava dal corso
del padre suo e “O fanciulla che meriti Giove e felice
non si sa chi del tuo letto farai, tu va’” disse “fra l’ombre
dentro il più folto dei boschi” (e indicava l’ombre dei boschi),
“ora che è caldo e sta il sole altissimo a mezzo del corso!
Se fra caverne di fiere paventi addentrarti da sola,
i penetrali dei boschi vedrai, certa al cenno d’un dio,
e non di un dio della plebe: io sono che stringo il superbo
scettro celeste nel pugno, io che scaglio i fulmini erranti.
Non mi sfuggire!” Fuggiva infatti. E già i prati di Lerna
e le campagne Lircee degli alberi folte lasciava,
quando quel dio, ammantata di nebbia la terra spaziosa,
la ricoprì, ne frenò la fuga e violò il suo pudore.
Ma nel frattempo scrutò in mezzo agli Argivi Giunone,
di come nuvole erranti fingessero il volto di Notte
nel chiaro giorno provò stupore, e campì che non d’acqua
erano, che non le aveva emanate l’umida terra;
quindi spiò dove fosse il suo sposo, come colei
che del sorpreso marito svelò tante volte le tresche.
Dopo che in cielo non l’ebbe trovato, “o mi sono ingannata,
o mi si offende” si disse, dal sommo dell’etere scese
e si fermò sulla terra e fece svanire le nubi.
Egli avvertì la venuta di lei, la sua sposa, e in giovenca
candida quindi mutò alla figlia d’Inaco il volto;
bella è perfino da mucca. Benché la Saturnia sia in dubbio,
di quella vacca gradisce l’aspetto, e da chi, da che luogo
gli domandò, di che armento sia mai, come ignara del vero.
Giove mentì che dal suolo era nata, a che del suo autore
cessi l’indagine: in dono però la Saturnia la chiede.
Come farà? Crudeltà l’offrire il suo amore in regalo,
ma non donarlo è sospetto: persuade un partito il Pudore,
ma lo dissuade l’Amore. Da Amore il Pudore sarebbe
vinto, ma se alla compagna di stirpe e di letto negasse,
piccolo dono, la vacca, non vacca potrebbe apparire!
Ecco donata l’amante, però non del tutto la dea
sveste il timore, ha paura di Giove, è angosciata del furto,
tanto che al figlio di Arèstore, ad Argo la lascia in custodia.
Argo di cento pupille aveva attorniata la testa,
quindi nel loro alternarsi due occhi godevano quiete,
gli altri vedevano e fissi restavano nel vigilare.
Come che egli volesse appostarsi, ad Io sogguardava,
anche volgendo le spalle, teneva Io davanti ai suoi occhi.
Lascia che a giorno si pasca; se il sole sta giù sotto terra,
egli la chiude e poi getta un laccio al suo collo innocente.
Ella di arboree frondi e d’amaro sterpo si pasce.
Come su un letto, su terra non sempre coperta dell’erba
quell’infelice riposa s’abbevera a fiumi motosi.
Anche volesse colei da supplice tendere ad Argo
le braccia sue, non ha braccia che possa protendere ad Argo,
dalla sua bocca sforzata al lamento effonde muggiti,
teme quel suono però, dalla propria voce è atterrita.
Corre anche al luogo in cui spesso soleva giocare, alle ripe
d’Inaco: appena ebbe visto nell’acqua il suo muso e le nuove
corna, rimane atterita e di sé sgomenta rifugge.
E non lo sanno le Naiadi, e non lo sa Inaco stesso,
chi sia costei; lei seguì suo padre e seguì le sorelle
e si lasciò carezzare e s’offerse al loro stupore.
Inaco antico le aveva offerto dell’erba raccolta:
ella gli lecca le mani, dà baci sui palmi del padre
e non trattiene le lacrime, e solo ne uscissero voci,
gli chiederebbe soccorso, direbbe il suo nome e il suo caso;
per le parole lo scritto, che un piede fra polvere scrive,
offre l’indizio ferale del suo tramutato sembiante.
“Misero me!” gridò il padre suo Inaco, e ancora dai corni
della gemente giovenca e dal niveo collo pendendo,
“Misero me!” ripeté; “Sei tu, figlia mia, che ho cercata
per tutte quante le terre? Di te che rivedo più lieve
lutto eri non ritrovata! Sei muta e non rendi alle mie
voci risposta, soltanto sospiri dal chiuso del petto
trai, e nell’unico modo che puoi, al mio dire rimugghi!
E per te io, io, da ignaro apprestavo talami e torce,
ebbi da prima speranza d’un genero, poi di nipoti.
Ora da un gregge lo sposo, da un gregge ora un figlio tu avrai.
Né con la morte m’è dato estinguere tanto dolore;
l’essere un dio a me nuoce, preclusa la porta del fato
fa che il mio lutto continui a durare un tempo infinito”.
A quel lamento ridesta attenzione in Argo stellato,
questi sottrae a suo padre la figlia e la guida in remoti
pascoli. Quindi lontano, sul picco elevato d’un monte,
siede, da dove sorveglia ogni angolo, lì appollaiato.
Né il reggitore dei numi può più sopportare aspro lutto
della Foronide e chiama suo figlio, di cui sgravò il parto
la chiara Pleiade: a lui comanda che ad Argo dia morte.
Breve è l’indugio: ali ai piedi e porre la mano possente
sulla sonnifera verga e il suo copricapo ai capelli.
Presa ogni cosa, dall’arce paterna il rampollo di Giove
giù sulla terra calò; rimosse laggiù il copricapo,
anche le penne depose, mantenne soltanto la verga:
come pastore, con essa, fra impervie campagne avanzando
guida caprette rapite e canta con canne congiunte.
Presa dal canto stupendo, la guardia giunonia “senz’altro,
tu, chiunque sia, puoi sederti con me sopra questa mia roccia”,
Argo esclamò; “Per un gregge non c’è in altro luogo dell’erba
più succulenta, e lo vedi, è adatta ai pastori qui l’ombra”.
E l’Atlantiade si siede e fa indugio, a lungo parlando,
con suoi discorsi al cammino del giorno e s’appresta cantando
a soggiogare con canne congiunte i suoi vigili sguardi.
Egli resiste però al cedere ai sonni soavi,
e nonostante s’annidi in parte degli occhi il sopore,
parte n’è sveglia comunque. Anche chiede (appena inventato
era poi il flauto in quel tempo), di come si fosse inventato.
Ecco che il dio cominciò “sotto i freddi monti d’Arcadia,
celebre assai più dell’altre amadriadi nonacrine
c’eran una naide: le ninfe l’avevano detta Siringa.
Più d’una volta fuggì dai satiri tesi a inseguirla,
e da qualunque altro dio cui la selva ombrosa e il ferace
campo offre asilo. All’ortigia deità coi suoi sforzi e la stessa
verginità fece onore; vestita alla foggia di Diana
ingannerebbe e potrebbe sembrare Latonia, se il suo
arco non fosse di corno e aureo quello di Diana;
anche così ti ingannava. Tornava dal colle Liceo:
la vide Pan, con il capo adorno di pino spinoso
tali parole le disse…” Restava ridirne parole,
come spregiò le preghiere, fuggì per vie impervie la ninfa,
fino a che poi del Ladone arenoso il placido rivo
ebbe raggiunto; qui l’onde le diedero impaccio alla corsa,
lei le sue acquoree sorelle pregò, le mutassero forma,
e così Pan, quando ormai già credeva presa Siringa,
canne palustri afferrò, in luogo d’un corpo di ninfa,
e mentre là sospirava, i soffi spirati alle canne
resero un suono leggero e simile a querula voce.
Dalla nuova arte è il dio preso e dalla dolcezza del suono,
“Tale colloquio fra me e te rimarrà” così dice:
della fanciulla serbarono il nome le canne ineguali
ch’erano unite fra loro per mezzo d’un grumo di cera.
Stava per dirgli così il Cillenio e vide che tutti
gli occhi cedevano e i lumi già n’erano oppressi dal sonno;
subito dunque trattiene la voce e rafforza il sopore
con la sua verga incantata sfiorandogli i languidi lumi.
E non v’è indugio, lo coglie che oscilla, col ferro falcato,
là dove al collo s’attacca la testa, e cruenta sul sasso
la fa cadere e di sangue insozza la rupe scoscesa.
Argo tu giaci, e quel lume che in tanti tuoi lumi tu avevi,
ecco che è spento, i cent’occhi un’unica notte li offusca.
Questi li prese e alle penne al pavone poi la Saturnia
li collocò, ne riempì di gemme stellate la coda.
Presto la dea s’infiammò né più pose remore all’ira,
quindi mandò spaventosa l’Erinni alla vista e alla mente
di quell’argiva rivale e pungoli ciechi nel petto
anche le infisse e per tutto il mondo la spinse fuggiasca.
Ultimo tu rimanevi, o Nilo, al suo immenso vagare;
subito, appena vi giunse, piegate sull’orlo del greto
le sue ginocchia, crollò e in alto, piegando il suo collo,
quello che solo poté, il suo volto, alzando alle stelle,
ella fra gemiti e pianti e col lugubre suo muggito
parve lagnarsi con Giove e implorare un termine ai mali.
Questi, gettando le braccia al collo alla propria consorte,
prega che termini infine la pena e le dice: “Deponi
per il futuro il timore: per te mai più causa di doglie
ella sarà” quindi impone che il fango di Stige l’ascolti.
Come la dea fu placata, lei riebbe il suo pristino aspetto:
torna così ciò che fu; le setole lasciano il corpo,
anche le corna decrescono, è l’orbita all’occhio più stretta,
e si restringe poi il muso, e braccia ritornano e mani,
e in cinque unghie diviso lo zoccolo le si riparte:
nulla di vacca in lei resta, se non di bellezza il candore.
Della saldezza dei suoi due piedi appagata la ninfa
s’erge e però di parlare ha timore e di rimuggire
come giovenca, e paurosa riprova interrotte parole.
Dea celeberrima adesso linigera folla la onora.
Epafo nato da lei alla fine venne creduto
seme di Giove possente e in città possiede sacrari
presso sua madre. A costui fu eguale per anni e coraggio,
figlio del Sole, Faetonte, che un giorno parlò con superbia
e non a lui la cedeva, e fiero di Febo suo padre,
né lo sofferse l’Inachio e gli disse “Folle tu affidi
tutto a tua madre e sèi tronfio del volto d’un padre non tuo”.
E Faetonte arrossì, sottomise l’ira al pudore,
d’Epafo poi l’invettiva a sua madre, a Climene, espresse:
“Ciò di cui più ti dorrai” disse “Madre, è che io, lo spavaldo,
io, l’orgoglioso, ho taciuto! D’un simile obbrobrio ho vergogna,
che si è potuto insultarmi e non si poté rintuzzare.
E però tu, se davvero da stirpe celeste discendo,
mostrami un segno di tanta semenza e congiungimi al cielo!’
Sì, così disse e gettò al collo materno le braccia,
per il suo capo e per quello di Merope e poi per le tede
delle sorelle pregò desse un segno del suo vero padre.
E non è certo se mossa più Climene dalle preghiere
di Faetonte o dall’ira d’accusa a lei fatta, ambe al cielo
tese le braccia e levando i suoi occhi ai raggi del Sole
“Per questa luce” esclamò “gloriosa di raggi corruschi,
io, figlio mio, te lo giuro, per lui che ci sente e ci vede,
tu da quel dio che rimiri, dal dio che riscalda la terra,
nasci, dal Sole; se dico il falso, egli neghi d’offrirsi
alla mia vista e sia questa ai miei occhi l’ultima luce!
Lungo travaglio non t’è vedere i paterni penati.
Presso la nostra contrada è il tetto da dove egli sorge:
mettiti in via, se ti spinge a ciò l’animo, chiedi a lui stesso!”
subito allora felice per quelle parole di madre
si sollevò Faetonte, all’etere in cuore già pensa,
quindi agli Etiopi suoi e agli Indi, che sotto i celesti
fuochi dimorano, passa sollecito e ai campi paterni

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daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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