Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #1
[Oggi si svolge l’investitura di Trump, e possiamo senza difficoltà prevedere che una nuova fase storica si apre e che essa non riguarda solamente il destino degli Stati Uniti. Nei primi giorni della sua presidenza, Trump ha promesso di firmare una tempesta di decreti, che renderanno effettivi i suoi obiettivi in fatto di politiche migratorie, statali, commerciali e culturali. In questo nuovo contesto, mi sembra che sia necessario fare il punto su quali strumenti di difesa intellettuale abbiamo e vogliamo condividere con altri. Io in ogni caso comincio da qui. a. i.]
di Andrea Inglese
“I nuovi fascismi si limitano a risaldare le gerarchie di razza, genere, classe; la strategia politica rimane quella neoliberista. La missione dei nuovi fascismi non è combattere un’opposizione inesistente, ma portare a termine il progetto politico che è alla base delle politiche neoliberiste.”
Maurizio Lazzarato, Il capitalismo odia tutti
Per alcuni, il capitalismo è la notte in cui tutte le vacche sono nere. Esso è una realtà monolitica nello spazio e nel tempo. Ha senza dubbio un valore globalmente molto negativo, ma è considerata risibile la pretesa di rischiararne le articolazioni, d’ipotizzare che esso, avendo una dimensione storica, anche si distingua per fasi, e non sia soggetto a un fatale determinismo.
Quale che sia la definizione o il concetto che siamo in grado di formulare intorno al mostro “capitalismo”, che per altro ci culla giornalmente, dovrebbe apparire chiaro che esso sta manifestando una attitudine aggressiva e violenta, che non ha precedenti storici almeno dal Dopoguerra in poi. Tra i principali soggetti interessati a questa trasformazione, ossia tra quelli che dovrebbero innanzitutto percepirla, ci siamo noi europei, usciti dalle macerie e dai massacri della Seconda Guerra mondiale con uno slancio democratico largamente condiviso. Questo slancio si basava su un paio di presupposti fondamentali: le ideologie fasciste e razziste si consideravano incompatibili con lo sviluppo capitalistico e questo obbligava le élites politiche ed economiche a venire a patti con il resto del corpo sociale, lavoratori in testa. (Per altro, alcune organizzazioni politiche dei lavoratori avevano contribuito direttemente alla sconfitta delle forze nazi-fasciste in Europa.) Questo non ha di per sé fatto sparire né la mentalità razzista né i funzionamenti discriminatori delle istituzioni, ma li ha ogni volta esposti a varie forme di critica e anche a mobilitazioni d’ordine politico. La guerra francese in Algeria come la guerra in Vietnam degli Stati Uniti sono stati eventi che, piuttosto che creare consenso nella popolazione, hanno innescato divisioni, critiche, conflitti politici. Quello che sta accadendo, oggi, invece, è un riuso su larga scala, potenziato dalle piattaforme digitali, del razzismo e dell’autoritarismo come forme di governo e ordinamento sociale. Sotto nomi nuovi come “sovranismo”, “suprematismo”, “mascolinismo”, il fascismo storico riemerge, acquista legittimità mediatica e politica nei parlamenti, e ha nella superpotenza mondiale statunitense un nuovo propulsore, nell’era Trump 2. I nostri opinionisti sono ancora occupati a chiedersi se gli attacchi di Musk al primo ministro britannico laburista o al cancelliere tedesco Olaf Scholz siano motivati dagli interessi economici del suo impero aziendale o da una specifica convinzione ideologica. Ma Musk ha appunto mostrato che il suo capitalismo assume pienamente la dimensione ideologica del nuovo fascismo, ossia collima con le parole d’ordine dei partiti di estrema destra europei. E le parole d’ordine non sono mai solo parole d’ordine, sono anche uno stile, una modalità d’azione, basata su attacchi violenti e intimidazione.
A rendere le cose più chiare, in seno alle élites economiche, ci sono state le comunicazioni fatte dal padrone di Meta, il 5 e 7 gennaio. Dapprima Zuckerberg ha annunciato che sulle proprie piattaforme (Facebook, Instagram e Threads) rinunciava alla politica di moderazione e di fact-cheking affidata a esperti indipendenti, per salvaguardare “la libertà di parola”. In sostanza, Meta si allinea al modello promosso da Musk su X. Ancora più esplicito Zuckerberg lo è stato in un intervista concessa a Joe Rogan, curatore di podcast gratuiti ed estremamente popolari negli USA, oltreché convinto sostenitore di Trump. In quell’occasione Zuckerberg ha dichiarato di abbandonare anche il programma DEI, (diversity, equity and inclusion) che fino ad allora era adottato dalle risorse umane dell’azienda, e questo in nome della buona e sana “energia maschile” (“The masculine energy is good”), quella che si esprime ad esempio nelle arti marziali miste (MMA), che sia lui che Joe Rogan praticano. Qualcuno ha detto che il viraggio di Zuckerberg è una non-notizia, sempre perché nella notte capitalista non ci sono gradi, fasi, conflitti interni, lotte per l’egemonia, ma solo un continuum di cattivi e di cattiveria. Io considero che è un’ulteriore notizia inquietante dal fronte, dal momento che alla truppe d’opinione e intimidazione che Musk riesce a mobilitare attraverso X, ora si affiancano quelle che si potranno scatenare su Meta. Inoltre, il fatto che la facciata “liberal” sia caduta, non è solo una notizia di “facciata”. Il mondo californiano della tech è certo avanzato “mascherato” dagli anni Novanta in poi, ma questo era frutto di un’esigenza di consenso presso nuove generazioni che sognavano di sposare senza contraddizioni imprenditoria capitalista e sensibilità progressista, stipendi da fiaba e grande autonomia creativa. Ora anche la tech californiana decide di abbondonare del tutto la sua vecchia mitologia e di far proprio l’orizzonte ideologico del duo Trump-Musk.
Diciamo che in un contesto del genere, uno vorrebbe sentire crescere innanzitutto intorno a sé un certo spavento. Infatti, i nemici naturali di queste nuove élites e delle loro “milizie” più o meno virtuali, siamo noi, e lo siamo perché democratici convinti, perché anticapitalisti, perché socialisti, perché anarchici, perché femministi, perché gay e trans, perché immigrati, perché non-bianchi, perché lavoratori, perché disoccupati, ecc. Allora vorrei che questo “noi” avesse mantenuto, nonostante la confusione e l’insidia dei tempi, un sano istinto di autoconservazione sociale, e il relativo senso del pericolo che esso implica.
Vorrei cioè che uscissimo non tanto da Meta o da X, ma innanzitutto dal diniego e/o dalla paralisi. Vorrei, in altri termini, che non facessimo finta di niente, ma che iniziassimo a pensare alla nostra autodifesa e agli strumenti che possiamo mettere in campo per garantirla. Sono un po’ pessimista in questo momento, quindi non me la sentirei di parlare di contrattacco, anche se non lo escludo come principio. (Come non escludo la possibilità di manifestare la virtù del coraggio, ma per avere coraggio dovremmo già, prima, provare paura. Avere coraggio non significa non percepire la paura – questo si chiama incoscienza –, ma il vincerla.) In ogni caso, parlare di approntare strumenti di autodifesa vuol dire assumere una prospettiva strategica e di “guerra” in corso. Già questo mi sembrerebbe un grosso passo avanti.
Ora, oltre a voler giustificare con argomenti la mia percezione di “nuova fase” e di “pericolo crescente”, il senso di questo mio intervento è quello di fornire un’arma concettuale particolarmente solida e utile, in mezzo a tanti tentativi di analisi limitati o addirittura fuorvianti. Si tratta di Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione di Maurizio Lazzarato (DeriveApprodi).
È un libro che ho letto a sprazzi. Iniziato prima del 7 ottobre e del successivo scatenamento israeliano contro Gaza, continuato nella fase di distruzione e massacro sistematici nella striscia, e finito con la vittoria di Trump alla presidenza. Ad ogni tappa di lettura, mi rendevo conto che le analisi di Lazzarato si manifestavano sempre più efficaci nel leggere una realtà in rapida e caotica evoluzione. Ma questo libro è stato pubblicato nel 2019. Eppure lo si capisce fino in fondo solo oggi, nel 2025, con l’arrivo del duo Trump-Musk alla Casa Bianca..
Da tempo, e non sono certo l’unico, considero che la questione della tecnica e, nello specifico, delle nuove tecnologie informatiche, costituisca un nodo ambiguo ed enigmatico, ma centralissimo per definire lo statuto del capitalismo contemporaneo e dei suoi effetti di alienazione, sfruttamento e dominazione sulla popolazione. Tecnologie informatiche vuol dire, ad esempio, le piattaforme dei social, che sono divenute dei veri e propri ambienti, in cui si svolge una parte importante della nostra vita relazionale, comunicative e creativa, a cavallo tra tempo libero e tempo lavorativo. Ma tecnologie informatiche significa anche introduzione crescente in questi ambienti dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi specifici effetti.
Per parte mia, proprio su Nazione Indiana, ho dedicato a questa questione alcuni interventi approfonditi. Ne ricordo due: Umanisti del nuovo secolo e sottomissione tecnologica e Citazioni sulla natura instabile dell’informazione (Darnton, Cristianini, Vonnegut). Il motivo ispiratore di entrambi gli interventi, è stato il tentativo di combattere due opinioni che considero false e dannose, e che puntellano una condivisa attitudine nei confronti delle nuove tecnologie in generale e dell’uso delle piattaforme in particolare.
La prima di queste opinioni è senz’altro la più insidiosa. La potremmo formulare semplicemente così: le conseguenze sulle nostre vite delle attuali evoluzioni tecnologiche sono inevitabili come lo sono queste stesse evoluzioni. Con questa frase, si vogliono affermare almeno due verità importanti. Le evoluzioni che riguardano il mondo della tecnica sono parte di un processo storico, ma quest’ultimo si svolge secondo una propria logica, indipendente dalla volontà politica dei soggetti umani che ne sono coinvolti. In altri termini, le macchine, con tutti i loro vantaggi e svantaggi, s’impongono per forza propria nelle nostre vite, e noi non possiamo che cercare di adattarci a esse nel modo migliore possibile.
La seconda opinione è quello riassumibile nella frase: ogni tecnica non è che uno strumento neutro, ciò che conta è il modo in cui un individuo la usa. Questa affermazione paradossalmente può coabitare in uno stesso discorso con l’affermazione precedente. Il progresso tecnologico così come lo conosciamo è ineluttabile, ma possiamo utilizzarlo bene o male secondo la nostra volontà individuale. In ogni caso, il problema non riguarda la convinzione che della tecnica sarebbe possibile appropriarsi, ossia piegarla ai nostri bisogni e alle nostre esigenze, ma la convinzione che ciò potrebbe essere frutto di una decisione e di una pratica individuale.
Il libro di Lazzarato ci fornisce un’analisi convincente, attraverso un dialogo critico con Anders, Foucault, Mumford, Fanon, Simondon, Negri, Deleuze e Guattari, del rapporto che esiste tra la dimensione politica e quella tecnologica, tra la strategia delle élites capitalistiche e le possibilità che le macchine offrono a essa. È un punto che necessita di essere sviluppato più approfonditamente, ma qui mi limito a fornire le conclusioni a cui perviene Lazzarato. Il modo in cui funzionano le nostre macchine, ciò che le nostre macchine fanno o non fanno, non è frutto di uno svolgimento “interno”, di una sorta di determinismo tecnologico, ma di un’incorporazione di certe loro funzioni, in quella che viene definita “la macchina da guerra del capitale”. Quest’ultima è una realtà di natura socio-politica, costituita da una costellazione ideologica e di pratiche, che orientano quella che Rossi-Landi avrebbe chiamato la “programmazione sociale”. In altri termini, la tecnica funziona come un organo del capitale, ma questo avviene in quanto il capitale (ossia i concreti capitalisti) intercettano, piegano alle proprie strategie di arricchimento e controllo, certe virtualità presenti nei dispositivi tecnologici. Se noi siamo asserviti alla tecnica, la tecnica lo è alle decisioni delle élites economiche e politiche.
Leggiamo, ad esempio, questo passo di Lazzarato, su quello che definisce il cyber-fascismo:
“[Il cyber-fascismo] Mette in crisi tutte le utopie – dal cyberpunk al cyberfemminismo, dalla cybersfera alla cybercultura – che, dal dopoguerra e con un’intensificazione negli anni Settanta, vedono nelle macchine la promessa di una nuova soggettività post-umana e una liberazione dal dominio capitalista. Bolsonaro e Trump hanno usato tutte le tecnologie disponibili della comunicazione digitale, ma la loro vittoria non deriva dalle tecnologia: scaturisce invece da una macchina politica e da una strategia, che articola la micropolitica delle passioni tristi (frustrazione, odio, invidia, angoscia, paura) con la macropolitica di un nuovo fascismo che dà consistenza alle soggettività devastate dalla finanziarizzazione.
Per dirla con i termini che adotteremo in questo capitolo: la macchina tecnica, in tutte le sue forme, è assoggettata alla strategia messa in campo dalla macchina sociale neofascista che, nelle condizioni del capitalismo, non può che essere una macchina da guerra.” (p. 73)
Potremmo chiamare in altri modi quello che Lazzarato definisce la “macchina da guerra”, ma la formula non è per nulla enfatica. Non lo è rispetto alla retorica che, per primi, personaggi come Bolsonaro, Trump, Musk, Milei, utilizzano. Ma sappiamo che, a questa retorica, corrispondono delle concrete scelte politiche, e soprattutto delle componenti della popolazione designate come pericolose, e quindi da combattere come un nemico interno: dagli immigrati ai disoccupati, dalle minoranze etniche e religiose agli ecologisti.
In quest’ottica, è chiaro che ogni pretesa individuale di non farsi condizionare dall’uso di certi dispositivi tecnologici è ingenua. Con questo non si vuol dire che le scelte individuali non contano, ma che esse contano in quanto anticipano o suggeriscono la necessità di scelte collettive. Queste scelte collettive, però, ci ricorda Lazzarato, devono elaborarsi a partire dalla “macchina da guerra capitalista”, ovvero in risposta alle strategie offensive dei nuovi fascismi. Ma questo atteggiamento necessita un certo grado di anamnesi storica. In perfetta sintonia con quanto sostiene un pensatore come Castoriadis, Il capitalismo odia tutti ci invita a considerare il ciclo di rotture rivoluzionarie che hanno scosso il Ventesimo secolo, non perché si peschi in esso qualche ricetta da applicare più o meno fedelmente, ma perché si esca almeno dalla superstizione del determinismo (che affligge anche i marxisti). Cito di nuovo Lazzarato:
“L’affermazione della discontinuità della storia, la critica della sua causalitàe dei sui determinismi ritrova l’imprevisto di [Carla] Lonzi e l’imprevedibilità di Fanon: il soggetto rivoluzionario deriva, ma non dipende, dalla storia; se proviene dalla situazione economica, politica e sociale, non è deducibile da questa situazione. Il soggetto rivoluzionario non può essere anticipato con l’immaginazione, con un progetto, con un programma, né compreso a dovere dal sapere, dalla scienza, dalla teoria” (134-135).”
Non si tratta qui di una semplice confessione di “agnosticismo” teorico, ma di ribadire la dimensione imprevedibile del divenire storico. Nello stesso tempo, sappiamo che la macchina da guerra del capitalismo attuale, nelle sue forme apertamente fasciste, ha come scopo invece di “prevedere” e quindi “controllare” i comportamenti collettivi. E questa previsione passa anche attraverso quegli ambienti digitali e telematici che ormai fanno parte integrante della nostra vita più intima. Cominciamo allora ad armarci per una nostra difesa. I libri (certi) possono servire anche a questo.
Sono atterrita dunque grazie dell’articolo e del consiglio di lettura per provare a resistere.
Grazie a Nazione Indiana nome geniale.
Anch’io cara Antonella, e mi sembra che la paura sia una reazione sana, anche se da sola non ci tirerà d’impiccio.
L’affidarsi allo scarto di certo frantuma la struttura rigida che il capitalismo vuole imporre alla fluidità delle masse umane in continua mutazione ed ibridazione, poiché imbrigliare vuol dire agire indisturbati nell’accumulo che il profitto provoca con ogni sua implicazione idolatrica.
Grazie per questo spunto di lettura e di riflessioni.
Caro Andrea, mi sembra un’eccellente analisi, chiara negli argomenti e illuminata abbastanza da vederci un po’ meglio nei chiaroscuri dell’epoca che viviamo. Qualche giorno fa pensavo a un’ipotesi d’azione collettiva. Invece di uscire alla chetichella dalle varie piattaforme digitali perché non organizzare a livello internazionale uno sciopero della durata di un giorno il prossimo primo maggio con un’autosospensione di tutti da tutti gli account. Far saltare per un giorno i conti (i numeri) su cui si basa la forza dei social. E vedere ( ma esistono strumenti per certificarlo) in quante case, appartamenti, tendopoli, caserme è stata spenta la luce. Sarebbe come un segnale di esistenza, rendersi invisibili per un giorno per sfuggire ai radar del cybercapitalismo. Un’azione zero su cui costruire una vera “rivoluzione”. Del resto come proprio maurizio mi raccontava già negli anni duemila, nel mondo dei newmedia, i lavoratori sono i consumatori, di merce e piubblicità, i fornitori di contenuti oggi sui social. effeffe
Condivido, facciamo girare la proposta
Caro Franzisko, dici benissimo. Era una mia vecchia idea di una decina d’anni fa. Oggi avrebbe particolarmente senso. Non ho purtroppo la stoffa del trascinatore, ma l’idea di una sconnessione generalizzata dai social in occasione del 1 maggio sarebbe assolutamente pertinente: manifesteremmo cosi, in quanto utilizzatori, la consapevolezza che il nostro quotidiano uso delle piattaforme, permette un’estrazione di valore monetario, quanto un lavoro che non è pagato. Il 1 maggio avrebbe quindi pienamente senso come data.
Caro Andrea, grazie per quest’analisi (attendo quindi i prossimi capitoli), e per il consiglio di lettura. L’epoca è fosca, i giorni sono neri.
Scrivi:
Diciamo che in un contesto del genere, uno vorrebbe sentire crescere innanzitutto intorno a sé un certo spavento.
Ed è proprio questo spavento che a volte mi sembra mancare. Spalle girate con un “tanto sono tutti uguali”, “tanto non cambierà niente”, “sono solo dei buffoni”, “anche prima del resto”. No, non sono dei banali buffoni di corte, non sono tutti uguali. E queste frasi sono spesso correlate magari da qualche dato, qualche notizia, qualche “ho letto che comunque”.
E qui si apre la questione parallela e che gravita a margine del tuo discorso, rispetto all’informazione. Oggi, in molti casi, a quel “ho letto che comunque”, la risposta dovrebbe essere: hai letto dove, precisamente? Perché, è inutile negarlo, la maggior parte delle persone oggi si informa attraverso i social. Il ché significa informarsi non solo attraverso la propria bolla, ma con la malsana illusione che la conoscenza possa passare per due righe scritte (il colpo di un tweet o il titolo di un articolo di giornale apparso nella propria home, senza aprire poi l’articolo intero – confrontandolo magari con altri articoli interi). C’è una generale stanchezza, una “svogliatezza all’approfondimento” che ripara dallo spavento di cui parli. Ripara dallo spavento ma anche dal confronto.
Informarsi all’interno della propria bolla, algoritmo dopo algoritmo, sappiamo bene cosa significa: sentirsi dire e leggere solo ciò che vogliamo sentirci dire e leggere – o che, in realtà, l’algoritmo ha deciso per noi, ci ha cucito addosso. Nella migliore delle ipotesi ci si limita ad avere una visione del mondo parziale, nella peggiore si cade preda di fake news dove falsa notizia richiama falsa notizia, per arrivare alle derive complottistiche che ormai hanno preso piede un po’ ovunque, e che negli ultimi anni hanno fatto presa su una buona fetta di popolazione. Qui e altrove.
Un banchetto perfetto in cui i vari Trump, Zuckerberg, Musk e gli altri possono mangiare e mangiarci, e hanno già cominciato a farlo da un bel pezzo. Ora le cose peggioreranno (e non credo di essere pessimista nel pensarlo).
In questi giorni, nel fuori, mi è capitato, in molti contesti, di sentire appunto quel “massì, tanto non cambierà nulla”, e in quei momenti ho provato un profondo senso di solitudine, pur sapendo di non essere la sola a vedere quel che sta già accadendo – questo tuo pezzo lo dimostra. Ordine esecutivo dopo ordine esecutivo, alla velocità della luce si sta già mostrando la piega nera di quel che può generarsi, e che avrà ripercussioni non certo solo negli USA ma a livello globale: com’è possibile non abitare lo spavento? È possibile. In fondo basta restare un po’ ciechi e protetti dal sonno dei social, dalla componente ludica dello scroll, ad esempio.
La cecità protegge, la paura scardina, fa traballare, sposta dal luogo sicuro. Chiaro, come tu dici, non ci si può fermare alla paura, se ci si ferma alla paura la tentazione è esattamente quella di riaccecarsi.
Un momento generale di sospensione attiva, di fuoriuscita da questo sistema l’ho pensato spesso anch’io, e come dite tu e Francesco uno “sciopero” il primo maggio sarebbe bella cosa. Anche in forma di esperimento, in fondo – sia per come può arrivare che per il come lo vive chi lo attua. Forse sono un po’ dubbiosa rispetto al numero di persone potenzialmente intenzionate a parteciparvi.
Cara Mariasole rispondo presto al tuo importante intervento.
Eccomi Mariasole (sopravvissuto a una bastonante influenza). Sull’informazione, questione che tu tocchi bene. La prima novità di cui redersi conto è che l’obiettivo di Musk è distruggere il giornalismo, quello delle testate televisive, radio e a stampa, prima di tutto pubbliche e poi private. Avere chiaro questo significa non confondere la sana critica democratica alle pressioni politiche ed economiche da sempre esercitate sui media, con questa fascista distruzione dei media. Il che significa rendersi conto dell’importanza del lavoro giornalistico, anche quando è sottoposto a condizionamenti. Proprio in periodi di grande propagande filogovernative (covid, invasione dell’Ucraina, distruzione di Gaza), mi son ben reso conto che la maggior parte delle notizie importanti vengono dai media mainstream, e che facebook è sempre il commento di una notizia letta su una testata o vista in TV. Ma il secondo punto che tu tocchi non riguarda tanto la “fonte” delle informazioni, ma colui che se ne serve, ossia noi, i non-giornalisti. E sull’atteggiamento disinvolto di “piluccamento” qua e là di dati, che non vengono poi davvero pensati e approfonditi, sono altrettanto d’accordo, anche perché la verifica è spessa noiosa e laboriosa. Ma quei c’è poi l’incitazione della vitrina “social” a dire la propria su tutto, e in tempi rapidissimi. Nel quadro di un medio dibattito FB approfondimenti lunghi non sono richiesti né possono essere presi sul serio. Quindi ci si abitua a non farli.
Infine. Il cinismo italiano è risaputo: nulla serve a nulla, e nulla di nuovo sotto il sole. Da questo punto di vista l’Italia è davvero malmessa, sopratutto se prevale la tentazione di sdrammatizzare.
Scusate, ho trovato questo sito e l’ho trovato interessante per gli argomenti trattati, volevo dire la mia perché ho letto dei ragionamenti intelligenti, io sono un uomo del novecento e non ho account social eppure me la cavo lo stesso.
Parlate di disconnessione per un giorno… apprezzo lo sforzo, ma scollegarsi per sempre non potrebbe essere un alternativa migliore?
Ormai abbiamo capito che i social arricchiscono chi usa questi denari contro di noi, uscire da questa logica dovrebbe essere un opzione.
Vogliamo mantenere un libera stampa indipendente? Abboniamoci a una o più testate.
Manteniamo vivi luoghi di discussione come questo ma troviamoci anche nelle piazze.
Parliamo con le persone, sosteniamo le nostre idee.
Meno social più socializzazione o… socialismo
o mio dio cosa ho detto.
Un saluto.
Caro Roberto (bello che tu sia approdato a Nazione Indiana), personalmente mi trovi d’accordo, almeno in parte, rispetto al un giorno vs per sempre. Ci sono però molti ma, che non possono essere tralasciati. Conosco certo persone che non hanno alcun account social e, appunto, vivono lo stesso. Certamente le cose non sono così semplici per chi però ce l’ha da tempo: uscire non è come non esserci mai entrato. Io stessa li ho usati per molti anni, attualmente li ho lasciati morire, ma abbiamo a che fare con mondi dentro mondi, non semplici piattaforme da cui siamo usati, abbiamo – ahimè – anche storie di vita là dentro, ricordi come nelle case. Quindi uscirne completamente non comporta solo un clic, comporta una decisione, una serie di decisioni riflettute, pesate.
Dico ahimè perché pian piano ci si rende sempre più conto di quanto questo (l’avere vite là dentro) abbia avuto e abbia un retroscena perturbante – e a tratti pericoloso.
Ci sono molte variabili in gioco anche se, io credo – e forse ne scriverò presto – che sia necessario concedersi/imporsi una perdita per poter compiere una scelta. Scegliere significa necessariamente perdere qualcosa, senza perdita non c’è atto possibile. E uscire dai social prevede che si perda qualcosa. (poi, certo, c’è anche chi nei social deve starci per lavoro, e qui si pone un problema che attualmente vedo insormontabile). Sicuramente, poi, ritengo sia cosa buona e giusta cominciare a dare più valore e sostegno alla stampa, a quella buona. Perché in barba a ciò che circola tra le bocche collettive “il giornalismo non esiste più, tutti i giornali fanno schifo”, ci sono invece testate serie, interessanti, approfondite, che fanno davvero informazione. E queste, sì, andrebbero sostenute, anche con abbonamenti. (guarda caso sono proprio, tra le varie, testate che hanno deciso, ad esempio, di uscire da X, l’ex twitter, come presa di posizione).
Per quel che riguarda l’idea di un 1 maggio di protesta, io credo possa essere un buon inizio, un segnale, anche senza l’ipotesi di una disconnessione completa e totale, per sempre. Perché in fondo è questo che va dato, tanto più oggi: un segnale.